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La prestazione di lavoro subordinato consiste nella messa a disposizione del proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore (art. 2094). Essa costituisce la prestazione specifica e conformatrice del rapporto di lavoro e rappresenta il contenuto principale dell'obbligazione del lavoratore. Trattasi di una obbligazione di mezzi che impegna il prestatore a tenere un determinato comportamento, ma anche a raggiungere mediante tale attività, un risultato ulteriore.
La prestazione di lavoro deve essere:
Gli elementi che concorrono a determinare la prestazione sono diversi, in specie:
tipo di attività: essa può essere di contenuto diverso. Il tipo di attività dedotto nel rapporto di lavoro viene di volta in volta individuato dalle mansioni che il lavoratore è chiamato a svolgere in concreto;
durata dell'attività, misurata attraverso l'orario di lavoro ed in genere il tempo di lavoro (giornaliero, settimanale o annuale);
luogo della prestazione. Il lavoratore è tenuto a prestare il lavoro nel luogo stabilito dal contratto o in quello ove l'attività, per sua natura, debba essere esplicata. Tale luogo è, di regola, la sede dell'impresa, o una delle sue sedi perifieriche, ma può anche essere lo stesso domicilio del datore di lavoro e, per certi tipi di lavoro, anche l'area di un determinato comune o di una provincia se non addirittura l'intero territorio nazionale.
Gli obblighi integrativi concorrono a definire il proprium della prestazione lavorativo e il quomodo della stessa.
Il primo degli obblighi integrativi facenti capo al prestatore è l'obbligo di diligenza. La diligenza nel suo significato ontologico, indica quel complesso di cautele, cure ed attenzioni che devono informare l'esecuzione della prestazione. L'art. 2104, c.c., sancisce che 'Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale'. Nella previsione normativa la diligenza costituisce il criterio di misura della prestazione dovuta dal lavoratore, idoneo ad indicare il grado e l'entità del quantum debeatur. La norma in esame fa riferimento a tre criteri, alla cui stregua la diligenza del prestatore deve essere valutata, e cioè quelli:
L'inosservanza del dovere di diligenza comporta per il prestatore:
Il co. II dell'art. 2104, c.c., pone a carico del prestatore l'obbligo di obbedienza, sancendo che egli deve osservare le disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro che gli vengono impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende. Come la giurisprudenza ha ripetutamente precisato, la soggezione del prestatore al datore ed ai suoi collaboratori non può superare i limiti imposti dalle norme di legge - in particolare, da quelle dello Statuto dei lavoratori - e dalle norme contrattuali, potendo, in caso contrario, il lavoratore, esercitare il c.d. jus resistentiae, cioè rifiutarsi di osservare le disposizioni impartite. L'inosservanza dell'obbligo di obbedienza può costituire, nei casi più gravi, giustificato motivo (soggettivo) di licenziamento.
L'art. 2105, c.c., rubricato 'Obbligo di fedeltà' pone a carico del prestatore un obbligo volto a tutelare l'interesse dell'imprenditore alla capacità di concorrenza dell'impresa (GHERA). Esso trae origine dal principio generale per il quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (artt. 1175 e 1375, c.c.).
Tre sono i divieti che costituiscono il contenuto dell'art. 2105, c.c., e cioè:
Sul piano civilistico, la violazione dell'art. 2105, c.c., dà luogo sia alla responsabilità disciplinare sia al risarcimento del danno eventualmente causato al datore.
In conclusione, va anche ricordato che per alcuni autori (BUONCRISTIANO, MAZZIOTTI) e per la giurisprudenza (Cass. 5257/87), l'art. 2105, c.c., è una norma dispositiva e non imperativa, per cui l'autonomia delle parti - individuali o collettive - può sia consentire lo svolgimento di attività in concorrenza sia vietare al lavoratore l'espletamento di altre attività, autonome o subordinate, a favore di terzi, indipendentemente dalla rilevanza o meno di esse sotto il profilo della concorrenza.
