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Perdita della liberta e ipotesi di reinserimento.
In questo paragrafo vorrei affrontare la questione della detenzione da una prospettiva più ampia, concentrandomi sugli effetti descritti nei precedenti paragrafi e riassumendone in parte i passi più significativi cercherò di mettere in luce gli effetti complessivi che questa punizione implica: partendo da questo accostamento alla realtà complessiva della reclusione vorrei proporre una riflessione sulle conseguenze che, dal punto di vista degli/le ex detenuti/e, questa sanzione comporta al momento del suo termine, al momento dunque nel quale il detenuto espiata la condanna si appresta ad essere reinserito nel mondo sociale dal quale era stato isolato.
Come ho più volte sottolineato precedentemente, durante il periodo trascorso all'interno del carcere l'individuo recluso entra a contatto con un modello sociale che, appoggiando le sue tecniche sul meccanismo burocratico, sugli intenti custodiali implementati tramite la continua sorveglianza e attraverso regole restrittive e sul confronto stigmatizzante instaurato tra il corpo di custodia e la popolazione detenuta, contribuisce a sostenere un'immagine degradante della persona condannata; questa nuova immagine con la quale il/la detenuto/a è costretto a rapportarsi provoca un conflitto con l'autorappresentazione del detenuto/a in termini di persona degna di rispetto nonostante l'ingiunzione della sanzione detentiva.
A questa constatazione generale sugli effetti del percorso detentivo vengono ad aggiungersi gli effetti di mortificazione innescati dal sistema penitenziario, in particolare le conseguenze legate alla perdita della libertà come momento nel quale il detenuto esperisce una relativa deprivazione delle sue potenzialità come essere umano, dalla mancanza di autonomia decisionale, al sentimento di precarietà e insicurezza causato dai rapporti conflittuali che vigono nell'istituto, alla deprivazione nel senso più materiale del termine, come esclusione della possibilità di usufruire di certi servizi e di possedere un numero limitato di beni.
L'azione congiunta di questi meccanismi non si riduce al solo periodo di detenzione, infatti si può affermare che in una certa misura (declinata in base alla durata del periodo trascorso in istituto) gli effetti descritti continuino la loro azione destabilizzante anche dopo il rilascio, seguendo gli/le ex detenuti/e nei loro percorsi individuali di reinserimento. Questi effetti vengono incrementati dal fatto che il periodo post detentivo è spesso caratterizzato da un ritorno dell'ex detenuto presso l'ambiente dal quale proveniva, spesso cioè la situazione che il/la ex detenuto/a deve affrontare al momento del reinserimento è la medesima condizione di marginalità che si era lasciato alle spalle. Per ovvi motivi ciò che resta dell'esperienza carceraria dentro le persone che hanno vissuto la detenzione non può essere facilmente descritto, in base comunque al materiale raccolto dalle interviste posso avanzare un' ipotesi riguardo alle conseguenze individuali della reclusione. A mio parere, l'esperienza detentiva influenza la vita futura del detenuto principalmente in due modi: da un punto di vista personale, la persona la cui concezione di sé è stata messa ripetutamente alla prova attraverso i meccanismi di potere che regolano l'esistenza del detenuto, manifesta un alto grado di diffidenza nei confronti delle relazioni interpersonali. Questa diffidenza è prodotto del modello relazionale che la cornice istituzionale sostiene implicitamente ed esplicitamente; da un punto di vista più materiale invece, le difficoltà che un/una ex detenuto/a incontra al momento della liberazione sono da ricondurre al principio di stigma sociale implicato nel avere scontato la sanzione detentiva.
