|
Appunti universita |
|
Visite: 2590 | Gradito: | [ Grande appunti ] |
Leggi anche appunti:L'influsso del CristianesimoL'influsso del Cristianesimo In un mondo ormai dove regna la Le decisioni di bush e greenspanLE DECISIONI DI BUSH E GREENSPAN[1] Alla riapertura della Borsa il 17 settembre I moti del 1830I moti del 1830 Nel 1830 in Francia la politica del re incontrava una crescente |
LA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE MERCI DELL'UNIONE EUROPEA
Indiscussa è la centralità del mercato comune delle merci e dei fattori della produzione (lavoro, servizi e capitali).
La Corte ha più volte ribadito che gli articoli del Trattato relativi alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali sono norme fondamentali per la Comunità ed è vietato qualsiasi ostacolo, anche di minore importanza, a detta libertà.
Eppure l'espressione non ha mai ricevuto una specifica definizione nel Trattato.
Ne troviamo una in una sentenza della Corte di Giustizia, dove si rileva che la nozione di mercato comune.mira ad eliminare ogni intralcio per gli scambi intercomunitari al fine di fondere i mercati nazionali in un mercato unico il più possibile simile ad un vero e proprio mercato interno.
Definizione simile si ritrova all'art. 26 TFUE.
Bisogna precisare che le espressioni mercato comune, mercato interno e mercato unico si equivalgono.
La realizzazione del mercato unico era prefigurata all'art. 2 del Trattato di Roma come lo strumento atto a:
promuovere lo sviluppo armonioso delle attività economiche nell'insieme della Comunità e
perseguire, più in generale, i compiti della Comunità enunciati dallo stesso articolo.
Quindi gli Stati membri devono svilupparsi armoniosamente, ma anche ravvicinarsi gradualmente.
La gradualità del processo di integrazione ha fatto sì che in un primo momento si sia dato spazio soprattutto alla dimensione negativa dell'integrazione fra i mercati e fra le attività economiche.
Infatti si è posto l'accento sull'eliminazione delle barriere e sulle regole di concorrenza, poste dagli Stati membri.
Appare chiara, in proposito, l'inversione del criterio che tradizionalmente informa le norma internazionali convenzionali, non più il favor per la libertà degli Stati contraenti, ma al contrario un favor per le limitazioni a tali libertà.
Nei secondi anni Ottanta, con la pubblicazione del libro bianco sul mercato interno e poi la stipulazione dell'Atto Unico, si è aperta la strada alla seconda fase del processo di integrazione, ossia la sua dimensione positiva.
Le modifiche apportate dall'Atto Unico sono:
sul piano delle modalità decisionali, sostituisce, in ipotesi significative, il criterio di maggioranza a quello dell'unanimità;
prefigura in taluni temi lo strumento del regolamento in luogo della direttiva;
prevede che il Consiglio, quando non vi sia armonizzazione, possa far applicare il criterio del mutuo riconoscimento delle normative nazionali in determinati settori;
infine, importanti sono le iniziative dell'Atto Unico circa le c.d. politiche di accompagnamento che incrementano le competenze comunitarie.
Il Trattato di Maastricht ha poi introdotto, come strumenti per raggiungere l'obiettivo dello sviluppo armonioso della Comunità, un'unione economica e monetaria, e diverse politiche comuni orizzontali.
Il processo di liberalizzazione, che era
previsto si concludesse il 31/12/1969, fu già compiutamente realizzato a
partire dal giugno 1968 dai sei Stati allora membri.
La disciplina si articola in tre distinti momenti, che investono:
La nozione di merce comprende tutti i prodotti valutabili in danaro e quindi idonei ad essere oggetto di transazioni commerciali (tale definizione è stata data dalla Corte chiamata a rispondere se rientrassero in tale nozione gli oggetti d'interesse artistico, storico, etc.: la risposta fu positiva).
Sono compresi nella nozione anche le monete non aventi più corso legale ed addirittura i rifiuti.
I prodotti che riguardano la sicurezza in senso stretto (armi, munizioni e materiale bellico), inseriti in uno specifico elenco predisposto dal Consiglio, soggiacciono alla previsione dell'art.346 del Trattato e sono quindi, fuori dalla sfera di applicazione materiale delle norme disciplinanti la libera circolazione delle merci.
Quando non sono oggetto di specifica disciplina sulla politica agricola comunitaria, anche i prodotti agricoli e della pesca rientrano nella disciplina del mercato comune.
Le sostanze radioattive, i medicinali ad uso umano e veterinario sono soggetti a particolari discipline.
La sfera d'applicazione territoriale della disciplina coincide con quella di applicazione del Trattato, dunque col territorio degli Stati membri; le eccezioni e specificità riguardano alcune zone insulari che interessano la Francia (i dipartimenti d'oltremare), la Spagna (le Canarie) ed il Portogallo (Madeira e Azzorre): rispetto a tali territori, il Consiglio può adottare misure specifiche dirette a stabilire le condizioni di applicazione del Trattato.