Il divieto di concorrenza, sancito dall'art. 2105, c.c., avendo natura contrattuale, si estingue al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Tuttavia, l'art. 2125, c.c., consente alle parti di limitare lo svolgimento dell'attività del prestatore anche successivamente alla cessazione del contratto, con la stipulazione del 'patto di non concorrenza'. Tale stipulazione è circondata da particolari garanzie, essendo richiesti:
La violazione del patto di non concorrenza può dar luogo ad una condanna al risarcimento del danno, ma non ad un ordine di cessazione dell'attività svolta.
I diritti del lavoratore costituiscono le situazioni giuridiche attive, riferibili alla prestazione lavorativa, che si esprimono nelle facoltà, libertà e prerogative riconosciute al lavoratore. Tali diritti possono essere classificati nel modo seguente:
I diritti personali sono i diritti, costituzionalmente garantiti, inerenti alla personalità del lavoratore nel cui ambito assumono peculiare rilievo:
I diritti sindacali sono diritti che costituiscono espressioni tipiche dell'attività sindacale, riconosciuta ai singoli prestatori di lavoro.
La dottrina più accreditata distingue:
È chiaro che ai diritti del lavoratore sono correlati altrettanti obblighi del datore, e viceversa.
Anche se l'esecuzione della prestazione lavorativa costituisce, più che un diritto, l'obbligo principale del lavoratore, vi sono casi in cui assume specifica rilevanza l'interesse personale e professionale del lavoratore stesso ad eseguire la prestazione.
Il mobbing è stato definito come l'insieme di quegli atti e comportamento posti in essere dal datore di lavoro, capi, intermedi e colleghi, che si traducono in atteggiamenti persecutori, attuati in forma evidente, con specifica determinazione e carattere di continuità, atti ad arrecare danni rilevanti alla condizione psico fisica del lavoratore, ovvero anche al solo fine di allontanarlo dalla collettività in seno alla quale presta la propria opera. La giurisprudenza suole fare una distinzione tra:
mobbing orizzontale, quando le aggressioni o vessazioni provengono da persone che lavorano con la vittima (colleghi di lavoro);
mobbing verticale (anche detto bossing), quando l'aggressione è provocata dal datore di lavoro, sia esso privato o pubblico, o altro superiore gerarchico del lavoratore.
Le forme più frequenti di mobbing sono costituire dalla dequalificazione professionale del lavoratore, destinato a mansioni inferiori per modificarlo, da comportamenti fastidiosi ed offensivi ripetuti, ovvero da atti di generale svilimento della persona, nonché di isolamento. In proposito la giurisprudenza ha distinto dagli atti e comportamenti tipici, cioè inerenti alla gestione del rapporto di lavoro, quelli che di per sé non hanno attinenza con esso, e perciò definiti atipici, come ad esempio evitare di paralare con la vittima, ridicolizzarla ecc. ecc.. La pratica di mobbing sono idonee ad incidere negativamente sulla integrità psicofisica dell'individuo, provocandogli danni, quali depressione e disturbi post traumatici da stress, che possono avere sia carattere transitorio che permanente ed indurre, ad esempio, alle dimissioni il lavoratore.
La giurisprudenza e la dottrina hanno individuato i danni che possono derivare dal lavoro mobbizzato:
danno biologico, consistente in una lesione dell'integrità psico fisica, suscettibile di valutazione medico legale;
danno morale, che si identifica nello stato di sofferenza acuta interiore del lavoratore mobbizzato;
danno esistenziale, ossia il danno conseguente alla lesione di interessi di rango costituzionale.
La liquidazione del danno in tali casi non può che essere effettuata in forma equitativa, salva la dimostrazione di specifici danni patrimoniali. Su questo tema è intervenuto l'INAIL il quale - sulla base della sentenza n. 178 del 1988 della Corte Costituzionale la quale riconosce malattie professionali anche quelle non indicate nelle apposite tabelle purché venga dimostrata la causa lavorativa - ha individuato una serie di situazioni di c.d. costrittività organizzativa, in cui è ricompreso il c.d. mobbing strategico, e consistenti nell'insieme di azioni finalizzate ad allontanare o emarginare il lavoratore che rivestono rilevanza assicurativa. A seguito della riconduzione del mobbing nell'ambito delle malattie professionali non gabellate, con applicazione delle apposite tabelle per la valutazione del danno biologico, deriva che il danno non patrimoniale da mobbing può essere quantificato non più solo ed esclusivamente in via equitativa.
