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LA RATIO DEI DUE ISTITUTI
Gli arresti domiciliari quale istituto di carattere generale sono stati introdotti per la prima volta nel nostro ordinamento giuridico dalla legge 12 agosto 1982: prima di allora il vecchio codice di procedura penale li prevedeva esclusivamente con riferimento ad alcune particolari situazioni personali dell'imputato espressamente indicate dalla legge e comunque con esclusione dei casi in cui si procedeva per l'accertamento dei reati per i quali era previsto il mandato di cattura obbligatorio (tanto che la casistica risultava molto scarsa).
La scelta operata dal legislatore con la tecnica della novellazione del codice di procedura penale ebbe una notevole rilevanza dovuta alla generale utilizzazione, ma creò anche gravi problemi interpretativi sia con riferimento alla possibilità di concessione nella fattispecie in cui si procedeva per reati a cattura obbligatoria sia ai rapporti con la libertà provvisoria.[1]
Fu così che le disposizioni introdotte con la legge del 1982, che facevano parte di una "miniriforma" delle norme processuali sulla libertà personale dell'imputato e la procedura di riesame - il cui nucleo di maggior risonanza sul piano della opinione pubblica era costituito dalla istituzione del "Tribunale della Libertà" - furono nuovamente disciplinate con la legge del 28 luglio 1984, in modo più organico.
Successivamente la operatività della misura era stata estesa anche alla fase esecutiva della pena con la legge Gozzini del 1986 recante il titolo "Modifiche alle legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative alla libertà".
Gli arresti domiciliari si qualificano fin dall'origine come misura cautelare coercitiva della libertà personale a carattere custodiale e pertanto alternativa alla custodia cautelare in carcere, così come la detenzione domiciliare si è qualificata come espiazione della pena nella forma alternativa alla detenzione in carcere.
Abbastanza chiara sembra la natura giuridica degli arresti domiciliari, una natura di misura cautelare personale, istituiti come strumento processuale alternativo e sopraordinato rispetto alla misura cautelare in carcere, ritenuta l'extrema ratio delle misure cautelari. Pertanto gli arresti domiciliari, cui si può ricorrere quando soddisfino le esigenze cautelari presenti, possono essere applicati soltanto in base alle disposizioni previste dal codice di procedura penale nei modi e con i criteri che abbiamo già visto, nel presupposto della temporaneità e delle garanzie postulate dall'art. 13 e 27, 2° comma Costituzione.
Più complessa appare la natura giuridica della detenzione domiciliare, probabilmente perché, come si è detto essendo vera e propria sanzione penale, complesso è il concetto di pena. Cercare di analizzare l'origine, la funzione della pena nello specifico della pena detentiva, sembra necessario per capirne le finalità e quindi anche le finalità della detenzione domiciliare.
Partirei da lontano, da quando il carcere diventa il meccanismo punitivo più importante .
Nel corso del XVIII secolo, soprattutto per opera dei riformatori illuministi e dei rivoluzionari francesi si comincia a pensare al crimine come danno sociale, al criminale come nemico della società e quindi alla pena come una cosa utile socialmente perché ripristina un'utilità sociale danneggiata dalla commissione del reato. Le pene sono la pena di morte per i crimini più gravi, la deportazione, la schiavitù perpetua, l'infamia, il lavoro forzato, la pena del taglione, la pena della prigione è prevista solo per i delitti che attentano alla libertà degli individui. E' con il codice penale napoleonico del 1810, che sarà modello per i codici italiani del XIX secolo, che la prigione diventa lo strumento punitivo principale.
Il carcere diventa la pena ideale perché priva tutti coloro che la subiscono di un bene che è comune a tutti: il valore/bene tipicamente borghese della libertà che si sostituisce al valore/bene della vita. Ma il carcere è anche graduabile nella durata e nell'intensità, perciò può essere proporzionato alla gravità dell'infrazione commessa. Infine ha una funzione educativa (per gli altri) e rieducativa (per chi la subisce).
Per la verità l'idea che la pena debba avere oltre una funzione retributiva (sanzione per la responsabilità morale, per la colpa) anche una funzione rieducativa è mutuata dal diritto canonico: il delinquente è punito perché ha peccato (punitur quia peccatum est) ma anche perché non pecchi più (punitur ne peccetur).
