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Onore e reputazione
Anche i beni dell'onore e della reputazione, al pari della riservatezza e in genere dei diritti della personalità, sono particolarmente esposti alle aggressioni che possono derivare dall'esercizio del diritto di cronaca, come confermano negli ultimi anni le numerose cause di ingiuria e diffamazione promosse contro i mezzi di informazione.
L'onore attiene alla sfera psichica del soggetto e consiste nell'opinione che egli ha del proprio valore, mentre la reputazione, anche detta onore in senso "oggettivo", individua la stima che delle qualità della persona ha l'ambiente sociale nel quale essa vive e opera. In realtà il concetto di onore non può essere definito una volta per tutte; se infatti è oggetto di una tutela costante ed uguale per chiunque, in quanto valore intrinseco dell'uomo, al di sopra di una soglia minima di dignità ognuno é titolare di un proprio e particolare diritto all'onore la cui dimensione varia in considerazione della sua notorietà, del grado di stima di cui godeva prima dell'illecito, della sua posizione sociale ecc.
I diritti soggettivi dell'onore e della reputazione trovano riscontro nel combinato disposto degli artt. 594 e 595 c.p., che prevedono e sanzionano i reati di ingiuria e diffamazione e dell'art. 185 c.p. che pone in capo al soggetto leso un diritto al risarcimento, non solo, ma nonostante la Costituzione non li menzioni espressamente entrambi sono stati espressamente ascritti, dalla Corte Costituzionale, alla categoria dei diritti inviolabili dell'uomo consacrati nell'art 2 Cost. Ciò si desume, implicitamente, sia dalle norme costituzionali che garantiscono all'uomo la libertà di esplicare la propria personalità come gli artt. 13, 19, 33 ecc., sia dalle numerose dichiarazioni internazionali dei diritti umani cui l'Italia ha aderito: Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, Convenzione Europea sui diritti dell'uomo e le libertà fondamentali, Patto internazionale sui diritti civili e politici, i quali prevedono espressamente il diritto alla reputazione. In tal modo risulta confermato come l'art. 2 Cost. nel garantire "i diritti inviolabili del singolo" abbia inteso proclamare la centralità nell'ordinamento della persona umana e dunque tutelarla in tutti i suoi attributi, compreso l'onore.
Non tanto l'art. 2 della Cost., come sostenuto da alcuni autori, quanto il principio della pari dignità sociale proclamata dall'art. 3 costituisce, secondo altri, il fondamento normativo del diritto all'onore. L'art. 3 Cost. nel proclamare la "pari dignità sociale dei cittadini" pretenderebbe, pertanto, che ciascun membro della società si astenga dal compiere atti o manifestare valutazioni negative sulle persone. Poiché inoltre la dignità tutelata è "pari" in tutti gli uomini, vietate sarebbero solo le manifestazioni contrarie a ciò che in un dato momento storico il comune sentire considera essenziale alla dignità di ogni uomo, ma non il mancato riconoscimento o la negazione delle qualità o dei meriti particolari del singolo
Come accennato sopra, forse più che per altri aspetti della personalità, onore e reputazione hanno visto in quest'ultimo secolo le principali e più ricorrenti lesioni apportate dai mezzi di comunicazione di massa, in particolare dalla stampa, i quali invocano a propria difesa l'esercizio del diritto di cronaca costituzionalmente garantito. Da ciò si comprende quanto sia importante il riconoscimento all'onore del rango di diritto inviolabile garantito dalla Costituzione; la legge penale non può, infatti, di per sé porre limiti di sorta: può porli solo quando trae la propria giustificazione da un limite costituzionale espressamente previsto e prevalente sulla libertà di pensiero. Una volta riconosciuto all'onore il rango di diritto costituzionalmente garantito, si giustifica, in ipotesi di conflitto tra il diritto di cronaca e i beni dell'onore e della reputazione il bilanciamento degli opposti interessi; bilanciamento operato dal giudice attraverso l'applicazione dei criteri giurisprudenziali della utilità sociale dell'informazione, verità dei fatti narrati e continenza nella forma espositiva, i quali operano come scriminanti nei confronti della cronaca lesiva dell'onore altrui.
