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IL MONACHESIMO
LA REGOLA
Il Monachesimo non nasce dal nulla, esso è preceduto dall'Anacoretismo, per il quale una vocazione radicale spingeva i fedeli più intransigenti a separarsi completamente dal mondo per meglio avvicinarsi a Dio. Così fu per San Pacomio che avviò con qualche discepolo un'esperienza cenobitica (austera) destinata ad imporsi non solo come modello ad Oriente, ma anche ad influenzare da vicino la nascita e lo sviluppo del Monachesimo occidentale. La Regola era probabilmente l'assenza di regole oggettive che distogliessero la soggettività dal perseguimento dell'imitazione di Cristo. Ma, ben presto, la vita in comune che consentiva determinati vantaggi in termini di scambio di esperienza e di organizzazione completa, cominciò a basarsi su una Regola. Essa, posta dal Maestro, tendeva a tracciare un modo di vita e l'orizzonte di una spiritualità che contribuissero a caratterizzare ed insieme a rendere più proficua l'esperienza comunitaria che, se fosse stata affidata all'improvvisazione, avrebbe finito col distogliere dal proprio scopo coloro che in assoluta libertà avevano scelto di intraprendere la via della perfezione. Nelle Regole antiche si riflette la previsione dei ritmi di vita consoni alla meditazione e alla ricerca interiore, e non vi è spazio per l'organizzazione giuridica. La prima Regola affermatasi in Occidente è quella di Agostino che tentava di inseguire una vita comunitaria perfetta che avesse un "solo cuore ed una sola anima in Dio". La libertà è il vero fondamento della Regola, per questo molte Regole antiche sono incomplete e frammentarie. Spicca inoltre anche la Regola di San Benedetto da Norcia perché è la prima nella quale comincia a delinearsi una dimensione giuridica. Non è a caso che questa Regola cominci col delineare la figura dell'Abate, che nel monastero fa le veci di Cristo. All'autorità dell'Abate fa riscontro il dovere d'obbedienza dei monaci. In questa concezione verticale cominciano a delinearsi i modi d'elezione dell'Abate. Questa regola fungerà da esempio per altre vocazioni monastiche. La Regola, o le Regole, tenderanno a riflettere la specificità di ogni singola esperienza religiosa associata. E nel moltiplicarsi di queste realtà, nel XIII, secolo, la Chiesa decide di intervenire e di porre il principio secondo il quale solo le Regole riconosciute dalla Santa Sede avranno valore giuridico.
L'ABATE
La successione nella guida della vita associata avviene per diretta investitura, del fondatore, prima, e degli Abati poi. Già nella Regola di San Benedetto viene sancito il principio secondo il quale tocca a tutta la comunità "concordemente secondo il timor di Dio" designare la figura adatta a ricoprire il ruolo di Abate (Prima garanzia). L'Abate può esser designato anche solo da una parte della comunità perché a volte, la verità può trovare migliore cittadinanza in quella parte di assemblea che, pur essendo minoritaria, si riveli per l'autorevolezza dei suoi componenti maggiormente rappresentativa. La seconda garanzia che San Benedetto pone a tutela della miglior conduzione delle comunità che si ispirano al suo esempio riguarda la figura cui l'Abate deve corrispondere. L'Abate deve, per esempio, far prevalere la misericordia sulla giustizia o deve cercare di essere amato più che temuto. La terza garanzia riguarda la possibilità di intervento nel processo elettorale dell'Abate da parte di forze esterne all'abbazia stessa (o del Vescovo della diocesi cui appartiene l'abbazia, o degli Abati, o dei cristiani vicini). Questa possibilità è ammessa solo nel caso in cui i monaci eleggessero una persona non degna di tale compito. Questa Regola dettava alcuni principi cardine in materia elettorale, ma non entrava nei dettagli che erano stabiliti da ogni singolo monastero. Nel corso degli anni nacquero quindi molteplicità di usi e consuetudini elettorali per soddisfare le esigenze dei luoghi e dei contesti storici.
