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Casi speciali di detenzione domiciliare




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Casi speciali di detenzione domiciliare


La recente legislazione ha ulteriormente ampliato le figure di detenzione domiciliare. In questa prospettiva devono essere esaminate: la detenzione domiciliare concedibile ai condannati affetti da HIV conclamata o da grave deficienza immunitaria, introdotta dalla legge 12.07.1999, n°23; la detenzione domiciliare speciale applicabile alle condannate madri di prole di età non superiore ad anni 10, introdotta dalla legge 8.03.2001, n°40, ed infine la detenzione domiciliare applicabile ai collaboratori di giustizia ai sensi dell'art. 16-nonies della legge 15.03.1991 n°82.


Misure alternative alla detenzione nei confronti dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria (art. 47 quater O.P.)


"Le misure previste dagli art. 47 e 47 ter possono essere applicate, anche oltre i limiti di pena ivi previsti, su istanza dell'interessato o del suo difensore, nei confronti di coloro che sono affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell'art. 286 bis, comma 2, del codice di procedura penale e che hanno in corso o intendono intraprendere un programma di cura e assistenza presso le unità operative di malattie infettive ospedaliere ed universitarie o altre unità operative prevalentemente impegnate secondo i piani regionali nell'assistenza ai casi di AIDS."

Questo articolo, inserito nell'ordinamento penitenziario della legge 12 luglio 1999, n° 231 segna " un nuovo capitolo nella farragginosa storia della detenzione domiciliare".[1]

La ratio della norma deve essere individuata nella necessità di evitare la permanenza in carcere dei condannati affetti da AIDS conclamata: come è stato osservato in dottrina "il carcere continua ad essere un luogo altamente a rischio di contagio non per le modalità di trasmissione del virus che non differiscono da quelle in ambiente libero, ma per l'eccessiva promiscuità, per l'affollamento che raggiunge soglie intollerabili e soprattutto per le carenze del sistema sanitario penitenziario acuite dall'inerzia del legislatore".[2]

In quest'ottica si possono comprendere le ragioni che hanno indotto il legislatore a svincolare l'applicazione del beneficio alla entità della pena da espiare ed alla natura del reato commesso; e ad estenderne l'ambito di operatività anche agli internati.

Come è noto il primo tentativo diretto a  disciplinare il trattamento dei soggetti colpiti da infezione HIV che versino in condizioni di salute particolarmente gravi risale al 1993.

In quella occasione fu introdotta la previsione del rinvio obbligatorio dell'esecuzione della pena in presenza di infezioni da HIV da ritenersi incompatibili con lo stato detentivo accertate sulla base di parametri predeterminati. La normativa (d.l. 139/1993, convertito nella legge 222/1993) venne dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui imponeva il rinvio dell'esecuzione della pena anche nel caso in cui l'espiazione poteva avvenire senza pregiudizio per la salute del condannato e per quella degli altri detenuti[3].

I rilievi formulati dalla Corte Costituzionale sono stati in parte recepiti dal legislatore del 1999 che con la legge n°231 ha nuovamente affrontato il problema dell'applicazione delle misure limitative della liberà personale sia con riguardo al procedimento di cognizione che in ordine alla fase dell'esecuzione nei confronti dei soggetti colpiti dal virus HIV.

In particolare il legislatore da un lato ha ridisegnato la disciplina del differimento, obbligatorio e facoltativo dell'esecuzione della pena, e dall'altro ha introdotto una ulteriore figura di detenzione domiciliare il cui ambito di applicazione è circoscritto ai condannati affetti da AIDS o da grave deficienza immunitaria.

L'applicazione della misura de qua è subordinata a tre diversi presupposti.

Il primo è di natura soggettiva ed attiene alle condizioni di salute del condannato, descritte nel 1°comma della norma, che devono essere attestate dalla certificazione del servizio sanitario pubblico o penitenziario.

Il secondo è di natura oggettiva ed è costituito dal programma di cura e di assistenza la cui "concreta attuabilità" deve essere certificata dagli organi pubblici sopra richiamati.

In tal modo il legislatore ha inteso "premiare" la volontà del condannato di intraprendere un percorso di recupero, e tale aspetto sembra l'unico elemento in grado di giustificare l'inserimento, in un sistema normativo che prevede attraverso l'art. 47 ter legge 26.07.1975, n° 354 due forme di detenzione domiciliare suscettibili di costituire una risposta efficace  alle esigenze del tutto peculiari dei malati di AIDS, di questa nuova ipotesi di detenzione domiciliare.