La Corte Costituzionale ha ritenuto legittima la cronaca anche nel caso di un contenuto ingiurioso o diffamatorio, riconoscendole, così, una tutela privilegiata rispetto alla generale libertà di manifestazione del pensiero. La strada percorsa dalla Corte é stata quella dell'art. 51 del c.p., della esimente dell'esercizio del diritto. Dall'orientamento della Corte si desume che il colpevole del delitto di diffamazione é ammesso, contrariamente a quanto previsto dall'art. 596 comma 1 c.p., che non ammette la prova della verità del fatto attribuito alla persona offesa, di invocare l'esimente prevista dall'art. 51 c.p., il quale esclude la punibilità in quanto il fatto imputato costituisca esercizio di un diritto . Pertanto il giornalista che nella esplicazione del diritto di informazione, ad esso garantito dall'art. 21 Cost, divulghi col mezzo della stampa notizie, fatti o circostanze che siano ritenute lesive dell'onore o della reputazione altrui, potrà invocare a sua discolpa l'esimente dell'esercizio del diritto di cui all'art. 21 Cost., sempreché però la divulgazione rimanga contenuta nel rispetto dei limiti che circoscrivono l'esplicazione dell'attività informativa; in particolare, sempreché risulti provata la verità dei fatti esposti.
Tuttavia, ripercorrendo l'iter logico seguito dal giudice in alcuni casi di diffamazione a mezzo stampa o televisione, emerge, in relazione alla reputazione più che ad altri diritti della personalità, come il giudice sia investito di una ampia discrezionalità nel verificare la sussistenza dei requisiti idonei a scriminare l'esercizio del diritto di cronaca. Questo non solo a causa di una certa indeterminatezza dei criteri stessi di cui il giudice è chiamato a fare applicazione, ma anche in quanto il contenuto della reputazione é indefinibile con precisione e può essere chiarito soltanto con parametri valutativi vaghi propri del comune sentire e del costume sociale del tempo.
1 Il danno da mass-media.
L'aumentare costante e progressivo delle domande di giustizia a seguito di lamentate lesioni dei diritti della personalità da parte dei mezzi di informazione, che sempre più massicciamente sono in grado di influire sulla vita di relazione dei singoli, ha ridestato, in dottrina e in giurisprudenza, l'attenzione verso gli strumenti di tutela della persona.
La tutela dell'onore e della reputazione, in passato garantita essenzialmente dalle sanzioni della reclusione e della multa , si é dimostrata a lungo andare incapace di assicurare a tali beni una effettiva protezione, sia perché il numero delle condanne era, per svariate ragioni, ridottissimo rispetto alla gran mole di querele presentate, sia perché le pene concretamente irrogate erano insignificanti: qualche milione di multa, pochissimi mesi di reclusione, comunque sempre sospesi, a fronte delle cifre esose lucrate dalle imprese giornalistiche o televisive convenute .
Ora proprio in relazione alla tutela dell'onore e della reputazione se il solo riferimento alle norme penali sull'ingiuria e sulla diffamazione si poteva spiegare in un quadro costituzionale come quello Albertino indifferente alla problematica dei diritti della persona umana, non é sufficiente nell'attuale ordinamento nel quale questi ultimi hanno acquisito una propria autonomia che gli deriva dalla normativa costituzionale e in particolare dagli artt. 2 e 3 della Costituzione
Dunque fra illecito civile e reato non vi è coincidenza, e mentre ingiuria e diffamazione sono, ex art. 185 c.p. , sempre fonte di responsabilità civile tanto che al giudizio penale che avrà accertato l'an debeatur seguirà, salvo che il giudice penale non provveda egli stesso a liquidare il danno, un giudizio civile sul quantum, la tutela civile dell'onore e della reputazione può prescinde dall'accertamento rispettivamente dei reati di ingiuria e diffamazione. Dal punto di vista procedurale poi l'azione civile risarcitoria é stata facilitata dalla ormai consolidata facoltà attribuita al giudice di accertare l'esistenza del reato di diffamazione in via incidentale, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale . Danno quest'ultimo che nell'ipotesi di lesione della reputazione sussiste praticamente sempre e consiste nelle ripercussioni sfavorevoli sul sentimento della propria personalità che derivano dalla disistima che colpisce l'individuo nell'ambiente sociale in cui vive e opera
Altrettanto rilevante é l'evoluzione giurisprudenziale dei criteri di quantificazione del danno non patrimoniale che ha portato alla concessione di somme anche ingenti, soprattutto se confrontate con quelle modestissime liquidate in passato. Fra questi pressoché sempre ricorrente é il criterio della "gravità del fatto lesivo" che fa riferimento sia all'addebito particolarmente infamante sia alla lesione prodottasi a seguito della attribuzione diffamatoria. Esso assume una particolare rilevanza nelle ipotesi in cui soggetto passivo dell'illecito sia una persona che, o per l'appartenenza ad una particolare categoria professionale o per il ruolo istituzionale, di prestigio, o di responsabilità che svolge nell'ambito della società, può risentire particolarmente degli effetti pregiudizievoli della notizia diffamatoria. Così nei casi in cui la notizia coinvolga un magistrato o un uomo politico . Inoltre la gravità del fatto può anche discendere dalla reiterata pubblicazione della notizia diffamatoria.