I RAPPORTI CON L'AUTORITA' EPISCOPALE
Sin dal primo espandersi del monachesimo in Europa si pone il problema relativo al rapporto con l'autorità episcopale. In queste dispute emergeva con chiarezza la line di tendenza delle comunità monastiche ad essere autonome, esenti rispetto alla giurisdizione vescovile. I monasteri col passare degli anni cominciarono ad avere una massa di beni patrimoniali notevole; questo fece sì che le abbazie diventarono prede cospicue per l'appetito di principi, di signori laici e non meno dei Vescovi. Il tentativo di spogliare i monasteri dai loro beni giocò un ruolo determinante nell'applicazione dell'istituto dell'esenzione. In questo si passò da un sistema di diritto privilegiario che ogni monastero contrattava col Vescovo del luogo, ad un sistema di esenzioni che assicurava piena e totale autonomia a ogni singolo monastero. La possibilità di avere o meno giurisdizione propria dipendeva dalla fama di cui godeva quella comunità, i monasteri più potenti riuscivano ad averla, gli altri rimanevano soggetti al Vescovo. La svolta a questo stato di cose si verifica con la fondazione dell'abbazia di Cluny, che viene posta sin dalle origini sotto la giurisdizione del Vescovo di Roma. Per questa via realizzava un'importante evoluzione nel sistema delle esenzioni degli Ordini religiosi. Per essa, se da un lato la Santa Sede pretende di approvare o confermare la nascita di nuovi Ordini religiosi o Congregazioni monastiche, dall'altro concede con sempre maggior frequenza l'esenzione dalla giurisdizione episcopale. Questa nel XII secolo è ormai concessa a tutte le Congregazioni e Ordini monastici. Nel concilio Lateranense IV si proibisce di fondare nuovi ordini religiosi, facendo obbligo a che voglia imitare la sequela di Cristo di non porre una Regola nuova, ma di assumerne una già precedentemente approvata.
Proprio nel periodo di affermazione del papato si assiste a una divaricazione significativa. Il sistema elettorale per designare Vescovi e archipresbiteri, infatti, cade in desuetudine e il procedimento di designazione del Romano Pontefice viene riportato alla competenza di un collegio assai ristretto, il collegio cardinalizio. L'esigenza di salvaguardare l'indipendenza della Chiesa tutta spinge la gerarchia ecclesiastica a rifuggire dai sistemi elettivi, fino a richiudersi su se stessa, scegliendo la via della cooptazione per garantire la continuità della propria classe dirigente. Del tutto diversa la situazione nell'universo dei regolari, i quali, avendo raggiunta la garanzia della propria indipendenza attraverso l'istituto dell'esenzione, continuano a scegliere le proprie guide secondo sistemi elettorali che si differenziano notevolmente da Ordine a Ordine.
IL RUOLO DELL'ASSEMBLEA
Il mandato che un'assemblea conferisce a un Abate o a un superiore generale si radica, prima che nella fiducia sulle sue capacità di governo, nel suo prestigio spirituale e morale. Nell'universo monastico il privilegio dell'Abate di scegliere il suo successore dura poco, per lasciare presto il campo all'affermarsi di un organo assembleare designato ad eleggere direttamente la guida della comunità. Nel mandato che l'assemblea gli affida, non rientra il potere di legiferare, egli non è una fonte legislativa, ma della legge egli è guardiano, servitore e interprete. La Charta Caritatis (Ordine cistercense) istituisce la prima assemblea rappresentativa, formata da rappresentanti del potere locale (singolo monastero) regolarmente eletti, che in poco tempo acquisirà un'autorità istituzionale con vastissimi poteri legislativi, esecutivi e giudiziari, tra i quali quello di rimuovere gli Abati indegni, delineare una politica di solidarietà tra le abbazie. affermatosi la centralità dell'assemblea nel mondo benedettino, questa stessa centralità ha trovato cittadinanza anche in altri ordini religiosi (Dominicani, Francescani, Gesuiti). L'assemblea, oltre alla sua connotazione di collegio elettorale, eserciterà, a intervalli regolari, dei controlli sull'operato del governo.
Secondo la Chiesa, le decisioni dovrebbero essere sempre prese tendenzialmente all'unanimità. Questo principio della partecipazione generale ha tenuto un posto fondamentale, nel diritto dei religiosi e nella sua evoluzione. La possibilità e la necessità di decentrare l'attività di governo, attuando così una partecipazione più larga alla vita istituzionale dell'Ordine è conosciuta dai Benedettini e portata a definizione normativa dai Francescani a dai Dominicani.
Il modo di elezione per acclamazione unanime venne di fatto abbandonato, anche se il Concilio Lateranense lo contempla in astratto. Il raggiungimento della maggioranza relativa ha trovato difficile cittadinanza nei sistemi elettorali elaborati dalle Costituzioni degli Ordini religiosi, che si sono sempre sforzati di raccogliere il maggior consenso possibile intorno alla figura destinata a reggere l'autorità. Lo stesso San Benedetto nella propria Regola aveva cercato di mitigare la portata del principio maggioritario esigendo, per l'elezione dell'Abate, non solo la pars maior ma anche la pars senior, quella cioè che annoverava entro le proprie fila la componente più qualificata e prestigiosa della comunità monastica. L'introduzione di un sistema maggioritario puro e semplice si deve ai Dominicani, i quali nelle loro Costituzioni elaborarono un sistema che sembra abbandonarsi di più e con maggior fiducia alla volontà comune. Dopo i Dominicani molti altri Ordini modificarono in questo senso le loro Costituzioni (i Francescani, gli stessi Benedettini, i Certosini). all'interno di questa compagine si faceva sempre più strada il principio che nella volontà dei più risiede la legittimità del potere.
