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Il moderno concetto di trattamento viene istituito in Italia con la legge 25 luglio 1975 n. 354. Hanno influito sul varo della legge: la necessità di regolare in maniera più uniforme ai principi costituzionali l'esecuzione penale ponendo maggiore attenzione alla tutela dei diritti fondamentali; l'obbligo morale di uniformarsi alle Regole Minime per il trattamento dei detenuti approvate dall'Onu e dal Consiglio d'Europa[1]; la convinzione di dover completare gli aspetti penali della detenzione con una serie di provvedimenti più attenti alle esigenze del detenuto e alla sua realtà esistenziale; la crescente drammaticità del problema carcerario e il profondo malcontento in precedenza manifestato con forme vistose dai detenuti, delusi nelle loro aspettative . Il nuovo ordinamento penitenziario contiene sostanziali innovazioni rispetto alla precedente legislazione, la grande novità portata dalla legge del 1975, e dal successivo regolamento di esecuzione, D.P.R. 29 aprile 1976 n. 431, è costituita dal fatto che, pur essendo ribadita l'obbligatorietà del lavoro dei detenuti, il lavoro stesso tende a perdere il carattere affittivo, per diventare un elemento cardine del trattamento penitenziario, diretto a rieducare il detenuto e a reinserirlo nella collettività, attraverso l'adozione di comportamenti conformi ai parametri correnti di normalità speciale. Viene a modificarsi la posizione del detenuto nei suoi rapporti con l'Amministrazione penitenziaria perché "sia l'organizzazione che i metodi del lavoro devono riflettere quelli del lavoro nella società libera e la determinazione delle remunerazioni dovute, a seconda della qualità e della quantità del lavoro prestato, viene agganciata agli indici di adeguatezza fissati dalla contrattazione collettiva" (art. 22). Ciò non significa, peraltro, che sia accolto, in ambito di lavoro carcerario, il principio di corrispettività tra lavoro e retribuzione, conformemente ai principi costituzionali di proporzionalità e sufficienza, di cui all'art. 36 comma I Cost. , dal momento che si parla di mercede, e non di retribuzione, e viene mantenuta la trattenuta dei tre decimi finalizzata all'assistenza alle vittime del delitto. La legge di modifica dell'ordinamento penitenziario 10 ottobre 1986 n. 663, nota come Legge Gozzini, prosegue sulla stessa linea di tendenza, rimovendo alcune limitazioni poste in precedenza all'ammissione al lavoro esterno, e introducendo una fase di controllo giurisdizionale nel procedimento che regola l'ammissione del detenuto (soprattutto abolendo la trattenuta dei tre decimi sulle mercedi). In quegli stessi anni altre norme vengono a incidere sul tema del lavoro carcerario: si tratta di disposizioni sparse in vari strumenti legislativi, quali la legge 28 febbraio 1987 n. 56 e il D.P.R. 18 maggio 1989 n. 248, che aumentano la sensazione dell'interprete di trovarsi di fronte ad un complesso normativo scoordinato e lacunoso, nel quale risulta difficile orientarsi per la frammentarietà e l'imprecisione dei testi normativi. La legge n. 56 del 1987 attiva nuove competenze degli organi pubblici di collocamento per quanto riguarda il lavoro extramurario, mentre il D.P.R. n. 248 del 1989 modifica in parte il regolamento penitenziario limitandosi ad aspetti di disciplina e sicurezza .
Le più recenti modifiche legislative appartengono alla fase emergenziale: la legge 12 agosto 1993 n. 296 modifica gli artt. 20 e 21, introducendo il 20-bis alla L. n. 354/1975. Il legislatore pone sullo stesso piano la destinazione dei condannati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale, consentendo da un lato, l'organizzazione di lavorazioni gestite direttamente da imprese pubbliche o private, dall'altro, l'istituzione di corsi di formazione professionale svolti da aziende pubbliche o private convenzionate. Sotto un secondo profilo viene introdotto un vero e proprio collocamento interno per il lavoro intramurario, mentre per il lavoro all'esterno vengono richiamate le norme sul collocamento ordinario.
A distanza di sette anni dalle ultime modifiche, vengono emanati due importanti strumenti legislativi: il D.P.R. 30 giugno 2000 n. 230 "Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà", che specifica le regole per l'organizzazione di lavorazioni penitenziarie, interne ed esterne, gestite da imprenditori pubblici o privati o da cooperative sociali; e la cd. Legge Smuraglia, L. 22 giugno 2000 n. 193, che modifica la definizione di persone svantaggiate contenuta nella disciplina delle cooperative sociali (includendo le persone detenute o internate negli istituti penitenziari), ed estende il sistema di sgravi contributivi e fiscali per chi organizza attività produttive negli istituti penitenziari[5].
Alla base della nuova Riforma penitenziaria, tra i principi direttivi, viene esplicitata la nozione di trattamento, intesa come il complesso delle attività che l'amministrazione penitenziaria organizza in ogni istituto per tutti i detenuti, senza discriminazioni, riguardo alla loro posizione giuridica, allo scopo di rieducarli e di favore il loro reinserimento nella società libera[6]. All'art. 13 si stabilisce che "il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto. Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l'osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale". S'individua così per il detenuto un programma personalizzato di rieducazione e di reinserimento al centro del quale viene inserito il lavoro, insieme alla religione e all'istruzione, nonché alle attività culturali, ricreative e sportive. Il lavoro riveste il ruolo principale tra gli elementi del trattamento, per le possibilità di reinserimento che offre e poiché abitua il soggetto ad un sistema di vita conforme ai valori della nostra società, che è fondata su di esso, come sancito dall'art. 1 della Costituzione . L'art. 15 indica chiaramente l'obbligatorietà del lavoro per i detenuti, ma precisazioni si rendono opportune, sia circa l'obbligo soggettivo dei detenuti di svolgere un lavoro, sia circa l'obbligo incombente l'amministrazione penitenziaria di mettere a disposizione dei posti di lavoro. Gli imputati sono ammessi a svolgere attività lavorativa o di formazione professionale, di loro scelta e in condizioni adeguate alla loro condizione giuridica. In questo modo questa categoria di reclusi non è obbligata al lavoro, come invece era previsto dall'ordinamento del 1931. Il lavoro è obbligatorio per condannati ed internati, perché il valore rieducativo del lavoro, e la sua capacità di modificare gli atteggiamenti asociali, hanno convinto il legislatore della sua indispensabilità nel trattamento. L'obbligatorietà al lavoro ha come corrispettivo l'impegno dell'amministrazione penitenziaria di prendere tutte le iniziative per assicurare ai detenuti e agli internati il lavoro meglio rispondente alle condizioni ambientali e personali (art. 21, comma I, della legge) e di mettere a disposizione un numero sufficiente di posti di lavoro (art. 15, comma II e III). Nelle Regole Minime per il trattamento dei detenuti, approvate dall'Onu e dal Consiglio d'Europa, viene assegnato un ruolo fondamentale all'intervento dei privati, al fine di creare in carcere un'adeguata disponibilità di posti di lavoro e supplire così alle deficienze organizzative dell'amministrazione penitenziaria . Il nuovo ordinamento penitenziario invece, ha ridimensionato il ruolo delle imprese private, ha vietato l'appalto della manodopera e ha consentito alle direzioni degli istituti di ricevere solamente commesse di lavoro da privati o di autorizzare i reclusi a svolgere la propria attività alle dipendenze di datori di lavoro esterni, quindi non come manodopera appaltata.
