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Intervista: dott. alessandro margara




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Intervista: Dott. Alessandro Margara


Firenze, 25 maggio 2000



Questo incontro con A. Margara è avvenuto presso il Tribunale di Sorveglianza di Firenze, nel suo ufficio, dove mi ha ricevuto e si è svolta l'intervista che segue. Non serve che spieghi la ragione per cui ho intervistato il magistrato, data la sua notoria esperienza in campo penitenziario, che fa di lui, ovviamente, una delle persone più qualificate in materia.


- Come prima domanda le vorrei chiedere una cosa abbastanza semplice: visto che lei è uno dei magistrati che hanno sostenuto la legge Gozzini e le misure alternative, vorrei sapere da lei se può farmi un bilancio sulla situazione . In più se secondo lei vi sono dei limiti della legge e se ci sono, quali.

- Intanto la legge Gozzini è usata per parlare di tutta la riforma penitenziaria, tout court. La riforma è del 1975, ma è diverso il discorso fra i due testi. Quindi la legge Gozzini è della fine dell'86. Ha avuto in definitiva un'applicazione abbastanza tranquilla nei primissimi anni, ribadisco abbastanza, perché dire tranquilla è un po' eccessivo, fino all'89, ai primi del '90. Poi si sono infittite reazioni, già nell'89, ma più nei primi del '90, a casi in cui la concessione di benefici produceva la commissione di reati ulteriori oppure evasioni, che presentavano una certa risonanza per via di detenuti noti per i fatti commessi. Generalmente sono e rimangono questi i problemi critici quelli che determinano reazioni, sovente emotive, ma qualche volta anche razionali e ragionevoli a quelli che sono gli inconvenienti che si verificano attraverso la concessione di misure alternative. Quindi c'è un periodo in cui la legge funziona abbastanza, con una certa diffusione anche sul territorio, che arriva, come le dicevo, alle soglie del novanta quando entra anche in vigore il Codice di Procedura Penale. Così si entra in una fase che corrisponde ad una presenza modesta di detenuti in carcere, perché si riduce abbastanza bruscamente la custodia cautelare che generalmente contribuisce per la metà alla popolazione penitenziaria e, nel contempo, è relativamente numerosa la popolazione penitenziaria con pena definitiva, cioè quella cui si può applicare la legge Gozzini. Nel novanta c'è stato un numero bassissimo di detenuti, sui 30.000, uno dei più bassi che si siano avuti negli anni. Quindi essendo i detenuti in custodia cautelare sul 40% del totale, quelli definitivi sono 18.000 circa. Il discorso comincia a piegare in senso negativo nel corso del novanta. C'era, mi ricordo, uno che era in permesso e che ammazzò una persona, insomma si forma al solito uno schieramento d'opposizione a questi fatti, quando l'andamento generale delle misure alternative continua ad essere sempre molto buono. Di solito si prende come punto di riferimento quello dei permessi, i quali continuano ad avere insuccessi, che sono le evasioni, ma che non superano mai l'1%, non dei permessi, ma delle persone andate in permesso. Dico questo, perché le prime rilevazioni furono fatte sul numero dei permessi e confrontate con il numero delle evasioni. Questo era sbagliato, perché l'evasione riguarda una persona, mentre più permessi possono riferirsi ad una sola persona. Le prime statistiche erano fatte comparando il numero dei permessi concessi con il numero delle evasioni, quindi si alterava completamente la percentuale sulle evasioni. Invece andava confrontato il numero delle persone andate in permesso con il numero delle persone evase, solo così si poteva ottenere una percentuale corretta. Calcolata correttamente la percentuale era di questo tipo, dell'1%. Forse in quegli anni era un poco di più, ma ora è attestata sotto l'1%. Se noi prendiamo come riferimento i permessi, abbiamo questa percentuale d'insuccessi irrisoria. Solo che quando capita qualcosa che non funziona, nonostante questi datiapriti cielo! Per quello che riguarda le misure alternative, le percentuali d'insuccesso sono date in modo molto approssimativo sono date male, è poco, ma è sicuro! La vera valutazione deve essere fatta sulle revoche delle misure alternative, che si aggira sul piano nazionale sotto al 10%, meno comunque. Qui da noi le revoche sono superiori al 10%, perché tutto è funzionale all'efficacia del controllo. Quindi non vuol dire che funzioni peggio laddove ci sono più revoche, anzi funziona meglio, perché c'è un sistema di comunicazione su ciò che non va e di tempestività dell'intervento nel revocare. In questo modo la percentuale delle revoche aumenta fino al 15%, ma deve essere ritenuto soddisfacente, perché vorrebbe dire che l'85% delle misure alternative si conclude correttamente, cioè con un periodo di tempo trascorso dalla persona senza guai. Questo è il successo cui dovrebbero tendere le misure alternative.

