Garanzie
dei diritti dei lavoratori
In generale, per garanzia
deve intendersi il rafforzamento della tutela di un bene o interesse
giuridicamente protetto e, quindi, di un diritto soggettivo. L'ordinamento, a
tal proposito, circonda i diritti del lavoratore di una serie garanzie di
diversa natura. Un primo gruppo è ravvisabile nelle normali garanzie del
credito, quando siano attribuite al prestatore di lavoro nella sua qualità di
titolare, appunto, di diritti di credito. Viene, dunque, attribuita al
lavoratore una posizione di preferenza (cioè una causa legittima di prelazione) nel soddisfacimento sui beni del
datore di lavoro. È riconosciuto un privilegio
generale sui mobili del debitore per "le
retribuzioni dovute sotto qualsiasi forma, ai prestatori di lavoro subordinato
e tutte le indennità dovute per effetto della cessazione del rapporto di
lavoro, nonché il credito del lavoratore per i danni conseguenti alla mancata
corresponsione, da parte del datore di lavoro, dei contributi previdenziali ed
assicurativi obbligatori ed il credito per il risarcimento del danno subito per
effetto di un licenziamento inefficace, nullo o annullabile". Le norme sui
privilegi trovano, comunque, applicazione nell'ipotesi del fallimento o delle
altre procedure concorsuali. Per tali ipotesi, infatti, in seguito ad una direttiva dell'80, gli Stati membri
sono stati obbligati a dotarsi di un sistema assicurativo, in grado di
sollevare i lavoratori dai rischi connessi all'insolvenza del datore di lavoro;
è stato, infatti istituito un fondo di
garanzia per il T.F.R. avente lo scopo di sostituirsi al datore di lavoro,
non soltanto nel caso d'insolvenza, ma anche nel caso di una semplice
inadempienza di quest'ultimo, nel pagamento del t.f.r. Un'ulteriore forma di
garanzia dei crediti e, in generale, dei diritti del lavoratore, è disposta
dall'art. 2112 c.c., che disciplina gli effetti del trasferimento dell'azienda sui rapporti di lavoro. Esso è stato
oggetto di una specifica disciplina comunitaria volta a tutelare i diritti dei
lavoratori in caso di trasferimento d'impresa, di stabilimenti o di parti
d'imprese e stabilimenti. Il consiglio dell'U.E. è intervenuto tre volte in
materia con delle direttive risalenti al 1977,
1980 e 2001. la disciplina prevista si articola, però, in due parti
fondamentali:
- la I° dedicata alla tutela dei diritti
dei lavoratori, impone agli Stati membri, di garantire, attraverso norme
di diritto interno, che le posizioni soggettive, relative ai rapporti di
lavoro, intercorrenti con il cedente, si trasferiscono al cessionario e il
trasferimento in sé non sia considerato valido motivo di licenziamento;
- la II°, invece, impone agli Stati di
adottare misure legislative, idonee a consentire, in occasione di
trasferimento, lo svolgimento di una procedura d'9nformazione e
consultazione sindacale.
Un altro e particolarmente importante aspetto del sistema delle
garanzie dei diritti del lavoratore subordinato è quello della facoltà di disposizione dei diritti
attribuitigli. La compressione, o addirittura, la soppressione, può esser resa
necessaria dall'esigenza di tutelare o un interesse pubblico oppure un
interesse privato del titolare stesso. A tal riguardo, si ricorda l'art. 2113
c.c. che è stato, però modificato nel 1973. La nuova legge, infatti, ha esteso il
campo d'applicazione della norma ai prestatori di lavoro autonomo, la cui opera
prevalentemente personale abbia carattere continuativo e coordinato all'impresa
del datore di lavoro; ha prolungato il termine da 3 a 6 mesi del regime
dell'impugnazione della rinunzia o transazione; ha previsto, infine, la
trasformazione dell'atto d'impugnazione da giudiziale a stragiudiziale. L'art. 2113 c.c. dispone che: "non sono valide le rinunzie e le transazioni
aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni
inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi, concernenti i rapporti
di lavoro subordinato, oppure autonomo ed associato. L'impugnazione dev'essere
proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del
rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono
intervenute, dopo la cessazione medesima. Le rinunzie e le transazioni possono
essere impugnate con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale del
lavoratore idoneo a renderne nota la volontà". La rinunzia è l'atto (negozio giuridico recettizio) tendente alla
dismissione di un diritto soggettivo da parte del titolare. La transazione è il contratto mediante il
quale le parti, facendosi reciproche concessioni, rimuovono una lite esistente
o prevengono una lite eventuale. Anziché affidare al giudice dello Stato o ad
un arbitro, le parti, rinunziando ciascuno a parte dell'originaria pretesa,
compongono la lite mediante un atto che è, per l'appunto, espressione
dell'autonomia privata. A delicati problemi dà luogo, poi, la cosiddetta rinunzia tacita, cioè derivante da una
manifestazione indiretta della volontà negoziale, una tale situazione sembra
esclusa per i negozi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro, rispetto alle quali l'art. 2113
c.c., fa decorrere il termine di decadenza dalla data del negozio. L'atto stragiudiziale d'impugnazione deve
essere in forma scritta, pena
d'inefficacia con la funzione di "comunicare al datore di lavoro la volontà del
lavoratore di privare il negozio di rinunzia o transazione della sua
efficacia": si tratta, dunque, di una dichiarazione unilaterale di volontà
recettizio. L'invalidità deve, comunque essere sempre dichiarata dal giudice.