Le caratteristiche principali del lavoro carcerario sono espresse all'art. 20 della legge n. 354/1975. Si afferma che: "negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale". Come recepito dai principi delle Regole Minime, nel secondo comma il legislatore sottolinea che "il lavoro penitenziario non ha carattere affittivo ed è remunerato", riconoscendo alla remunerazione un ruolo fondamentale sia per il riconoscimento del diritto ad essere ricompensati per l'attività svolta, sia per l'innegabile effetto psicologico di gratifica per il lavoratore[9].
Per ciò che riguarda i soggetti sottoposti alle misure di sicurezza della casa di cura e di custodia e dell'ospedale psichiatrico giudiziario (comma 4), si stabilisce che "possono essere assegnati al lavoro quando risponda a finalità terapeutiche". Mentre gli altri soggetti, in condizioni di anormalità fisica o psichica, sono esonerati dal lavoro nella misura in cui il loro stato incide sulla capacità lavorativa.
La riforma del 1975 organizza e indica anche i metodi del lavoro penitenziario, con la volontà di riflettere le modalità del lavoro della società libera e affinché i soggetti possano acquisire una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative che consenta di agevolarne il reinserimento sociale. L'art. 45 del reg. esec. del 1976, successivamente modificato, contiene ulteriori precisazioni. Si obbliga formalmente la direzione degli istituti ad organizzare e gestire direttamente il lavoro all'interno o all'esterno del carcere, sulla base delle direttive impartite dall'amministrazione, dopo aver contattato gli uffici pubblici locali dell'industria, dell'artigianato, del commercio e dell'agricoltura, affinché l'organizzazione del lavoro non avvenga fuori delle reali prospettive e dalle esigenze del mercato esterno[10]. Appare chiaro che i costi degli oneri assicurati e previdenziali ricadono interamente sul datore di lavoro, qualifica assunta dall'amministrazione penitenziaria.
Per il collocamento al lavoro dei reclusi l'amministrazione penitenziaria, oltre ad organizzare direttamente le lavorazioni negli istituti di reclusione e di pena, è tenuta ad individuare posti di lavoro presso imprese esterne che appaiono idonee a collaborare al trattamento penitenziario, ricorrendo agli uffici pubblici locali del lavoro, dell'industria, dell'artigianato e dell'agricoltura. L'art. 20 comma VI identifica i criteri per determinare l'assegnazione dei soggetti alle attività lavorative nei desideri e nelle attitudini dei detenuti, nelle loro precedenti attività lavorative ed in quelle a cui potranno dedicarsi dopo la scarcerazione. Particolare attenzione era affidata all'elemento motivazionale, poiché riusciva a sopperire anche un'apparente inidoneità. Però, molto spesso, i posti di lavoro messi a disposizione dall'amministrazione penitenziaria sono inferiori a quelli desiderati dagli interessati. Per far fronte a questo problema gli art. 45 e 47 del reg. esec, che si occupano del sistema di collocamento al lavoro dei reclusi, prevedono due elementi fondamentali: la predisposizione di tabelle indicanti i posti disponibili e la precisazione di parametri di assegnazione.
I posti di lavoro disponibili sono fissati in una tabella predisposta dalle direzioni. Nella tabella viene operata una distinzione tra servizi di istituto, lavorazioni interne e lavorazioni esterne e vengono inoltre indicati i posti di lavoro disponibili all'esterno presso imprese pubbliche e private. La tabella è modificata secondo il variare della situazione e viene approvata dall'ispettore distrettuale. Sui criteri di priorità per l'assegnazione dei detenuti e degli internati, il regolamento precisa che si deve tener conto anche delle condizioni economiche della famiglia, del tempo trascorso in stato d'inattività lavorativa involontaria durante la detenzione o l'internamento, e del comportamento individuale del detenuto. Si prevede che le direzioni debbano adoperarsi per organizzare, in coincidenza con le ore di lavoro, attività di tempo libero per i soggetti che, indipendentemente dalla loro volontà, non svolgono attività lavorativa (art. 57 del regolamento).
Tenuto conto del fatto che l'impegno rieducativo non può essere limitato all'ambito carcerario, ma deve essere prolungato anche nel periodo successivo alla dimissione, all'art. 46 della legge n. 354/1975 si tematizza il problema dell'assistenza post -penitenziaria. Si prevede, a favore di detenuti ed internati, un particolare aiuto nel periodo di tempo che immediatamente precede la loro dimissione e quello successivo alla medesima, da svolgere tramite la corresponsabilizzazione del servizio sociale, che si avvale dell'apporto di enti pubblici e privati qualificati nel settore dell'assistenza sociale. In caso di dimessi affetti da gravi infermità fisiche o psichiche, al fine di facilitarne l'assistenza, deve essere effettuata la segnalazione agli organi preposti alla tutela della sanità pubblica (come previsto dal comma II dell'art. 46).