La prigione si impone con tutta la sua forza, paradossalmente, quando viene preso in considerazione l'avvenire del condannato, il suo risentimento nella società civile, quando si comincia a considerarlo un soggetto in evoluzione e si pensa che la pena debba servire al suo cambiamento. Il colpevole quindi, prima per la Chiesa, poi per lo stato laico, ha un avvenire.
Ma appena nasce l'istituzione carceraria, nasce subito anche la sua crisi, nascono quindi le teorie penitenziarie, i progetti di riforma, le sperimentazioni.[2]
Verrebbe da chiedersi allora perché il carcere? Ma cos'altro?
"Il carcere è la rappresentazione dell'idea che la borghesia del XIX secolo ha delle classi lavoratrici: sottomesse, disciplinate, laboriose, non dedite all'alcool, agli abusi sessuali, al vizio . Sicuramente la prigione si afferma come unico modello punitivo perché nella sua finalità normalizzante assomiglia alla nostra società, richiama i modelli disciplinari cui la nostra organizzazione sociale è informata. Una società abituata a escludere e a disciplinare trova poi congeniale questo tipo di pena"[3]
Il nostro sistema penale, prima che venisse scritta la Carta Costituzionale e quindi prima che venisse formulata la teoria rieducativa della pena, attuata dalla legge di riforma dell'ordinamento penitenziario, attribuiva a questa una finalità essenzialmente retributiva e general-preventiva che gradualmente si era spogliata di tutto ciò che potesse peggiorare le condizioni morali dei reclusi: il trattamento disumano, la promiscuità, l'isolamento assoluto ecc.. Gli unici mezzi rieducativi vigenti nei sistemi carcerari erano costituiti dal lavoro nell'interno degli stabilimenti e anche all'aperto - poiché l'ozio era stato riconosciuto una delle principali cause che ostacolano l'emenda - e dall'istruzione, si erano istituite pertanto scuole e biblioteche. Da ricordare che era inoltre curata l'educazione religiosa. Nell'esecuzione della pena, il vecchio sistema penale aveva adottato il cosiddetto "sistema progressivo" che implicava una graduale attenuazione delle limitazioni imposte al detenuto in considerazione del suo miglioramento, al fine di prepararlo al suo ritorno in società, l'istituto della liberazione condizionale ne era l'espressione più significativa.[4]
L'interrogativo che dobbiamo porci è se oggi il carcere ma anche le misure alternative alla detenzione come la detenzione domiciliare sono in grado di adempiere a tutte quelle funzioni, retributiva, general-preventiva, rieducativa, che il nostro sistema penale gli conferisce.
Qui entrano in gioco le varie teorie riguardo ad una revisione organica del nostro ordinamento giuridico.
Alcuni auspicano una seria depenalizzazione realizzata non attraverso la sostituzione di una sanzione amministrativa a quella penale in molti reati contravvenzionali, ma addirittura come riduzione della sfera dei beni da tutelare con la massima energia, criticando il legislatore che finora ha preferito seguire un modello di pena flessibile. Inadeguato risulta infatti secondo questa tesi tutto il sistema penale, per mancanza di attualità, e non solo l'ordinamento penitenziario il quale invece è solitamente visto, anche attraverso i mezzi di comunicazione, come il solo responsabile di effetti deflagranti sulla microcriminalità.[5]
La legge di riforma penitenziaria è vista invece come la causa di una progressiva autonomia della fase penitenziaria rispetto al giudicato, al principio di certezza e di indefettibilità della pena, sistema cardine del nostro ordinamento. "Ad una fase in cui la determinazione del castigo legale è connessa ad un giudizio sul fatto ne segue quindi una diversa connessa ad un giudizio sull'autore"[6]
Da qui muovono non solo le critiche, in parte condivisibili su un'eccessiva discrezionalità della magistratura di sorveglianza che porta ad una scarsa uniformità nella giurisprudenza di merito, ma una forte critica alla flessibilità della pena in fase esecutiva.
A queste critiche si risponde che liberarsi dalla necessità del carcere perché risultato inadeguato a svolgere il ruolo di unico e rigido strumento di prevenzione generale e speciale e credere fino in fondo nello spirito della legge Gozzini che non fa altro che tentare di rendere operativo il principio costituzionale della flessibilità dell'esecuzione della pena, non significa indebolimento del giudicato.