Per corroborare quest'analisi del periodo post detentivo, vorrei confrontare alcuni spunti suggeritimi dalle persone che ho intervistato: le loro parole lasciano pochi dubbi in merito alla realtà vissuta ed alla realtà che si prospetta al momento del rilascio; sebbene questi resoconti dunque, rappresentino un punto di vista parziale rispetto alla totalità del discorso penale, la loro importanza si basa nell'essere resoconti dei primi attori delle circostanze descritte; come primo esempio vorrei citare le parole di Angela ( intervista n. 9), affido alla loro eloquenza il compito di inquadrare con efficacia le problematiche che la detenzione instaura nel proseguire la vita dopo la liberazione Il carcere è la rovina di una persona, fa trascorre e perdere parte di una vita rinchiusa. Ti rimane un senso di morte, di paura, come se fossi stata morta per un periodo. Come una paranoia che ti rimane addosso, la paura di essere giudicata dalle persone che non sanno in realtà quello che hai passato". Come ho detto precedentemente ciò che un individuo ha tratto da un'esperienza estrema come la detenzione non può essere compreso facilmente né tanto meno descritto, questa incomunicabilità dell'esperienza diventa una discriminante profonda fra chi l'ha vissuta e non la può descrivere e chi non avendola vissuta non la può comprendere; la sensazione che Angela descrive è una sensazione comune alla maggior parte delle persone che ho intervistato, il senso di paranoia, la paura del giudizio sono prodotti inevitabili della detenzione intercorsa, la paranoia può essere ricondotta alla sensazione di precarietà vissuta, mentre la paura del giudizio può essere ricondotta ai meccanismi di stigma sociale che come un'impronta indelebile segnano il futuro degli/le ex carcerati/e. Il concetto di stigma sociale, percepito come un marchio dagli/le ex detenuti/e è stato elaborato anche da Clod ( intervista n. 6) e da Laura (intervista n. 1); entrambi infatti hanno riscontrato al momento del rilascio un atteggiamento ambiguo nei loro confronti e soprattutto per quel che riguarda la ricerca di un impiego questo stigma sembra agire come una forza disincentivante all'assunzione. Nelle parole di Clod: "Ti rimane come un marchio addosso e se non vuoi più sentirtelo devi emigrare, se vuoi rimanere devi avere molta serenità e accettare l'ignoranza delle persone e delle istituzioni" e nelle parole di Laura: "nessuno ti da mai più lavoro, ti senti un marchio sulla pelle e se ti danno lavoro sei pienamente ricattabile", "ti rimane un marchio addosso, ti senti un marchio sulla pelle,", sono frasi che aiutano a comprendere parte dell'ambiguità con le quali le persone sono solite accogliere gli/ le ex detenuti/ e lo stigma sembra risiedere effettivamente nella concezione che entrambi hanno di se stessi. Se questo meccanismo era vissuto in maniera conflittuale durante l'esperienza nel carcere ed era fonte di tensione nel senso che i detenuti non si equiparavano all'immagine che di loro l'istituto forniva, al momento della liberazione questa stessa immagine sembra essere diventata una parte inscindibile di queste persone, il marchio è sentito addosso, sulla pelle, il rilascio sembra dunque in un certo senso aver portato a termine i processi cominciati durante la detenzione. Al momento della liberazione ha conclusione dunque un ciclo di significati iniziato al momento dell'ingresso in carcere: le difficoltà che gli/ le ex detenuti/le incontrano al momento del reinserimento lavorativo palesano il livello più grave di questo handicap: la comunità non accetta gli ex detenuti, ed essi trovano l'impossibilità di proseguire una vita secondo i canoni della società che li ha condannati e della quale hanno scontato la condanna; a conferma di questa difficoltà cito le parole di Claudio M., 62 anni, (intervista n. 1), detenuto presso la Casa circondariale di Genova Marassi, presso la Casa circondariale di la Spezia, presso la Casa di reclusione di Saluzzo e presso la sezione penale della Casa circondariale di Torino, le Vallette, per la durata di 8 anni e 7 mesi, con un totale di 3125 giorni di detenzione, e di Carmen ( intervista n. 7): "I problemi ci sono se quando esci non riesci a trovarti un lavoro, è questa la vera condizione che ti porti dietro, il problema è di riagganciare e continuare con la vita, a parte aver perso la libertà la vera difficoltà è quando sei fuori, un'altra galera si ha inizio" Claudio conferma che, come un meccanismo circolare, la prigione sussegue a se stessa e le difficoltà nel ricongiungersi con la società sono descritte da C. come costituire un'altra " galera". Carmen invece tiene a sottolineare un altro aspetto del reinserimento: "In tutti i campi, iniziando dal lavoro, se non ti aiutano gli assistenti sociali con le cooperative, dove paga la regione e ti fai un mazzo tanto per 300 euro al mese, hanno interesse ad assumerti perché lavori come uno normale, ma non ti pagano come gli altri", i lavori offerti agli/alle ex detenuti/ e sono spesso offerti da cooperative sociali che forniscono un impiego per persone socialmente deboli che non potrebbero disporre di un'altra situazione. Essendo spesso in una condizione di emergenza economica ed essendo quindi vincolati a questi canali lavorativi, gli/ le ex detenuti/ e devono accettare condizioni retributive ampiamente non soddisfacenti.