Come il precedente anche il criterio della "diffusione dell'addebito diffamatorio" é largamente utilizzato; esso é valutato sia sotto il profilo quantitativo: il numero delle copie vendute dal periodico e quindi dei presumibili lettori della pubblicazione, che sotto il profilo qualitativo. Sotto questo secondo punto di vista è necessario osservare che la cronaca ha la funzione di offrire ai fruitori dell'informazione gli elementi di valutazione su fatti vicende e personaggi, esercitando inevitabilmente sugli stessi una certa influenza, fino ad indurli, per es. nell'ipotesi in cui l'informazione riguardi un uomo politico, a negare il proprio consenso a questi laddove in assenza di addebiti che ne mettono in dubbio la dirittura morale o la coerenza ideologica, gli avrebbero accordato il proprio contributo. Pertanto se la reputazione consiste nel giudizio che terzi danno di un soggetto, maggiore incidenza negativa avrà, nella sfera morale del soggetto diffamato, la consapevolezza che la notizia diffamatoria ha avuto ampia diffusione in un ambiente socio culturale omogeneo rispetto a quello in cui vive o opera la vittima della diffamazione
Sotto il profilo quantitativo rileva in particolare la diversa diffusione territoriale del periodico, a seconda cioè che lo stesso sia diffuso a livello nazionale ovvero solo in ambito locale. Di regola infatti ridotta sarà la potenzialità lesiva di una notizia diffamatoria apparsa su un giornale locale o di scarsa diffusione territoriale rispetto a quella pubblicata su un periodico nazionale . Tuttavia questa distinzione non rileva più qualora l'articolo diffamatorio contenuto nel giornale locale si riferisca a vicende o fatti noti soltanto nell'ambiente in cui si pubblica il periodico in quanto in tal caso può avere effetti pregiudizievoli uguali o addirittura maggiori dell'articolo diffamatorio pubblicato su un periodico a diffusione nazionale.
Il criterio della "modalità di presentazione della notizia lesiva", dà invece ampio risalto alla circostanza che la notizia diffamatoria sia stata presentata al pubblico in forme eclatanti per collocazione, titolo o aggettivazione, in sostanza con modalità che ne amplificano la portata lesiva
Anche la "autorevolezza della casa editrice" e "il prestigio dell'autore" sono fattori capaci di incidere sulla portata lesiva di una notizia diffamatoria amplificandola in quanto in grado di conferirle maggiore credito tra il pubblico. Il criterio del prestigio dell'autore é applicabile anche in ambito più strettamente giornalistico; non è irrilevante infatti che l'autore dell'addebito diffamatorio sia un giornalista poco noto o poco autorevole ovvero una prestigiosa "firma" del giornalismo. Con la conseguenza, in quest'ultimo caso, che la notizia diffamatoria potrebbe produrre effetti pregiudizievoli ulteriori, o per il maggior credito solitamente attribuito ad un autorevole giornalista, o per la maggior diffusione che un articolo di prestigiosa provenienza incontra.
