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La detenzione domiciliare può essere definita come la sanzione penale alternativa alla detenzione in carcere che importa per il condannato l'obbligo di trattenersi continuativamente nella propria abitazione o in un altro luogo di privata dimora, ovvero in un luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza.
L'art. 47 ter, 4° comma (ma cfr. anche l'art. 47 quinquies, 3° comma) prevede che il Tribunale di sorveglianza deve determinare le modalità di svolgimento della detenzione domiciliare, secondo quanto stabilito dall'art. 284 c.p.p; e che deve inoltre determinare le prescrizioni per l'intervento del servizio sociale, i cui compiti sono definiti dall'art. 118 del D.P.R. 30.06.2000, n° 230.
Il contenuto della detenzione domiciliare è dunque determinato dal sistema delle prescrizioni che vengono imposte dal Tribunale di Sorveglianza con l'ordinanza applicativa della misura alternativa e che possono essere modificate dal magistrato di sorveglianza quale organo deputato a sovraintendere sull'esecuzione della misura stessa.
La prescrizione principale attiene alla determinazione del tempo che il condannato può trascorre al di fuori del proprio domicilio.
Come sì dirà anche più avanti, nella parte della trattazione relativa agli arresti domiciliari, il criterio cui deve attenersi il Tribunale di Sorveglianza nel definire il periodo di tempo in cui il condannato può allontanarsi dal proprio domicilio non coincide con quello, particolarmente restrittivo, dettato dall'art. 284,3°comma c.p.p. con riguardo alla misura cautelare. Nel caso della detenzione domiciliare assume un rilievo preminente la necessità di dare attuazione al finalismo rieducativo della pena, cosìcchè il Tribunale di Sorveglianza, ed anche il magistrato di sorveglianza in sede di gestione della misura, dovrà, se non ricorrono specifiche esigenze di segno contrario (ad esempio con riferimento alla pericolosità sociale del reo), consentire al condannato di allontanarsi dalla propria abitazione non solo per il tempo necessario allo svolgimento dell'attività lavorativa, ma anche per consentirgli di svolgere attività (culturali, assistenziali, ecc.) comunque funzionali al reinserimento sociale del medesimo.
In ogni caso il periodo di tempo che il condannato può trascorrere all'esterno del proprio domicilio deve essere determinato tenendo conto della necessità di salvaguardare quel miminum di afflittività consistente in una certa limitazione della libertà personale, che deve connotare l'esecuzione della pena anche quando questa avviene nella forma attenuata della detenzione domiciliare.
Tra le altre prescrizioni che possono essere imposte dal Tribunale di Sorveglianza si possono ricordare: il divieto di associarsi a pregiudicati ed a tossicodipendenti; il divieto di detenere armi o sostanze stupefacenti; l'obbligo di concordare con il S.E.R.T. competente per territorio e di seguire un programma terapeutico finalizzato al superamento delle problematiche correlate all'uso di sostanze stupefacenti o di bevande alcoliche; l'obbligo di concordare con la ASL competente per territorio e di seguire un programma di psicoterapia, il divieto di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano e che lo assistono. Siffatte prescrizioni non trovano, salvo casi assolutamente eccezionali, tuttavia riscontro nella prassi seguita dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze, che viceversa è solito introdurre nelle ordinanze applicative del beneficio una clausola con la quale viene attribuita al condannato la facoltà di allontanarsi dal luogo di esecuzione della misura, senza che sia necessaria la preventiva autorizzazione del magistrato di sorveglianza, ogni qualvolta sussistano esigenze di carattere medico-sanitario, salvo l'obbligo per il condannato stesso di dare tempestivo avviso all'autorità di polizia incaricata della vigilanza dello spostamento che intende effettuare.
Deve in ogni caso escludersi la possibilità di porre a carico del condannato prescrizioni impositive di prestazioni a favore di terzi quale può essere quella di svolgere attività di volontariato, oppure quella di risarcire il danno alla persona offesa.[2]
Le prescrizioni stabilite nell'ordinanza concessiva del beneficio potranno, dopo che la misura avrà avuto inizio con la sottoscrizione degli obblighi da parte dell'interessato davanti all'organo di polizia che procede alla notifica del provvedimento, essere modificate da parte del magistrato di sorveglianza competente in base al luogo in cui si svolge la detenzione domiciliare.