Il responsabile del danno subito dal lavoratore vittima di mobbing è il datore di lavoro. Le norme che vengono in rilievo sono:
l'art. 2087 c.c. di natura contrattuale che impone al datore di lavoro di adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (Trib. Forlì);
altra forma di tutela è quella di natura extracontrattuale, ai sensi dell'art. 2043 c.c. che afferma il noto principio del neminem ledere, la cui violazione pone in capo all'autore del fatto illecito una responsabilità aquiliana.
Per concludere sul punto è opportuno precisare che la norme che copre la risarcibilità dei danni non patrimoniali è l'art, 2059 c.c., in cui la corte, con una interpretazione costituzionalmente orientata, ricomprende ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona.
L'art. 2590, comma 1, c.c. stabilisce espressamente che il prestatore di lavoro ha diritto di essere riconosciuto autore dell'invenzione fatta nello svolgimento del rapporto di lavoro. La concreta tutela di tale diritto, attinente la personalità morale del lavoratore, è contenuta nel Dlgs n. 30 del 2005 che costituisce il Codice della proprietà industriale, e che ha disciplinato in un unico testo normativo i vari aspetti connessi ai diritti derivanti da proprietà industriale. La materia p stata oggetto nel tempo di ripetuti interventi normativi, gran parte dei quali abrogati dal Dlgs 30/05.
Dalla brevettazione dell'invenzione deriva la titolarità, per la durata di venti ani, dei diritti, che possono essere:
diritto morale d'invenzione, inalienabile ed intrasferibile, che consiste nel diritto di chi abbia realizzato l'invenzione di esserne riconosciuto autore e che può essere fatto valere anche dopo la morte dell'inventore dai superstiti dello stesso;
diritto al brevetto per l'invenzione industriale, che consiste nella facoltà esclusiva di attuare l'invenzione e di trarne profitto e che spetta all'autore dell'invenzione e ai suoi aventi causa;
diritti patrimoniale, connessi alle invenzioni industriali, che sono alienabili e trasmissibili.
L'art. 64 del Dlgs 30 del 2005 disciplina in modo specifico le seguenti fattispecie:
invenzione fatta in adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro: in tal caso al lavoratore spetta il diritto morale d'invenzione, mentre gli altri diritti derivanti dall'invenzione stessa appartengono al datore di lavoro;
invenzione fatta nell'esercizio o nell'adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro, ma non prevista nell'attività dedotta in contratto: al lavoratore spetta sempre il diritto morale di invenzione, mentre i diritti derivanti dall'invenzione appartengono al datore di lavoro. Se quest'ultimo richiede ed ottiene il brevetto dell'invenzione, il lavoratore ha diritto ad un equo premio;
invenzione non connessa all'attività lavorativa ma rientrante nel campo di attività del datore di lavoro: al lavoratore spetta il diritto a esserne riconosciuto autore, mentre al datore di lavoro il diritto di opzione per l'uso, esclusivo e non, dell'invenzione e per l'acquisto del brevetto.
La nuova disciplina si applica alle invenzioni sia in corso di rapporto di lavoro privato, sia pubblico. Unica eccezione è quella dei ricercatori universitari e dei pubblici dipendenti, quando il rapporto di lavoro con l'Università e l'Amministrazione abbia tra i suoi scopi istituzionale finalità di ricerca.
Va infine ricordato che le controversie relative all'accertamento della sussistenza del diritto del lavoratore ad un equo premio sono rimesse alla competenza del Tribunale mediate apposite sezioni specializzate.