I paesi d'oltremare soggiacciono a un regime particolare disciplinato da una decisione del Consiglio.
Il campo di applicazione territoriale, relativo alla circolazione delle merci, va distinto dal territorio doganale della Comunità(che è il territorio entro il quale trova applicazione la normativa doganale comunitaria).
Le norme che disciplinano il mercato comune sono rivolte in generale agli Stati membri, nel senso che impongono a questi degli obblighi che ruotano attorno alla liberalizzazione degli scambi in merci, persone, servizi e capitali.
I singoli beneficiano dell'effetto diretto che accompagna gran parte delle norme relative alla liberalizzazione degli scambi(quindi sono titolari di diritti che possono far valere direttamente dinanzi ai giudici).
Quanto ai divieti, la Corte ha precisato che il comportamento del singoli (es. un accordo tra imprese) deve essere valutato alla luce delle regole di concorrenza, mentre le norme sulla libera circolazione delle merci si riferiscono solo alle normative ed alle pratiche amministrative adottate dagli Stati membri e dalle istituzioni comunitarie.
Ai sensi dell'art.28 del Trattato l'Unione Doganale comporta l'abolizione, nell'ambito degli scambi intracomunitari, dei dazi doganali e delle tasse di effetto equivalente, nonché l'adozione di una tariffa doganale comune per gli scambi con i Paesi terzi.
Già nel GATT si possono rinvenire le nozioni di:
Tuttavia, rispetto a questa concezione, l'idea di unione doganale realizzata nell'Unione è ancora più avanzata (non a caso è definita perfetta), in quanto rilevano altresì:
Un confronto significativo da fare è con lo Spazio Economico Europeo realizzato a partire dal 1994 con i Paesi dell'EFTA.
Tale Spazio, rientra a tutti gli effetti nell'ipotesi e nella nozione di zona di libero scambio e non in quella di Unione Doganale, nella misura in cui gli scambi riguardano i soli prodotti originari dei Paesi membri.
Approfondiamo, allora, cosa si intende per "Paese d'origine".
Ovviamente è il posto in cui il prodotto è fabbricato.
Se si tratta di produzione complessa, ai fini dell'individuazione dell'origine, Paese d'origine del prodotto è quello in cui si è avuta l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, è il criterio dello stadio produttivo determinante.
Il criterio è dunque lo stadio produttivo determinante, cioè della trasformazione economicamente e merceologicamente rilevante[in materia di prodotti ittici, poi, è stato stabilito il criterio della bandiera della nave; in caso di bottino realizzato da più navi di diversa nazionalità, il criterio è quello della nave cui si possa imputare il momento essenziale della battuta o della campagna di pesca].
I prodotti originari di Paesi terzi, che siano stati regolarmente importati in un qualsiasi Paese comunitario, sono in regime di libera pratica, godendo, salvo eccezioni, della stessa libertà di circolazione delle merci originarie degli Stati membri. Ogni prodotto, poi, viene provvisto di un documento doganale unico.
L'abolizione dei dazi doganali e delle tasse di effetto equivalente è alla base del regime di libera circolazione delle merci, ed è sancita dall'art. 30 del TFUE.
E' una norma fondamentale del sistema comunitario ed è provvista di effetto diretto.
I dazi doganali all'esportazione sono stati aboliti il 31 dicembre 1961, mentre quelli all'importazione dovevano essere aboliti nel 1969(alla fine della disciplina transitoria), ma lo sono stati di fatto già nel luglio dell'anno precedente, con una decisione c.d. di accelerazione.
La nozione di tassa di effetto equivalente ad un dazio doganale è stata oggetto di una vasta giurisprudenza che ne ha definito gli elementi essenziali: essa si configura come un onere pecuniario direttamente o indirettamente collegato all'importazione o all'esportazione di un prodotto; pur non essendo un dazio, comporta gli stessi effetti restrittivi sugli scambi intracomunitari
In ogni caso deve trattarsi di:
Viceversa, non ha importanza il momento in
cui viene imposto tale onere,
che può essere anche successivo a quello del passaggio della frontiera, così
come il suo ammontare, che può essere anche minimo.
Al riguardo, inoltre, non rileva neanche il soggetto beneficiario, che può anche non essere lo Stato, così come anche al finalità che si vuole perseguire.
Le disposizioni di cui agli artt. 28[Unione doganale] e 30 [divieto di dazi e tasse effetto equivalente] TFUE possono essere invocate dal singolo in ragione dell'importazione di un prodotto proveniente da un altro Stato membro.
Non rileva che l'introduzione del prodotto sia in una parte del territorio (es. Regioni), piuttosto che nell'insieme del territorio statale, né che l'onere colpisca anche i prodotti provenienti da altre regioni dello stesso Stato membro(ad esempio è stata vietato il dazio di mare che riguardava i prodotti introdotti nei territori francesi d'oltremare, perché i prodotti erano provenienti da altre parti del territorio dello Stato membro).