Infine va ricordato il presupposto negativo di cui all'art. 47 quater, 5°comma, secondo cui la misura alternativa non può essere applicata se il condannato "abbia già fruito di analoga misura e questa sia stata revocata da meno di un anno".

L'art. 47 quater prevede il ricorso alla detenzione domiciliare in alternativa all'affidamento in prova al servizio sociale; la norma tuttavia non contiene alcune indicazione in merito ai criteri di valutazione cui deve attenersi il Tribunale di Sorveglianza nel decidere quale delle due misure applicare. In linea di massima si può sostenere che il Tribunale dovrà, tenendo conto delle condizioni personali del condannato, optare per quella misura che sia idonea a contemperare l'esigenza di favorire l'espletamento del programma terapeutico con quella di prevenire il pericolo di recidiva. In questa prospettiva si è affermato che dovrà essere preferito "l'affidamento in prova, laddove non sussista pericolosità ovvero questa sia presente solo in minima parte. Si dovrà dare invece preferenza alla detenzione domiciliare nei casi in cui la pericolosità del soggetto risulti meglio contenibile attraverso l'unica prescrizione di non allontanarsi dal luogo prestabilito se non per le cure necessarie".[4]

Questa ipotesi di detenzione domiciliare evidenzia numerosi problemi applicativi con riferimento al coordinamento con l'art. 146 1° comma n. 3 O.P..

Va inserita nell'ampio quadro normativo varato dal legislatore con la legge 12 Luglio 1999 n. 231 in cui ha cercato di ridisciplinare il problematico binomio malti di AIDS-carcere: problemi quindi di tutelare sia il diritto alla salute del singolo condannato, sia il diritto alla salute collettiva penitenziaria, a causa del contagio che può determinare la malattia.

Dopo le pronunce della Corte Costituzionale, in particolare con la sentenza 438/1995 con cui si afferma l'illegittimità costituzionale dell'art. 146 1° comma n. 3 c.p. nella parte in cui prevedeva che il differimento dell'esecuzione della pena avesse luogo anche quando l'espiazione della stessa potesse avvenire senza pregiudizio della salute del soggetto e quella degli altri destinatari, emergeva appunto la necessità di una nuova disciplina capace di tutelare il diritto alla salute senza però annullare, attraverso rigidi automatismi la pretesa punitiva dello Stato.

La norma in questione, poiché il legislatore sembra aver eliminato le preesistenti forme di presunzione ex lege in materia di rinvio obbligatorio della pena, introduce una risposta sanzionatoria diversificata nei confronti dei condannati affetti da AIDS.

E' innegabile comunque, come già detto, che la norma presenti numerosi problemi applicativi per quanto riguarda il suo coordinamento con il differimento obbligatorio.

Allo stato attuale, la possibilità che al condannato affetto da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria sia applicato il differimento obbligatorio dell'esecuzione (ex art. 146 1° coma n. 3 O.P.) sembra ammessa solo nell'ipotesi in cui la malattia sia in una fase così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative.

Ai fini della concessione di questa tipologia di detenzione domiciliare il Tribunale di Sorveglianza è chiamato ad operare un giudizio di bilanciamento tra il diritto alla salute del detenuto e la tutela della collettività, in tal senso dovrà accertare in concreto se la malattia da cui è affetto il detenuto sia tanto grave da comportare da un lato l'incompatibilità con il regime carcerario, e dall'altro, da diminuirne la pericolosità sociale.

Di conseguenza la misura non potrà essere concessa qualora la malattia non sia così grave da determinare l'incompatibilità con lo stato detentivo e non sia in uno stato così avanzato da diminuire il pericolo di reiterazione dei reati.[5]

La detenzione domiciliare disposta ex art. 47 quater O.P. parrebbe risultare addirittura superflua in quanto la detenzione domiciliare risultava già applicabile nei casi contemplati dall'art. 47 ter comma 1 ter O.P..

Il fine ultimo della norma, che fa parte di un  provvedimento normativo che ha un carattere emotivo ed emergenziale, sembra essere quello di voler risolvere i problemi legati all'AIDS con l'applicazione incondizionata di misure alternative. La detenzione domiciliare è ancora una volta il perno attorno cui ruota il sistema dell'esecuzione penale.



La detenzione domiciliare speciale (art. 47 quinques O.P.)


"Quando non ricorrono le condizioni di cui l'art. 47 ter, le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori reati e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e all'assistenza dei figli, dopo l'espiazione di almeno quindici anni nel caso di condannata all'ergastolo".