Un autorevole esponente della magistratura di sorveglianza ha scritto: "la giurisprudenza costituzionale ha sviluppato e fatto proprio il sistema di flessibilità della pena che deve pertanto ritenersi costituzionalmente adottato e garantito. Le sentenze della Corte su cui porto il mio esame sono quattro: n° 204/74, n° 343/87, n° 282/89, n° 125/92 . Non sembra dubitabile che dalle sentenze costituzionali esaminate emerga un sistema, costituzionalmente garantito, di esecuzione
flessibile della pena, che le sentenze stesse definiscono con notevole precisione. Questi ne sono i punti essenziali:
a) esiste un diritto del condannato a vedere riesaminata la sua posizione al fine di verificare se la parte di pena espiata abbia già raggiunto le finalità rieducative che sono proprie della stessa: se questo esame è favorevole all'interessato, viene a mancare la ragione della pena detentiva"
Aver però previsto un sistema penitenziario articolato in misure alternative alla detenzione, genericamente definibili di prova controllata, non è sufficiente da solo ad operare come strumento di controllo sociale e di promozione alla risocializzazione senza poter contare su strutture e risorse idonee a farlo funzionare.
L'autore sostiene ancora che: "c'è una incostituzionalità che non si concreta in norme, ma in situazioni, in sistemi di fatto, che tradiscono e violano i precetti costituzionali".[8]
Più che di riforma del sistema penitenziario sarebbe innanzitutto doveroso parlare di attuazione, perché se non ha dato abbastanza frutti è anche perché non sono stati attuati completamente i principi quadro costituzionali, da qui ne discende anche quella sorta di eterogeneità di risposte che non è un vizio congenito del sistema ma la conseguenza della mancata realizzazione.
La magistratura di sorveglianza, bersagliata da messaggi opposti anche da parte del legislatore (vedi le decretazioni d'urgenza del 1991 e 1992) non è stata messa in grado di imparare il proprio mestiere.[9]
Infatti per un elenco di delitti di estrema gravità, il finalismo rieducativo della pena cede il campo ad una presunzione di pericolosità, che può essere superata soltanto attraverso l'adempimento di un dovere generale di collaborazione.
Condividendo la perenne crisi del carcerario e partendo dal presupposto che la pena detentiva sia strumento sansionatorio costituzionalmente legittimo solo se concepita come parte di una pena proiettata verso il recupero del condannato attraverso una modificazione in intinere, c'è chi tende a valorizzare il ruolo della magistratura di sorveglianza. Questo giudice infatti meglio di quello di cognizione può giudicare sui progressi del condannato e sul suo prevedibile dover essere e pertanto auspica che il sistema penale non vada verso una trasformazione delle misure alternative alla detenzione in pene edittali parallele.[10]
Di tutt'altro avviso è chi invece, partendo dalla constatazione della perdita di effettività della pena, auspica da
una parte una decisa depenalizzazione con la riduzione della pena detentiva ad extrema ratio, l'eliminazione della pena pecuniaria insieme alle contravvenzioni, dall'altra, pur in un contesto di diritto penale minimo in cui la pena detentiva continua ad avere il suo spazio, auspica un elevamento delle misure sostitutive e alternative al rango di pene principali. Così facendo verrebbe recuperata la certezza della pena (non più entità giuridica in divenire).[11]
Una visione nuova delle finalità perseguite dalle misure alternative alla detenzione, anche se con riferimento in particolare all'affidamento in prova al servizio sociale, è quella che valorizza una finalità riparativa oltre che retributiva e riabilitativa, onde cercare di rimuovere le conseguenze del reato.[12]
Sempre lo stesso indirizzo di pensiero, sottolineando l'affrancamento progressivo del sistema penitenziario dall'osservazione e dal trattamento in carcere, sostiene che il giudice di sorveglianza è divenuto un giudice profondamente diverso da quello che era stato prefigurato dalla riforma penitenziaria del 1975.