La violazione dell'obbligo di allontanarsi dal luogo della detenzione domiciliare e la inosservanza delle prescrizioni orarie integra gli estremi del delitto di evasione; mette conto tuttavia precisare che, sulla scorta di quanto dispone l'art. 47 sexies legge 26.07.1975, n° 354, in caso di detenzione domiciliare speciale di cui all'art. 47 quinquies, il delitto di evasione è configurabile, analogamente a quanto avviene in materia di semilibertà, soltanto nel caso in cui l'assenza dal domicilio del condannato si protrae per un tempo superiore alle 12 ore.
La detenzione domiciliare è concessa dal Tribunale di Sorveglianza con ordinanza motivata, immediatamente esecutiva ed impugnabile con il ricorso per cassazione che non sospende l'esecuzione del provvedimento, emessa a seguito del procedimento in contraddittorio disciplinato dagli artt. 666 e 678 c.p.p..
L'istanza tendente ad ottenere la concessione del beneficio può essere proposta sia dal condannato (o dal suo difensore) che si trova in stato di libertà avvalendosi della sospensione automatica di cui all'art. 656, 5° comma c.p.p. -che comunque non opera nel caso di condanna per uno dei reati compresi nel genus dei reati ostativi di cui all'art. 4-bis della legge 26.07.1975, n° 354, reati rispetto ai quali non è comunque concedibile la detenzione domiciliare c.d. biennale di cui all'art. 47 ter, 1° comma bis - sia dal condannato detenuto, quindi dopo che ha avuto inizio l'esecuzione della pena.
Nel primo caso l'istanza deve essere depositata presso la segreteria del pubblico ministero il quale deve trasmetterla, unitamente al fascicolo dell'esecuzione al Tribunale di Sorveglianza del luogo in cui ha sede l'ufficio del pubblico ministero. Come è noto la legge Simeone Saraceni, al fine di evitare l'ingresso in carcere di condannati che sono, almeno potenzialmente, in grado di ottenere l'applicazione di una misura alternativa, ha stabilito che in presenza di determinate condizioni, puntualizzate dai commi 5° e 9° dell'art. 656 c.p.p., il pubblico ministero deve procedere alla sospensione dell'esecuzione dell'ordine di carcerazione; il provvedimento emesso dal pubblico ministero (ordine di carcerazione e decreto di sospensione) deve quindi essere notificato al condannato ed al suo difensore i quali hanno 30 giorni di tempo per depositare nella segreteria dell'organo dell'esecuzione l'istanza tendente ad ottenere la concessione di una misura alternativa. Se l'istanza viene tempestivamente proposta l'effetto sospensivo si consolida fino alla decisione del Tribunale di Sorveglianza, cui, come si è visto il pubblico ministero, deve trasmettere gli atti, altrimenti l'organo dell'esecuzione deve procedere alla revoca del decreto di sospensione con la conseguenza che l'esecuzione seguirà il suo corso con la traduzione in carcere del condannato.
Nel secondo caso l'istanza è proposta dopo che ha avuto inizio l'esecuzione della pena, la richiesta volta ad ottenere l'applicazione della detenzione domiciliare può essere indirizzata direttamente al Tribunale di Sorveglianza che provvederà d'ufficio alla necessaria istruttoria sulla base degli elementi fattuali allegati dall'interessato (al riguardo mette conto precisare che un'istanza non corredata da alcuna indicazione in merito all'inserimento abitativo, id est al luogo in cui dovrà eventualmente svolgersi la detenzione domiciliare è destinata ad essere dichiarata inammissibile ex art. 666, 2° comma c.p.p., dal Presidente del Tribunale con decreto motivato impugnabile con ricorso per cassazione); ovvero con istanza diretta al magistrato di sorveglianza cui l'art. 47 ter, 1° comma quater della legge 26.07.1975, n° 354 attribuisce il potere di disporre l'applicazione provvisoria della detenzione domiciliare "quando ricorrono i requisiti di cui ai commi 1 ed 1 bis".