- La legge Simeone come ha inciso su questo panorama delle misure alternative?

- La Simeone non è una legge nuova dal punto di vista delle misure alternative. E' una legge che è solo intervenuta sulle modalità con cui si accede alle misure. Ha cercato di estendere la possibilità di andare in misura alternativa a tutti coloro che hanno un certo limite di pena. Non cambia nulla sui requisiti di ammissibilità, perché anzi la Simeone ha ristretto le possibilità di essere ammessi alle misure alternative da liberi, dato che i condannati per le pene previste dall'art.4 bis non possono fruire di questa particolare sospensione. Il discorso rispetto a prima cambia pochissimo. C'è solo una disfunzione della legge, prevedibile anche prima, per cui si richiede che il provvedimento di sospensione venga notificato in mani proprie per cui c'è un numero indefinito di ordini di esecuzione che non vengono notificati. L'inconveniente quindi non riguarda le misure alternative, ma riguarda la disfunzione di un particolare aspetto che è quello della mancata notifica. Per lo più avviene nei casi in cui le persone che non hanno una dimora nota, come gli stranieri, per questi si è bloccata l'esecuzione. Se non vengono trovati, si procede alla carcerazione e da lì potranno chiedere i benefici.

- E' una legge equa secondo lei?

- Sì, la legge Simeone ha questa ispirazione di equità, ma è un'ispirazione illusoria. Prima si potevano fare le domande da libero, quindi senza passare dal carcere, ma bisognava ' beccare ' il momento giusto. Cioè quando vi era la sentenza definitiva e l'ordine di esecuzione non era ancora eseguito. Per fare questo ci voleva una certa esperienza, gli avvocati spesso non riuscivano a ottenere niente in quel breve lasso di tempo. Ora c'è la sospensione obbligatoria e la situazione è uguale per tutti. Però per fare una domanda di misura alternativa e soprattutto ottenere una risposta positiva occorre avere delle risorse concrete di possibilità reali di lavoro, di inserimento. I poveracci restano poveracci, non hanno queste possibilità e sono condannati a vedere respinte le loro istanze. Fra questi ci sono anche molti che non hanno la capacità di agire responsabilmente, degli sciagurati che chiedono solo per guadagnare quel poco di tempo e di libertà sapendo già di non poter ottenere nulla. Per esempio il tossico che in quel periodo continuerà a bucarsi e arriverà ancora bucato in udienza senza avere dei rapporti stabili con il SERT. Per aversi un'eguaglianza vera, bisognerebbe che ci fossero una serie di servizi per questo mondo dei destinati alla galera, una serie di servizi sociali funzionanti che avesse veramente per queste persone qualcosa da offrire e da indicare, rispetto alle quali un domani potrebbero essere inadempienti quanto vogliono, ma almeno potrebbero presentarsi con delle possibilità che invece spesso molti di loro non hanno. Quindi la legge Simeone è un po' illusoria, perché questa uguaglianza è un'uguaglianza tra persone diseguali, chi è in basso non ce la fa, mentre chi ha già le possibilità sì.

- La sensazione che si ha sul carcere è che gli strumenti di osservazione predisposti per il detenuto, per il suo cambiamento e per questo 'trattamento' che dovrebbe esserci, gli strumenti che ci sono non siano sufficienti. Perlomeno che siano superficiali al punto di non consentire effettivamente uno studio sulla personalità del detenuto. Qual è la realtà dei fatti? E' una sensazione sbagliata?

