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Considerazioni critiche sulla mediazione culturale in carcere




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considerazioni critiche sulla mediazione culturale in carcere



1 - La deontologia professionale del mediatore culturale



Come già accennato nel quarto capitolo, la funzione di facilitatore della comunicazione è ciò che al fondo definisce e delimita il ruolo del mediatore, articolandone, secondo Cacciavillani e Di Bella , i tre primari piani d'intervento:

1) quello della mediazione linguistica. Come rilevano molte esperienze, tale funzione di interpretariato è importante non solo quando l'utente non possiede affatto ovvero possiede una limitatissima conoscenza della lingua italiana, ma anche quando la parla discretamente. Infatti la presenza del mediatore permette agli interlocutori di non preoccuparsi della "traduzione" e di concentrarsi piuttosto sul "merito" dell'interazione. Per contro, quando non si capisce bene ciò che l'interlocutore vuole comunicare o quando non si dispone del lessico appropriato per spiegarsi, si genera un clima di disagio e una comunicazione che schematizza e semplifica situazioni, problemi e richieste, limitando di conseguenza il ventaglio di soluzioni possibili e la personalizzazione del servizio;

2) quello della mediazione propriamente culturale. La comprensione da parte degli interlocutori dei diversi assunti di senso, dei relativi atteggiamenti, abitudini e comportamenti è di rado immediatamente chiara ed evidente. Come si è visto, fa capo a sistemi di riferimento, scontati, taciti e inconsapevoli, che necessitano di un supporto per essere esplicitati e resi compatibili. La funzione del mediatore, a questo livello, è proprio quella di far capire i diversi assunti simbolici e, soprattutto, di aiutare a distinguere ciò che nella relazione è riconducibile alle diversità culturali e ciò che invece dipende dalla personalità individuale degli interlocutori, sicuramente influenzata dalla cultura d'origine, ma non esclusivamente da essa. Il mediatore, sottolineano in proposito Cacciavillani e Di Bella , deve porsi come "muro di gomma" che assorbe le ansie e i disagi degli interlocutori e, esplicitando i loro diversi assunti culturali, aiuta questi a gestire in modo decentrato e accettante la situazione;

3) quello della facilitazione dell'approccio ai servizi. Su tale piano al mediatore spetta il compito, da un lato, di riconoscere gli ostacoli che incontra l'utenza nell'accedere ai servizi, contestualizzando le specifiche difficoltà, decodificando e ricodificando i relativi bisogni e richieste, dall'altro, di esplicitare le modalità operative dei servizi stessi e le aspettative dei loro operatori, cercando di favorire un incontro fecondo e propositivo delle rispettive esigenze. Il ruolo del mediatore culturale non è quello di sostituto o peroratore di una delle due parti, né quello di arbitro o negoziatore dei loro interessi, compiti o bisogni. Egli non deve neppure sentirsi, né deve essere visto come colui al quale spetta la soluzione dei problemi o il tirare le fila.