La norma, anch'essa introdotta dalla legge Simeone-Saraceni, configura, come è agevole desumere dal rinvio all'art. 47, 4° comma legge 26.07.1975, n° 354, in capo al magistrato di sorveglianza un potere di natura tipicamente cautelare il cui esercizio è subordinato alla sussistenza del requisito del fumus boni iuris (consistente nella concreta indicazione in ordine alla sussistenza dei presupposti per l'ammissione alla misura, nell'assenza del pericolo di fuga e di altre condizioni ostative stabilite dalla legge) e periculum in mora (costituito dal grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione).
Il regime di detenzione domiciliare disposto in via provvisoria dal magistrato di sorveglianza permane fino alla decisione definitiva del Tribunale cui devono essere immediatamente trasmessi gli atti, il quale deve, rectius dovrebbe, stante la natura meramente ordinatoria del termine, pronunciarsi nei 45 giorni successivi.
La competenza a decidere in merito alle istanze avanzate dal condannato durante il periodo di applicazione provvisoria della detenzione domiciliare spetta invece al magistrato che ha emesso il provvedimento cautelare e non a quello competente in base al luogo in cui il condannato deve risiedere in forza del provvedimento stesso.
Si discute in merito alla impugnabilità dei provvedimenti cautelari emessi dal giudice monocratico.
La tesi positiva, fondata sull'applicazione diretta dell'art. 111, 7° comma Cost. trattandosi di provvedimento che incide sulla libertà personale, non ha trovato riscontro nella giurisprudenza della Suprema Corte. La Cassazione ha ritenuto che avverso tali provvedimenti, in ragione del loro carattere meramente interlocutorio, e della loro natura provvisoria ed urgente, non sia esperibile alcuna forma di impugnazione ivi compreso il ricorso straordinario di cui al citato art. 111,7°comma Cost.[4]
Sul piano applicativo si è posto il problema relativo alla individuazione del giudice territorialmente competente a disporre l'applicazione provvisoria della detenzione domiciliare. Al riguardo si erano delineati due diversi orientamenti: secondo un primo indirizzo la competenza doveva essere attribuita al magistrato di sorveglianza competente in relazione al luogo ove ha sede l'ufficio del pubblico ministero che cura l'esecuzione della pena ; per una diversa impostazione, che ha trovato il conforto della Suprema Corte, la competenza deve essere devoluta al giudice avente giurisdizione sull'istituto in cui si trova il condannato, secondo il criterio generale dettato dall'art. 677, 1° comma c.p.p.
Una particolare forma di accesso alla detenzione domiciliare è attualmente prevista dall'art. 656,10°comma c.p.p., nei confronti dei condannati che, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna si trovino sottoposti alla misura cautelare degli arresti domiciliari.
La norma, anch'essa introdotta dalla legge 165/1998 e successivamente modificata dal d.l. 24 novembre 2000 n. 341 convertito, con modificazioni, nella legge 19 gennaio 2001 n. 4, dispone che "nella situazione considerata dal 5°comma" che come è noto prevede il meccanismo della sospensione automatica dell'esecutività dell'ordine di carcerazione nel caso in cui la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggior pena, non è superiore a tre anni ovvero a quattro per i tossicodipendenti - "se il condannato si trova agli arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna da eseguire, il pubblico ministero sospende l'esecuzione dell'ordine di carcerazione e trasmette gli atti senza ritardi al Tribunale di Sorveglianza perché provveda alla eventuale applicazione di una delle misure alternative di cui al comma 5" .
Mette conto precisare che, in virtù del rinvio operato al 5°comma dell'art. 656 c.p.p., la norma in esame consente di applicare la detenzione domiciliare anche al condannato che deve espiare una pena superiore a due anni, limite previsto per la detenzione domiciliare generica di cui all'art. 47 ter, 1° comma bis della legge 26.07.1975, n° 354, purché inferiore a tre anni: in tal modo sembra profilarsi una ulteriore figura di detenzione domiciliare il cui ambito di applicazione postula da un lato una pena inferiore a tre anni e dall'altro l'assenza delle condizioni ostative di cui all'art. 4-bis della legge 26.07.1975, n° 354.