- No, no, non è una sensazione, è una certezza. E' una certezza riconosciuta e che trova ad ogni piè sospinto conferme. Non c'è dubbio che non si è costruito un sistema carcerario che fosse funzionale all'attuazione del sistema penitenziario. Tutta l'attività trattamentale è diventata sempre meno addirittura dal 1975 in poi. Non è cresciuta, è diminuita. Per esempio il lavoro interessa oggi non il 24% che dicono, ma meno del 10%. Questo è possibile perché si rapportano il numero dei rapporti di lavoro in un anno al numero dei detenuti, ma si dovrebbe tener conto che molti dei rapporti di lavoro durano pochi mesi perché vengono distribuiti a turnazione. Ci sono turni che durano poche settimane, per cui ci sono persone che vanno in un unico posto di lavoro verranno calcolate verranno calcolate per venti volte, mentre invece il posto ricoperto durante il corso dell'anno è uno solo. Nell'art.15 si parla degli elementi del trattamento e gli elementi sono quelli menzionati: il lavoro, l'istruzione che si accompagna alla formazione professionale, tutte le attività legate alla religione e alle sue varie articolazioni, le attività ricreative e culturali, i rapporti con la famiglia. Ecco, ciascuna di queste attività ha dei punti di non attuazione per cui un trattamento programmato e sistematico dentro gli istituti è difficile a trovarsi. Difficile a trovarsi e relativo solo a certe persone. Chi poi deve inquadrare questo discorso, cioè operare l'osservazione e poi orientare il trattamentoè ancora più scarso. C'è questo numero irrisorio di educatori, dei cosiddetti psicologi, cioè degli esperti dell'osservazione, gli assistenti sociali sono tuttora pochissimi per cui è difficile che svolgano una funzione incisiva in carcere. Svolgono una funzione relativamente incisiva anche fuori dal carcere nell'esecuzione delle misure alternative come l'affidamento in prova che praticamente gestiscono loro. Il sistema carcerario non si è attrezzato perché la legge penitenziaria sia attuata. La legge ha delle inadeguatezze di fondo nella parte attuativa che attengono a tutte le articolazioni del sistema. La prima articolazione è quella del personale penitenziario, non c'è un organizzazione del personale penitenziario che dovrebbe portare avanti quella che è la previsione della legge, cioè il trattamento, l'osservazione e preparare questo percorso riabilitativo. Ma, secondo e terzo, ci sono altre due inadeguatezze, cioè intanto quella degli uffici di sorveglianza che sono inefficienti sotto molti profili, ritardi spropositati che significa bloccare il sistema: quando si decide su una misura alternativa dopo due anni è come non decidere, è una non decisione. Può essere successo tutto sia che sia già in galera sia che si trattasse di persona libera. Il sistema non funziona. Altro problema è quello della polizia di Stato, dei Carabinieri, i quali sovente svolgono un'attività di blocco dell'attività sul piano delle misure alternative e dei permessi. Ed è stata resa possibile dalle riforme e modifiche restrittive della legge Gozzini nel 1991 e nel 1992 che hanno attribuito alla polizia un potere di informazione di cui si è valsa trasformandolo in un potere di parere e di valutazione, che blocca molti dei magistrati di sorveglianza nel loro giudizio. Così molte decisioni vengono effettivamente ad essere negative, mentre con un po' di buona volontà si potrebbe fare altrimenti.

- Altra domanda decisamente attuale, purtroppo, è questa: anche alla luce degli avvenimenti di Sassari, vorrei sapere da lei qual è secondo lei il problema di fondo tra due realtà, due miserie, a confronto, cioè fra detenuti e polizia penitenziaria? Cosa crea questa tensione in carcere?

