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Illegittimità costituzionale dell'ergastolo, fenomeno insormontabile o problema risolto?
Il nostro codice penale, all'articolo 22 recita: "La pena dell'ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno. Il condannato all'ergastolo può essere ammesso al lavoro all'aperto." istituendo così una pena la cui durata è incerta e indefinita, in quanto destinata a cessare solo alla morte del condannato. È, in seguito all'eliminazione della pena di morte, la sanzione più grave presente nel nostro ordinamento.
Il codice Rocco è stato promulgato nel 1930, in un'epoca di forte rigore e repressione, quindi l'esistenza di una pena dalla durata indefinita veniva considerata legittima e, forse anche, doverosa. Nel 1948 entra però in vigore la Costituzione Italiana, la quale, all'articolo 27, comma 3, prevede che "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato." ed è da qui che comincia il dibattito sia in dottrina sia in giurisprudenza sull'effettiva legittimità dell'istituto dell'ergastolo.
Parte della dottrina sostiene con forza la necessità dell'abolizione totale dell'istituto richiamandosi al principio contenuto nell'art. 27 della Costituzione e osserva che la pena detentiva perpetua non può raggiungere, né conseguire il fine che il nostro legislatore, dopo la promulgazione della Costituzione, aveva assegnato alla pena, intesa non solo come mezzo per ristabilire l'ordine violato e come intimidazione nei confronti di futuri eventuali delinquenti, trattenuti dal violare la norma proprio per timore della sanzione, ma anche e soprattutto come mezzo per ottenere la rieducazione del reo. Questo ultimo fine, proprio del sistema punitivo, non può in pratica essere conseguito da una pena che, come l'ergastolo, presenta un carattere perpetuo e relativo[1]. Per contro a queste posizioni veniva data etichetta di "esigenze sentimentali, prima che ragioni logiche e razionali, che hanno formato il lievito di tali presunti spiritualisti che si sono divertiti a demolire le basi razionali del diritto penale" .
Per ciò che riguarda la giurisprudenza, già dal 1956 comincia la difesa dell'istituto, con un'ordinanza della Cassazione[3] in cui si affermava che nessun riferimento, esplicito o implicito, all'ergastolo fosse contenuto nell'art. 27 della Costituzione, il quale si limitava soltanto a statuire che 'le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato' e che la Costituzione non avesse espressamente escluso la pena dell'ergastolo, a differenza di quella di morte che veniva appositamente citata nella Carta. Tesi poi rinforzata dalla, nel frattempo costituitasi, Corte Costituzionale che dichiarò non fondata la questione di costituzionalità dell'art. 22 del Codice penale in riferimento all'art. 27, terzo comma, della Costituzione, sollevata dall'ordinanza della Corte d'assise di Verona del 15 marzo 1972 con la sentenza 2 novembre 1974, n. 264 .
Nel 1962 entra in vigore la legge 1634/62, recante disposizioni di modifica alle norme del codice penale in tema di ergastolo e liberazione condizionale che introduce la possibilità, per l'ergastolano, di accedere al lavoro all'aperto anche in caso di isolamento diurno ma, più importante, concede il beneficio della liberazione condizionale scontato un minimo di pena; mentre nel 1975 si ha la riforma dell'ordinamento penitenziario (legge 354/75 a sua volta riformata dalla legge 663/86) con l'introduzione di semilibertà e liberazione anticipata in una formulazione che, ad litteram, non ne permetteva l'accesso agli ergastolani.
Con la sentenza n. 274 del 1983, la Corte costituzionale - chiamata a pronunciarsi sul problema dell'esclusione dei condannati all'ergastolo dalla fruizione della liberazione anticipata e della semilibertà - giunse, per un verso, ad una declaratoria di illegittimità parziale della vigente disciplina e per un altro verso, ad una pronuncia di inammissibilità.
Per quanto riguarda la dichiarazione di inammissibilità della questione di illegittimità costituzionale dell'art. 50 della legge 354/75, occorre premettere che il giudice a quo aveva fondato la richiesta sulla constatazione dell'impossibilità, derivante dal complesso delle norme che disciplinavano la semilibertà e che richiedevano il computo totale della pena inflitta, di applicare la misura ai condannati all'ergastolo, proprio in virtù della indefinitezza del periodo da scontare e così la Corte aveva basato il giudizio su l'impossibilità "di apprestare una particolare disciplina, determinando quanta parte della pena dovrebbe essere stata già espiata dal condannato all'ergastolo perché possa esser presa in considerazione la sua ammissione al regime di semilibertà. Ma provvedere su una siffatta domanda implicherebbe una scelta discrezionale che eccede i poteri di questa Corte"[5].