Belpiede e Pittau ritengono che il mediatore organicamente inserito in un servizio pubblico, a prescindere dalla forma giuridica del rapporto di lavoro, sia condizionato nell'esercizio del proprio ruolo. L'organizzazione del servizio, i compiti, le priorità e le responsabilità dell'istituzione limitano di fatto lo spazio di azione e di iniziativa del mediatore, che deve attenersi al mandato istituzionale conferitogli. Il rischio conseguente è quello di un'eccessiva burocratizzazione della mediazione o del suo appiattimento sull'istituzione, quando invece per sua stessa natura la mediazione dovrebbe muoversi sul terreno ampio della promozione dell'integrazione e dell'interculturalità. L'alternativa proposta a questo rischio è quella di prevedere una collocazione esterna all'istituzione del mediatore, ad esempio incardinandolo in associazioni o organizzazioni del terzo settore. La legislazione vigente conferisce, in effetti, un significativo riconoscimento a tali espressioni associative: soprattutto dà loro la possibilità di stipulare convenzioni con le strutture pubbliche per mettere a disposizione propri mediatori culturali, assicurando loro una relativa "indipendenza". Il secondo problema legato all'esercizio della professione concerne la definizione del rapporto tra il mediatore e le altre figure professionali con cui lavora, soprattutto quando è inserito in un servizio pubblico, ma comunque quando, nella pratica operativa, interagisce con insegnanti, educatori, operatori sanitari e sociali. In proposito, le attuali carenze legislative certamente concorrono a rendere poco chiaro il quadro professionale del mediatore, mentre dall'esperienza emerge che quanto più sono definiti i ruoli, i compiti delle diverse professioni, le responsabilità reciproche, tanto più si evitano sovrapposizioni, deleghe, o altre funzionalizzazioni "improprie" che finiscono per assegnare al mediatore competenze di "tuttologo". Non sono rari i casi in cui il mediatore viene impiegato con funzioni che spettano ad altre figure. Si tratta spesso di una delega e di una deresponsabilizzazione che nascono da una situazione di ansia e da una percezione di inadeguatezza personale, ma che non vanno giustificate né tantomeno consolidate, perché rischiose e dannose per tutti gli attori coinvolti. Innanzitutto, un primo modo improprio di vedere il mediatore è quello di considerarlo come "pronto soccorso" linguistico e culturale. La paura di non essere in grado di comunicare con l'utenza straniera porta in tal caso lo specifico operatore a richiedere "d'urgenza" la presenza del mediatore, a cui si finisce poi con il delegare la conduzione degli interventi o di loro momenti consistenti, quali l'accoglienza in una struttura di servizio. Le conseguenze di ciò non ricadono esclusivamente sul primo incontro, perché questo segnerà anche le tappe successive del rapporto di servizio, potendo minare lo stesso instaurarsi di una relazione di fiducia, e creare nell'utente una percezione di rifiuto e di distacco. In tal senso, non si può nemmeno pensare di delegare al mediatore culturale funzioni sostitutive. Tale compito evidentemente richiede tempi lunghi, una programmazione individualizzata e, soprattutto, una competenza che il mediatore non necessariamente possiede né è chiamato ad offrire, se non nei termini di supporto all'operatore. Altra delega impropria è quella di richiedere che il mediatore culturale si faccia anche mediatore cognitivo. Naturalmente egli può svolgere in senso lato una tale funzione, mettendo in evidenza i modi e i tempi scolastici del paese d'origine, o in genere le modalità di intendere concetti medici, giuridici e simili. Tuttavia ciò non può essere esteso impropriamente, fino a far divenire il mediatore un traduttore simultaneo di tutti i contenuti, orali e scritti, che l'insegnante veicola agli alunni, o che il medico enuncia per spiegare sintomi, cause, terapie. In questo modo, il mediatore rischia anche di ridurre drasticamente il diretto rapporto operatore-utente, impedendo la nascita di un contatto autonomo ed empatico fra i due primi soggetti della relazione. Infine, il mediatore può essere impropriamente inteso come mediatore di conflitti, chiedendogli di riparare a disaccordi o frizioni fra gli interlocutori. Certo le situazioni di mediazione culturale possono essere estremamente critiche e problematiche: l'operatore si può trovare in imbarazzo o a disagio di fronte ad un interlocutore silenzioso, o troppo aggressivo, così come l'utente può sentirsi sminuito, offeso o maltrattato da un operatore che gli appare freddo, invasivo o altrimenti inaccettabile. Tuttavia anche in questi casi il mediatore non può farsi paciere o negoziatore (soprattutto di divergenze di personalità), ma semmai aiutare gli interlocutori a

leggere i rispettivi assunti culturali e cosa significhino, dal punto di vista dei "nativi", i rispettivi comportamenti oggetto di possibile fraintendimento. A conclusione di queste note mi pare utile riportare un documento, elaborato da Udo Enwereuzor e Patrick Johnson in occasione di un seminario organizzato a Bologna, nel 1993, sulla figura del mediatore culturale, che sintetizza profilo, responsabilità e diritti di tale figura . Tale documento potrebbe servire da base per la redazione di un codice deontologico del mediatore culturale.


Chi è il mediatore linguistico-culturale


  • Il MLC è un professionista che facilita la comunicazione e la comprensione, sia linguistica che culturale, fra l'utente di etnia minoritaria e l'operatore di un servizio pubblico, in un contesto di poteri impari, rispettando i diritti di tutte e due le parti interessate.
  • Il MLC svolge il suo lavoro con imparzialità, consapevole delle proprie responsabilità, garantendo la riservatezza sui contenuti del colloquio.
  • Il MLC si impegna ad aggiornarsi sugli ultimi regolamenti, circolari, leggi, ecc. attinenti alla situazione o condizione degli utenti e degli operatori.
  • Il MLC si impegna a tradurre il più esattamente e accuratamente possibile, a spiegare presupposti culturali e a chiarire pregiudizi e stereotipi culturali a entrambe le parti.
  • Il MLC si impegna a trasmettere alle parti messaggi e informazioni chiari e completi nel contenuto. Nel caso di non chiarezza o dubbi il/la MLC invita le parti a chiedere ulteriori spiegazioni.
  • In caso di ingiustizia, illegalità, mancanza di rispetto, razzismo, sessismo, o capovolgimento degli accordi stabiliti, il MLC ha facoltà di ritirarsi e si riserva il diritto di tutelarsi nell'ambito legale.