Va escluso che tale divieto possa essere attuato anche nei confronti dei paesi terzi, ma gli Stati membri non hanno comunque completa autonomia, perché tale onore tributario rientra nella politica commerciale comune e al sistema della Tariffa Doganale Comune(che ha disposto il divieto agli stati membri di elevare o introdurre unilateralmente le tasse esistenti dalla sua entrata in vigore-1968-, salvo talune eccezioni e deroghe introdotte dalla Comunità e comunque uniformi).
Le deroghe al divieto sono molto limitate:
Il divieto di imporre dazi doganali deve essere integrato con l'art. 110 del TFUE, il quale vieta di applicare tributi interni che siano discriminatori per i prodotti importati.
Ovviamente l'imposizione tributaria, pur
restando nella sfera di libertà degli Stati membri, deve conservare un
carattere di assoluta neutralità tra prodotti nazionali e prodotti importati,
cosicché l'attraversamento del confine non costituisca l'occasione per oneri
tributari più gravosi: tale divieto appare complementare ai divieti ex artt.
28-30 del TFUE, poiché mira ad evitare
che questi siano aggirati attraverso lo strumento tributario.
I definitiva l'art. 110 mira a garantire la libera circolazione delle merci in condizione di neutralità fiscale rispetto alla concorrenza tra prodotti nazionali e prodotti di altri paesi comunitari.
Il divieto comprende qualsiasi onere pecuniario di natura tributaria imposto dallo Stato o da un ente pubblico o territoriale, indipendentemente dal beneficiario che può anche non essere lo Stato.
Il divieto va inteso operante anche se il prodotto si trovi in regime di libera pratica provenendo da un Paese terzo.
L'art. 110 è applicabile sia alle imposte indirette che alle imposte dirette.
Una tassa incompatibile a tale disposizione è vietata solo per la misura in cui colpisce le merci importate più di quelle nazionali
Non deve però farsi confusione col divieto di tasse di effetto equivalente: i due divieti non possono applicarsi cumulativamente, poiché danno luogo a regimi sostanzialmente diversi.
Ad esempio, le tasse d'effetto equivalente, le quali colpiscono il prodotto in ragione della sua importazione o esportazione, vanno semplicemente abolite, mentre le imposte interne ex art. 110 vanno applicate in modo da escludere qualsiasi discriminazione tra prodotti nazionali e prodotti importati.
Quindi l'ipotesi del tributo interno ha come condizione fondamentale la generalità e l'astrattezza dell'onere.
Deve trattarsi di onere tributario.
L'elemento della discriminazione rileva in quei tributi che abbiano l'effetto di scoraggiare l'importazione di merci originarie di altri Stati membri a vantaggio dei prodotti nazionali come ad es.:
Insomma il criterio decisivo è costituito dall'incidenza effettiva del tributo sul prodotto nazionale e sul prodotto importato.
Inoltre, al fine di qualificare esattamente l'onere si dovrà osservare se:
il gettito è destinato a finanziare attività che giovano specificamente ed esclusivamente al prodotto nazionale tassato, e la compensazione è totale - è tassa di effetto equivalente in violazione del divieto ex art. 28 TFUE-
o se i benefici compensano solo parzialmente l'onere che grava sui prodotti nazionali e quindi l'imposta va a discriminare i prodotti importati, al pari di quando la compensazione è totale; la tassa rientra nel divieto di discriminazione fiscale dell'art.110
Recita l'art. 110, c. 1:. "uno Stato membro non può applicare ai prodotti degli altri Stati membri tributi interni superiori a quelli applicati ai prodotti nazionali similari".
Da tale comma appare chiaro il primo termine di paragone, ossia i prodotti devono essere similari, cioè devono avere proprietà analoghe e rispondono alle stesse esigenze, in base a un criterio non di identità ma di analogia.
Bisogna far riferimento a una serie di altri fattori, quali la fabbricazione, il gusto, il tenore alcolico per le bevande, nonché l'idoneità a rispondere agli stessi bisogni del consumatore.
Tra i prodotti nazionali, poi, vanno intesi anche quelli per cui non esiste una produzione nazionale, ma un mercato dell'usato.
Inoltre, ex art. 110, c. 2: "uno Stato membro non può applicare, ai prodotti degli altri Stati membri tributi interni volti a proteggere indirettamente altre produzioni" .
Ossia non si fa più riferimento ai soli prodotti similari, ma si amplia il raggio d'azione e si parla di prodotti concorrenti.
Ad esempio in tema di bevande alcoliche si è affermata l'illegittimità di una tassazione di un vino importato, leggero e di basso costo, più elevata di quella applicata sulla birra, tipica nazionale.
Relativamente all'apparente contiguità con il divieto di restrizioni quantitative alle importazioni ex art.34, o ancora al divieto di misure di effetto equivalente ex articolo 30 bisogna dire che la disposizione ex art. 34 è una norma di portata generale.
Quindi si applica in via del tutto residuale rispetto alle disposizione ex artt. 28 ; 30 e 110.