- Io intanto cerco di non leggere i giornali, perché i giornali danno veramente una visione distorta la quale poi è avallata da chi parla ai giornali. Non sono due miserie. La miseria è una sola, ed impropria, quella dei detenuti, perché molti non sono miserabili. C'è una quota consistente di poveracci. Non sono poveracci gli agenti penitenziari, perché un agente di polizia penitenziaria guadagna quanto un professore, è un poveraccio anche il professore, guadagna quanto un impiegato di questi uffici. Non sono alla fame, hanno una retribuzione per le trentasei ore settimanali e hanno dei compensi per lo straordinario, purtroppo. Purtroppo perché è necessario che facciano dello straordinario altrimenti non coprono tutti i posti che si rendono necessari per mandare avanti l'istituto. Quindi non sono dei poveracci. Questa è un'immagine completamente sbagliata e che è avallata da tutti coloro che danno informazione al riguardo. Erano dei poveracci i secondini di trent'anni fa, ora sono pagati regolarmente, non oro come tutti gli impiegati dello Stato, ma più di un operaio della F.I.A.T., per fare un esempio, o di un muratore. Semmai c'è da dire che la polizia penitenziaria è cresciuta in fretta nell'ultimo decennio arrivando ad essere quasi il doppio di quella che era precedentemente. Questa crescita molto veloce ha comportato che si sia ricorso nelle assunzioni a sistemi di reclutamento, propri di altre forze di polizia, che non sono stati il concorso pubblico. Quando si sono fatti dei concorsi pubblici, l'aumento della qualità è venuto subito in evidenza, perché emergono quelli che hanno un livello di cultura maggiore e quindi si ottengono gli elementi migliori. Ma se si attua un reclutamento, che si fa attraverso coloro che hanno fatto il servizio di leva o nella stessa polizia penitenziaria, o nell'esercito in questo modo si prende quel che c'è. Ci sono sempre delle forme di concorso, ma non c'è una selezione che invece il concorso riesce a realizzare. La cosa tragica di questa situazione è che in questi anni si è pensato a potenziare la parte della polizia penitenziaria che ha sempre avuto il ruolo essenziale della sicurezza e di custodia, per motivi di necessità. Sono invece rimaste esattamente le stesse per le altre qualifiche. Per esempio l'ultimo concorso per gli educatori è stato fatto nel 1991 e ha riguardato persone che erano già in servizio, quindi ha levato da altri servizi civili delle persone che c'erano di già. Il concorso precedente risale ad epocheconcorso che è arrivato fino in fondo e poi gli educatori non sono stati presi per ragioni burocratiche, non sono stati presi nell'amministrazione penitenziaria per adulti, ma sono andati nell'amministrazione penitenziaria per minori.

- Come vengono scelti allora gli educatori a questo punto?

- Per gli educatori a questo punto non ci sono concorsi, ci dovranno essere concorsi se andrà in porto questo progetto di aumento dell'organico. Per lo Stato l'organico degli educatori è ridotto a circa seicentocinquanta persone in tutta Italia. Ci sono educatori, che so io, a Sollicciano con mille detenuti ci sono cinque educatori, a Prato con cinquecento detenuti ci sono tre educatori di cui non sono sempre tutti in servizio.

- S.Gimignano allora è stata bene fino ad ora (su trecento detenuti ci sono, per poco tempo più, tre educatori)?

- Sì, tra le meglio. Però, poi succede anche questo, tutto quello che migliora la condizione di queste persone, diventa un ulteriore indebolimento. In questa massiccia forza numerica della polizia penitenziaria che è presente nella vita dell'istituto e invece si ha una massiccia assenza di altre persone come gli educatori, si crea questo dislivello enorme. Tutti i detenuti ci dicono: sono mesi che ho chiesto di parlare con gli educatori e non sono ancora venuti. Ed è così che vanno le cose. In questa situazione occorrerebbe veramente dare delle forze comparabili a tutti e non delle forze così disomogenee come invece sono e attribuire ad ognuno un compito per attuare la legge stessa. Invece in questa situazione, rafforzando il ruolo della polizia penitenziaria, si corre il rischio di rendere il carcere fortemente sicuritario, preoccupato quindi essenzialmente a questo aspetto, e indifferente ad un trattamento che effettivamente non si riesce a fare o che non si vuole fare. Il risultato è che la polizia penitenziaria, a parte gli elementi migliori, perché ce ne sono di molto bravi, tende a schiacciare il detenuto, a non farlo agire, ad incapacitarlo in qualche modo. Il detenuto deve stare fermo, buono, non dare noie e non far nulla. Questa è la cosa più tragica: questo è un quadro che produce inattività, inerzia. Il non lavorare diventa funzionale rispetto a questo sistema. E' meglio per tutti che stiano chiusi nelle loro celle, dove può succedere quello che si vuole, ma rimangono lì. C'è insomma questa forma di non-vita: dorme, televisione, passeggio, ogni tanto si picchiano e tanti saluti! Questo è funzionale ad un sistema costruito in tal modo e le cui distorsioni non vengono mai curate.