L'oggetto dell'impugnazione e della
successiva azione di annullamento, è la "restituzione", o quanto meno, la
"riparazione" di diritti lesi, in conseguenza del negozio invalido. L'atto
stragiudiziale tempestivamente proposto, da un lato impedisce la decadenza
dell'azione e, dall'altro, apre un periodo, durante il quale l'efficacia del
negozio di rinunzia o transazione è provvisoria. L'invalidità disposta dall'art.
2113 c.c. è pur sempre da riportare al "principio dell'inderogabilità" del
regolamento contrattuale collettivo, infatti, per mezzo dell'effetto
dell'annullabilità, all'autonomia negoziale del prestatore di lavoro viene
imposto un limite rappresentato dal minimo inderogabile di trattamento
economico e normativo. Di conseguenza, si ha una limitazione non totale ma
soltanto parziale della facoltà di disposizione dei diritti soggettivi
attribuiti alla titolarità del lavoratore. In tal senso la norma dell'art. 2113
c.c. funge da garanzia di livelli minimi imposti, a pena di nullità, dalle
norme imperative. Il comma 4° dello stesso art., però, dispone che: "sono valide, e perciò non impugnabili, le
rinunzie e le transazioni intervenute in sede di conciliazione delle
controversie individuali. In tale sede (che può essere sia giudiziale, sia
amministrativa o sindacale) la
disposizione dei diritti avviene con l'assistenza dell'organo conciliatore".
La "Ratio" della limitazione disposta dall'art. 2113 c.c. è comunque, da
ravvisare nella situazione di inferiorità del prestatore, nella sua qualità di
contraente debole. Al sindacato non si può riconoscere un potere collettivo di
disposizione dei diritti del singolo lavoratore. Per tanto le cosiddette transazioni collettive, concluse dal
sindacato nell'interesse di più lavoratori, ma in assenza di uno specifico
mandato conferito da questi ultimi, necessitano dell'adesione individuale nella
forma della ratifica o in forma equivalente. Esistono, poi, le cosiddette quietanze a saldo (o liberatorie), cioè
delle dichiarazioni rilasciate dal lavoratore di aver ricevuto alcunché, con
l'ulteriore dichiarazione di rinuncia ad ogni eventuale futura pretesa. Esse
sono, però, poco rilevanti perché non possono fornire la prova documentale di
un'eventuale rinunzia o transazione e si è, quindi, esclusa l'applicabilità
dell'art. 2113 c.c., a simili atti, qualificati come semplici "dichiarazioni"
sottratte all'essere della tempestiva impugnazione. Secondo la disciplina
codicistica, i diritti del prestatore di lavoro sono, di regola, sottratti alla
prescrizione ordinaria decennale e
sottoposti, nella loro tipica qualità di crediti di natura retributiva, sia
periodica che differita, alla
prescrizione quinquennale disposta dall'art. 2948 c.c. concernente, in genere,
"tutto ciò che deve essere pagato
periodicamente ad anno o in termini più brevi, nonché, specificamente, le
indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro".