Il compito dell'azione sociale al di fuori del contesto carcerario, è affidato al C.S.S.A. (Centro di servizio sociale per adulti) organismo a carattere professionale, in collaborazione con il consiglio di aiuto sociale. Al direttore dell'istituto è fatto carico avvisare questi due organismi almeno tre mesi prima della dimissione di un detenuto. L'avviamento al lavoro dei dimessi è l'obiettivo specifico del comitato per l'occupazione degli assistiti dal consiglio di aiuto sociale, composto anche da rappresentanti dell'industria, dell'artigianato, del commercio e dell'agricoltura, dai datori di lavoro, dai coltivatori diretti e dalle organizzazioni sindacali (come prevede l'art. 77 della legge). Il problema lamentato fin dall'inizio da questo organismo era la mancanza di mezzi reali. Cosicché con il D.P.R. 616/1977 la competenza del consiglio di aiuto sociale e dei comitati per l'occupazione viene affidata agli enti locali, ad esclusione delle Regioni a statuto speciale le quali mantengono in vita tali organismi. Le reali difficoltà d'attuazione del percorso di reinserimento dei dimessi derivano dall'esperienza maturata nel periodo successivo alla legge che mette in luce una diffidenza della società nei confronti degli ex detenuti. Anche se attraverso gli interventi legislativi le istituzioni cercano di coinvolgere i soggetti della società civile, quali ad esempio le rappresentanze sindacali, di categoria, manca un'opera di promozione dei vantaggi indicati per chi assume soggetti svantaggiati. Riuscire a convincere un qualsiasi datore di lavoro privato che è più conveniente, a parità di qualifica e formazione professionale, assumere un detenuto o ex detenuto, piuttosto che una persona senza precedenti penali, rappresenta la sfida che nessuna normativa è in grado di risolvere autonomamente. In questa sfida l'apporto delle associazioni di volontariato e delle cooperative sociali risulta determinante e imprescindibile.
L'obbligo di lavoro per detenuti e internati può essere assolto all'interno o all'esterno degli istituti penitenziari. Il lavoro all'interno riguarda coloro che lavorano alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, o coloro che sono autorizzati a svolgere un lavoro in proprio all'interno della realtà carceraria. L'amministrazione penitenziaria in qualità di datore di lavoro organizza le varie attività e si assume gli oneri assicurativi e previdenziali previsti per ciascun dipendente. L'ipotesi di lavoro all'esterno riguarda invece coloro che sono assegnati alle dipendenze di datori di lavoro diversi dall'amministrazione penitenziaria. I servizi domestici sono la tipologia di lavoro più comune tra quelle proposte all'interno degli istituti. Si svolgono sotto il controllo del personale di custodia e sono attinenti al vitto, alla lavanderia, all'igiene, ai servizi di manutenzione, alle attività ricreative ed istruttive e ad ogni altro servizio che serve a far funzionare la macchina carceraria[11]. Accanto ai servizi domestici i detenuti possono essere occupati in lavorazioni industriali o agricole, mirate alla produzione di beni per le esigenze interne all'amministrazione e per il mercato esterno. Questo tipo di attività si avvicina più delle altre all'attività lavorativa propria dell'ambiente esterno e si ritiene più idonea a favorire il reinserimento del detenuto dopo la scarcerazione. Ultima tipologia di attività è costituita dalle attività artigianali, culturali ed artistiche. Caratteristica peculiare del lavoro inframurario alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria è l'assenza di quella trilateralità tipica di ogni altro tipo di lavoro carcerario. Infatti, manca, in questa ipotesi, un datore di lavoro distinto dall'amministrazione, così che la fondamentale distinzione tra rapporto punitivo e rapporto di lavoro appare molto più difficile da individuare nei suoi esatti contorni; allo stesso modo, risulta difficile, in concreto, identificare il momento di esercizio del potere derivante dall'uno e dall'altro rapporto da parte del medesimo soggetto che è titolare di entrambi . L'art. 22 della legge n. 354/1975 stabilisce un particolare meccanismo per la determinazione delle mercedi (compenso per il lavoro svolto dai detenuti). Queste, a seconda della categoria di lavoranti, della qualità e della quantità del lavoro effettivamente prestato, dell'organizzazione e del tipo di lavoro del detenuto, sono equitativamente stabilite in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro. A stabilire l'entità delle mercedi è chiamata una commissione composta dal direttore generale degli istituti di prevenzione e pena, da un ispettore generale della direzione, da un rappresentante del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, da uno del Ministero del Tesoro e infine, da un delegato per ciascuna delle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale. La medesima commissione, oltre a fissare le mercedi, determina anche il trattamento economico dei tirocinanti. Secondo le indicazioni della direzione generale degli istituti di prevenzione e pena la commissione stabilisce, altresì, il numero massimo di ore lavoro, il numero massimo di ore di permesso di assenza dal lavoro retribuite e le condizioni e modalità di fruizione delle stesse. Particolari perplessità hanno suscitato, negli anni successivi all'entrata in vigore della legge, il mancato riconoscimento del diritto alle ferie e il mancato riconoscimento delle festività infrasettimanali.
Come stabilito dal comma XIV dell'art. 20, i detenuti e gli internati dotati di attitudini artigianali, intellettuali ed artistiche possono essere ammessi ad esercitare attività in proprio, denominate di lavoro autonomo, e conseguentemente, sono esonerati dalla prestazione di lavoro ordinario. Si prevede che ci sia un accertamento delle attitudini dei soggetti interessati e dell'impegno dimostrato durante lo svolgimento di tali attività, impegno che deve raggiungere livelli professionali, per evitare che l'esonero sia utilizzato solo come espediente per sottrarsi agli obblighi lavorativi. La direzione del carcere, oltre a concedere l'esercizio di tali attività, determina le prescrizioni da osservare in relazione al rimborso delle spese eventualmente sostenute dall'amministrazione, come avviene ad esempio nel caso in cui si fornisca energia elettrica per determinati macchinari. La previsione dell'esercizio di un lavoro autonomo è assai opportuna perché ripropone in carcere un aspetto della realtà lavorativa esterna e impedisce a molti di restare inattivi, dal momento che consente di continuare una precedente attività o curare in ogni caso determinate attitudini. L'amministrazione penitenziaria da qualche tempo aveva indicato che il potenziamento di queste attività doveva considerarsi una necessità, sia per ovviare alla carenza di posti di lavoro, sia per favorire il reinserimento. "Le attività lavorative o di preparazione professionale dovrebbero prioritariamente rivolgersi a quei settori artigianali che, mentre consentono espressioni di creatività e capacità organizzativa, prospettano maggiori possibilità di reinserimento nell'ambiente libero. Tali sono quei mestieri che oggi sono caratterizzati da una prevalente richiesta, rispetto all'offerta, di prestazioni quali ad esempio sarti, tappezzieri, idraulici, elettricisti. L'artigianato qualificato, pur se non giunge ad avere un locale organizzato, è pur sempre nelle condizioni di sviluppare il suo lavoro presso la stessa abitazione o presso gli utenti della sua opera, servendosi di strumenti di costo non elevato" . Secondo la Commissione per il lavoro penitenziario è necessario inoltre attivare strumenti reali tesi a favorire la costituzione di cooperative di produzione di beni o di servizi tra detenuti o tra detenuti e cittadini liberi, individuando nella natura stessa della cooperativa un momento significativo di socializzazione e interrelazione. In particolare si auspica l'agevolazione delle cooperative di solidarietà sociale, che hanno per scopo precipuo il reinserimento dei detenuti.