IL VOTO
L'affermazione del principio maggioritario va di pari passo col consolidarsi di una serie di modalità e di tecniche di voto che ne garantiscano la libertà, la trasparenza, l'efficacia. L'espressione del voto può essere data in modo pubblico o privato. L'uso di votare per seduta e alzata, abbassando o rialzando il cappuccio, levando la mano o schierandosi da una parte o dall'altra della sala capitolare, sono tutti modi di esprimere pubblicamente il voto. L'introduzione dello scrutinio segreto ha origini consuetudinarie antiche. Ma altre modalità che tendevano a preservare in misura maggiore la segretezza del voto, furono introdotte in epoca immediatamente successiva. Tra queste l'uso, inaugurato dai Francescani, di deporre in un'urna posta all'uscita della sala capitolare delle fave, delle ballotte o dei sassi. Dalle fave si passò alle schede con l'accorgimento di bruciarle dopo ogni scrutinio. L'adozione dello scrutinio segreto divenne vincolante per opera del Concilio di Trento. Inoltre gli Ordini religiosi determinavano anche gli aventi diritto, la durata delle operazioni di voto. Risale all'universo canonistico la distinzione tra elettori iscritti e votanti veri e propri, accolta e applicata dagli ordinamenti secolari. L'astensione invece non è ammessa. La maggioranza delle costituzioni religiose sottolinea come il voto sia indissolubilmente legato alla libertà di coscienza. A partire dal XII secolo sono vietati esplicitamente la promessa di voto in cambio di favori, la diffusione di notizie a danno di un eleggibile.
L'INNO
Un inno chiudeva normalmente tutta la sequenza degli atti nel quale si dipanava l'elezione. Canto gregoriano è il termine collettivo che si usa dare a un determinato stile di canto omofonico che racchiude il concetto di rivestimento musicale di testi liturgici latini, occidentali a carattere esclusivamente vocale, senza strumenti. Il gregoriano si fonda sull'idea di "chorus". Il coro fa da corona al trionfo di Dio. Vi è quindi una continuità della tradizione ebraico-cristiana che pone il chorus come elemento fondante della vita liturgica. Nei primi secoli l'assemblea dei fedeli risponde ad un solista, ad un lettore; a partire dal IV secolo fa la sua comparsa il canto antifonale, secondo il quale l'assemblea divisa in due cori canta a turno un versetto o un paragrafo di esso. Sin dalle origini è il canto omofonico a tenere il campo nella liturgia cristiana, un canto corale cui tendenzialmente partecipa tutta l'assemblea, così come tutto il clero e il popolo partecipano all'elezione dei Vescovi. La codificazione del canto gregoriano e il suo arricchimento che lo rese più difficile nella sua esecuzione condusse ad un'ulteriore esclusione del popolo dal canto liturgico del culto. Le melodie gregoriane cederanno il passo di fronte all'avanzare della polifonia che comincerà a svilupparsi intorno al XIII secolo.
LA NORMATIVA DEGLI ORDINI RELIGIOSI
Nel corso di un lungo periodo di tempo l'autonomia e l'indipendenza degli ordini religiosi subisce un processo di erosione, in virtù del quale la Chiesa secolare tende a ridurre ad uniformare le singole ed irripetibili specificità. Il primo passo in questa direzione è l'approvazione delle costituzioni da parte dell'autorità pontificia. Sin qui la legislazione principale cui dovevano far riferimento i religiosi è quella contenuta nelle costituzioni. Le cose cambiano all'inizio di questo secolo. Già le Normae del 1901 emanate in applicazione della costituzione apostolica di Leone XIII, oltre a ribadire la necessità dell'approvazione pontificia anche per le semplici modifiche di costituzioni già approvate e a rivendicare alla Santa Sede la competenza a interpretarle, contenevano una disciplina abbastanza dettagliata alla quale gli Istituti con Voti non solenni o gli Istituti di nuova fondazione dovevano adeguarsi nell'elaborare la propria disciplina giuridica. Il Codex tiene distinte le religioni delle società di uomini e donne che non pronunciano i Voti pubblici di povertà, castità ed obbedienza. Le religioni poi si distinguono in Ordini e Congregazioni, a seconda dei Voti, solenni o semplici, che in essi vengono pronunciate. La legislazione canonica del 1917, per la prima volta, formula una normativa sistematica e completa degli Ordini religiosi. I canonisti del Codex riformulano la nozione di religione ponendo in primo piano il riconoscimento pontificio. Il privilegio di esenzione perde, in un certo senso, il suo carattere originario, subordinando la potestà di giurisdizione e la stessa esistenza degli Istituti religiosi ad un positivo atto di concessione del Romano Pontefice.