Nella sua formulazione originaria la norma de qua stabiliva che il Tribunale di Sorveglianza doveva provvedere "senza formalità all'eventuale applicazione della misura alternativa della detenzione domiciliare". Quindi, attraverso un procedimento de plano instaurato a seguito dell'impulso del pubblico ministero e la cui struttura semplificata non consentiva la preventiva instaurazione del contraddittorio, si configurava - nell'ottica del potenziamento degli strumenti di deflazione carceraria che costituisce uno dei principali motivi ispiratori della legge Simeone-Saraceni - una sorta di "conversione automatica" degli arresti domiciliari in detenzione domiciliare, o se si preferisce, un passaggio, senza soluzione di continuità, dagli arresti domiciliari alla detenzione domiciliare.
Il procedimento delineato dalla norma nella sua versione originaria aveva suscitato notevoli critiche: le censure più corrosive si erano appuntate sul potere attribuito al Tribunale di Sorveglianza di decidere senza la preventiva instaurazione del contraddittorio, ciò appariva in contrasto con il principio enunciato dall'art. 24 Cost., soprattutto se si tiene conto del fatto che l'instaurazione del procedimento avveniva su impulso dl pubblico ministero che doveva sospendere l'esecuzione dell'ordine di carcerazione e trasmettere gli atti senza ritardo al Tribunale di Sorveglianza. Poteva dunque accadere che il condannato vedesse trasformarsi il provvedimento applicativo degli arresti domiciliari nella misura alternativa della detenzione domiciliare senza neppure essere portato a conoscenza del fatto che nei suoi confronti era stato instaurato il relativo procedimento.
In questa prospettiva si collocano gli sforzi compiuti dalla giurisprudenza al fine di prospettare una interpretazione suscettibile di rendere compatibile il procedimento delineato dall'art. 656, 10° comma c.p.p., con i principi costituzionali in tema di diritto di difesa.[7]
La Corte di Cassazione enunciò il principio secondo cui il procedimento de plano poteva trovare applicazione soltanto nel caso in cui il Tribunale di Sorveglianza avesse ritenuto di concedere al condannato la misura alternativa della detenzione domiciliare; in caso contrario, cioè quando si profilava una decisione contra reum che avrebbe determinato l'ingresso in carcere del condannato, il Tribunale avrebbe dovuto disporre il rinvio dell'udienza onde consentire l'instaurazione del procedimento di sorveglianza.[8]
Siffatta soluzione interpretativa è stata poi avvalorata dalla Corte Costituzionale che mediante una decisione interpretativa di rigetto con la quale il giudice delle leggi ha inteso salvaguardare la finalità pratica perseguita dal legislatore del 1998 consistente nell'impedire che il condannato agli arresti domiciliari possa fare ingresso in carcere e quindi subire gli effetti desocializzanti connessi alla permanenza nel circuito penitenziario, continuando ad espiare la pena in una regime sicuramente meno afflittivo rispetto a quello della detenzione intra-moenia.[9]
Per effetto della riforma attuata con la legge 4/2001 anche il procedimento in esame è stato ricondotto nell'alveo del procedimento di sorveglianza, con la conseguenza che il Tribunale potrà decidere di applicare al condannato una misura alternativa diversa dalla detenzione domiciliare quale l'affidamento in prova al servizio sociale o la semilibertà.
E' viceversa rimasta immutata l'altra peculiarità che caratterizzava il procedimento de quo costituita dal fatto che l'instaurazione dell'iter procedimentale avviene su impulso del pubblico ministero che cura l'esecuzione, il quale dopo aver sospeso l'esecuzione dell'ordine di carcerazione trasmette gli atti al Tribunale di Sorveglianza per la "eventuale applicazione di una delle misure alternative" alla detenzione; fino alla decisione del Tribunale il condannato "permane nello stato detentivo nel quale si trova e il tempo corrispondente è considerato come pena espiata a tutti gli effetti".
Per quanto concerne l'individuazione del Tribunale di Sorveglianza cui devono essere trasmessi gli atti la Suprema Corte ha precisato che "ai fini della determinazione della competenza territoriale va applicato il criterio fissato dall'art. 677 co. 1 c.p.p., dovendosi equiparare in tal caso lo stato di detenzione agli arresti domiciliari allo stato di detenzione in istituto penitenziario"[10]
Il testo dell'art. 656, 10° comma si conclude con un riferimento alla competenza del magistrato di sorveglianza che deve provvedere in ogni caso "Agli adempimenti previsti
dall'art. 47 ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni".
