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L'Italia di Giolitti




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L'Italia di Giolitti


Le elezioni politiche del 1900 e la successiva nomina a capo del Governo di Giuseppe Zanardelli furono una tappa molto importante nello scenario della storia politica dell'Italia unita.


La politica Zanardelli di LIBERALISMO PROGRESSISTA, secondo la quale per risolvere i conflitti sociali era necessario permettere l'inserimento dei ceti subalterni nella vita politica del Paese, fu continuata e rafforzata dal suo successore, Giovanni Giolitti.


Il disegno politico dei Giolitti mirava a conciliare gli interessi della borghesia industriale con le aspirazioni del proletariato urbano ed agricolo. Al fine di perseguire questo obiettivo egli tentò di far entrare nel governo Filippo Turati, leader del PSI, il quale però rifiutò.


Nel 1904 la politica giolittiana varò alcuni importanti provvedimenti di legislazione sociale, quali le leggi a tutela del lavoro delle donne e dei bambini, leggi sugli infortuni e sull'invalidità e vecchiaia. Il settore dei lavori pubblici ricevette nuovo slancio con lo scopo ultimo di creare consenso attorno all'azione di governo fra socialisti e cattolici.


Il cosiddetto «compromesso giolittiano» aveva innegabilmente come referente quelle ARISTOCRAZIE OPERAIE che erano la base di massa del riformismo socialista di Turati; esse erano rappresentate da quei settori del mondo del lavoro le cui condizioni materiali di esistenza erano nettamente migliori rispetto a quelle della stragrande maggioranza del proletariato urbano e rurale, il quale, di conseguenza, era tagliato fuori dalla politica del compromesso giolittiana. Furono proprio queste frange che diedero vita al cosiddetto MASSIMALISMO, che si opponeva tenacemente a qualsiasi forma di collaborazione col Governo in nome del perseguimento da parte del PSI del suo obiettivo MASSIMO, ossia la rivoluzione socialista. Al congresso di Bologna del 1904 i massimalisti ottennero la maggioranza e quindi la guida del PSI, ma questa vittoria coincise con la sconfitta elettorale, a tutto vantaggio delle posizioni riformiste al suo interno.


La svolta giolittiana sarebbe incomprensibile sul piano storico se non si tenesse conto del contesto economico nel quale si situò. Sul finire del XIX secolo, infatti, la crisi economica mondiale poteva dirsi superata e si apriva una stagione di sviluppo altrettanto lunga. In Italia tale congiuntura coincise con il decollo industriale dell'economia: i settori trainanti furono soprattutto quello siderurgico, quello tessile e quello idroelettrico. Anche la situazione finanziaria fu risanata: il bilancio tornò in pareggio e la lira acquistò forza grazie alla sua stabilità sui mercati internazionali. Con l'industrializzazione si assistette alla nascita del fenomeno dell'urbanesimo, il centro cittadino divenne così la sede del sistema economico ed in esso si crearono dei veri e propri ghetti in cui gli operai vivevano ammassati ed in precarie condizioni igieniche.


Tanto più cresceva il settore del proletariato di fabbrica tanto più si ingrossavano le fila dell'unico vero e proprio partito di massa, che era il PSI, e tanto più la politica del compromesso di Giolitti risultava mirata ed essenziale; essa non fu abbandonata neppure quando al Governo arrivò il tradizionale avversario politico di Giolitti, Sidney Sonnino, capo dell'ala conservatrice del liberalismo italiano.


La differenza fra la politica giolittiana e quelle di Sonnino consisteva nel fatto che, mentre Giolitti puntava a concordare le riforme con le forze sociali interessate, Sonnino pensava ad una politica le cui riforme sociali fossero gestite direttamente dal Governo.


Il riformismo giolittiano si rivolgeva essenzialmente ai lavoratori settentrionali e lasciava ai margini il Mezzogiorno d'Italia, interessato solo da un intervento statale episodico e parziale e dallo sviluppo di pratiche clientelari che vedevano lo stesso Giolitti servirsi di gruppi mafiosi e camorristi per assicurarsi appoggi e consensi. Questa situazione portò all'ingigantimento del fenomeno dell'emigrazione delle masse dei lavoratori del Sud e, nel giro di pochi anni, sottrasse al Paese milioni di contadini meridionali.


Fu in questo contesto che il Primo Ministro, sotto la spinta degli ambienti finanziari e culturali, cercò come valvola di sfogo al malcontento palpabile di cui era intriso il Paese la ripresa dell'avventura coloniale: fu questo il periodo che passa sotto il nome di «conquista della quarta sponda», che vedeva come obiettivo finale la conquista della Libia e del Dodecanneso in mano ai Turchi. Le ostilità vennero aperte nel 1911 ed in poco tempo l'Italia conquisto i territori costieri da Tripoli a Tobruk. Le operazioni militari si conclusero con la pace di Losanna che riconosceva all'Italia la Libia e, temporaneamente, il Dodecanneso.


La conquista libica ebbe ripercussioni destabilizzanti nella vita interna italiana; in particolare per quanto riguarda il socialismo: il gruppo riformista di destra fu espulso dal PSI. La maggioranza del partito rimase fedele alle proprie tradizioni pacifiste, ma l'estrema sinistra massimalista, capeggiata da Benito Mussolini, giunta alla maggioranza del partito, decretò la definitiva crisi del «compromesso giolittiano».


Nonostante questa scissione il PSI era tuttora in grado di imporsi sul piano elettorale, posizione avallata dalla riforma elettorale del 1912 che sanciva il SUFFRAGIO UNIVERSALE: il diritto di voto veniva esteso a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto i 21 anni e che avessero prestato servizio militare e comunque anche agli analfabeti, purché avessero compiuto 30 anni. Le donne rimanevano ancora tagliate fuori dal diritto di voto.


Con un così forte allargamento del numero degli elettori, una vittoria socialista non sembrava impossibile, ma questo avrebbe rischiato di far saltare i delicati equilibri su cui si basava l'egemonia giolittiana. Fu così che Giolitti pensò di rivolgersi ai cattolici, ovvero all'UNIONE ELETTORALE CATTOLICA, unica formazione cattolica che aggirava il divieto posto ai cattolici di svolgere attività politica (NON EXPEDIT). Tramite un accordo con Vincenzo Gentiloni, Giolitti si assicurò l'appoggio cattolico alla propria formazione politica (cosiddetto PATTO GENTILONI), ma questo volle dire anche l'ingresso dei cattolici nello scenario politico dell'inizio secolo.


Alle elezioni del 1913, come previsto i socialisti avanzarono, ma, fatto meno scontato, si verificò una considerevole affermazione dei candidati cattolici nelle liste del Partito Liberale. In questa nuova situazione Giolitti, prigioniero di quelle stesse forze conservatrici che aveva cercato di utilizzare e di manovrare in funzione antisocialista, nel marzo 1914 lasciò la presidenza del Consiglio che passò così al liberale conservatore Antonio Salandra.


Tre mesi dopo avrebbe avuto inizio la PRIMA GUERRA MONDIALE.




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