Così: "egli non è più (soltanto) il garante della legalità della esecuzione della pena, ma è (soprattutto) il garante della esecuzione della pena stessa (nella sua forma ordinaria o alternativa) ...in effetti questo giudice si avvicina sempre più al giudice della cognizione. In particolare quando deve decidere quale misura in concreto la persona condannata deve scontare, egli svolge esattamente le stesse funzioni del giudice di cognizione .. I criteri cui l'uno e l'altro devono ispirarsi sono quelli indicati dall'art. 133 c.p.p. Indubbiamente, tra questi criteri, alcuni (la condotta del reo susseguente al reato e le sue attuali condizioni di vita individuale, familiare e sociale) vengono ad assumere, in rapporto alla diversa fase del procedimento un rilievo maggiore di altri, ma l'impianto della decisione è quello, non altro".[13]
In altri termini il Tribunale di Sorveglianza non si interessa più soltanto dei detenuti, decidendo sull'applicazione delle misure alternative in base ai risultati dell'osservazione e della personalità e del percorso trattamentale svolto in carcere, ma anche e soprattutto dei condannati liberi per i quali l'an, e il quomodo dell'esecuzione della pena dipenderà dalla decisione del Tribunale stesso.
Una riflessione importante mi sembra quella su uno degli obiettivi più importanti che si è prefissata la legge Simeone-Saraceni cioè l'accesso alle misure alternative anche ai soggetti "deboli" i quali anche per ragioni procedurali risultavano spesso esclusi, o ammessi con ritardo.
In quest'ottica la detenzione domiciliare risulta avere un "carattere" intrinsecamente diseguale, che esclude a priori dalla propria area applicativa un'ampia fascia di emarginati, che non dispongono né di una casa d'abitazione, né di un luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, nel quale scontare la pena.[14]
C'è chi ritiene che: "Fruitori eccellenti ne saranno invece i condannati per reati di criminalità economica, i cosiddetti colletti bianchi, e comunque i soggetti più abbienti che troveranno nell'espiazione in regime domiciliare un vero e proprio affrancamento dalla sanzione penale oltre che un comodo escamotage per sottrarsi ad obblighi quali lo svolgimento di un lavoro di pubblica utilità o forme di risarcimento anche parziale dei danni cagionati con i reati commessi".[15]
Volendo concludere e cercando di riassumere quelle che vogliono essere le finalità della detenzione domiciliare ci troviamo di fronte ad una pluralità di funzioni
La detenzione domiciliare pur partendo da un identico contenuto strutturale e da un identico riferimento normativo (l'art. 284 c.p.p.) rispetto agli arresti domiciliari, si distingue da questi per le molte finalità perseguite, legate anche allo stato del procedimento cui appartengono.
Una finalità comune ad entrambe le misure è sicuramente quella umanitaria-assistenziale, che direi essere quella originaria per cui sono stati previsti gli arresti domiciliari nel vecchio codice di procedura penale dall'art. 247, successivamente abrogato dall'art. 22 della legge 28 luglio 1984 n. 398.
Questa finalità è forse quella più significativa dell'istituto della detenzione domiciliare introdotto dalla legge Gozzini, sicuramente è quella interpretata dall'art. 47 ter 1° comma ter O.P., così come previsto dalla legge Simeone - Saraceni.
La funzione umanitaria e assistenziale, anche se estranea allo logica trattamentale, non prescinde completamente da accertamenti psicologici e prognostici, nel senso che non costituisce mai un diritto per il condannato, essendo la sua applicazione sempre subordinata ad una valutazione discrezionale affidata al giudice di merito. ( Cass. II, 2/12/1992, n. 4520).[16]
Attualmente per la concessione degli arresti domiciliari ciò che conta non è solo una valutazione di opportunità legata ad alcune particolari situazioni personali dell'indagato-imputato la cui pericolosità sociale (che può sussistere o meno a seconda del singolo caso concreto) è ritenuta contenibile con tale misura, ma la capacità della misura stessa di soddisfare almeno una delle diverse esigenze cautelari che li legittimano.
Allo stesso modo la detenzione domiciliare non è solo modalità esecutiva attenuata della pena detentiva, giustificata da ragioni umanitarie, ma una modalità alternativa alla detenzione in carcere seppur limitatamente, rieducativa.
Tale funzione emerge fino dalla sua istituzione, infatti la detenzione domiciliare è inserita tra le misure alternative alla detenzione nel capo VI dell'ordinamento penitenziario che all'art. 1 ultimo comma recita: Nei confronti del condannato "deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda .al reinserimento sociale".