Nel caso di tasse parafiscali può rilevare anche rispetto alla disciplina degli aiuti di Stato, tassa che comunque va a incidere sulla concorrenza e sugli scambi.
Una tassazione che introduca vantaggi per i prodotti nazionali sarà sottoposta al controllo della Commissione, e più in generale agli artt.107 e 108, del TFUE, relativi agli aiuti di Stato, sia sotto il profilo sostanziale che procedurale.
Sarà il giudice nazionale che dovrà valutare la compatibilità della tassa rispetto anche a norme del Trattato diverse dagli artt.107 e 108, così da non precludere a questi la possibilità di valutarla rispetto all'art. 110 o ad altre disposizioni.
Per ciò che concerne la ripetizione di somme percepite dalle amministrazioni nazionali a titolo di tributo ovvero dazio doganale in violazione delle disposizioni TFUE[ristorni], la giurisprudenza ha stabilito che è contro il Diritto dell'Unione un sistema di rimborso fondato sulla presunzione della ripercussione e che ponga a carico del contribuente la prova del contrario.
Fondamentale nella disciplina del mercato
comune delle merci è il divieto di restrizioni
quantitative degli scambi e di qualsiasi misura di effetto equivalente, divieto
che investe sia le importazioni (art. 34) che le esportazioni (art. 35).
In particolare, rileva l'ipotesi delle misure di effetto equivalente che comprende quella gamma molto ampia di provvedimenti che hanno effetti protezionistici, rappresentando cosi un ostacolo oggettivo agli scambi intracomunitari.
Nessuna questione interpretativa pongono le restrizioni quantitative, che sono evidentemente quelle misure che limitano l'importazione o esportazione al di là di una certa quantità, o anche in assoluto.
In un primo tempo, la nozione di misura di effetto equivalente si riferiva solo alle misure distintamente applicabili ai prodotti nazionali ed a quelli importati (infatti tali misure venivano definite distintamente applicabili); a seguito di una direttiva del 1969 (70/50) tale nozione fu ampliata comprendendovi ogni atto posto in essere da un'autorità pubblica che, pur non vincolante sul piano giuridico, potesse indurre i destinatari ad una scelta di acquisto in favore del prodotto nazionale.
Ma la novità più rilevante di tale direttiva fu che tra le misure vietate vennero inserite anche quelle che, pur se applicabili indistintamente ai prodotti nazionali ed a quelli importati [che la Commissione considerava ammissibili], producevano sulla libera circolazione effetti restrittivi al di là di quelli propri di una regolamentazione commerciale (c.d. effetti sproporzionati rispetto al fine perseguito).
Comunque, la Commissione, con questa direttiva, non vietava le misure indistintamente applicabili, in quanto i loro effetti restrittivi venivano considerati <<normalmente inerenti alla disparità delle disposizioni nazionali>>; in altri termini essi, per la Commissione, erano la conseguenza fisiologica della mancata armonizzazione.
La nozione, molto ampia nella giurisprudenza, di misura di effetto equivalente, vuole dare un effetto funzionale all'art.34 del TFUE.
E' bene precisare che stiamo parlando di una disposizione fondamentale per l'economia del sistema dell'Unione, che ha, infatti, effetto diretto.
Nella sentenza DASSONVILLE (1988), la Corte ha enunciato una nozione di misura di effetto equivalente ancora oggi pienamente valida.
Con riferimento ad una disposizione nazionale che subordinava l'importazione di un whisky al fatto che fosse esibito un certificato rilasciato dal Paese esportatore, la Corte rilevò che un operatore che avesse importato quel prodotto da un Paese diverso, in cui però il whisky si trovava in libera pratica ed in cui non veniva richiesto quello stesso certificato, incontrava oneri superiori a quelli che incombevano sull'importatore diretto.
La famosa formula Dassonville sancisce ancora oggi che : "ogni normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza gli scambi intracomunitari, va considerata come una misura d'effetto equivalente a restrizioni quantitative".
Il divieto ha portata generale.
Esso non è quindi condizionato ad una riduzione effettiva degli scambi, ma s'impone per il solo fatto che la misura rappresenti anche potenzialmente un aggravio non giustificato per gli operatori commerciali.
Quindi l'aggravio non deve essere dimostrato, in quanto basta l'effetto potenziale di ostacolo alle importazioni.
Ancora, non è necessario che il provvedimento nazionale riduca sensibilmente gli scambi intracomunitari, ricadendo nel divieto anche una misura che si esaurisca in un ostacolo lieve ed anche quando vi siano altre possibilità di smercio del prodotto importato.
Pur trattandosi di un divieto indirizzato agli Stati membri, esso può investire anche i comportamenti dei privati, nella misura in cui questi non possono in via convenzionale (sulla base di un accordo tra imprese che ostacoli gli scambi intracomunitari) derogare alle disposizioni del Trattato sulla libera circolazione delle merci.
Ovviamente le misure restrittive devono essere misure statali o comunque imputabili alle p.a., i comportamenti dei singoli rilevano sul piano della concorrenza.