Ci si è chiesti se, in virtù di tale previsione normativa, all'organo monocratico debba essere riconosciuto il potere di disporre la sospensione cautelativa ai sensi dell'art. 51 ter O.P. a seguito della violazione delle prescrizioni da parte del condannato.
Sebbene le indicazioni che emergono dalla prassi sembrano favorevoli alla soluzione positiva, appare più corretto che il magistrato di sorveglianza di si limiti a segnalare senza ritardo la violazione al Tribunale sollecitandone la decisione senza tuttavia adottare alcun provvedimento di sospensione che non sembra emanabile in quanto il Tribunale non si è ancora pronunciato sull'applicazione della detenzione domiciliare (in altri termini non ha senso sospendere una misura alternativa che non è ancora stata applicata dall'organo a ciò deputato)[11].
Sotto il profilo applicativo ci si è chiesti se il meccanismo sospensivo previsto dall'art. 656, 10° comma c.p.p. sia applicabile anche nei confronti dei condannati per i c.d. reati ostativi di cui all'art. 4-bis della legge 26.07.1975, n° 354.
La tesi favorevole alla soluzione positiva[12] non sembra condivisibile. A favore della soluzione più rigorosa militano infatti molteplici argomentazioni di carattere logico e sistematico.
In primo luogo va osservato che la sospensione prevista dall'art. 656, 10° comma c.p.p. non è altro che una species del più ampio genus della sospensione prevista dal 5° comma della stessa norma che non opera, sulla scorta di quanto stabilisce espressamente il 9° comma del medesimo articolo nei confronti dei condannati per reati ostativi.
In secondo luogo l'adesione alla tesi che propende per una interpretazione estensiva determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento tra i condannati per un reato ostativo: infatti se al momento del passaggio in giudicato della sentenza il condannato si trova in libertà, non potendo fruire della sospensione, sarà comunque sottoposto all'esecuzione dell'ordine di carcerazione, mentre altrettanto non accadrebbe al condannato che al momento del passaggio in giudicato della sentenza si trova soggetto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, nonostante che la sottoposizione a tale misura sia sintomatica di un grado di pericolosità sociale sicuramente maggiore rispetto a quello configurabile nei confronti del condannato che si trova in stato di libertà (nei cui confronti cioè
la misura cautelare non è mai stata applicata o è stata revocata)[13].
La sospensione e la revoca della detenzione domiciliare
"La detenzione domiciliare è revocata se il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appare incompatibile con la prosecuzione delle misure". (art. 47 ter, 6° comma).
Come si desume dal tenore letterale della norma non ogni violazione delle prescrizioni comporta la revoca della misura alternativa: a tal fine è necessario che la trasgressione presenti caratteristiche, sotto il profilo della gravità della condotta posta in essere e dell'atteggiamento psicologico che la sorregge, da evidenziare la inidoneità della misura alternativa a contribuire al recupero sociale del reo.
Nella maggior parte dei casi la revoca della detenzione domiciliare è determinata dalla consumazione del delitto di evasione.[14]
Una disposizione particolare è prevista dall'art. 47 sesiex della legge 26.07.1975, n° 354 con riguardo alla detenzione domiciliare speciale. In questo caso, a differenza di quanto accade per la detenzione domiciliare ordinaria, rispetto alla quale il mero allontanamento dal luogo di esecuzione della misura alternativa integra la fattispecie di cui all'art. 385 c.p., la configurabilità del delitto de quo è subordinata alla condizione che l'assenza si protragga per oltre 12 ore; in difetto di tal condizione si profila un fatto penalmente irrilevante, valutabile ai soli fini della revoca del beneficio.
Non occorre un grande sforzo argomentativo per dimostrare come siffatta previsione "appaia del tutto ingiustificata e suscettibile di determinare di per sé evidenti disparità di trattamento con chi sia stato ammesso, invece, alla detenzione domiciliare ordinaria"[15].