In pratica non sempre è agevole riconoscere nella misura un fine risocializzante, anche al di fuori dell'ipotesi prevista dall'art. 47 ter 1° comma ter, infatti è proprio attraverso le prescrizioni, che devono avere un contenuto più o meno rieducativo e non concretizzarsi nel solo obbligo di non allontanarsi dal luogo indicato nel provvedimento, che la misura può svolgere la sua funzione rieducativa e non essere solo una modalità alternativa di esecuzione della pena. Le modalità esecutive devono essere dirette a caratterizzare la condotta del soggetto in detenzione domiciliare e a favorirne la risocializzazione, per cui potranno variare estremamente da un caso all'altro.
A sostegno di una finalità rieducativa comunque sempre presente nella detenzione domiciliare è il richiamo che la norma fa agli interventi di sostegno che il Tribunale di Sorveglianza ha il compito di fissare al momento della concessione del beneficio.
Non tutti sono d'accordo nell'attribuire questa funzione alla detenzione domiciliare, riconosciuta invece, come fondamentale per l'affidamento in prova al servizio sociale, anzi ritengono che il legislatore abbia rinunciato ad ogni prospettiva risocializzante relegando la detenzione domiciliare fra gli istituti deflattivi della popolazione carceraria.[17]
Con l'introduzione, sempre per opera della legge Simeone-Saraceni, dell'art. 47 ter 1° comma bis, da una parte si ribadisce la finalità di recupero del condannato (opportunità per i condannati già sottoposti al regime carcerario) dall'altra quantomeno gli si deve riconoscere una finalità di prevenzione speciale e di non desocializzazione (per i condannati a pene non superiori a due anni) preservando gli interessati "dal contatto con l'ambiente criminogenetico del carcere".[18]
La detenzione domiciliare ha finalità dunque anche di controllo e di contenimento della pericolosità sociale attraverso un regime extra-moenia, restrittivo della libertà personale,
sicuramente meno afflittivo di quello carcerario, ma che per la sua realizzazione ha bisogno non solo e non tanto di adeguate funzioni di vigilanza da parte delle forze di polizia ma di una funzione di sostegno per la dissuasione dal compimento di altri reati.
E' per questo motivo, per la inidoneità ad impedire che il condannato torni a delinquere, oltre che per problemi di inefficienza tecnologica, che non ha trovato applicazione la norma introdotta con l'art. 47 ter 4° comma bis, che prevede il
ricorso ad un controllo elettronico dei movimenti del condannato sottoposto alla misura.
La disposizione del comma 4 bis dell'art. 47 ter prevede che tra le prescrizioni della misura possa esserci il controllo elettronico del detenuto domiciliare a cui fa da pendant l'art. 275 bis c.p.p. per l'indagato/imputato agli arresti domiciliari. Questa forma di controllo è subordinata al consenso del condannato e data la sua collocazione sistematica sembra applicabile a tutte le ipotesi di detenzione domiciliare contemplate nell'articolo citato. Al venir meno del consenso o in caso di sottrazione al controllo la conseguenza sarà la sospensione e poi la revoca della misura. L'art. 18 del D.L. 24 novembre 2000, n. 341, convertito dalla legge 19 gennaio 2001, n. 14 punisce inoltre con la reclusione fino a tre anni "il condannato o la persona sottoposta a misura cautelare che, al fine di sottrarsi ai controlli prescritti, in qualsiasi modo altera il funzionamento dei mezzi elettronici o degli altri strumenti tecnici adottati nei suoi confronti, o comunque si sottrae fraudolentemente alla loro applicazione o al loro funzionamento".
Questa norma secondo il legislatore doveva rispondere alla necessità di adeguate forme di controllo senza gravare troppo sulle forze di polizia difronte ad un ampliato ricorso alla detenzione domiciliare, invece ha incontrato moltissimi problemi dal punto di vista della sua attuazione pratica, ma non solo. Questo perché considerare la detenzione domiciliare solo come mera esecuzione della pena detentiva nella sua variante in forma "domestica", facendo quindi attenzione solo ai problemi relativi all'inosservanza dell'obbligo di dimora, significa attribuirgli una valenza assai riduttiva che postulerebbe la sua collocazione fra le pene edittali parallele.