Quando si parla di lavoro all'esterno non è corretto parlare, genericamente, di misure alternative, posto che, all'interno del catalogo delle alternative alla detenzione a regime ordinario previste dall'ordinamento penitenziario, una sola misura, e cioè la semilibertà, richiede la presenza di un lavoro extramurario, come presupposto normativo all'ammissione del beneficio. Il lavoro all'esterno previsto dall'originario art. 21 della legge del 1975 non configura una vera e propria alternativa alla detenzione. Si prevede che l'ammissione al lavoro esterno sia affidata alla discrezione del direttore. Il provvedimento d'ammissione del direttore deve contenere indicazioni specifiche sui vari aspetti implicati: orari di uscita e di rientro, modalità per andare al lavoro e ritornare in carcere, comportamento sul lavoro (attività sindacali, pasti, eventuali ricoveri ospedalieri o ricorso a sanitari esterni). I reclusi ammessi al lavoro esterno indossano abiti civili e non possono essere imposte le manette. Esercitano gli stessi diritti riconosciuti ai lavoratori liberi, con le sole limitazioni che conseguano agli obblighi inerenti all'esecuzione della misura privativa della libertà. Per i reclusi assegnati ad imprese pubbliche non sono previste particolari forme di controllo, se invece l'assegnazione al lavoro avviene in imprese private l'esecuzione del lavoro deve svolgersi sotto il diretto controllo della direzione dell'istituto[14].
Il capo VI della legge del 26 luglio 1975 n. 354 indica le varie tipologie di misure alternative alla detenzione, stabilendone presupposti e procedure di ammissione. Le tipologie previste sono: l'affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, il regime di semilibertà. "Se la pena detentiva non superi i tre anni, il condannato può essere affidato al servizio sociale fuori dell'istituto per un periodo uguale a quello della pena da scontare" art. 47 comma I della legge. Si prevede che l'ammissione sia possibile solo dopo aver appurato, tramite i risultati dell'osservazione della personalità, che il condannato sia in grado di rispettare le prescrizioni previste per tale regime. L'affidato ordinario (con questo termine si escludono gli affidati in prova al servizio sociale in casi particolari come prevede l'art. 47-bis), deve scrupolosamente attenersi alle prescrizioni previste dal verbale, in ordine ai suoi rapporti con il servizio sociale, alla dimora, alla libertà di locomozione, al divieto di frequentare determinati locali e al lavoro. Può essere anche proibito al condannato di soggiornare in uno o più comuni, al fine di evitare rapporti personali che possano portarlo a compiere altri reati. L'attività del servizio sociale è finalizzata ad aiutare il soggetto nelle difficoltà di adattamento alla vita sociale, con l'obiettivo di favorirne il reinserimento. Come tutte le misure alternative alla detenzione sono revocabili qualora il soggetto dimostri di non attenersi alle disposizioni stabilite.
Qualora la pena della reclusione non superi i quattro anni, o in caso di pena dell'arresto, è possibile espiarla presso la propria abitazione o in un luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza. Questa misura, definita detenzione domiciliare, è applicabile qualora si tratti di: donna incinta o madre di figli minori di anni dieci, persona in condizioni di salute particolarmente gravi, persona superiore ai sessanta anni inabile anche parzialmente, minore di anni 21 per esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia[15]. Il Tribunale di Sorveglianza nel disporre la detenzione domiciliare ne fissa modalità e prescrizioni da rispettare scrupolosamente pena la revoca del beneficio.
L'ultima misura alternativa alla detenzione prevista dalla riforma del 1975 è la semilibertà (art. 50 e ss.). Anche in tal caso la responsabilità del trattamento resta affidata al direttore dell'istituto, con cui deve collaborare il servizio sociale per quanto concerne la vigilanza e l'assistenza del soggetto nell'ambiente libero. La peculiarità della semilibertà consiste nella facoltà di trascorrere parte del giorno fuori dell'istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale in vista della definitiva dimissione. Considerata la posizione dei reclusi che lavorano in semilibertà non si prevedono controlli sull'esecuzione del lavoro. Per l'ammissione alla semilibertà è necessario che il soggetto abbia espiato almeno la metà della pena. E' possibile essere ammessi alla semilibertà anche nel caso di pene non superiori ai tre anni, qualora il condannato non sia affidato in prova al servizio sociale. Rimane inoltre fondamentale l'analisi e la valutazione dei progressi compiuti dal soggetto sulla base del trattamento condotto nell'istituto. La concessione è affidata al Tribunale di Sorveglianza. Come negli altri casi d'ammissione a misure alternative alla detenzione, è opportuno che il soggetto si attenga scrupolosamente alle disposizioni previste per il suo trattamento al fine di evitare la revoca del beneficio.
L'art. 20 della legge disciplina diritti e tutele del lavoratore detenuto facendo riferimento alle leggi vigenti in materia di lavoro "libero". Sono regolate le modalità di lavoro, il riposo festivo ed il trattamento previdenziale. Occasione di discussione ha rappresentato la mancanza di un esplicito riferimento al diritto di ferie annuali retribuite, per il quale si è profilato il rischio di incostituzionalità dal momento che appare in contrasto con i principi enunciati dall'art. 36 Cost.[16]. Ulteriore lacuna è la mancata previsione del diritto di indennità di fine rapporto per il detenuto lavoratore. L'art. 69 comma V della L. n. 354 attribuiva al Magistrato di Sorveglianza, nella sua formulazione originaria, competenza in materia di attribuzione della qualifica lavorativa, di mercede e di remunerazione, di assicurazioni sociali. La Corte Costituzionale interpellata in merito alle competenze sopra descritte ha riconosciuto come titolare il giudice dei diritti e non il Magistrato di Sorveglianza . Nelle delucidazioni sui diritti dei lavoratori detenuti è opportuno distinguere tra lavoro all'interno e lavoro all'esterno. Nel primo caso, la tipologia di lavoro rende difficile l'estensione al detenuto delle garanzie assicurate al lavoratore libero, pur mantenendo inviolabili i diritti sanciti dalla Costituzione. Nel caso del lavoro all'esterno, al di fuori degli obblighi concernenti l'esecuzione della pena, spettano ai detenuti ed internati ammessi al lavoro tutte le garanzie ed i diritti riconosciuti in materia ai lavoratori liberi (indennità di anzianità, licenziamento, diritti sindacali, rispetto della qualifica, ecc.).