La dimensione lavorativa, fondamentale per essere riammessi a pieno titolo nella società, sembra un traguardo difficile da raggiungere, l'esperienza diventa ancora più difficile considerando la situazione dei detenuti stranieri ai quali, a causa del reato commesso, non viene rinnovata la documentazione per risiedere e lavorare nel paese: nelle parole di Cinzia (intervista n. 6) infatti questa situazione è descritta consapevolmente: " se sei straniero vai dentro e perdi i documenti, dovrebbe poter essere separato il reato dal potere avere i documenti, anche perché quando esci non puoi neanche trovarti un lavoro come tutti gli altri, non hai più la possibilità di vivere onestamente". Ugualmente consapevole è Elizabeth, 34 anni, ( intervista n. 10), detenuta presso La Casa circondariale di Torino, le Vallette, presso la C.C. di Vercelli, presso la C.C. di Livorno, presso la C.C. di Empoli e presso la C.C. di Firenze, Sollicciano, per un totale di 2820 giorni di detenzione, che afferma: "Adesso con l'indulto, senza documenti non ho la possibilità di trovare un lavoro dignitoso, sono sola, se invece rimanevo dentro e venivo seguita dai Servizi Sociali oggi come oggi avrei un lavoro, casa e sarei in attesa del permesso di soggiorno". Per quanto riguarda l'effetto dello stigma al momento della liberazione del detenuto straniero è possibile individuare un meccanismo circolare che agisce sull'immagine del cittadino straniero prodotta dalla nostra società: a differenza di quel che succede agli ex detenuti italiani, egli non subisce solo ed esclusivamente l'effetto stigmatizzante dovuto alla sanzione detentiva, allo straniero viene tout court negata la possibilità di un reinserimento; un meccanismo circolare agisce dunque a livello normativo inscrivendo lo straniero, sin dal suo arrivo in Italia, in un perenne circuito dimostrativo, lo stigma sociale è conferito in primis dalla sua alterità, al suo essere differente rispetto al mondo che lo accoglie e solo in un secondo momento è integrata dallo stigma della detenzione.
La possibilità che egli ha di risiedere sul suolo italiano è legata al possesso di un lavoro e di un domicilio che rispetti dei canoni minimi di vivibilità, egli deve attestare di possedere dei " requisiti minimi" per poter soggiornare, nel documento di soggiorno che l'autorità italiana rilascia sono certificati i motivi e la durata del suo soggiorno; la sua permanenza in Italia può essere dunque definita precaria dal momento che egli deve rinnovare tale permesso ogni 9 mesi se lavora stagionalmente ed ogni anno se ha un lavoro subordinato a tempo determinato, proprio la temporaneità di questi permessi può suggerire come lo straniero sia considerato come un " soggetto in prova" , la cui permanenza dipende dal modo in cui si protrae. La situazione dello straniero è strettamente connessa al suo comportamento, quando questo comportamento è sanzionato ed intercorre una pena detentiva, diventa per lui impossibile ricostruire un'esistenza all'interno dei canoni legali; privato della documentazione necessaria per tentare una reintegrazione nella società egli/ella è relegato/a forzatamente nel mondo degli esclusi, quando la sua permanenza diventa stabile e non modificabile all'interno di questo mondo sommerso il meccanismo circolare che ho descritto ha terminato il suo corso.