Sulla Regola del fondatore nasce e si radica un diritto proprio, che comincia a strutturarsi in organi e procedure, in una parola in un ordine, se non ancora in un ordinamento giuridico. Prima della previsione del Concilio Lateranense secondo la quale le Regole devono esser approvate dal Vescovo di Roma, gli Ordini religiosi non conoscono nessuna istanza esterna sovraordinata che limiti la primarietà del loro orizzonte giuridico. La Chiesa non si sarebbe retta sul principio di un unico ente in grado di emanare leggi dotate di forza vincolante erga omnes, ma sulla coesistenza di ordinamenti che si venivano sviluppando all'interno del tessuto ecclesiale. La sottoposizione diretta dei religiosi al Papa trasforma gli ordinamenti giuridici in diritto proprio che rientra all'interno dell'ordinamento giuridico canonico. Nella bolla di promulgazione del Codice si stabilisce che il Pontefice è l'autorità suprema cui ogni membro di Ordine o Congregazione deve assoluta obbedienza.
È indubbio che il Codex iuris canonici rivesta tra le fonti primarie del diritto umano universale un ruolo prevalente. Ciò sia per la vastità degli organi che esso regola, sia per la struttura giuridico societaria che lo sostiene. Era inevitabile però, che dopo la pubblicazione del Codice continuassero a essere prodotte norme: da quelle che hanno natura sussidiaria e integratrice, a quelle che si risolvono in una vera e propria legislazione concorrente. L'importanza primaria di questo Codex, fonte di diritto universale umano, pone in secondo piano tutte le costituzioni, regole e statuti che rimane o superata dalle previsioni normativi di grado gerarchico superiore, o abrogata in quelle parti considerate incompatibili con la legislazione universale. Le Regole continuano ad avere vigenza e a vivere, imprimendo il carattere della propria e specifica spiritualità al gruppo di persone che si impegna a seguirle; purtuttavia il prevalere, sul terreno delle fonti, della legislazione primaria universale impedisce che questa specifica vocazione religiosa si traduca fedelmente in diversità giuridica e quindi in vera e autonoma esperienza. A causa di ciò si perde la coscienza della ricchezza che rappresenta per l'intero ordinamento, la molteplicità delle fonti giuridiche secondarie, e pare consolidarsi l'idea che tutto ciò che si muove all'infuori del Codex deve casomai riferirsi ad aspetti minimali della vita associata.
L'autonomia delle congregazioni e degli Ordini conosce una forte riduzione proprio quando lo jus publicum ecclesiasticum internum raggiunge, con la codificazione canonica, il suo apice. La materia delle elezioni viene fatta oggetto di una dettagliata disciplina codiciale che stabilisce in via definitiva ed erga omnes tempi di convocazione degli elettori, modi di convocazione, sistemi di voto e così via. La normalità nella determinazione del titolare di un ufficio ecclesiastico è la libera collazione: l'elezione riveste carattere residuale e acquista efficacia solo per l'intervento del superiore gerarchico competente. La forma possibile dell'elezione (scrutinio, compromesso, ispirazione) la determinazione dei collegi elettorali, la titolarità e l'esercizio di voto. trovano collocazione precisa e definitiva nell'armatura giuridica della codificazione. Certo all'interno di queste norme generali esistono rinvii al diritto proprio, statuti o costituzioni. Le due norme che aprono alla specificità degli statuti e delle costituzioni in tema di elezioni, si trovano ai canoni 162 e 507. Nel primo di essi il riferimento a norme di diritto particolare si lega sia all'esistenza di diritti propri che al sopravvivere di norme consuetudinarie. Nella seconda di queste disposizioni è il diritto particolare a dover cedere il passo rispetto al diritto comune, cui primizialmente bisogna fare riferimento per tutto ciò che riguarda la materia elettorale. È all'interno della normativa che disciplina gli istituti religiosi che si vuole sottolineare il primato del diritto comune.