Come definito più volte dalla dottrina, la legge n. 354/1975 presenta evidenti lacune e deficienze normative soprattutto per ciò che riguardava il lavoro carcerario. Con questi presupposti il legislatore ha voluto intervenire, avvalendosi del contributo degli addetti ai lavori, attraverso la legge 10 ottobre 1986 n. 663, cosiddetta Legge Gozzini (primo firmatario della proposta di legge). Purtroppo anche l'intervento del 1986 lascia scoperti alcuni problemi manifestati all'indomani della riforma del '75, ad esempio, per avere chiarezza sul collocamento si dovrà attendere un altro intervento normativo: la legge n. 56/1987. La legge Gozzini rimuove alcune limitazioni imposte dalla precedente Riforma introducendo una fase di controllo giurisdizionale nel procedimento che regola l'ammissione del detenuto al lavoro esterno e, soprattutto, abolendo la trattenuta dei tre decimi sulle mercedi[18].
La prima sostanziale modifica riguarda la riformulazione del VI comma dell'art. 20 della legge n. 354/75, relativo ai criteri per l'assegnazione del lavoro ai detenuti. Viene abolito il riferimento alle attività svolte in precedenza, per privilegiare i desideri e le attitudini dei soggetti, e si pone in evidenza, al fine dell'assegnazione di un determinato posto di lavoro, la condizione economica della famiglia del detenuto. Questa decisione del legislatore è da attribuire alla capacità di cogliere il significato utopistico delle possibilità del detenuto, una volta scarcerato, di svolgere il lavoro a lui più congeniale[19]. Con il riferimento esplicito alle condizioni economiche della famiglia del detenuto si prendeva atto che, nella maggior parte dei casi, lo stato di detenzione comportava il venir meno dei mezzi di sostentamento per la famiglia del detenuto ed il lavoro diveniva così una vera necessità. Altra importante novità consiste nella concessione, ai singoli istituti penitenziari con il via libera del Ministero di Grazia e Giustizia, di vendere i prodotti delle lavorazioni penitenziarie a prezzo pari o inferiore al loro costo, facendo riferimento ai prezzi praticati per prodotti simili nella zona di competenza dell'istituto. In questo modo si cerca di agevolare la vendita dei prodotti carcerari con la conseguente necessità di manodopera da impiegare nelle lavorazioni, e, in particolar modo, tralasciare l'aspetto utilitaristico del lavoro carcerario per mettere in primo piano l'esperienza lavorativa per ogni singolo detenuto. Come si accennava precedentemente, la legge n. 663/86 sostituisce interamente l'art. 21 della riforma del 1975, occupandosi di legiferare anche in merito al lavoro che si svolge all'esterno delle mura carcerarie. La nuova normativa ritiene fondamentale rilevare il legame diretto tra l'assegnazione del lavoro all'esterno ed il trattamento penitenziario, come previsto dal comma XVI della legge n. 354/75. Con l'eliminazione dell'obbligatoria della scorta, salvo per giustificati motivi di sicurezza, parte della dottrina ritiene che si sia cercato di avvicinare il lavoro all'esterno alle misure alternative. Altro elemento di novità è da considerare l'eliminazione del vincolo di settore occupazionale previsto dalla precedente normativa, che escludeva il terziario dai possibili ambiti lavorativi per il detenuto. Per la concessione del beneficio a condannati ed internati la competenza è conferita al magistrato di sorveglianza, eliminando così l'eccessiva prudenza del direttore dell'istituto nel concedere tale beneficio.
In materia di mercede e remunerazione la novità più importante è da ritenersi l'eliminazione della trattenuta dei tre decimi sulle mercedi, prevista dalla legge n. 354/75. In questo modo mercede e remunerazione diventano la stessa cosa. Altro significativo intervento riguarda il comma III dell'art. 22 O.P.. Si dà la possibilità al detenuto di svolgere un'attività lavorativa senza dover interrompere il programma di studio. Sono stabilite dalla Commissione per il lavoro penitenziario le ore di permesso di assenza al lavoro retribuite per la frequenza di corsi di scuola dell'obbligo, di scuole secondarie di secondo grado o di corsi di addestramento professionale, da svolgersi all'interno degli istituti durante l'orario di lavoro[20].
L'art. 69 della riforma del 1975 dal titolo "Funzioni e provvedimenti del magistrato di sorveglianza" è sostituito interamente. I suoi compiti vengono ampliati per il fatto che il magistrato di sorveglianza risulta competente per quanto riguarda l'applicazione dell'esecuzione, la trasformazione o revoca, anche anticipata delle misure di sicurezza, come anche per quanto riguarda il riesame della pericolosità dei soggetti. Restano ferme le competenze del magistrato di sorveglianza per evitare la violazione dei diritti del condannato o dell'internato: a tal fine egli approva con decreto il programma di trattamento, e all'occorrenza lo restituisce con osservazioni, per indicare alcuni elementi che facilitino una nuova formulazione. E' innovativa la facoltà attribuita al magistrato di approvare con decreto l'ammissione al lavoro all'esterno. La legge n. 663 prevede che l'ordinanza del magistrato di sorveglianza sia impugnabile solo in Cassazione.