Per terminare questo paragrafo conclusivo vorrei mettere in evidenza la testimonianza di quattro persone che hanno vissuto a vario titolo l'esperienza detentiva. Queste sono le testimonianze che ho raccolto in merito alla loro esperienza del periodo post detentivo: Shola ( intervista n. 4): " Cerco di vivere come ero prima di quest'esperienza. Sono confusa, perché non so più cosa la gente vuole da me, non so più come comunicare, non so nemmeno più come ci si diverte, mi sembra di essere sempre al centro dell'attenzione, sono particolare, diversa, non mi sento più libera di parlare, le persone sono diverse, non mi fido più"; Stacy ( intervista n. 8): " sarà difficile avere fiducia nelle persone"; Cris ( intervista n.4): " Adesso purtroppo cerco di guardarmi anche dagli amici, non mi fido più. Sto attento a non trovarmi in situazioni che potrebbero essermi d'impiccio, non ho più tranquillità nel vivere". E Fabian: " Rimani per tutta la vita traumatizzato, frastornato, non si può dimenticare, se riesci la metti da parte, perché la vita va avanti. Al danno psicologico si somma un danno materiale, perché nonostante si abbia espiato la propria condanna quando esci e sei senza documenti ti trovi sempre tra la parete e le sbarre". La sofferenza della detenzione rimane inscritta nel futuro delle persone che l'hanno vissuta, un senso pervasivo di diffidenza verso il prossimo ne accompagna le sorti: la punizione espiata continua a seguire i propri condannati, la " galera" resasi eterea, senza più sbarre né controlli, diventa un potere discriminante all'interno dei meccanismo di inclusione ed esclusione sociale.
Conclusioni
Dall'analisi delle interviste emerge - nelle prospettive degli accounts provenienti dal "vissuto" - l'enfasi circa una profonda contraddizione che pervade il sistema penitenziario: la punizione avrebbe nel nostro ordinamento anche l'obiettivo "riabilitativo" di condurre il detenuto verso un percorso introspettivo di autocritica; egli, durante l'isolamento dal contesto nel quale ha sviluppato le proprie attitudini, dovrebbe raggiungere un ravvedimento morale, condannare le proprie azioni ed inserirsi nel contesto morale della società che lo punisce, proprio per mostrargli le opportunità di orientarsi verso un percorso di reintegrazione morale, a cui il condannato potrà partecipare nei termini propri e non più passando attraverso i comportamenti devianti che ne avevano caratterizzato la vita prima dell'ingiunzione della carcerazione. Il quadro che emerge dagli accounts da me raccolti mostra invece la tendenza ad esperire la situazione presentata come diametralmente opposta: i detenuti rilevano che la pena risulta spesso sproporzionata rispetto agli errori compiuti, e quindi non tendono a ricongiungersi ad una istituzione statale che avvertono come repressiva, bensì rischiano un ulteriore e più radicale distacco: una distanza raccontata con lucidità, quasi a sottolineare la disillusione di chi, avendo ormai subito la realtà detentiva, non ha bisogno di sentire sprecare più parole a tal riguardo.
Sembrerebbe dunque nelle parole degli intervistati che, invece di fornire esempi di interazione civile e responsabile, utili per il futuro di cittadini che, pur avendo sbagliato, possono tornare ad inserirsi a pieno titolo nella società, la prassi della pena detentiva finisce per fallire nel suo intento di riabilitazione, lasciandosi percepire più come "carnefice" che non come organismo funzionale allo sviluppo e al cambiamento. Nell'ultimo capitolo ho cercato di sottolineare come la detenzione comporti una notevole mole di sofferenza, delle quali la privazione della libertà rappresenta solo l'aspetto più conosciuto. Gli aspetti sottolineati, la perdita delle relazioni affettive, la mancanza di beni e servizi, la perdita di sicurezza personale e la perdita dell'autonomia individuale, devono essere interpretati nella loro concomitanza nella pena detentiva, perché la loro incidenza in termini complessivi contribuisce a rendere la detenzione un meccanismo strutturalmente degradante, che, a causa delle pratiche sulle quali si fondamenta, tende a compromettere l'istanza riabilitativa della quale dovrebbe essere portatrice.
Come ho ribadito più volte, la detenzione rappresenta per la società contemporanea la punizione generale da attribuire ad una molteplicità di reati di diversa natura e di diversa gravità; se questa modalità punitiva dovrà essere ancora assunta in futuro come la pratica principale del nostro ordinamento penale, diventa dunque di necessaria importanza al fine di una sua migliore comprensione l'attivare dei processi comunicativi che dal sistema penitenziario si sviluppino verso la società civile, con lo scopo di rendere la totalità del corpo sociale consapevole delle pratiche punitive che sottoscrive.
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