- Vorrei parlare anche di un altro argomento spinoso. Cioè del servizio sanitario in carcere e soprattutto se lei si è reso conto dell'altissima percentuale di malattie mentali in carcere da questo provocate o pregresse. In più vorrei sapere da lei se quando era ancora al D.A.P. a Roma c'è mai stata una programmazione a livello centrale, quindi, sul problema psichiatrico in carcere.

- La prima domanda deve partire però da una premessa, da una notizia cioè, che c'è una legge che ha affidato al S.S.N. la Sanità penitenziaria. La Sanità penitenziaria è nata ed è vissuta come un servizio dell'amministrazione penitenziaria ed è ancora oggi, perché la legge non è ancora stata attuata, un'articolazione dell'amministrazione penitenziaria. Con questa legge si è ricondotto anche il Servizio Sanitario in carcere al Servizio Sanitario Nazionale, come poteva essere fin dall'istituzione del S.S.N., perché il Servizio Sanitario in carcere non era previsto come eccezione alla regola. Il S.S.N. doveva coprire tutti gli ambiti, eccetto quelli previsti come eccezioni, ma il servizio penitenziario non era un'eccezione. Sennonché c'erano degli stanziamenti del Ministero di Grazia e Giustizia ed è nato come servizio degli istituti di pena. Con l'art.5, mi pare di questa legge di riforma del Servizio Sanitario Nazionale, si attribuisce al S.S.N. anche il servizio sanitario in carcere. Questa legge è dell'anno scorso e prevede dei decreti legislativi che sono già stati fatti, ma emergono le grosse difficoltà di questo passaggio. Sono previsti tali passaggi al S.S.N. solo in quattro regioni e soltanto il servizio delle tossicodipendenze, che per la verità era già passato per legge fin dal 1990 e secondo una lettura non fantasiosa poteva ritenersi passato per legge sin dal 1975 cioè con la prima legge sugli stupefacenti. La situazione ora non è molto diversa rispetto al passato. Non ritengo che vi sia un grosso deficit sanitario, c'è semmai un cospicuo deficit di salute, che è una cosa diversa. Una vita, cioè, antigienica in carcere, le chiusure protratte per una ventina d'ore nelle celle, questo è l'ordinario degli istituti di pena. Questo è un tipo di vita che nuoce indubbiamente alla salute, è sicuramente antigienico. Sa che c'è un medico francese[1], un medico penitenziario, che è arrivato alla conclusione che il carcere è l'ultima pena corporale, perché è una pena sul corpo, che produce le sue malattie ben identificabili. E' una pena corporale, non c'è niente da fare.

Psichiatria: sicuramente la vita in carcere fa sì che tale problema trovi un'attizzata nel fuoco di quell'ambiente. Certamente sono persone con problemi psichici pesanti, significativimolti di quelli che arrivano in galera. Ci sono per esempio le tossicodipendenze che presentano sempre più aspetti multiproblematici in cui non è proprio la sola tossicodipendenza, ma è anche il fatto psichiatrico. Ci sono dei gruppi di detenuti con questa componente psichiatrica che è aggiuntiva rispetto alle ragioni per cui delinquono e per cui vengono in carcere. I tossicodipendenti sono un gruppo, un gruppo numerosissimo. Gli stranieri sono un altro gruppo numeroso. La struttura carceraria deflagra la persona e il disordine che ne consegue non è tanto disordine, ma disagio di ordine personale, profondopsichiatrico in una parola. Io feci due circolariora non mi ricordo, dovrei trovare i dischetticercai in tutti i modi, con scarso successo sostanzialmente, per fare quello che la riforma del S.S.N. dovrebbe fare alla fine, poi. Cioè di realizzare la presa in carico del malato psichico. Questo perché il servizio psichiatrico in carcere era un servizio fatto da consulenti, cioè che non erano in organico, ma necessitava la chiamata dal carcere da parte del medico penitenziario in organico questo, invece. Funzionava così: c'erano i medici incaricati, in organico, che dopo una visita e su richiesta del detenuto, poteva prescrivere una visita di un consulente e solo così si poteva arrivare ad una visita da parte dello psichiatra. Non c'era quindi una presa in carico da parte del servizio psichiatrico, né un'organizzazione dei vari psichiatri che potesse configurarsi come servizio. Quindi lo sforzo che si tentò di fare con queste circolari era quello di organizzare un servizio e di fare in modo che questo servizio si prendesse in carico il malato e lo seguisse autonomamente dal servizio medico generale. Certamente un domani, quando il S.S.N entrerà in carcere questa cosa la farà, inesorabilmente. Per ora non c'è, comunque.