Il processo di allineamento degli istituti religiosi era iniziato nel 1901 con le "Norme". Da queste Norme, assai precise e dettagliate, gli istituti religiosi attinsero indicazioni e prescrizioni giuridiche, con il risultato di rendere assai simili ad un unico modello dettato dalla Santa Sede la molteplicità delle ispirazioni che presiedono la formazione e la vita delle comunità religiose. Questo indirizzo divenne generale dopo la promulgazione del codice pio-benedettino, quando la Congregazione dei Religiosi, ritenne di dover far adeguare alla nuova legislazione comune tutte le Costituzioni degli Istituti. Ciò fu chiesto esplicitamente con l'emanazione delle nuove Normae del 1921. L'intento era quello di uniformare il diritto proprio di ogni Ordine o Congregazione a norma del Codice. Il risultato fu una standardizzazione generalizzata delle Costituzioni e degli Statuti di Ordini e Congregazioni, che non di rado desumevano singole norme direttamente dalla lettera del codice pio-benedettino. La morfologia delle Costituzioni ne risentì profondamente: furono ridotte al minimo le parti riguardanti gli aspetti liturgici e fu dato largo spazio alle norme riguardanti la convivenza e l'organizzazione istituzionale.
Il raggio di espansione del diritto comune è tanto rilevante da implicare non solo aspetti tecnici delle procedure elettorali ma profili sostanziali della vita di Ordini e Congregazioni, e spingendosi sino a delineare i requisiti dell'elettorato passivo di coloro che saranno chiamati agli uffici maggiori. È simbolica, in questo senso, l'adozione esplicita della norma che impedisce di occupare cariche maggiori a coloro che non provengano da un matrimonio legittimo.
La certezza del diritto ed il sicuro svolgimento della vita istituzionale, spingevano in direzione della costruzione di un sistema di poteri in grado di arrestarsi quasi completamente alla morte del titolare dell'ufficio, ma di poter far fronte, contemporaneamente, alla nuova nomina nel più breve lasso di tempo possibile. Per questo l'introduzione del principio maggioritario nelle elezioni canoniche ha conosciuto dei correttivi di non poco momento. La codificazione del 1917 tende a semplificare notevolmente la materia dando priorità ai valori di celerità e funzionalità nel procedimento elettivo. Nel codice pio-benedettino non è prescritto un coefficiente obbligato di presenze degli aventi diritto per la validità dell'assemblea elettiva; il quorum della maggioranza assoluta, richiesto solo per i primi due scrutini, deve cedere il passo al criterio della maggioranza relativa già dal terzo, onde evitare il prolungamento all'infinito della consultazione elettorale. In caso di ulteriore parità tra due candidati, il Codex del 1917 prevedeva la possibilità di ricorrere a due criteri: il voto dirimente del presidente dell'assemblea o la maggiore anzianità di Ordine, di professione o di età. A questi criteri finisce con l'uniformarsi anche il procedimento elettorale in uso tra i religiosi. Anche i modi di espressione del voto vengono regolamentati nelle costituzioni secondo l'indicazione generale contenuta nella codificazione pio-benedettina. Le votazioni in scrutinio dovevano avvenire per schede segrete, in modo tale che i nomi degli elettori non fossero mai resi noti. Sparisce così definitivamente l'espressione del voto orale o fatta per alzata di mano.
L'ELEZIONE DEGLI ORGANI DI GOVERNO LOCALI
Una delle novità introdotte dalle Costituzioni degli Istituti religiosi attualmente vigenti, è rappresentata dalla scelta tendenziale di applicare il modello elettorale anche nella designazione degli organi di governo locali e non solo centrali. Oggi, in base alle nuove costituzioni, possiamo distinguere tre grandi tipologie in cui si articola, su questo terreno, la vita dei religiosi. Distingueremo innanzitutto quegli istituti nei quali per lunga consuetudine e tradizione, i superiori provinciali e locali vengono nominati direttamente dal superiore generale e dal suo consiglio. In sostanza, laddove il diritto proprio rimane anche attualmente fedele ad una tradizione per così dire più accentrata negli assetti di governo, si registrerà una predilezione per lo strumento della cooptazione per quanto attiene all'individuazione dei referenti delle strutture provinciali; esse rimarranno strettamente correlate nell'indirizzo di governo al potere centrale. Al polo opposto di questa schematica ricostruzione si collocano quelle realtà che hanno coltivato sin dall'origine un modello di organizzazione per il quale il momento elettorale non è solo il perno del regime generale dell'istituto, ma è anche il modo normale di conferimento dell'ufficio provinciale. Dove osserviamo l'affermarsi dello strumento elettorale come idoneo a dotare ogni livello della struttura dell'istituto di appropriati organi di governo, riscontriamo come unico esercizio dell'istanza gerarchica sovraordinata nella designazione dei superiori quello della confermazione dell'eletto. In questo modello di istituto religioso il responsabile eletto dalla comunità entra nella pienezza dei propri poteri di giurisdizione solo al momento dell'accettazione e della conferma del risultato elettorale da parte dell'istanza gerarchica superiore. Vi sono istituti che fanno convivere, nella sfera del diritto proprio, sia il modo della cooptazione sia la via dell'elezione; ci sono due vie per la convivenza di questi due sistemi: per la prima di tali vie saranno direttamente le costituzioni a stabilire se l'istituto può procedere per elezione o per designazione alla provvisione di questi uffici ecclesiastici, affidando la responsabilità di questa scelta al superiore generale ed al suo consiglio; per la seconda, invece, sarà la potestà regolamentare che fa capo alle strutture provinciali e locali a risolvere definitivamente questo problema.