Accanto ai rimedi pecuniari va segnalato quello in forma specifica costituito dalla pubblicazione della sentenza di condanna, che può essere disposta a richiesta dell'offeso ex art 186 del c.p., ha però una efficacia riparatrice assai limitata in quanto l'intervento si realizza solitamente ad una grande distanza di tempo dall'illecito.
Funzione riparatrice ha anche la rettifica , essa consiste nella correzione, da attuarsi secondo le modalità di legge, delle notizie errate diffuse. Costituisce oggetto di un diritto soggettivo ed è finalizzata ad attenuare gli effetti lesivi dell'informazione originariamente diffusa
Nel caso poi di diffamazione commessa col mezzo della stampa, la persona offesa può chiedere, oltre al risarcimento dei danni, una somma a titolo di riparazione, la quale sarà determinata in relazione alla gravità dell'offesa e alla diffusione dello stampato . In quanto di "natura civilistica" la riparazione pecuniaria é concedibile anche dal giudice civile ma si configura, quanto agli effetti, pur sempre come una sanzione "perché diretta non a risarcire un danno ma a dare afflizione al danneggiante"
Infine la reintegrazione in forma specifica dell'interesse morale può realizzarsi anche con la pubblicazione della sentenza civile di condanna del responsabile. Tale istituto, previsto nell'art. 120 c.p.c., è apparso particolarmente idoneo a riparare il danno non patrimoniale arrecato alla sfera della personalità morale del soggetto, in quanto, per le sue caratteristiche, si presta a restituire al soggetto leso la reputazione, la dignità, il decoro lesi dall'informazione diffamatoria. Tale rimedio attua un modo di riparazione del danno assolutamente distinto dal risarcimento, con il quale ci si riferisce alla prestazione del danaro in surrogazione di una utilità compromessa come equivalente di essa così da restaurarla economicamente. Tanto che ove si conceda la pubblicazione della sentenza di condanna, questa non incide sulla valutazione del quantum del danno, il quale pertanto nella sua entità rimane del tutto indipendente dalla concessione dell'istituto in parola.
Cfr. Zeno Zencovich V., Onore e reputazione in Digesto delle discipline privatistiche 1995. Mentre per Grisolia G. Libertà di manifestazione del pensiero e tutela penale dell'onore e della riservatezza CEDAM 1994 e Liotta M. Onore in Enciclopedia del diritto, se l'onore dovesse concepirsi come il sentimento che la persona ha di sé verrebbe meno ogni possibilità di ancorarlo ad una valutazione oggettiva; la sussistenza o meno della violazione dipenderebbe dal metro di valutazione del soggetto interessato, dalla sua sensibilità. Inoltre rimarrebbero privi di tutela quei soggetti, come i minori e gli infermi di mente, che non fossero in grado di percepire il significato lesivo delle espressioni ingiuriose loro rivolte. Il bene leso sia nell'ingiuria, come anche nella diffamazione, é dunque non tanto l'onore così inteso ma l'opinione che del soggetto ha la comunità di cui fa parte. In senso diverso Zaccaria R., Materiali per un corso sulla libertà di informazione e di comunicazione, il quale ribadisce come i suddetti inconvenienti si rivelerebbero inesistenti se solo si facesse riferimento alla figura del reato di pericolo. In tal modo il criterio di valutazione della violazione dell'onore, lungi dal fare riferimento alla percezione dell'offesa da parte del soggetto passivo verrebbe affidato al giudice che si avvarrebbe del comune sentire.
Vd. in tal senso Corte Cost. sent. 13 aprile 1973, n. 38, in Giur. cost.; sent. 8 luglio 1975, n. 188 in Giur. cost. 1975.
Sull'art. 2 Cost. come fondamento del bene dell'onore vd. Zeno Zencovich V., Onore e reputazione nel sistema del diritto civile Napoli Jovene 1985, Zaccaria R., op. ult. cit. e Liotta M., Onore in Enciclopedia del diritto.