L'art. 47 ter, 9° comma della legge 26.07.1975, n° 354 stabiliva che la semplice denuncia per il delitto di evasione comportava per il magistrato di sorveglianza l'obbligo di disporre ex art. 51-ter legge 26.07.1975, n° 354 la sospensione provvisoria della misura alternativa.
Tale norma, la cui automaticità sottraeva al magistrato di sorveglianza il potere di valutare la concreta entità della condotta con riferimento alle modalità ed alle circostanze che ne connotavano la realizzazione, è stata tuttavia dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 173 emessa dalla Corte Costituzionale il 13 giugno 1997. [16]
In base al comma 9 dell'art. 47 ter O.P. la condanna pronunciata con sentenza divenuta irrevocabile per il delitto di evasione comporta invece la revoca della detenzione domiciliare senza necessità che il tribunale valuti caso per caso, se sussiste una situazione di incompatibilità con la prosecuzione della misura,[17] anche se per la verità la Corte Costituzionale ha sempre censurato tutti gli automatismi.
La revoca, eventualmente preceduta dalla sospensione provvisoria disposta dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 51-ter della legge 26.07.1975, n° 354, può inoltre essere determinata dalla commissione da parte del condannato di un ulteriore reato. In tal caso per la revoca del beneficio non è necessario - "fermo restando l'onere per il Tribunale di
Sorveglianza di accertare sulla base degli elementi disponibili, che possono essere desunti, per esempio, dagli atti irripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria come il verbale di arresto in flagranza ovvero di perquisizione e di sequestro, la sussistenza del fatto attribuito al condannato" - che il procedimento di merito sia stato definito con una sentenza di condanna o di patteggiamento non potendosi configurare alcuna forma di pregiudizialità tra il procedimento di sorveglianza ed il procedimento di merito.
Un altro caso di revoca il cui presupposto non è tuttavia costituito dalla condotta riprovevole del reo, si profila "quando vengono a cessare le condizioni previste nei commi 1 e 1 bis" (art. 47 ter co. 7), cioè quando muti la situazione che aveva determinato la concessione del beneficio, indipendentemente da un comportamento tenuto dal condannato durante l'esecuzione della misura: si pensi al caso in cui il figlio minore superi il 10°anno di età, oppure all'ipotesi la in cui, per effetto della sopravvenienza di nuovi titoli esecutivi, il quantum di pena superi i limiti di ammissibilità al beneficio.
Viceversa nel caso, riconducibile al 1°comma-bis, in cui risulti l'inidoneità delle prescrizioni imposte ad evitare la commissione di ulteriori reati si profila un'ipotesi di revoca derivante da una condotta negativa imputabile al condannato: appare evidente che in questo caso la revoca viene ad assumere una chiara connotazione sanzionatoria in forza della quale si differenzia decisamente dall'ipotesi di revoca sopra esaminata (che infatti molti Tribunali di Sorveglianza, compreso quello fiorentino, preferiscono qualificare come inefficacia).
Nessun dubbio sussiste, ad onta della mancanza di una specifica previsione normativa, in merito al fatto che la detenzione domiciliare debba essere revocata (rectius dichiarata inefficace) nel caso in cui il condannato abbia perso la disponibilità dell'abitazione la quale costituisce un presupposto indispensabile per la concessione e lo svolgimento della misura alternativa.
Una attenzione particolare deve essere dedicata alle conseguenze della revoca.
A questo riguardo vengono in considerazione due diverse norme: l'art. 47 ter, 9° comma bis, dedicato specificamente alla detenzione domiciliare, e l'art. 58 quater della legge 26.07.1975, n° 354, il cui ambito di operatività comprende tutte le misure alternative.
Il 9° comma-bis stabilisce che la pena residua da espiare in carcere per effetto della revoca della detenzione domiciliare c.d. generica di cui al 1°comma-bis "non può essere sostituita con altra misura". Il tenore letterale della norma (il legislatore ha infatti utilizzato l'espressione "misura" e non quella più ampia di benefici) induce a ritenere che il divieto di concessione non si applichi a quegli istituti del diritto penitenziario diversi dalle misure alternative come i permessi premio e l'ammissione al lavoro all'esterno.
L'altra norma che disciplina le conseguenze derivanti dalla revoca della detenzione domiciliare è costituita dall'art. 58-quater della legge 26.07.1975, n° 354.