Di pari passo è venuta delineandosi la percezione nel mondo dei religiosi che le strutture di governo delineate nel diritto della Chiesa vigente sino al Concilio Vaticano II, si fossero cristallizzate all'interno di regole che avevano finito con l'eliminare una partecipazione vasta della comunità ai processi decisionali. Nel Capitolo generale degli ordini religiosi si coniuga al massimo grado l'esercizio dell'autorità e il consenso di tutta la comunità. Di qui deriva la necessità, accolta da molti Ordini religiosi, di far partecipare al Capitolo generale i rappresentanti di tutta la comunità eletti liberamente dai Capitoli provinciali. Gli istituti nel definire le strutture di partecipazione ai processi decisionali, hanno agito su due direzioni. Secondo una prima linea essi hanno fissato nelle loro carte costituzionali in maniera netta le materie di spettanza relativamente, del superiore generale, del consiglio generale e del capitolo generale. Allo stesso modo essi hanno distinto le materie di competenza del superiore provinciale, del consiglio provinciale e del capitolo provinciale. La seconda direttrice lungo la quale hanno agito gli istituti religiosi per recuperare all'interno delle nuove costituzioni un momento più largo di partecipazione, è stata quella di contemplare degli organismi ad hoc che esprimessero la sollecitudine e la partecipazione di tutti i membri in vista del bene dell'intero istituto o della comunità. Il primo punto è stato quello di attivare i "capitoli di rinnovamento", assemblee aperte ad una rappresentanza più larga di membri degli istituti rispetto a quella contemplata nella composizione del capitolo ordinario. Ad essi è stata affidata la riformulazione dell'ambito del diritto proprio. Questi organismi hanno assunto nomi diversi: consiglio di congregazione, consiglio generale plenario. vi partecipano oltre al superiore generale ed al suo consiglio, tutte quelle figure che abbiano responsabilità di governo e coloro ai quali è stata delegata la responsabilità nella formazione dei novizi; ad essi seguono i provinciali, i vicari, i superiori generali. È evidente in tutte le costituzioni come l'organo deliberante sia il Capitolo generale. Questi organi vengono normalmente convocati una volta l'anno per discutere degli affari della comunità. Hanno carattere consultivo.
La distinzione tra voce attiva e passiva si fonda su una demarcazione, nel mondo dei religiosi, tra coloro che hanno espresso una professione temporanea, quelli che hanno esplicitato la professione perpetua e coloro i quali, accanto alla professione perpetua, sono stati investiti dell'ordine sacerdotale. Il criterio generale riserva la voce passiva a coloro che abbiano espresso voti perpetui e solenni. Si può affermare che lo schema di funzionamento del sistema generale di elezione funzioni secondo un criterio di rappresentanze progressive, per il quale sono le istanze assembleari inferiori ad esprimere, con il proprio voto, i delegati che dovranno entrare a far parte dell'organo rappresentativo di rango superiore.
La nuova ecclesiologia inaugurata dal Concilio Vaticano II era destinata a intaccare una visione giuridico-societaria troppo statica, portata ad affermare il principio di autorità. Parallelamente è emerso con forza nel Concilio e nel periodo post-conciliare il principio di corresponsabilità secondo il quale la comunità cristiana è edificata su una base sacramentale e su una base giuridica allo stesso tempo. I fedeli non hanno tutti la stessa vocazione, funzione, responsabilità; il che non toglie che tutti sono implicati, tutti corresponsabili. Il Capitolo generale, che ha nell'istituto la suprema autorità a norma delle costituzioni, deve essere composto in modo da rappresentare l'intero istituto, per risultare vero segno della sua unità nella carità. Anche quando le costituzioni contemplavano la partecipazione al Capitolo generale di delegati eletti dal Capitolo provinciale, esse non individuavano criteri fissi di bilanciamento tra componente elettiva e componente di diritto, limitandosi, come nel caso dei Salesiani, ad introdurre dei correttivi in grado di fare del Capitolo generale un organo di larga rappresentanza. A tal fine le costituzioni di questo Ordine prevedevano che quando una provincia avesse raggiunto il limite dei cento membri, potesse eleggere un delegato supplementare da inviare al Capitolo generale. Oggi, il diritto proprio vigente ha innovato questa materia, introducendo in moltissimi casi il principio per il quale nel Capitolo generale e in quello provinciale la componente dei membri di diritto e dei membri elettivi deve essere almeno paritaria. Non sono poche le costituzioni che prevedono un equilibrio tra i membri elettivi e quelli di diritto del Capitolo generale secondo il quale la prima di queste due componenti deve avere la prevalenza sull'altra. Il Capitolo diviene così organo di rappresentanza per eccellenza dell'istituto e, al contempo, organo di controllo dell'esecutivo verso il quale rifluisce molta parte dell'attività di governo che una volta era riservata al Capitolo stesso.