La norma risponde all'esigenza, in un ottica di deflazione del sovraffollamento carcerario, di consentire l'accesso alla detenzione domiciliare anche alle condannate che non sono in condizione di fruire della detenzione domiciliare di cui all'art. 47 ter, 1° comma lett. a) della legge 26.07.1975, n° 354, al fine di evitare che l'esecuzione della pena influisca negativamente sul rapporto madre-figlio, condizionando lo sviluppo psicologico del minore in una fase particolarmente delicata della sua crescita.

I presupposti cui è subordinata l'applicazione di questa ulteriore figura di detenzione domiciliare sono i seguenti:

che la madre abbia espiato almeno 1/3 della pena ovvero 15 anni nel caso di condanna all'ergastolo;

che non sussista il pericolo di recidiva e che vi sia la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli.

che il figlio abbia un'età inferiore a 10 anni. Mette conto precisare che sulla scorta di quanto dispone l'8°comma della norma in esame, al compimento del 10 anno di età il Tribunale di Sorveglianza può disporre o la proroga del beneficio, se "ricorrono i requisiti per l'applicazione della semilibertà di cui all'art. 50, commi 2,3 e 5"; ovvero disporre l'ammissione alla assistenza all'esterno dei figli minori di cui all'art. 21-bis legge 26.07.1975, n° 354. Quest'ultima norma, anch'essa introdotta con la legge 8.03.2001, n°40, stabilisce infatti che "le condannate e le internate possono essere ammesse alla cura ed alla assistenza all'esterno dei figli di età non superiore ad anni 10, alle condizioni previste dall' 21", il quale, come è noto, prevede l'istituto del lavoro all'esterno.

La dottrina ha evidenziato la contraddittorietà di siffatta previsione normativa: infatti mentre da un lato il legislatore ha introdotto la detenzione domiciliare speciale quale misura di maggior favore per le condannate che siano madri di  prole di età non inferiore a 10 anni, dall'altro ha stabilito che la detenzione domiciliare può proseguire anche dopo il superamento di tale limite di età (che rappresenta il "bene giuridico" oggetto della tutela) purché ricorrano le condizioni per l'applicazione della semilibertà.

Ad una simile critica si può replicare sottolineando che la norma (si noti che questa ipotesi di detenzione domiciliare si chiama "speciale") è stata creata con lo scopo di tutelare l'infanzia e il suo armonioso sviluppo, tanto da prevedere espressamente che qualora questo sviluppo si stia realizzando, la legge non lo bloccherà al decimo anno di vita del bambino, permettendo a condizioni abbastanza ampie che il rapporto madre-figlio prosegua.

Se la madre è deceduta o impossibilitata, e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre, la detenzione domiciliare speciale può essere concessa anche al padre detenuto.

In giurisprudenza si è precisato che la detenzione domiciliare speciale non si sottrae ai divieti cui è soggetta la detenzione domiciliare ordinaria previsti dall'art. 58 quater O.P., e pertanto non può essere concessa al condannato nei cui confronti sia stata disposta la revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale

L'ambito di applicazione della detenzione domiciliare speciale si sovrappone parzialmente a quello del differimento di esecuzione della pena ex art. 147 c.p., sovrapposizione accentuata dal fatto che in entrambi i casi è necessaria l'assenza del pericolo di recidiva (cfr. art. 147, 4° comma c.p.): al riguardo si può osservare che se il rinvio dell'esecuzione "garantisce al bambino migliori condizioni di vita, rispetto agli angusti spazi di libertà tipici della detenzione domiciliare"[8], quest'ultima appare decisamente più funzionale all'interesse della madre che può scontare la pena in una forma sicuramente meno afflittiva.

L'ipotesi presa qui in considerazione, che potrebbe applicarsi anche a persone in stato di libertà, perché la norma parla di madri "condannate" e non di madri "detenute"[9] è finalizzata alla tutela dei rapporti familiari, in particolare della convivenza della madre con il figlio anche quando ciò non sarebbe possibile a causa dell'entità della pena, in base all'art. 47 ter 1° comma O.P:.

Lo scopo del beneficio, cioè la tutela del rapporto madre-figlio durante la crescita del minore per un suo sviluppo armonioso è confermato da un più ampio coinvolgimento che ha in questa ipotesi di detenzione domiciliare il CSSA: controlla la condotta del soggetto e lo aiuta a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale, anche mettendosi in relazione con la sua famiglia e con gli altri suoi ambienti di vita (art. 47 quinques 5° comma O.P.).