A questo proposito è stato scritto: "quando si fantastica sulla detenzione domiciliare con il bracciale elettronico, non si pensa che una detenzione simile senza sostegno e assistenza e con il solo meccanismo di controllo si concluderà troppo spesso ancora in carcere"[19]
L'assenza di fantasia del legislatore ha fatto si che la detenzione domiciliare divenisse lo strumento più importante per realizzare gli scopi di deflazione della popolazione carceraria relegandola di fatto spesso a mera modalità alternativa di esecuzione della pena detentiva senza finalità rieducative, o meglio con un desolante vuoto di fini.
E' per questo motivo che, considerando tutte le sue funzioni particolari: umanitaria, assistenziale, special-preventiva, antidesocializzante, rieducativa, direi anche afflittiva perché è pur sempre esecuzione di pena, la misura necessita di essere arricchita di un contenuto rieducativo che miri al recupero del condannato se non vogliamo che si riduca a semplice modalità di esecuzione di pena extra-moenia, che ampiamente utilizzata finisce inevitabilmente con il compromettere l'effettività dell'intero sistema sanzionatorio.
La detenzione domiciliare è destinata oggi a fronteggiare reati sempre più gravi quindi deve avere contenuti sanzionatori reali come reali contenuti risocializzanti se non vogliamo che si presti alla facile critica di essere una sanzione semplicemente
sostitutiva dietro la quale si cela una sostanziale incapacità a punire dello Stato.
In quest'ottica mi sembra che si ponga il recente intervento della Corte Costituzionale che con ordinanza del 18 dicembre 2002 n. 532 ha dichiarato manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale[20] concernenti le limitate possibilità che l'imputato agli arresti domiciliari ha di essere autorizzato a svolgere attività lavorativa fuori dal suo domicilio, rispetto al detenuto in carcere e al detenuto domiciliare.
Come dirò nel terzo capitolo, quando parlerò delle diverse modalità esecutive in cui si articolano le prescrizioni delle due misure, con questa ordinanza si fa piena luce su quelle che sono le diversità di fondo fra la detenzione domiciliare e gli arresti domiciliari. La pronuncia della Corte Costituzionale delinea uno spartiacque fra le due misure apparentemente simili: la detenzione domiciliare è informata al principio della rieducazione, gli arresti domiciliari sono volti a neutralizzare esclusivamente i pericula libertatis previsti dalla legge.
Tenendo presente i principi e le finalità individuate e spiegate dalla suddetta ordinanza cercheremo di capire analizzando le singole fattispecie, come le due misure si articolano sia da un punto di vista giuridico che sociologico, ribadendo che appare ragionevole insistere sulla differenza della disciplina delle modalità esecutive.
I. Rossini: La riforma del sistema sanzionatorio penale e penitenziario, Incontro di studio del C.S.M. Frascati, 31 maggio - 2 g.iugno 1999 pp. 5 ss
E. Delahaye: La detenzione domiciliare da beneficio per pochi a nuova specie di pena, Dir. Pen. E proc. N. 10/2000 p. 1396
M. Pavarini: Bilancio dell'esperienza italiana di riformismo penitenziario in Quest. Giust., 1997 pp. 55 ss.
A. Margara: L'evoluzione della normativa e la situazione penitenziaria dopo la riforma del 1996, Incontro del CSM del 16 - 20 febbraio 1993, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, anno 1995 n. 80 pp. 94 ss.
G. Pierro: La nuova disciplina nel quadro della trasformazione del sistema della esecuzione penale in AA.VV. Sospensione della pena ed espiazione extra moenia, Giuffrè, Milano, 1998, pp. 324 ss.
P. Pittaro: La sanzione penale come realtà giuridica in divenire in AA.VV. Esecuzione penale e alternative penitenziarie, Cedam, Padova, 1999, pp. 265 ss.
L. Monteverde: Mediazione e riparazione dopo il giudizio: l'esperienza della magistratura di sorveglianza in Minori e giust. 2 , 1999, p. 96.
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E. Dolcini: Le misure alternative oggi: alternative alla detenzione o alternative alla pena, in riv. It. Dir. Proc. Pen. , 1999, p. 875
P. Comucci "La nuova fisionomia della detenzione domiciliare" in AA.VV. Esecuzione penale e alternative penitenziarie Cedam Padova 1999 p. 248
L. Cesaris sub art. 47 ter O.P. : V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, "Ordinamento penitenziario, commento articolo per articolo" Cedam, Padova II ed., 2000 p. 468
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