Il comportamento dello Stato può venire in rilievo in relazione ad atti posti in essere da privati.
Ad esempio la lettura congiunta degli artt. 4,TUE[divieto di discriminazione]e 34 del TFUE porta a rilevare un preciso obbligo per lo Stato di impedire che i privati creino ostacoli indebiti alla libera circolazione delle merci.
Obbligo la cui osservanza è sottoposta al controllo della Corte.
Inoltre, il comportamento dello Stato può rilevare sotto il doppio profilo della libera circolazione delle merci e di altre norme del Trattato, ad esempio in tema di tutela della concorrenza in particolare del divieto di aiuti pubblici alle imprese.
Le istituzioni comunitarie, infine, sono tenute a rispettare il divieto di ostacolare gli scambi con misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative.
Tra le misure d'effetto equivalente, bisogna
anzitutto considerare le misure
distintamente
applicabili ai prodotti nazionali ed ai prodotti importati, quelle cioè che
subordinano la
commercializzazione di questi ultimi a condizioni diverse o più onerose
rispetto a quelle
applicabili ai primi.
Vengono a tal proposito in rilievo:
I controlli, ad esempio quelli sanitari. Tali controlli, se operati in modo sistematico, costituiscono misure vietate ex art. 34, salvo se non rientrano nelle deroghe ex art. 36.
Le misure che impongono una documentazione specifica per l'importazione o esportazione del prodotto, ad esempio una licenza o un certificato di conformità, insomma facciano riferimento a qualsiasi formalità burocratica che ha un effetto dissuasivo;
Operatori in regime di distribuzione selettiva è un'altra ipotesi, riguarda le misure che favoriscono la canalizzazione delle importazioni attraverso determinati operatori in regime di distribuzione selettiva, così da scoraggiare o impedire le cd. importazioni parallele, che sono il simbolo della realizzazione effettiva di un libero a comune mercato delle merci. Ad esempio nella pronuncia Dassonville sono state dichiarate illegittime ex art.34 le misure disposte dall'amministrazione italiana per aggravare gli adempimenti e gli oneri di immatricolazione delle autovetture importate non dagli importatori c.d. ufficiali designati dalle case produttrici, ma da operatori c.d. paralleli liberi da vincoli contrattuali con le case.
Vi sono poi delle misure che pur se neutre rispetto al rapporto tra prodotti nazionali e prodotti importati, possono produrre, di fatto, una riduzione delle importazioni. Si tratta delle misure definite indistintamente applicabili.
Alcuni esempi riguardano le discipline dei prezzi applicate in presenza di certe condizioni.
Ad esempio quando viene stabilito un prezzo massimo di rivendita, può accadere che il prodotto importato risulti fuori mercato, nel senso che il suo smercio viene reso impossibile o più difficile rispetto a quello dei prodotti nazionali.
Oppure, ancora, quando vengono fissati dei prezzi che da un lato vogliono favorire l'industria e la ricerca nazionale attraverso una considerazione dei fattori di costo che sfavorisca i prodotti importati; dall'altro non considerano le spese e gli oneri relativi all'importazione tra gli elementi che contribuiscono alla determinazione del prezzo.
Altra ipotesi di misure indistintamente applicabili riguarda le normative sulla qualità e presentazione del prodotto, per le quali si è affermato il principio per cui un prodotto legittimamente commercializzato in uno Stato membro può essere importato e commercializzato, senza ostacoli, anche negli altri Stati membri (principio del mutuo riconoscimento).
Tale principio muove dal presupposto che, in assenza di disciplina comunitaria di armonizzazione, le legislazioni nazionali relative alle condizioni di commercializzazione di determinati prodotti possono essere diverse, il che non esclude che siano ugualmente rispettose della salute o delle esigenze del consumatore.
Ne consegue che uno Stato deve accettare i prodotti importati anche quando le specifiche tecniche prescritte per i prodotti nazionali non siano state effettuate, ma il livello di protezione dell'utilizzatore sia equivalente, o che gli stessi prodotti siano sottoposti a controlli equivalenti già negli stessi Stati membri.
Comunque questi intralci c.d. ostacoli tecnici si tollerano solo in vista della soddisfazione di esigenze imperative, relative all'efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della salute, etc.
Caso tipico del genere è quello di CASSIS DE DIJON, avente ad oggetto l'importazione in Germania di un liquore francese: il giudice tedesco era chiamato a verificare la compatibilità con l'art. 34 di una normativa nazionale relativa alle bevande alcoliche, nel punto in cui fissava in via del tutto generale (perciò anche per i prodotti nazionali) un livello minimo di contenuto alcolico, affinché certe categorie di bevande potessero essere commercializzate come tali in Germania.
Di qui la Corte di Giustizia precisò che gli intralci alla libera circolazione delle merci, derivanti da disparità delle legislazioni nazionali, sono ammessi solo se perseguono uno scopo d'interesse generale atto a prevalere sulle esigenze della libera circolazione.