Vd. in tal senso Esposito C., Libertà di manifestazione del pensiero nell'ordinamento italiano Milano Giuffré 1958. Contra Grisolia op. ult. cit. per il quale non solo tale interpretazione porterebbe a considerare sempre illecito l'esercizio del diritto di cronaca quando comporti una offesa della dignità, risultando addirittura irrilevante la verità dei fatti addebitati, ma se si legge l'art. 3 Cost. raccordando la prima parte "tutti i cittadini hanno pari dignità sociale" con la seconda "e sono uguali difronte alla legge" emerge con chiarezza che il significato da attribuire al termine "dignità" non è quello di "onore"ma piuttosto che l'espressione "pari dignità sociale" è utilizzata come sinonimo di uguaglianza formale difronte alla legge.
Trattasi dei criteri elaborati dalla Corte di Cassazione con la sentenza 18 ottobre 1984 n.5259 esaminata nel par. 4 cap I.
Sintomatico un caso giudiziario in cui i giudici d'appello rovesciando il precedente orientamento del pretore e del tribunale hanno affermato la piena liceità della trasmissione televisiva nella quale si ricostruiva una vicenda realmente accaduta. Si trattò dell'omicidio di un noto calciatore da parte dei ricorrenti, i coniugi Tabocchini, nel corso di una finta rapina avvenuta nella loro gioielleria. Vicenda che si era conclusa con l'assoluzione di questi ultimi con formula piena, essendogli stata riconosciuta la causa di giustificazione della legittima difesa putativa.
Il requisito dell'interesse sociale alla conoscenza del fatto è riscontrato dalla Corte "nell'intento di mettere in risalto il clima di violenza esistente all'epoca dei fatti nel Paese e l'esaltazione del valore del danaro diffusa in tutti gli strati sociali in danno anche del rispetto della vita umana".
Il protagonista della vicenda non rileva pertanto secondo la Corte come singolo ma come esempio di una cultura ispirata alla violenza come mezzo per mantenere il denaro pur sacrificando altri e più elevati valori.
La Corte rigetta la domanda di inibitoria e distruzione dello sceneggiato proposta dal ricorrente in quanto ritiene inoltre la descrizione fattane "perfettamente coerente, secondo un razionale e critico modo di valutazione, con le azioni compiute dallo stesso".
Quanto al requisito della "continenza formale" o oggettiva inoffensività del linguaggio, se ne é ravvisata la sussistenza in quanto pur presentandosi l'autore dell'omicidio come attaccato ai suoi averi e al denaro, tale rappresentazione "non trasmoda nella denigrazione volgare" ed è funzionale a tutto l'impianto del filmato e al relativo scopo didattico.
Il tribunale, confermando la pronuncia della pretura aveva invece accolto la richiesta di inibitoria della trasmissione ex art. 700 c.p.c., rilevando come la rappresentazione del protagonista appaia lesiva del suo onore a causa della mancata osservanza degli obblighi di verità e imparzialità, necessari per il corretto esercizio del diritto di cronaca".
Sull'inquadramento dei beni dell'onore e della reputazione nell'art. 3 Cost. e nei "diritti inviolabili dell'uomo" riconosciuti e garantiti dall'art. 2 Cost. vd par 7 cap. I.
Lart. 185 c.p. al secondo comma prevede appunto che "ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale e non patrimoniale obbliga al risarcimento il colpevole."
Dall'art. 2059 del c.c. si desume appunto che il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge, fra i quali rientra anche quello in cui il fatto costituisca reato.
Vd. Tribunale di Genova 24 ottobre 1986, in Dir. inf. 1987 p. 239 laddove nella quantificazione del danno non patrimoniale alla reputazione i giudici sottolineano di aver tenuto conto, tra gli altri criteri, anche della gravità dell'addebito di violenza carnale su minore mosso al soggetto diffamato.
Vd. Tribunale di Roma 19 giugno 1986 in Dir. inf. 1988 p. 439 che decide sul ricorso presentato contro il settimanale "Espresso" per aver pubblicato la notizia secondo cui un noto magistrato assegnato alle esecuzioni immobiliari, era coinvolto in una manovra di speculazione edilizia attuata per mezzo dell'esercizio illecito delle proprie funzioni. Il Tribunale precisa come la valutazione della gravità dei danni sofferti dall'attore deve essere "determinata ponendo principalmente in relazione la natura e l'oggetto delle espressioni offensive contenute nell'articolo con la particolare funzione pubblica esercitata dal soggetto leso".