Le finalità della legge n. 56/1987 sono da ricondurre alla necessità di far chiarezza sul collocamento di detenuti ed internati. La particolare condizione legata allo stato di detenzione non consentiva loro di poter effettuare periodicamente l'aggiornamento dell'iscrizione alle liste di collocamento. Con questo intervento legislativo si prevede l'esonero da parte dei lavoratori detenuti dall'obbligo di comunicare all'ufficio competente lo stato di disoccupazione. Questa comunicazione spetta, su richiesta dell'interessato, alla direzione dell'istituto penitenziario, e consiste semplicemente nella conferma della condizione di detenzione o di internamento. L'art. 19 "Norme per i detenuti e gli internati" stabilisce inoltre, al comma II, che lo stato di detenzione o di internamento non costituisce causa di decadenza del diritto all'indennità di disoccupazione ordinaria o speciale. Infine, attraverso la proposta del Ministero del Lavoro, si dà mandato alla Commissione centrale per l'impiego di determinare i criteri di computo dell'anzianità risultante da riconoscere agli ex detenuti o internati che s'iscrivono alle liste di collocamento entro quindici giorni dalla data della scarcerazione, in relazione alla durata della carcerazione (art. 19 comma V della L. 28 febbraio n. 56/1978).
Nel periodo della fase emergenziale, la legge n. 203/1991, s'inserisce in una serie di provvedimenti urgenti di lotta alla criminalità organizzata. Si procede con interventi restrittivi come la modifica dell'art. 21 comma I della legge n. 354/1975. La nuova normativa prevede che, per l'ammissione al lavoro all'esterno di condannati per uno dei delitti elencati all'art. 4 bis, sia indispensabile aver espiato almeno un terzo della pena. Per coloro che devono scontare la pena dell'ergastolo, la concessione del beneficio può essere richiesta solo dopo aver scontato anni dieci di reclusione. Come rileva Pavarini "Tali modifiche hanno contribuito ad avvicinare ancor di più l'istituto in esame alle misure alternative, poiché sottopongono la sua concessione alle stesse condizioni restrittive cui sono subordinate le sopra menzionate misure".
Nel momento in cui il legislatore prende atto definitivamente della difficoltà, da parte dell'amministrazione penitenziaria, di risolvere da sola una situazione di grave crisi, si propone di aprire il carcere a chi nutre interesse per la realtà lavorativa carceraria e per la formazione dei detenuti in particolare[21]. La legge del 12 agosto 1993 n. 296 pone, almeno programmaticamente, sullo stesso piano la destinazione dei condannati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale, consentendo, da un lato, l'organizzazione di lavorazioni gestite direttamente da imprese pubbliche o private, con modalità specificatamente previste, e dall'altro, l'istituzione di corsi di formazione professionale svolti da aziende pubbliche o private convenzionate. Sotto un secondo profilo, è stato introdotto un meccanismo di assegnazione al lavoro intramurario, cioè un vero e proprio collocamento interno, che opera attraverso la formulazione di graduatorie di detenuti e di tabelle di posti, mentre per il lavoro all'esterno vengono richiamate le norme sul collocamento ordinario e l'art. 19 L. n. 56/1987. Questo quadro configura una ulteriore fase storica del lavoro carcerario: una volta preso atto che, nella fase precedente, l'aumento delle misure alternative alla detenzione, realizzato dalla legge Gozzini, non aveva prodotto l'effetto sperato di ampliare le occasioni di lavoro extramurario per i detenuti, e che l'opzione legislativa si era orientata verso un restringimento delle possibilità di accesso ai benefici, necessariamente il lavoro penitenziario deve modificarsi, nel senso di un allargamento delle ipotesi di lavoro intramurario in relazione alle ridotte possibilità di svolgimento di attività lavorative all'esterno, sia per le note limitazioni introdotte con l'art. 4 bis L. n. 354/1975, sia per la nuova situazione del mercato del lavoro . Con la modifica del VI comma dell'art. 20 L. 354/1975, la nuova legislazione abbandona definitivamente le prerogative discrezionali riconosciute alla direzione carceraria nell'assegnazione al lavoro interno, che consentivano di utilizzare l'assegnazione del lavoro in un'ottica, nel migliore dei casi, premiale. Si stabilisce che per il lavoro intramurario i criteri di priorità nell'assegnazione siano esclusivamente quelli di anzianità di disoccupazione durante lo stato di detenzione, dei carichi familiari, della professionalità, delle precedenti e documentate attività svolte e di quelle a cui potrà dedicarsi il detenuto dopo la scarcerazione. In ambito di lavoro interno la legge n. 296/1993, procede a modificare profondamente il sistema tradizionale delle lavorazioni aprendo il carcere alla formazione e all'utilizzo produttivo dei detenuti. Tale scelta va nel senso della privatizzazione, consentendo di superare il limite dell'impossibilità di un rapporto diretto tra detenuto e imprenditore . L'art. 20 comma I L. n. 354/1975 stabilisce che all'interno degli istituti possono essere istituite lavorazioni organizzate e gestite direttamente da imprese pubbliche o private, che possono essere istituiti corsi di formazione professionale organizzati o svolti da aziende pubbliche, ovvero da aziende private convenzionate con la Regione. Il nuovo art. 20-bis prevede che il Provveditore Regionale possa affidare, con un contratto d'opera, la direzione tecnica delle lavorazioni a persone estranee all'amministrazione. Si riconosce così l'incapacità dell'Amministrazione Penitenziaria a risolvere i problemi della crisi del lavoro penitenziario, accresciuti dalla riduzione delle possibilità di ammissione a lavori esterni attraverso le misure alternative, dando spazio a professionalità diverse e specialistiche rispetto a quelle penitenziaristiche . Il risultato della scelta legislativa di privatizzare le lavorazioni è l'ingresso del lavoro carcerario nel mercato, abbandonando il contenuto di fondo della Legge Gozzini che continuava a differenziare il lavoro intramurario, come intercorrente con l'amministrazione penitenziaria, ed il lavoro all'esterno, assimilato al lavoro libero. Con la legge n. 296/1993 s'introduce il nuovo art. 25-bis che prevede l'istituzione di commissioni regionali per il lavoro penitenziario composte dai rappresentati locali delle associazioni imprenditoriali, delle associazioni cooperative e dai rappresentati della Regione che operano nel settore del lavoro e della formazione professionale. La commissione rappresenta il primo luogo d'incontro tra il mercato del lavoro libero, l'ente locale e l'istituzione penitenziaria. Si presenta come un collegio tecnico -operativo-consultivo del Provveditore Regionale. L'ultima novità apportata dall'art. 25-bis riguarda la creazione, da parte della direzione dell'istituto penitenziario, di tabelle e di piani di lavoro. Nelle tabelle è ritenuto indispensabile considerare i posti a disposizione dei detenuti, in relazione alle esigenze di ogni istituto. Vengono elencati separatamente i posti relativi al lavoro all'interno e quelli relativi al lavoro all'esterno, infine quelli disponibili all'interno, risultanti da produzioni organizzate direttamente da imprese private o cooperative (comma III e IV). Il piano di lavoro invece consiste nella programmazione dell'attività produttiva che, rapportata al numero di detenuti, alle strutture produttive, nonché all'organico del personale civile e di polizia penitenziaria, indica gli obiettivi e le metodologie finalizzate alla rieducazione del detenuto. Il piano va redatto annualmente, poiché deve tener conto del sistema microeconomico della realtà lavorativa carceraria.
