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Il problema della fonte del rapporto di lavoro: il prevalere delle tesi contrattualistiche e la configurazione del contratto di lavoro come contratto di scambio.
Una delle questioni più dibattute dalla dottrina giuslavoristica è quella concernente l'origine contrattuale oppure no del rapporto di lavoro. Si possono distinguere, al riguardo, due diversi orientamenti di pensiero, in quanto:
da un lato, vengono sostenute tesi che possono essere definite acontrattualistiche, perché, pur nella varietà delle ricostruzioni e delle argomentazioni addotte, negano che la disciplina del rapporto di lavoro debba essere costruita in chiave contrattuale;
dall'altro, si propugnano tesi cosiddette contrattualistiche perché muovono dall'opposto rilievo che il rapporto di lavoro derivi necessariamente dal contratto, benché di quest'ultimo il Codice Civile non dia alcuna definizione, limitandosi alla disciplina del rapporto.
Nell'ambito del primo orientamento, discorrendo in termini sintetici, possono ulteriormente distinguersi:
la teoria istituzionalistica, che - configurando l'azienda quale comunità necessaria di cui, sia pure con ruoli diversi, fanno parte tanto il datore che il lavoratore, legati dall'identico sentimento di appartenenza - esclude che il rapporto di lavoro abbia natura contrattuale in quanto in esso è fortemente limitata l'autonomia negoziale del prestatore, autonomia di cui il contratto è invece la massima espressione;
la teoria della prestazione di fatto, propugnata da quanti, facendo leva sull'art. 2126, co. I, C.C. ('La nullità o l'annullamento del contratto non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione'), sostengono che il rapporto di lavoro trae origine dalla materialità della prestazione di fatto, svincolata cioè da una fonte contrattuale. In altri termini, se i normali effetti del rapporto di lavoro subordinato si producono come conseguenza dell'esecuzione della prestazione, nonostante la nullità o l'annullamento del contratto, si deve ammettere che fonte del rapporto è non il contratto, ma la prestazione di fatto.
Le teorie suesposte sono però generalmente respinte dalla dottrina dominante che, seguita anche dalla giurisprudenza, si fa portatrice di concezioni contrattualistiche, individuando la fonte del rapporto di lavoro nel contratto ed osservando:
con riferimento alla tesi istituzionalistica, che i limiti dell'autonomia negoziale nella disciplina del rapporto non escludono la libertà di consenso al momento della sua costituzione. L'accordo delle parti resta pur sempre la fonte del rapporto, anche se esso non ne costituisce la fonte esclusiva, bensì una fonte concorrente con le norme legislative e le norme contrattuali;
con riferimento alla tesi della prestazione di fatto, che proprio dalla lettura dell'art. 2126, co. I, c.c., si evince che l'ordinamento ricollega la costituzione del rapporto individuale di lavoro all'esistenza di un titolo contrattuale, anche se nullo o annullabile. Difatti, la norma sopraccitata, riconoscendo effetti al contratto nullo od annullabile, implicitamente conferisce rilevanza al contratto come fattispecie produttiva degli effetti stessi.
Una volta accolta la tesi contrattualistica, sorge però il problema di individuare la natura giuridica del contratto di lavoro. Questo viene di volta in volta configurato in vario modo, cioè a dire:
ora come contratto associativo, nel senso che realizza una comunione di scopo tra le parti (datore e prestatore) in vista del perseguimento di un interesse comune ad entrambe (in primo luogo, l'interesse comune alla prosperità dell'impresa);
ora come contratto di adesione, le cui clausole sono predisposte unilateralmente dal datore, essendo il lavoratore solo libero di aderire o meno;
ora, infine, come contratto di scambio, caratterizzato dalla sussistenza di reciproche posizioni di supremazia e di soggezione delle parti.
Quest'ultima concezione è quella seguita dalla dottrina più accreditata, che, tuttavia, incontra il problema ulteriore dell'inquadramento del contratto di lavoro negli altri contratti di scambio.
Un primo tentativo di risoluzione della questione si sviluppa nel senso di ricondurre il contratto alla compravendita, attribuendo alle energie lavorative la natura di beni immateriali che si staccano dalla persona del prestatore e che costituiscono, dunque, l'oggetto dello scambio. Tuttavia, in senso critico, è facile porre in evidenza l'impossibilità di scindere le energie dalla persona del lavoratore; impossibilità da cui deriva, a voler accogliere la concezione in discorso, la conseguenza di ritenere il lavoratore oggetto del contratto, con un'inaccettabile lesione della sua dignità.
Pertanto, è preferibile fare ricorso allo schema classico della 'locatio operarum', effettuando, però, un distacco di tale figura dalla categoria generale della locazione, il cui elemento essenziale consiste sempre in un dare. La 'locatio operarum' ha, invece, come contenuto un facere, cioè l'obbligo del lavoratore di prestare la propria opera al servizio del datore.
Così, il contratto di lavoro può, finalmente, essere definito come un contratto di scambio con il quale il prestatore si obbliga a mettere a disposizione dell'imprenditore, o altro datore, la sua attività, e questi si obbliga a corrispondere al prestatore di lavoro una retribuzione
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