Una volta stabilito che le assemblee capitolari devono annoverare una componente elettiva, paritaria o maggioritaria, accanto ai membri di diritto, rimane da definire quanti debbano essere i membri eletti e quale porzione di corpo elettorale essi debbano rappresentare. Le vie possibili da percorrere sono due: lasciare al Capitolo precedente o al Consiglio generalizio il compito di indicare una proporzione direttamente nelle Costituzioni o nei Regolamenti. Non pochi istituti hanno scelto questa seconda via. Vi sono poi Costituzioni che stabiliscono che i membri eletti dai Capitolo dovranno costituire una rappresentanza proporzionale al numero degli elettori della provincia. L'esigenza di rappresentatività del corpo capitolare ha dato vita a meccanismi assai sofisticati, in grado di bilanciare esigenze di partecipazione e necessità di stabilire circoscrizioni elettorali certe.
Le misure legislative che predispongono tutte le precauzioni onde vi possa essere la maggior corrispondenza possibile tra rappresentati e rappresentanti, non sono le sole tese a garantire l'assoluta trasparenza nel momento della determinazione dei rappresentanti in Capitolo generale. L'intento di indirizzare tutti gli sforzi della comunità alla buona riuscita del Capitolo generale, impone che i capitoli provinciali, che hanno cadenze più frequenti, si riuniscano in una data immediatamente precedente. Per consentire di attivare tutte le procedure necessarie, il Capitolo generale viene convocato un anno prima, dando già comunicazione, ove tale quota proporzionale non sia fissata direttamente dalle costituzioni, statuti o regolamenti, di quanti debbano essere i membri elettivi delegati da ogni provincia al Capitolo stesso. Le assemblee provinciali di seguito convocate, conosceranno due fasi o sessioni: una dedicata ad affrontare il tema delle relazioni della provincia da presentare in Capitolo e la preparazione degli affari da trattare in quella assemblea; la seconda riservata all'elezione dei capitolari. Non sono poche le costituzioni che provvedono direttamente a regolare le elezioni; in una eventuale mancanza di una previsione esplicita, tocca di solito al capitolo provinciale stabilire le regole secondo le quali debbano essere espletate. Nel procedimento elettorale che segue avranno voce attiva e passiva tutti i religiosi di Voti perpetui appartenenti alla provincia alla data dell'indizione del Capitolo, anche se non mancano costituzioni che richiedono per la voce passiva una certa anzianità di voti. È un principio accolto quello che esclude dalla possibilità di esprimere voce attiva coloro i quali partecipano di diritto al Capitolo generale. Come si può vedere i mezzi ed i sistemi adottati per arrivare all'identificazione dei delegati da inviare al Capitolo generale sono svariati: dall'elezione in Capitolo con maggioranza semplice o qualificata, con doppi turni e collegi di diversa composizione, extra-capitolare diretta, extra-capitolare con primarie ed effettive; ciò che conta è cogliere l'attenzione a tratti davvero notevole e quasi eccessivamente meticolosa che i religiosi riservano ai momenti di designazione collettiva.