- Va bene. Ora sempre sul problema psichiatrico, vorrei chiederle informazioni su un aspetto marginale, anche se non troppo. Quando si tratta di T.S.O. deve ovviamente intervenire il parere di uno psichiatra; ora se lo psichiatra non prescrive un T.S.O. il giudice spesso è costretto ad applicare in via alternativa delle misure cautelari, nei casi in cui ci sarebbe bisogno di cure. Cosa mi sa dire su questo problema?

- Questo è possibile. Nel senso che ci sono casi che manifestano incertezze, pericolosità, difficoltà di adesione alle cure o anche non accettazione di cure assolutamente o della stessa malattia. Ci sono casi nei quali gli stessi familiari sono preoccupati e cercano di trovare la risposta in un trattamento sanitario e non sempre ci riescono. Questo anche perché la costruzione di un T.S.O. necessita del consenso della persona sottoposta alle cure, o perlomeno non deve essere contrario. Si scelse la parola obbligatorio invece che coattivo proprio perché si voleva che il trattamento non fosse fatto contro la persona, anche se ci sono casi in cui il trattamento deve essere fatto comunque. Non doveva essere una misura detentiva come il vecchio ricovero psichiatrico in manicomio, era una misura diversa che doveva fare sempre riferimento alla volontà della persona. Almeno formalmente un qualcosa che somigli ad un consenso ci deve essere per ricoverare in T.S.O.. Ecco queste non sono invenzioni, ma è un prendere atto della situazione di questa persona con caratteristiche rilevanti penalmente, minacce, maltrattamentinon si inventa un reato, ma si rileva un fatto penale che se non ci fosse una situazione critica dal punto di vista psichiatrico, probabilmente non si rileverebbe. Si rileva un fatto penale e si ricorre ad una misura cautelare, perché è l'unica che leva di mezzo la persona dal suo contesto, questo sì.

- Una parentesi. Il fattore 'tempo'. Cosa ne pensa del fatto che una persona venga condannata dopo un tempo estremamente lontano dal momento della commissione del reato, quando quindi l'emergenza provocata dal reato si è placata o comunque è trascorso un periodo così lungo per cui la persona è ormai necessariamente diversa, cambiata. Questo è un enorme problema che affligge il nostro paese, non crede? E come incide anche sulla funzione della pena?

- Questo è pacifico che si verifichi ed è pacifico anche che una delle ragioni che oggi legittimano ampiamente questo sistema molto allargato alle misure alternative, è proprio questo tempo lungo che c'è rispetto ai fatti; per cui è veramente iniquo intervenire su persone che hanno agito contro la legge cinque, sei anni prima e che ora sono in situazioni diverse. La misura alternativa consente di non far passare dalla galera, attenua questo grossissimo inconveniente che nasce dal processo. Non lo elimina, perché la misura deve essere fatta lo stesso. Poi basta che il residuo pena sia superiore a tre o quattro anni per il tossicodipendente e quindi in galera ci deve tornare.

- Ultima domanda di carattere generale: quali erano le sue idee, cioè gli scopi che voleva perseguire quando era al D.A.P. e quali sono le funzione che ha la pena oggi?