L'unico intervento legislativo di particolare rilevanza, prima dell'emanazione della Legge Smuraglia e del D.P.R. n. 230/2000, è la legge 27 maggio 1998 n. 165, che procede a modificare l'art. 656 del codice di procedura penale e la legge n. 354/1975. Interessanti sono gli interventi in merito alle misure alternative alla detenzione, in particolare, sull'affidamento in prova al servizio sociale e sulla semilibertà. L'art. 2 stabilisce la possibilità per il condannato di essere affidato in prova al servizio sociale senza procedere all'osservazione in istituto, qualora, dopo la commissione del reato, abbia serbato un comportamento tale da consentire un giudizio meritevole. Per l'ammissione alla semilibertà s'interviene indicando che, se i risultati dell'osservazione del condannato dimostrano la volontà di reinserimento nella vita sociale, ma non legittimano l'affidamento in prova al servizio sociale, si può procedere, in riferimento ai criteri del comma IV, alla concessione del beneficio.
Prima di arrivare a sostanziali modifiche, in ambito di lavoro carcerario, è necessario attendere l'approvazione della L. n. 193/2000 che, recependo le indicazioni di larghi settori del privato sociale, modifica la definizione di persone svantaggiate contenuta nella disciplina sulle cooperative sociali, con l'aggiunta, alle categorie già contemplate dall'art. 4 L. 8 novembre 1991 n. 381, delle "persone detenute o internate negli istituti penitenziari". Prevede poi l'estensione di sgravi contributivi e fiscali in favore di cooperative sociali, aziende pubbliche o private, che organizzino attività produttive o servizi all'interno degli istituti penitenziari, impiegando persone detenute o internate[25]. In questo modo il legislatore fa un apprezzabile sforzo per rendere appetibile alle imprese esterne l'utilizzo della manodopera detenuta .
L'art. 1 comma I della legge, modifica l'art. 4 comma I L. n. 381/1991, amplia e ridisegna la nozione di soggetti svantaggiati: accanto ad invalidi fisici, psichici e sensoriali, agli ex degenti di istituti psichiatrici, ai soggetti al trattamento psichiatrico, ai tossicodipendenti, agli alcolisti, ai minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiari ed ai condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione dell'affidamento in prova al servizio sociale, dell'affidamento particolare per i tossicodipendenti, della detenzione domiciliare e della semilibertà, vengono inseriti nella categoria di persone svantaggiate anche gli ex degenti di ospedali psichiatrici giudiziari, le persone detenute o internate in istituti penitenziari, i condannati e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro all'esterno. Per quanto riguarda le agevolazioni fiscali, fermo restando l'azzeramento dei contributi dovuti alle cooperative sociali sulle retribuzioni dei soggetti svantaggiati, viene introdotto un sistema ad aliquote ridotte, in misura percentuale da definire con cadenza biennale dal Ministro di giustizia di concerto con il Ministro del Tesoro, del bilancio e della programmazione economica. Tali sgravi contributivi si applicano inoltre, per un periodo di sei mesi successivo alla cessazione dello stato di detenzione[27]. Il legislatore ha cercato di intervenire per alleviare la debolezza intrinseca nel lavoro dei detenuti rispetto a quello libero, consentendo e favorendo la privatizzazione, non solo delle attività produttive in senso proprio, bensì anche dei servizi nei penitenziari, tradizionalmente attribuiti alla diretta gestione da parte dell'amministrazione penitenziaria. Lo strumento designato dal legislatore, per regolamentare i rapporti con gli operatori economici interessati a fornire a detenuti o internati opportunità di lavoro, è rappresentato dalle convenzioni. Attraverso l'inserimento di un nuovo XII comma nell'art. 20 L. n. 354/1975, viene previsto che le amministrazioni penitenziarie stipulino con soggetti pubblici o privati o cooperative sociali apposite convenzioni, relative all'oggetto e alle condizioni di svolgimento dell'attività lavorativa, alla formazione e al trattamento retributivo, senza oneri a carico della finanza pubblica (art. 5 L. n. 193/2000). Le modalità ed entità delle agevolazioni e degli sgravi fiscali, sono determinate annualmente, sulla base delle risorse finanziarie stanziate con apposito decreto del Ministro della Giustizia, in accordo con il Ministro del Tesoro, del bilancio e della programmazione economica e con il Ministro delle Finanze.
Il D.P.R. 30 giugno 2000 n. 230 dal titolo "Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà", approvato dopo un lungo e faticoso iter dal Consiglio dei Ministri, si prefigge di trattare la completa revisione delle norme di esecuzione della L. 26 luglio 1975 n. 354, resa necessaria dall'evoluzione delle strutture, delle disponibilità dell'amministrazione e delle mutate esigenze trattamentali, nell'ambito di un diverso quadro legislativo di riferimento.
Al centro dei principi direttivi è posto il trattamento. Esso si considera finalizzato a sostenere gli interessi umani, culturali e professionali degli imputati sottoposti a misure privative della libertà. Espressamente previsto dall'art. 29 del regolamento è il programma individualizzato di trattamento stilato dal direttore dell'istituto, con la collaborazione del personale e degli esperti che svolgono l'attività di osservazione della personalità del soggetto. Cercando di riorganizzare la legislazione vigente il legislatore ha inserito tutte le disposizioni in materia di risocializzazione e reinserimento, previste dalle normative esplicate in questo capitolo. Agli artt. 41, 42, 43, 44, 45 e 46 sono state introdotte le modalità di partecipazione ai corsi di istruzione e di formazione professionale, le finalità e i benefici concessi a coloro che svolgono un'attività formativa all'interno o all'esterno degli istituti penitenziari. Dall'art. 47 all'art. 57, sono riassunte le disposizioni in materia di lavoro interno ed esterno al carcere, le opportunità offerte dalla concessione delle misure alternative alla detenzione, quali la semilibertà e l'affidamento in prova ai servizi sociali. Si mette in evidenza come in materia di organizzazione del lavoro penitenziario, il nuovo regolamento percepisca l'impostazione della legge n. 296/1993, specificando le regole per l'organizzazione di lavorazioni penitenziarie gestite direttamente da imprenditori, pubblici o privati, o da cooperative sociali.