Il mediatore linguistico-culturale ha la responsabilità di


  • aggiornarsi sugli ultimi regolamenti, circolari, leggi ecc. attinenti alla situazione o condizione degli utenti e degli operatori.
  • assicurare che il colloquio avvenga come stabilito fra l'utente e l'operatore.
  • tenere sempre informate tutte e due le parti di quello che sta succedendo e tradurre tutto ciò che viene detto durante il colloquio.
  • intervenire: a) per chiedere chiarimenti se non ha capito quello che deve tradurre; b) per far notare se una delle parti non ha capito il messaggio implicito o esplicito, anche se la traduzione era corretta; c) per far notare se il messaggio non è stato trasmesso, o se qualche presunta conoscenza di un'informazione, di una procedura o di un significato culturale è mancante.
  • denunciare illegalità, ingiustizie, abusi di potere, discriminazioni e razzismo.

I diritti del mediatore linguistico-culturale


  • Ha diritto di essere informato sul caso in questione.
  • Può rifiutare un incarico dove c'è incompatibilità linguistica o culturale, o per rapporti personali con una delle parti.
  • Può rifiutare di infrangere le leggi dello Stato o il regolamento del servizio o ente per il quale presta servizio o fornisce consulenza.
  • Può rifiutare di partecipare in casi di discriminazione, razzismo o di offesa ai costumi, ai valori o alle credenze dell'utente o suoi propri.
  • Ha diritto di non svolgere mansioni per le quali non ha la necessaria competenza e formazione.


2 - Verso il "mediatore culturale penitenziario"?



Nel capitolo precedente, in particolare nel paragrafo 6.3.2, ho accennato ai dubbi manifestati da molti detenuti circa il ruolo dei mediatori culturali operanti nell'ambito degli Sportelli informativi esistenti negli istituti penitenziari dell'Emilia-Romagna. Secondo Alain Goussot <<sicuramente i detenuti sentono che lo Sportello può essere un luogo altro dove parlare di sé, trovare soluzioni concreti a problemi personali e pensare al "dopo". Ma questo luogo altro viene percepito come ancora indefinito, non chiaro e, talvolta, più virtuale che reale. (.) In che misura lo Sportello è in grado di aprire degli spazi nuovi per offrire opportunità informative ma anche risposte concrete ai detenuti? In che misura i mediatori riescono a rappresentare, pur nella collaborazione con gli operatori penitenziari, un punto di vista autonomo?>> . Il rischio che i mediatori siano assorbiti dalla logica penitenziaria è segnalato dagli stessi operatori, che avvertono l'esigenza di una formazione più adeguata e di una definizione più precisa del ruolo. Goussot sottolinea che gli operatori della comunicazione interculturale dovrebbero avere una serie di competenze trasversali, a prescindere dal settore nel quale agiscono, ma anche delle competenze specifiche. Nel caso dei mediatori in ambito penitenziario, per esempio, è indispensabile che essi conoscano le norme dell'ordinamento penitenziario, quelle che disciplinano lo status degli stranieri in Italia e quelle relative al processo penale. A questo risultato potrebbe contribuire la trasformazione dello Sportello in un servizio organico offerto dall'Amministrazione penitenziaria: accanto agli educatori, agli psicologi, ai medici e agli assistenti sociali penitenziari potrebbero operare dei "mediatori culturali penitenziari". Una proposta di questo tipo è contenuta, non a caso, in alcuni questionari redatti dai direttori di istituto penitenziario, preoccupati dall'idea che possano circolare all'interno dei "loro" istituti soggetti solo indirettamente subordinati alla loro autorità. I vantaggi di tale proposta si possono ricondurre alla diffusione degli Sportelli in tutti gli istituti penitenziari d'Italia e alla maggiore qualificazione, certificata da concorsi pubblici, dei mediatori culturali. Ma la funzione di mediazione ne risulterebbe fortemente compromessa.




S. Di Bella, F. Cacciavillani, La mediazione interculturale: dall'attività ai processi, in "Animazione Sociale", 2002, n.3, pagg. 35-44.

Ibidem

Cfr. F. Pittau, Dalla semplificazione amministrativa alla mediazione culturale: le esigenze del processo di integrazione degli immigrati in Italia, in "Affari sociali internazionali", n. 1, 2002.

U. Enwereuzor, P. Johnson, Le regole del gioco. Una procedura per la mediazione linguistico-culturale, in "Immigrati/Risorse", Atti del seminario promosso dal COSPE su "La figura del mediatore culturale, le prime esperienze ed i percorsi formativi a confronto", Bologna, 13 ottobre 1993, pagg. 27-28.

Vedi nota 132

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