Il controllo sulle normative nazionali deve esercitarsi a livello comunitario.
Meno facile è l'applicazione della formula Dassonville per quelle misure nazionali indistintamente applicabili che non abbiano ad oggetto i prodotti, bensì le modalità dell'attività commerciale: chi, come, dove e quando poter vendere.
Si tratta di misure che possono produrre eventuali riduzioni delle importazioni, ma solo in quanto abbiano causato altrettante riduzioni delle vendite, sia dei prodotti nazionali, sia di quelli importati. La giurisprudenza, in un primo momento ha largheggiato nell'applicazione della formula Dassonville anche in questo settore specifico, destando un po' di confusione negli operatori che si sono sentiti autorizzati a contestare ogni genere di misura che andasse a limitare l'attività commerciale, perdendo di vista la natura dell'art. 34, ed in particolare la dimensione comunitaria e non anche solo nazionale.
Se ne è, ad esempio, esclusa l'applicazione quando le misure nazionali non avevano ad oggetto gli scambi, e comunque consentivano modalità di vendita alternative.
Una seconda ipotesi riguarda un altro tipo di misure nazionali, dove era presenta un potenziale effetto restrittivo delle importazioni come conseguenza di una delimitazione degli orari dell'attività di vendita, la giurisprudenza aveva affermato la legittimità delle misure ove non eccedano il contesto degli effetti propri di una normativa commerciale.
Si tratta della giurisprudenza riguardante l'apertura domenicale dei negozi, la quale non va a sfavorire la commercializzazione dei prodotti importati più di quella dei prodotti nazionali.
Si è invece applicata la formula Dassonville per le discipline nazionali limitative dei sistemi di pubblicità e promozione delle vendite, le quali possono costringere l'operatore a mutamenti onerosi delle strategie commerciali.
In alcune precisazioni successive, la Corte non ha più annoverato nella nozione di misura di effetto equivalente quelle normative applicabili a tutti gli operatori che svolgono attività commerciali in un determinato Stato membro, e che investono allo stesso modo la commercializzazione sia dei prodotti nazionali sia di quelli importati.
Nella sentenza KECK-HUNERMUND del 1993,la Corte chiarisce che misure relative alle modalità dell'attività commerciale e non al prodotto, non collegate in alcun modo con la diversità delle legislazioni nazionali e insuscettibili di rendere, direttamente o indirettamente, nella forma o nella sostanza, l'accesso al mercato meno facile per i prodotti importati, non rientrano tra le misure a effetto equivalente a restrizioni quantitative di cui alla formula Dassonville.
Resta quindi del tutto inalterato il criteri di mutuo riconoscimento, mentre si è sgombrato il campo dell'art.34 da normative nazionali che non investono affatto gli scambi o l'integrazione dei mercati.
L'art. 35 TFUE vieta le restrizioni quantitative alle esportazioni, così come le misure di effetto equivalente.
Quanto è stato detto in tema di restrizioni delle importazioni può valere, in linea generale, anche per gli ostacoli alle esportazioni.
Ciò vale per l'effetto diretto, per la nozione di merce e per l'origine del prodotto che può essere di paese terzo purché in regime di libera pratica.
Va sottolineato che il divieto riguarda solo le esportazioni verso i Paesi membri e non quelle verso i Paesi terzi che restano fuori del campo di azione della norma.
Tuttavia la giurisprudenza sulle misure di effetto equivalente alle restrizioni quantitative alle esportazioni non è speculare a quella sulle misure restrittive alle importazioni.
La giurisprudenza fino ad oggi ha limitato la portata dell'art. 35 TFUE a quelle misure che hanno per oggetto o per effetto quello di restringere specificamente le correnti di esportazione.
Questo orientamento ha resistito benché sia stato posto da più parti il problema di mantenere la sintonia di interpretazione tra l'art. 34(restrizioni quantitative all'importazione)e l'art. 35 (restrizioni quantitative all'esportazione).
L'art.36[deroghe] configura le ipotesi nelle quali uno Stato può adottare o mantenere misure comprese nei divieti ex art. 34[restrizioni alle importazioni] e 35[restrizioni alle esportazioni].
Si tratta di ipotesi motivate da ragioni di moralità pubblica, pubblica sicurezza, ordine pubblico, tutela della salute o del patrimonio, ecc.
La tutela di queste esigenze non deve in ogni caso costituire mezzo di discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata.
L'art. 36 rappresentando una deroga al principio fondamentale dell'eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione delle merci.
E' chiaro che se, in vista di queste esigenze, la Comunità ha già adottato direttive di armonizzazione non trasposte dagli Stati, le deroghe non saranno più consentite.
In altri termini, quando la Comunità detta uno standard che deve essere adottato da tutti gli Stati membri, l'accento si deve porre sullo Stato esportatore, con la conseguenza che un prodotto commercializzato in uno stato membro, conforme agli standards voluti dalla normativa comunitaria uniforme, non può subire alcuna restrizione ex art.36.