Estremamente rilevante appare l'art. 68 che legifera sulla partecipazione della comunità esterna all'azione rieducativa. Compito della direzione degli istituti è la promozione della partecipazione esterna, che si avvale dei contributi di privati cittadini e delle istituzioni o associazioni pubbliche o private, al fine di curare il coinvolgimento della comunità al reinserimento sociale dei condannati e degli internati. Questo passaggio sottolinea i notevoli passi in avanti fatti dall' "istituzione totale" carcere nel rapporto con l'esterno, che sembra aver recepito la necessità del prezioso apporto del volontariato, degli enti locali e dei cittadini, al fine di avviare un percorso di reinserimento sociale concreto, uscendo dall'autoreferenzialità, e dalla convinzione che esistano ricette infallibili di redenzione dei ristretti.
E' importante far conoscere anche alcuni interventi legislativi realizzati dagli enti locali al fine di offrire concrete opportunità lavorative a detenuti ed ex detenuti. La legge della Regione Piemonte 8 gennaio 1990 n. 1, cerca di dare delle possibilità lavorative a detenuti che possono accedere al lavoro esterno e alla semilibertà[28]. L'obiettivo configura la possibilità di utilizzare i condannati ammessi al lavoro extramurario, in progetti in materia di tutela dell'ambiente, presentati da Comuni e Comunità montane, e finanziati dalla Regione stessa. Non essendo ancora operativa la legge n. 193/2000 si è cercato di qualificare l'attività come prestata alle dipendenze dell'Amministrazione Penitenziaria, in modo da superare l'ostacolo costituito dall'interdizione legale dei condannati che impediva l'instaurazione di un rapporto diretto con l'ente pubblico. In questa stessa ottica si è mossa la Regione Lombardia con la stipulazione del Protocollo d'intesa con il Ministero della Giustizia 22 febbraio 1999, attraverso il quale si impegna ad assicurare uno stretto raccordo tra percorsi di formazione professionale, promossi a favore dei detenuti, degli ammessi alle misure alternative alla detenzione e delle persone dimesse, e le reali esigenze occupazionali del mercato del lavoro regionale. Gli enti firmatari si obbligano: ad avviare attività per informare detenuti, imprese e cooperative, sulle opportunità, servizi e agevolazioni per l'inserimento lavorativo, a coordinare ed incrementare le forme di mediazione (borse lavoro, abbattimento oneri finanziari) a favore delle imprese che assumono detenuti e dimessi, a rafforzare l'attuale rete dei Servizi di Inserimento Lavorativo.
Anche la Regione Veneto recentemente procede a rinnovare il Protocollo d'intesa con il Ministero di Grazia e Giustizia, siglato in data 29 luglio 1988, tenendo conto della mutata situazione carceraria. In data 8 aprile 2003, dopo le valutazioni del gruppo di lavoro per la revisione del Protocollo, si conviene sulla necessità di promuovere, tutelare ed educare alla salute i ristretti nei penitenziari del Veneto; di attivare percorsi di formazione, sia scolastica che professionale, per detenuti immigrati; di migliorare i servizi a sostegno di condannati e soggetti in misura alternativa alla detenzione nel percorso di reinserimento sociale; di coordinare le iniziative a sostegno dei soggetti in esecuzione penale esterna partendo dalla creazione di strutture adeguate all'utilizzo del tempo libero a disposizione dei soggetti, fino a favorire l'azione del Volontariato e degli organismi del Terzo settore volti al trattamento e all'informazione di condannati e degli ammessi alle misure alternative, promovendo attività socialmente utili.
Le regole minime per il trattamento dei detenuti allargate alla risoluzione 19 gennaio 1973 n.5 del Comitato dei Ministri d'Europa, riportano il testo delle Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners, approvato dal 1° Congresso delle Nazioni Unite per la prevenzione del delitto e il trattamento dei delinquenti nel 1955. Le fondamentali raccomandazioni che emergono da dette Regole Minime riguardano il profilo organizzativo e giuridico del lavoro carcerario, che deve modellarsi il più possibile su quello esistente nella società libera, nonché la sollecitazione a potenziare nel detenuto la capacità di lavoro e di guadagno autonomo, in una prospettiva di reinserimento nella società libera dopo la scarcerazione.
Ciccotti R. e Pittau F., Il lavoro in carcere. Aspetti giuridici e operativi, Milano, Franco Angeli, 1987.
"Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa".
Benedetti, Elementi di trattamento penitenziario con particolare riguardo al lavoro interno ed esterno, in Leg. Giust., 1988, p. 179.
Di Gennaro G., Bonomo M., Breda R., Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Padova, Giuffrè, 1976, p. 130.
"Regole Minime per il trattamento dei detenuti alla luce dei recenti progressi in campo penitenziario" in Rassegna di studi penitenziari, 1970 pp. 12-13
Com' era previsto dall'art. 21 della legge, intitolato "Modalità del lavoro", ad oggi interamente sostituito dalla legge n. 663/1986.
Ministero di Grazia e Giustizia, Direzione generale istituti di prevenzione e pena, circolare n. 2163/4618 del 24 aprile 1974, in Rassegna di studi penitenziari, 1974, p. 419.
Fassone E., in Grevi V. (a cura di), Alternative alla detenzione e riforma carceraria, Bologna, Franco Angeli, 1982, p. 167.
Pavarini M., La disciplina del lavoro dei detenuti, in Grevi V. (a cura di), L'ordinamento penitenziario tra riforma ed emergenza, Padova, 1994, p. 216.
Monteleone, in AA.VV., Commenti articolo per articolo. Riforma penitenziaria, in Leg. Penit., 1987, p.125.
Grevi, Giostra, Della Casa, Ordinamento penitenziario. Commento articolo per articolo, Padova, 1997, p. 215.
Per un maggior approfondimento si veda Frangeamore, Lo sviluppo del lavoro penitenziario: prodotto e prezzo, in Dir. Pen. e Pr., 1999, p. 780 e ss.
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