Anche la posizione giuridica del datore di
lavoro ha una struttura complessa dovuta alla sussistenza di diritti e doveri
collegati con i corrispondenti diritti ed obblighi del lavoratore. Per quanto
concerne la posizione attiva va rilevato che i relativi diritti possono essere
configurati come poteri giuridici in senso proprio, esercitabili in modo
discrezionale per la tutela di un interesse proprio o dell'impresa. La forma di
manifestazione di tali poteri è del tutto libera potendo essere sia orale che
scritta. Naturalmente i poteri dell'imprenditore incontrano dei limiti
legislativi, primo fra tutti il divieto di discriminazione previsto dall'art.
Designa il fondamentale potere del datore di lavoro, giuridicamente collocato in stretta correlazione con il dovere di obbedienza e diligenza del lavoratore.
Il potere direttivo in senso stretto si configura come potere organizzativo diretto a conformare l'attività utile di ciascun lavoratore alle esigenze dell'impresa stessa. Esso si traduce sul piano generale nelle istruzioni che il datore ed i suoi collaboratori impartiscono per l'esecuzione e la disciplina del lavoro (art. 2104 c.c.).
In tale ambito la dottrina e la giurisprudenza sono soliti ricomprendere l'esercizio dei seguenti poteri:
Il potere di vigilanza e di controllo è strettamente correlato al potere direttivo ed è diretto a verificare che l'esecuzione dell'attività lavorativa venga effettuata secondo le modalità stabilite dal datore di lavoro. Tale potere incontra alcuni limiti, previsti espressamente dagli artt. 2 - 3 - 4 - 5 - 6 della legge 300 del 1970:
Vanno infine menzionate le due
fondamentali norme (artt. 1 e
art. 1: riconosce il diritto dei lavoratori a manifestare liberamente, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali, di fede religiosa, il proprio pensiero nei luoghi lavorativi, nel rispetto dei principi della costituzione e dello statuto dei lavoratori;
art. 8: tale norma completa il principio posto dall'art. 1, vietando al datore di lavoro, ai fini dell'assunzione e nel corso del rapporto, di effettuare indagini, anche tramite terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché sui fatti non rilevanti ai fini della valutazione della sua attitudine professionale. La norma assicura in sostanza il principio di libertà e di non discriminazione del lavoratore, esprimendo la tendenza alla spersonalizzazione del rapporto di lavoro a vantaggio di una funzionalizzazione degli obblighi delle parti.
L'inosservanza delle disposizioni dettate dal legislatore in tema di diligenza e fedeltà del prestatore di lavoro (artt. 2104 e 2105, c.c.) può dar luogo all'irrogazione da parte del datore di sanzioni disciplinari, proporzionate alla gravità dell'infrazione (art. 2106, c.c.). Il potere disciplinare è, come il potere direttivo, espressione del potere gerarchico dell'imprenditore, ma sussidiario del primo: il suo fondamento è da ravvisarsi nella responsabilità disciplinare del lavoratore, che costituisce uno degli aspetti della subordinazione, rappresentato dalle conseguenze collegate all0inadempimento della prestazione lavorativa (Ghera). La tipologia delle sanzioni previste dai contratti collettivi è divenuta, con il passare del tempo, sempre più complessa. Le sanzioni disciplinari oggi irrogabili sono, in ordine crescente di gravità:
Sono illecite, invece, quelle sanzioni che determinano un mutamento definitivo del rapporto di lavoro (ad esempio, la retrocessione, che però è ammessa nel settore degli auto-ferrotranvieri). L'irrogazione delle sanzioni è espressione del potere disciplinare del datore, nel quale la dottrina dominante ravvisa un potere autoritativo, unilaterale e punitivo, previsto in via del tutto eccezionale nell'ambito dei rapporti tra privati e che trova la sua ratio nel vincolo di subordinazione tecnico-funzionale del lavoratore; le sanzioni disciplinari vengono configurate quali speciali pene private, che adempiono però ad una funzione non risarcitoria, ma preventiva. Il potere disciplinare trova oggi la sua principale fonte di regolamentazione, oltre che nel Codice Civile e nella sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 29 novembre 1982 - di cui si dirà al capitolo XIV quando si tratterà del licenziamento disciplinare -, nell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori. Tale articolo, al fine di tutelare la libertà e la dignità dei prestatori, limita notevolmente l'esercizio del potere disciplinare, depotenziando, in tal modo, l'autorità del datore come capo dell'impresa. In particolare, esso afferma due principi fondamentali:
L'art. 7 non prevede alcun obbligo per il datore di motivare il provvedimento disciplinare in relazione alle difese avanzate dal lavoratore. Tale obbligo sussiste solo se previsto dal codice disciplinare o dal contratto collettivo, di guisa che la sua mancanza comporterà la nullità del provvedimento disciplinare.