- Per capire quale sia la funzione della pena, pur se la parola funzione mi lascia un po' freddo, bisogna ripercorrere il cammino della Corte Costituzionale che è un cammino importante, il più autorevole rispetto a qualsiasi altro libro o autore. Nel senso che la Corte Costituzionale individua qual è la funzione della pena e quella è la funzione della pena per il nostro sistema. Che poi ci siano delle divagazioni filosofiche sulla funzione della pena, non ci interessa. Quello che dice la Corte Costituzionale è la scelta che fa il nostro sistema giuridico per la pena.

- Nel momento storico in cui si pronuncia, però

- Nel momento in cui viviamo, che è il momento che ci riguarda. Qui c'è un percorso di sentenze molto preciso che comincia con la sentenza n°204 del 1974, poi trova un seguito nelle sent. n°343/87 e n°282/89, poi ce n'è una del 1990, la n°125 in materia di minori e poi una importante, di cui non mi ricordo il numero, che riguarda la funzione della pena rilevante ai fini della determinazione della pena. Nel primo testo del patteggiamento vennero fuori molte eccezioni di costituzionalità che impediva al giudice di esercitare il potere di definire la pena, perché erano le parti che contrattualmente la stabilivano. Questo poteva far sì che ci fosse una pena senza criteri di inflizione, i criteri di inflizione riguardavano il giudice nella sua definizione della pena. Invece le parti potevano scegliere criteri diversi che potevano non corrispondere a quelli che doveva avere la pena se applicata dal giudice. Lì ci fu una sentenza che stabilì la necessità di una pena congrua, in modo da consentire che la pena avesse quelle finalità che poi la Costituzione gli attribuisceil perno di tutto è l'art.27 e le finalità rieducative della pena. Quello che è interessante del percorso della Corte è che lei si disincaglia da questa disputa, che io chiamerei filosofica o di sistema giuridico che sono quelli della funzione afflittiva, della funzione rieducativa, della funzione retributiva ecc. e cerca di cogliere non la funzione, ma il funzionamento della pena: come la pena deve essere gestita per arrivare a certi risultati, che sono quelli della finalità rieducativa. E qui le sentenze, soprattutto quelle di mezzo, cioè la n°343/87 e la n°282/89, sono importanti perché si stabilisce un sistema che viene chiamato di sostegno-controllo nel quale il detenuto è seguito e gli vengono dati degli strumenti sociali, relazionali che gli consentono di raggiungere questo risultato di riabilitazione, di reinserimento sociale corretto. Quando ero al D.A.P. io da subito ho detto: 'Amici miei, qui c'è la legge penitenziaria, non è assolutamente applicatasi tratta di applicarla'. Se la legge penitenziaria dice che ci vuole l'osservazione e il trattamento e gli elementi del trattamento sono questi (fa un gesto con la mano, come per indicarli), quelli di cui si parlava all'inizio, e noi constatiamo che non sono assolutamente attuati, bisogna farlo. Intanto si deve prendere atto che ci vuole effettivamente un'organizzazione diversa per far funzionare tutto questo e che noi siamo in cammino per questa organizzazione con le risorse modestissime di cui disponiamo, dobbiamo comunque cominciare a camminare verso questa strada. In contemporanea c'era lo sforzo perché tutta l'organizzazione diventasse adeguata. Questo sforzo è uscito fuori in una legge che prevede la riorganizzazione dell'Amministrazione Penitenziaria con una spesa ancora modesta rispetto alle esigenze, ma insomma se la applicasseroil ministro Fassino ha fatto apparire come un intervento quello che è semplicemente l'approvazione finale di una legge dello scorso anno. L'anno scorso è uscita una legge che riguarda tutta la riforma organizzativa dell'amministrazione penitenziaria e in cui c'è spazio per un forte potenziamento degli organici anche civili. Dopodiché forse si potrà ragionare di più. Lavorando anche qui, in istituto, mi rendo conto che se le persone vogliono fare possono fare di più, anche ora che le condizioni non sono buonecon la miseria che c'è. Capisco che le cose siano imperfette, non esce fuorioro, ma una lega modesta di metalli pregiati, ma insomma qualcosa volendo cambia. Quantomeno si evitano questi climi pesanti e deleteri, che sono poi all'origine degli episodi che poi hanno fatto scandalo. Sono questi episodi che si legano ad un clima, il clima c'è da tutte le parti, non solo a Sassari. Ripeto: è una questione di volontà.





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