La sentenza 274 del 1983 riveste poi grande importanza per la declaratoria d'illegittimità costituzionale formulata nei confronti dell'art. 54 della Legge 354 del 1975: 'nella parte in cui non prevede la possibilità di concedere anche al condannato all'ergastolo la riduzione di pena ai soli fini del computo della quantità di pena così detratta nella quantità scontata, richiesta per l'ammissione alla liberazione condizionale'. In tal modo si riconosce l'operatività nei confronti degli ergastolani, anche se con i detti limiti, del beneficio di cui all'art. 54 della legge penitenziaria, che fino a questo momento era riconosciuta soltanto dalla dottrina più avanzata[6], e non priva di seguito nella giurisprudenza di merito, ma sempre rigettata dalla Corte di Cassazione .
Si capisce così quanto la disciplina prevista dalla legge 663 del 1986 sia influenzata dal contenuto della sentenza del 1983: s'impone, proprio a seguito della sentenza, la rimozione di ogni ostacolo circa l'applicabilità agli ergastolani delle riduzioni di pena previste dall'allora vigente art. 54 della 354/1975 ma soprattutto si rinnovano alcuni indirizzi di politica legislativa, per conformarli al testo costituzionale, per quanto attiene ai rapporti tra pena dell'ergastolo e misure premiali previste dall'Ordinamento Penitenziario. Sulla base delle indicazioni contenute in questa sentenza, il legislatore dell'86 sembra quasi concedere l'accesso dei condannati all'ergastolo ai benefici che la legge 354 del 1975 prefigura nei confronti degli altri condannati a pene detentive. Più precisamente, la legge si preoccupa di dettare alcune specifiche disposizioni legate alla natura perpetua della pena, dirette a definire i presupposti oggettivi per l'ammissione dei condannati all'ergastolo a dette misure.
Nel 1986, quindi, la reale 'consistenza afflittiva' dell'ergastolo deve essere soppesata tenendo conto di tutti gli istituti risocializzativi che possono innestarsi su di esso: non solo i permessi premio, la semilibertà e la liberazione condizionale, che già di per sé realizzano un sistema perfettamente progressivo dalla detenzione ordinaria alla libertà piena; ma anche la fruibilità delle riduzioni di pena da parte dell'ergastolano, con conseguente anticipazione dei termini di fruibilità di tutti gli istituti prima ricordati. Nonostante questo, l'ergastolo continua ad esistere nel nostro ordinamento.
L'ultima 'apertura' ai benefici per gli ergastolani si ha con la sentenza n. 161 del 1997, che ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 177, primo comma, del Codice penale, 'nella parte in cui non prevede che il condannato all'ergastolo, cui sia stata revocata la liberazione condizionale, possa essere nuovamente ammesso a fruire del beneficio, ove ne sussistano i relativi presupposti', perché in caso contrario, come si legge nella motivazione della sentenza, il mantenimento di questa preclusione assoluta sarebbe corrisposto, per l'ergastolano, ad una sua permanente esclusione dal processo rieducativo e di reinserimento sociale, in palese contrasto con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, efficace anche nei confronti degli ergastolani (figlia di questa sentenza sembra essere la 135/03, in materia di liberazione condizionale, in cui assume rilevanza, ai fini del reinserimento sociale del reo, la collaborazione oggettivamente esigibile con la giustizia, come strumento idoneo a rimuovere la preclusione operante ai sensi dell'art. 4-bis, comma 1, prima parte della legge del 75).
La decisione in esame tocca, ancora una volta, uno degli argomenti più controversi dell'ordinamento penale italiano: quello della legittimità dell'ergastolo e della sua concreta perpetuità e risulta finalmente evidente il tentativo di mitigare la posizione di chi si trovi condannato a pena perpetua (la quale tecnicamente parlando rimane tale) al fine di renderla di fatto non più 'a vita' e, quindi, più aderente al principio della finalità rieducativa della pena dell'articolo 27, ma senza assumere una posizione più decisiva sull'argomento che non sia quella di continuare a mantenere sempre e comunque l'ergastolo nel nostro ordinamento.
Cfr. Carnelutti F., La pena dell'ergastolo è costituzionale?, in Rivista di diritto processuale, 1956.
Bettiol, Sulle massime pene, morte ed ergastolo - in Rivista italiana di diritto penale, pg 557 - 1956
fonte: www.cortecostituzionale.it
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