Quanto all'ipotesi della tutela della moralità pubblica, è stata riconosciuta la potestà di uno Strato di impedire l'importazione di oggetti osceni o indecenti, fermo restando che sarà ciascuno Stato a determinare le esigenze di moralità da soddisfare.
Bisogna però precisare che uno Stato non può vietare l'importazione di taluni prodotti se nel suo territorio non esiste un divieto assoluto di fabbricazione e commercializzazione degli stessi.
Per l'ipotesi di pubblica sicurezza esemplare è il caso Campus Oil, in cui si discuteva circa un obbligo imposto agli importatori di prodotti petroliferi di rifornirsi presso una raffineria nazionale fino a una certa quota del fabbisogno ai prezzi prestabiliti, non avendo quella raffineria la possibilità di praticare prezzi competitivi, pur essendo essa strategica per la tutela degli interessi nazionali.
L'obbligo è stato considerato rientrante nelle deroghe dell'art. 36, con la precisazione che la quantità di prodotto interessato al sistema di pubblica sicurezza non può superare né il limite di approvvigionamento minimo corrispondente alla sicurezza comune, né il livello necessario di disponibilità per il caso di crisi.
In Italia si era cercato di giustificare i maggiori oneri documentali e amministrativi prescritti per l'immatricolazione delle autovetture d'importazione parallela rispetto a quelle importate dai distributori ufficiali, invocando l'ordine pubblico.
Ma è stato fatto cadere ogni fondamento a tali motivi, perché il traffico illecito di autovetture può essere ostacolato con mezzi diversi da questo.
Tra gli interessi di cui all'art. 36, la salute e la vita delle persone sono al primo posto.
In linea di massima viene lasciata ampia discrezionalità agli Stati per le norme e divieti posti per la difesa di questi interessi, ovviamente, però, graverà sugli stessi l'obbligo di dimostrare l'effettività del rischio.
Dallo stesso art. 36 sono previste deroghe per la tutela della proprietà industriale e commerciale.
Questo è un settore "difficile", poiché è regolato da una disciplina ispirata al principio della territorialità, principio concettualmente agli antipodi rispetto all'idea del mercato comune.
Lo sforzo giuridico è consistito nel trovare un equilibrio tra tutela della proprietà intellettuale e il mercato comune informato dal principio della libertà degli scambi.
La proprietà intellettuale designa "quell'insieme di diritti riconosciuti da un ordinamento per la tutela del brevetto, del marchio, del diritto di autore etc.; il titolare di tale diritto ha facoltà esclusive opponibili erga omnes, in ordine alla produzione e alla commercializzazione dei beni cui inerisce".
Il conferimento di un'esclusiva territoriale, porta a uno regime di monopolio che può contrastare con l'idea di mercato comune.
Per un lungo periodo è stata la Corte a disegnare i contorni del regime comunitario della proprietà intellettuale.
Nell'assolvere tale compito essa si è fondata su due gruppi di disposizioni:
Nel settore della proprietà intellettuale gli artt. 34 e 36 si configurano come un limite all'applicazione delle normative interne, lo schema concettuale può essere così sintetizzato:
Nel diritto di brevetto l'oggetto specifico della proprietà industriale è la garanzia data al titolare, per ricompensare lo sforzo creativo, di valersene in via esclusiva per l'immissione di beni industriali sia direttamente, sia concedendo licenze a terzi.
Ovviamente il diritto in esame non può valere quando la prima immissione in commercio avvenga in un mercato dove il prodotto non è brevettabile: in tal caso il titolare non può che accettare le regole della libera circolazione.
Per ciò che concerne la definizione dell'oggetto nel diritto di marchio, esso prima si è individuato nella garanzia per il titolare di un diritto esclusivo di servirsi del marchio per la prima immissione di un prodotto sul mercato.
Successivamente alla sentenza Hag II, la Corte ha individuato la funzione che il marchio assolve nella tutela del consumatore posto a garanzia della qualità dei prodotti.
Relativamente al diritto d'autore e ai diritti connessi, è stato riconosciuto che le diverse forme di tutela della proprietà letteraria ed artistica rientrano nell'ambito della deroga ex art. 36 in ordine alla proprietà industriale e commerciale.
In particolare la Corte ha sempre escluso che gli articoli 34 e 36 possano essere invocati per opporsi all'applicazione di norme nazionali che stabiliscono in quali casi possa essere riconosciuto un diritto di proprietà intellettuale.
La costituzione di tale diritto è rimessa all'ordinamento interno, con la conseguenza che le regole adottate da uno stato membro in tale materia debbono ritenersi rientrare in linea di principio nell'ambito della specifica deroga ex art.36.
L'autonomia degli Stati non è assoluta.
Difatti, la Corte ha stabilito che:
i diritti di proprietà intellettuale, in presenza di talune condizioni , sono soggetti ad esaurimento;
le norme sui diritti di proprietà intellettuale, comunque, non possono avere contenuto o effetto discriminatori.