L'operatività della prescrizione ordinaria deve considerarsi situazione
eccezionale, verificabile nei casi in cui dal rapporto derivino al prestatore
di lavoro diritti diversi da quello alla retribuzione (risarcimento del danno
contrattuale); analogamente, in materia di risarcimento del danno per il
mancato versamento dei contributi assicurativi il termine di prescrizione è
quello decennale, con decorrenza dal verificarsi dell'evento dannoso. Alla
prescrizione estintiva dei diritti, si aggiunge, poi, lo speciale regime della
prescrizione presuntiva, la quale fa salva la prova contraria, limitata alla
confessione giudiziale o al giuramento decisorio, forniti dalla controparte,
del pagamento del debito. Tale prescrizione è di un anno per il diritto dei
prestatori di lavoro alle retribuzioni corrisposte a periodi non superiori ad
un mese e di tre anni per quelle corrisposte a periodi di oltre un mese. Il
"regime" della prescrizione è inderogabile ed irrinunciabile e il suo "effetto"
può essere considerato sostanzialmente "equivalente" all'effetto dismissivo,
proprio della rinunzia e della transazione a vantaggio del datore di lavoro. La prescrizione è, dunque, un modo generale
di estinzione dei diritti per mancato esercizio da parte del titolare, durante
il periodo di tempo indicato dalla legge. La sua decorrenza indica il
momento, a partire del quale il mancato esercizio del diritto acquista
rilevanza: da quel momento inizia a computarsi il periodo di tempo, determinato
dalla legge e alla fine del quale si avrà l'estinzione del diritto. C'è
differenza tra sospensione ed interruzione della prescrizione: nel I° caso, il
mancato esercizio del diritto perde temporaneamente rilievo e, dopo la
cessazione temporanea, la prescrizione riprenderà dal punto in cui si era
fermato; nel II° caso inizia un nuovo periodo di prescrizione ed il tempo
decorso prima dell'interruzione perde rilevanza definitivamente. La decadenza è l'istituto in virtù del
quale, come prevede l'art. 2964 c.c., l'esercizio di un diritto viene
sottoposto ad un termine perentorio. Diversamente dalla prescrizione, essa
produce la preclusione dell'esercizio del potere da parte del suo titolare, e
non la perdita del diritto. La decadenza può essere legale o contrattuale, a
seconda che il relativo termine sia fissato dalla legge o da contratto
dell'autonomia privata. Quindi:
- prescrizione: perdita o acquisto di un
diritto per decorso del termine;
- decadenza: perdita di un diritto perché
non esercitato entro un dato termine.
Ance la decadenza e la prescrizione possono essere considerate come un'indiretta
abdicazione delle posizioni soggettive di vantaggio garantite dalla legge e dai
contratti collettivi al prestatore di lavoro. La giurisprudenza della Corte
Costituzionale si è assunta il compito di rendere esplicito il principio della
disponibilità limitata dei diritti del lavoratore anche in tema di prescrizione
e decadenza, che il codice civile aveva lasciato operare secondo il regime
normale nei confronti dei diritti del lavoratore. A tal proposito, si ricordi
la storica sentenza n. 63/'66 con la
quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità di alcuni articoli
del codice civile "limitatamente alla
parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione
decorra durante il rapporto di lavoro". La Corte ha argomentato il timore, di
perdere il posto, del lavoratore, sostenendo che durante il rapporto di lavoro
egli si trova in una situazione di soggezione, almeno psicologica, da
impedirgli l'esercizio pieno dei suoi diritti; il lavoratore potrà sempre
reclamare il soddisfacimento dei propri diritti, rivendicandone l'attuazione
anche dopo molti anni. Le garanzie di
tipo strumentale, cioè relative all'attuazione dei diritti del prestatore
di lavoro, prevedono che la composizione delle controversie individuali di
lavoro, possa essere in forma tanto giudiziale quanto stragiudiziale. La conciliazione giudiziale può avvenire
in ogni momento del processo su iniziativa del giudice, il quale è tenuto a
tentarla sin dai primi momenti del giudizio; qualora venga raggiunta, ha
efficacia di titolo esecutivo. La conciliazione stragiudiziale è quella tentata
in sede amministrativa o sindacale. L'arbitrato
è un istituto per mezzo del quale le parti pervengono alla controversia
attraverso il deferimento, ad un 3°, del potere di decisione. Esso può essere,
però, rituale se si svolge come un vero e proprio giudizio, secondo delle norme
stabilite dalle stesse parti nel compromesso; o irritale quando le parti
rimettono all'arbitro la composizione della controversia in via negoziale e non
giurisdizionale.