Vd. Tribunale di Roma 27 marzo 1984 in Rivista di diritto commerciale 1984 p. 237 ss. che riscontra le lesione del diritto all'onore, alla reputazione, oltre che all'identità personale, in seguito alla pubblicazione sul quotidiano "La Repubblica" di un articolo rappresentante il leader del partito Radicale, che si ispira ai principi della non violenza, come convinto fautore di una trattativa con i terroristi, autori di sequestri di persona a scopo politico e di altri delitti gravissimi. Ai fini della quantificazione del danno non patrimoniale il Tribunale tiene conto della gravità degli addebiti: connivenza con i terroristi, ponendoli in relazione con il ruolo di leader politico del destinatario e sottolineando così la maggior gravità delle conseguenze lesive per essere stato diffamato un personaggio che svolge un "ruolo pubblico".
Vd. Tribunale di Milano 18 settembre 1989, in Dir. inf. 1990, che ha sottolineato come nella quantificazione del danno risarcibile abbia rilevato la volontà diffamatoria del giornalista che invitato dai soggetti lesi a documentarsi dopo la pubblicazione di un primo articolo lesivo, ne aveva pubblicato un secondo amplificando la portata lesiva della notizia diffamatoria.
Vd. la sentenza del Tribunale di Roma 27 marzo 1984, in Rivista di diritto commerciale 1984 p 237 ss. che nella liquidazione del danno ha sottolineato come la maggiore gravità della lesione derivi dalla circostanza che il quotidiano "La Repubblica" è destinato ad ambienti di un certo peso, dal punto di vista culturale e sociale, e ad un area politica da cui certamente raccoglie voti il leader del partito radicale diffamato.
Vd. Tribunale di Roma 19 giugno 1985, in Dir. inf. 1986 p. 28, sulla vicenda nella quale un gruppo di magistrati era stato diffamato da un quotidiano con l'accusa di aver conferito incarichi professionali a professionisti legati al P.C.I. La somma liquidata, in quella circostanza, (per ciascun attore) é di 30.000.000, considerandosi "la modesta diffusione del giornale in questione", nella fattispecie si trattava de "Il Secolo d'Italia".
Proprio la considerazione di un'ampia diffusione del quotidiano, del suo carattere di giornale distribuito su tutto il territorio nazionale, è servita a quantificare con maggiore precisione il danno da diffamazione nella sentenza del Tribunale di Roma 14 luglio 1989 in Dir. inf. 1989 p. 952, nella quale viene indicata precisamente la tiratura del quotidiano nonché il rapporto tra copie vendute e numero presumibile di lettori.
Vd. Tribunale di Roma 23 maggio 1988, in Dir. inf. 1989 p. 919, dove viene attribuito ampio risalto alla circostanza che nell'articolo "incriminato", alla sostanziale verità e correttezza del giornalista nel riferire delle indagini giudiziarie in corso relative al versamento illecito di somme al PSI, si contrappone il carattere diffamatorio del complesso costituito dal titolo dal sottotitolo e dalla vignetta satirica che ritraeva il leader del P.S.I. Craxi intento a compiere ruberie e frodi, in quanto questo offre della vicenda narrata nell'articolo che segue una immagine distorta e tale da indurre i lettori ad attribuire al segretario del P.S.I il ruolo di partecipe in una vicenda di corruzione, laddove dalla lettura dell'articolo seguente si ricava che né corruzione vi è stata, né partecipazione alle vicende narrate.
Così nella sentenza della Corte d'Appello di Milano 23 dicembre 1986, in Dir. inf. 1987 p. 585 dove tra gli altri criteri adottati si fa riferimento alla circostanza per cui il libro "incriminato" é pubblicato "da una casa editrice di grandi tradizioni": la Feltrinelli, e ne è autrice un personaggio di chiara fama, "capace perciò di conferire maggiore credito alle notizie riferite".
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