Il 1°comma della norma stabilisce che i benefici penitenziari e le misure alla detenzione, con la sola esclusione della liberazione anticipata, non possono essere concessi "al condannato per uno dei delitti previsti nella comma 1 dell'art. 4-bis che ha posto in essere una condotta punibile a norma dell'art. 385 c.p.". Il divieto di concessione dei benefici, che opera per un periodo di tre anni, si applica anche, secondo quanto precisa il 2°comma della norma in esame, "al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa ai sensi dell'art. 47, 11° comma, dell'art. 47 ter, comma 6 o dell'art. 51,primo comma".
In giurisprudenza si è affermata e consolidata una interpretazione estensiva del divieto di concessione triennale dei benefici: si è infatti affermato che in caso di revoca di una misura alternativa il divieto de quo opera con riguardo a qualsiasi condannato, indipendentemente dal titolo del reato cui la condanna si riferisce e non solo con riguardo agli autori dei gravi delitti compresi nell'ambito di applicabilità dell'art. 4-bis.
Siffatta impostazione, che appare pure conforme al dato letterale ed alla intentio legis, informata da una evidente finalità sanzionatoria delle condotte che hanno determinato la revoca di una misura alternativa, è stata oggetto di critiche della dottrina più autorevole la quale ha osservato come tale interpretazione "contrasta apertamente con la realtà del percorso trattamentale, che non può essere concepito come una lineare situation in progress, ma è fatto di avanzamenti e di ripiegamenti, ai quali deve corrispondere un sistema duttile di sanzioni positive e negative"[19]. Mette conto tuttavia ricordare che l'interpretazione estensiva del divieto di concessione triennale dei benefici è stata avvalorata dalla stessa Corte Costituzionale che, con l'ordinanza n° 289 emessa il 19.06.2002, ha dichiarato manifestamente infondata l'eccezione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Venezia in relazione all'art. 58-quater proprio al fine di ottenere dal giudice delle leggi una interpretazione che censurasse l'indirizzo interpretativo dominante.
Nonostante ciò l'interpretazione dell'art. 58 quater O.P. nel senso estensivo sopra delineato, non censurato dalla Corte Costituzionale, può risultare non convincente nella logica del "doppio binario" a cui oramai si informa il sistema penale e penitenziario
Tribunale di Sorveglianza di Firenze, ordinanza n. 2560/03 del 27.05.2003, relativamente ad una fattispecie in cui il reo risultava aver riportato numerose condanne per il delitto di cui all'art 527 c.p. consumato attraverso il compimento di atti di esibizionismo.
Cass.Sez I , 10 luglio 2002 pres. Sossi, rel. Fazioli in : La giustizia penale 2003 ( parte 2°: diritto penale) pag. 126
V. Maccora La disciplina dell'art. 656 c.p.p. e i provvedimenti d'urgenza di competenza del magistrato di sorveglianza alla luce della riforma operata dalla L. 27 maggio 1998 n. 165 in AA.VV. Esecuzione penale e alternative alla detenzione penitenziaria, Cedam, Padova, 1999, pp. 100 e ss.
G. Pierro La nuova disciplina della detenzione domiciliare nel quadro della trasformazione del sistema della esecuzione penale in op. cit. p. 318.
G. Varraso La conversione automatica deglia rresti domiciliari in detenzione domiciliare in Diritto penale e processo n. 8/2000 pag. 949 e ss
Conf. Tribunale sorveglianza Firenze ordinanza n. 5696/2000 del 28/9/2000: dispone la trasmissione degli atti del procedimento alla Corte di Cassazione per la risoluzione del conflitto. La Corte di Coassazione con sentenza n. 1965 del 13/1/2001 dichiara la competenza del trib. Sorv. Roma
Cass.S.U.13.07.1998, P.M. contro Giaffrida, in CED, RV-211467; Cass. 20.09.2001 in Dir. Pen. Proc., 2001, p.1514; Cass. 25.01.2002, P.M. contro Ambrosino, in Dir. Pen. Proc. 2002, p.588.
In ordine alla configurabilità del delitto di evasione vedi la giurisprudenza citata nella parte della trattazione dedicata agli arresti domiciliari.
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