Il can. 172 dispone che per aver una elezione valida il voto deve essere libero, segreto, assoluto e determinato. Il comma 1 di tale canone sottolinea l'invalidità del consenso espresso da colui che, nell'esercizio del diritto, sia stato turbato da timore grave o dolo. Nell'affrontare il tema dell'elezione all'interno del mondo dei religiosi il diritto comune si spinge un po' oltre al fine di orientare l'atteggiamento interiore con il quale il singolo elettore deve regolarsi al momento del voto. Così il can. 626 sottolinea da un lato, il dovere di astenersi da qualunque abuso o preferenza, null'altro avendo di mira che Dio e il bene dell'istituto, solo da questa prospezione interiore potrà scaturire l'ispirazione giusta per eleggere le persone che nel Signore riconoscono veramente degne ed adatte. È fatto obbligo ai confratelli di rifuggire dal procurare in qualunque modo voti per sé o per altri, direttamente o indirettamente, cioè non c'è spazio per la campagna elettorale. Non sono poche quelle comunità che prescrivono, all'inizio del procedimento del voto, un giuramento posto a carico dei capitolari. In esso viene fatto obbligo al religioso di eleggere colui che in coscienza e davanti a Dio è stimato come il più idoneo. La determinazione al voto matura attraverso un processo interiore che si ispira unicamente alla volontà di Dio, il modo per svelare tale volontà non può essere altro se non una prolungata ed intensa preghiera. Ciò è raccomandato da diverse costituzioni. In un contesto nel quale l'opera dello spirito e l'atteggiamento di ascolto interiore svolgono un ruolo centrale, va salvaguardata l'unitarietà del procedimento elettorale: esso deve avere un inizio e una fine che si racchiudono in una unità di tempo percepibile.
Non è raro trovare nelle Costituzioni degli Istituti religiosi degli accenni alla Liturgia che deve accompagnare il capitolo e quella funzione capitolare che è l'elezione dei superiori: e spesso si ritrovano dei rinvii ad un Ordo Capituli generalis celebrandi cui è demandata la definizione della prassi capitolare e della Liturgia che ne deve sottolineare i momenti salienti. Se la Liturgia è un momento fondante dell'esperienza religiosa associata, sino al punto da essere stata considerata una sorta di diritto divino vivente, è naturale che il diritto proprio dedichi un'attenzione specifica al rito che deve sottolineare e guidare una fase così importante della vita comunitaria quale è quella della decisione riguardante la formazione degli organi di governo. Le Costituzioni dell'Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio descrivono le modalità con cui doveva essere eletto il Generale dell'Ordine. Non a caso il rito eucaristico prescelto è quello "de Spiritu Sancto" e i fedeli, dopo aver assunto le specie sacre intonano un inno in particolare, il Veni Creatur Spiritus. Anche il modo di esecuzione dell'inno non è casuale. L'uso della campanella al cui suono i frati si recano dalla Chiesa alla sala capitolare indica, come vi sia un filo di continuità che lega il rito eucaristico alla Liturgia elettorale. La Messa e il procedimento elettorale rappresentano un unico, inscindibile momento liturgico, nel quale lo Spirito Santo tiene luogo davvero di una presenza indispensabile: è il Paraclito, la fonte vera alla quale attingere saggezza e sicurezza nelle scelta che i capitolari sono chiamati a operare. È lo Spirito Santo che deve soffiare ad illuminare le coscienza a scegliere per il bene dell'Ordine; esse saranno assistite dalla pietà e dalla misericordia di cui i Padri dell'Ordine stesso si fanno intercessori in un momento tanto importante. Certo le nuove Costituzioni non lasciano spazio ad una previsione liturgica così dettagliata, tuttavia molte di esse contengono accenni significativi che raccolgono il portato di queste consuetudini antiche. Innanzitutto il tempo della celebrazione del Capitolo generale e delle elezioni non è sempre lasciato al caso, il diritto proprio fa infatti riferimento al periodo di Pentecoste, individuandolo come più adatto al proposito perché segna la presenza viva dello Spirito Santo nella comunità cristiana. Molte sono poi le Costituzioni vigenti che raccomandano come debba essere la Liturgia eucaristica ad aprire i lavori del Capitolo, ed alcune di queste individuano precisamente la Messa De Spiritu Sancto come la più adatta. Ad essa devono partecipare tutti i capitolari in segno di unità e per trarre la retta ispirazione. Ci sono Costituzioni che non contengono un esplicito riferimento al rito eucaristico, esse prescrivono una solennità liturgica per l'inizio del capitolo che contempla preghiere e invocazioni solenni da pronunciarsi per bocca del presidente dell'assemblea. Vi sono poi Costituzioni che impongono una liturgia fissa che deve ripetersi a ogni sessione del Capitolo. Le Costituzioni degli Stimmatini contengono un accenno all'orazione per i defunti che deve ricorrere giornalmente. Coloro che non sono più, che sono ora a contatto diretto con lo Spirito, fanno ancora parte, ciononostante, della comunità, e sono chiamati, per via delle preghiere e delle intercessioni, ad essere ancora presenti, ad ispirare con la loro memoria il bene dell'Istituto dentro la coscienza di ognuno dei confratelli ancora viventi. Le elezioni, nel mondo dei religiosi, hanno una valenza così forte da investire tutti i membri della comunità, viventi e non viventi.
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