I requisiti sostanziali si concretano in presupposti che condizionano il legittimo esercizio del potere disciplinare; in specie:
sussistenza ed imputabilità del fatto: si tratta di un presupposto di fatto, consistente nella colpevole violazione dei doveri contrattuali imposti al lavoratore dal vincolo della subordinazione (artt. 2104 e 2105 c.c.: violazione degli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà);
adeguatezza della sanzione: è un presupposto indicato dall'art. 2106 c.c. per il quale la inosservanza può dar luogo all'applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell'infrazione;
limite
alla riservatezza della recidiva: l'art. 7, comma
La fase procedurale della contestazione e della discolpa si svolge davanti al datore, che non è terzo, ma parte in causa e che è chiamato ad applicare la sanzione se reputa insufficiente la discolpa del lavoratore. L'imparzialità dell'organo è invece prevista per la fase eventuale e successiva dell'impugnativa della sanzione, che, ai sensi dell'art. 7, co. VI, St. lav., può avvenire mediante:
Gli obblighi del datore di lavoro, cui corrispondono altrettanti diritti del lavoratore, possono così individuarsi:
Le disposizioni della legge 675 del 1996 (legge sulla privacy) e dei provvedimenti che successivamente hanno modificato ed integrato l'originaria disciplina sono state abrogate dal Dlgs n. 196 del 2003, c.d. Codice della privacy.
Il provvedimento enuncia una serie di principi di carattere generale, tra cui: il diritto di qualsiasi individuo alla protezione dei dati personali che lo riguardano; l'obbligo di osservare, nel trattamento dei dati, i diritti e le libertà fondamentali, nonché la dignità dell'interessato; l'obbligo di ridurre al minimo l'utilizzazione dei dati personali e dei dati identificativi.
Con riferimento al rapporto di lavoro, sia al momento dell'assunzione che nel corso dello svolgimento del rapporto stesso, il datore di lavoro viene in possesso di una serie di informazioni attinenti alla sfera professionale del lavoratore. Il datore di lavoro, quale titolare del trattamento, ha facoltà di designare il soggetto responsabile da individuare fra coloro che per esperienza, capacità ed affidabilità, forniscano idonea garanzia del pieno rispetto delle vigenti disposizioni in materia di trattamento, ivi compreso il profilo relativo alla sicurezza. In ogni caso, il datore deve vigilare sull'operato del responsabile. In base all'art. 30 sono altresì designati anche altri soggetti incaricati alle operazioni di trattamento di dati, i quali comunque agiscono sotto la diretta autorità del datore di lavoro o del soggetto responsabile. Il Dlgs 196/2003 pone in capo al datore di lavoro l'obbligo di compiere una serie di adempimenti (artt. 37 - 41):
informare il lavoratore circa le finalità e le modalità del trattamento cui sono destinati i dati;
richiedere il consenso al trattamento;
richiedere l'autorizzazione al Garante della privacy;
notificare il trattamento al Garante per la privacy nei casi espressione indicati e secondo le modalità previste.
Il lavoratore ha diritto di accedere ai propri dati in possesso del datore di lavoro e di essere informato delle finalità e modalità del trattamento e il diritto di opporsi, in tutto o in parte, per motivi legittimi, al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta. Egli ha inoltre il diritto di ottenere l'aggiornamento, la rettifica ovvero, quando vi abbia interesse, l'integrazione dei dati, nonché il diritto di blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti.
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