Il principio dell'esaurimento costituisce, dunque, un limite al diritto di esclusiva che l'ordinamento riconosce ai titolari di diritti di proprietà intellettuale e industriale.
I titolari di brevetti, marchi di impresa, modelli e disegni, gli autori di opere di ingegno e i titolari di diritti connessi al diritto di autore hanno un diritto di esclusiva per lo sfruttamento economico di tali beni immateriali.
Ma, secondo il principio dell'esaurimento, tale diritto viene meno quando i prodotti nei quali il bene immateriale è incorporato o al quale è affisso sono posti in vendita per la prima volta dal titolare stesso del diritto o con il suo consenso.
Il principio dell'esaurimento implica che il titolare non può opporsi all'importazione o commercializzazione di prodotti messi in commercio nello Stato d'esportazione da lui stesso o col suo consenso.
Questo per evitare che il titolare possa determinare, con la costituzione di diritti paralleli, una compartimentazione dei mercati ed impedire la circolazione dei prodotti nella Comunità.
La giurisprudenza ha poi precisato la portata del principio dell'esaurimento.
Ad esempio, in materia di brevetti se ne è esclusa l'applicazione quando il prodotto sia stato commercializzato senza il consenso effettivo del titolare del brevetto a meno che non abbia acconsentito alla commercializzazione in uno stato in cui il prodotto non è brevettabile.
Per le opere artistiche, letterarie che possono essere non solo vendute ma anche noleggiate, la giurisprudenza ha affermato che la riscossione dei diritti d'autore in funzione alle vendite non costituisce una remunerazione sufficiente, e quindi una normativa che preveda una quota, spettante al titolare del diritto, dei profitti realizzati tramite il noleggio è giustificata.
E' bene precisare che il principio dell'esaurimento è applicabile in tutti i casi di cessione del diritto in quanto ad essere decisivo non è il consenso del titolare originario, ma la perdita da parte sua del controllo sulla qualità del prodotto.
Per il caso di riconfezionamento di medicinali, il titolare del diritto di marchio si può opporre solo quando sia riconosciuto che l'esercizio del diritto di marchio non miri ad isolare artificialmente i mercati, quando il riconfezionamento può alterare lo stato originario del prodotto e quando sulla nuova confezione non se ne specifica l'autore.
La giurisprudenza riassunta la ritroviamo nell'art.7 della direttiva sul riavvicinamento delle legislazioni nazionali sui marchi.
L'art. 37
del TFUE sancisce il principio del riordino dei monopoli nazionali di
carattere
commerciale, fino all'eliminazione di qualsiasi discriminazione fra cittadini
comunitari circa le condizioni relative all'approvvigionamento e agli sbocchi.
L'obbligo di procedere al riassetto dei monopoli riguarda qualsiasi organismo dello Stato, attraverso cui questo controlli, diriga o influenzi sensibilmente, direttamente o indirettamente, gli scambi tra Paesi membri.
Deve trattarsi di un monopolio che si estende nell'intero territorio nazionale e che attenga a scambi di merci; in caso contrario si è fuori dal campo di applicazione dell'art.37.
Il riordino progressivo dei monopoli doveva consentire agli Stati membri di realizzare l'obiettivo dell'eliminazione di qualsiasi discriminazione entro e non oltre il periodo transitorio( 31/12/1969).
L'obiettivo era quello di evitare eventuali perturbazioni nel tessuto economico e sociale.
Ma, le oggettive difficoltà, non consentono di determinare a priori i momenti intermedi in cui i singoli ostacoli vanno eliminati, come è confermato anche dal tipo di strumento, la raccomandazione, di cui la Commissione si serve per sollecitare il riordino.
Ci si è chiesti se l'art. 37 imponga l'eliminazione dei monopoli commerciali in quanto tali, o solo di quelli che comportano una discriminazione.
In questi termini il problema è mal posto, perché dipende sia dal tipo di monopolio, sia dall'estensione e dalla sua compatibilità con le norme comunitarie.
L'eliminazione progressiva dei monopoli commerciali imposta dall'att. 37 TFUE pone il problema del rapporto tra tale obbligazione e quella contenuta nell'art. 106[Imprese Pubbliche e Titolari di diritti esclusivi divieto di misure che possano ostacolare la libertà degli scambi].
Quest'ultima è sicuramente più ampia, perché mira all'eliminazione di qualsiasi misura che, adottata nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese titolari di diritti esclusivi o speciali, sia contraria al trattato e in particolare alle norme sulla concorrenza.
Logica vorrebbe che l'art. 37, una volta raggiunto il suo scopo di eliminare i monopoli che recano pregiudizio alla libertà degli scambi di merci, rientrasse nella norma più ampia dell'art. 106.
Il Trattato di Amsterdam ha risolto la questione eliminando il carattere della gradualità del riordino nei monopoli commerciali, ma mantenendo la disposizione distinta dall'art. 106.
|
Appunti Diritto | |
Tesine Economia | |
Lezioni Amministratori | |