La detenzione domiciliare per i colaboratori con la giustizia (art. 16 nonies L. 13 febbraio 2001 n. 45)


"Nei confronti delle persone condannate per un delitto commesso per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale o per uno dei delitti di cui all'art. 51, comma 3 bis del c.p.p., che abbiano prestato, anche dopo la condanna taluna delle condotte di collaborazione che consentono la concessione delle circostanze attenuanti previste dal codice penale o da disposizioni speciali, la liberazione condizionale, la concessione di permessi premio o l'ammissione alla misura della detenzione domiciliare prevista dall'art. 47 ter della l. 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, sono disposte su proposta ovvero sentiti i procuratori generali presso le corti di appello interessati a norma dell'art. 11 del presente decreto o il procuratore antimafia".

Tale norma si propone, nella prospettiva di maggior rigore in ordine alle condizioni di fruibilità dei benefici, di superare l'impostazione sperimentale ed emergenziale che aveva caratterizzato la previgente disciplina in materia di benefici concedibili ai collaboratori di giustizia, la quale aveva determinato gravi distorsioni sia con riguardo alla sicurezza dei cittadini sia in ordine alla attendibilità delle dichiarazioni accusatorie rese dai c.d. pentiti e, quindi, della genuinità della formazione della prova in sede dibattimentale.

La disciplina previgente attribuiva ai collaboratori di giustizia sottoposti a programma di protezione la possibilità di accedere all'affidamento in prova al servizio sociale e/o alla detenzione domiciliare a prescindere dall'entità della pena inflitta e dal quantum di sanzione effettivamente espiata. Il sistema così delineato si esponeva a numerose critiche. Da un lato esso rendeva possibile una sorta di fuga dalla pena carceraria anche per reati gravissimi, non giustificabile non solo dal punto di vista della retribuzione e della prevenzione generale, ma anche da quello della prevenzione speciale, atteso che la possibilità di espiare extra moenia la pena discendeva dal fatto oggettivo dell'avvenuta collaborazione e non era collegata ad una prognosi favorevole in merito ai progressi risocializzativi del condannato. D'altro lato la vecchia normativa, nella misura in cui subordinava l'accesso privilegiato ai benefici penitenziari alla ammissione al programma di protezione (art. 13 ter della legge 82/1991), finiva con il vincolare la decisione del Tribunale di Sorveglianza dalla preventiva emanazione di un provvedimento di natura amministrativa finalizzato ad un altro scopo (la protezione dell'incolumità del collaborante) e per giunta fortemente condizionato dalle prospettazioni degli organi investigativi.

La legge 13.02.2001, n° 45, ha profondamente modificato la disciplina relativa alle condizioni di applicabilità dei benefici penitenziari ai collaboratori di giustizia.

La nuova disciplina si propone di separare il c.d. momento tutorio da quello penitenziario, evitando in tal modo che l'ammissione alle speciali misure di protezione divenga un facile passpartout per evitare la pena carceraria e/o per fruire delle misure alternative in deroga ad ogni limite previsto dalla legge.

In quest'ottica la legge disciplina in modo puntuale i presupposti cui è subordinata la concessione delle misure alternative (individuate nella detenzione domiciliare e nella liberazione condizionale, le quali si connotano per modalità esecutive funzionali alla tutela delle esigenze di sicurezza e riservatezza connesse alle peculiari condizione soggettiva dei collaboratori). A tal fine è necessario che il condannato abbia prestato, anche dopo la condanna, una attività di collaborazione che consenta l'applicazione delle circostanze attenuanti previste dal codice penale o dalle leggi speciali; che sia stato redatto il "verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione" di cui all'art. 16 quater; che sia intervenuta la proposta o che sia stato acquisito il parere del Procura Generale presso la Corte di Appello e del Procuratore Nazionale Antimafia (tali atti, secondo quanto prevede la legge, devono contenere ogni indicazione utile in merito alla rilevanza della collaborazione e alla lealtà della condotta processuale del reo); che sussista il ravvedimento del reo;  che sia stata accertata l'insussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata; ed infine "ciò che rappresenta una significativa differenziazione rispetto alla disciplina previgente" che il reo abbia espiato almeno 1/4 della pena (10 anni in caso di condanna all'ergastolo).

Appare dunque evidente come ai fini della concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei collaboratori di giustizia, i requisiti sopra richiamati - "verbale illustrativo della collaborazione"; entità di pena espiata; proposta o parere del Procuratore Generale e del Procuratore Nazionale Antimafia e ravvedimento del reo - abbiano sostituito, nel disegno complessivo tracciato dalla nuova legge, contrassegnata da una decisa impostazione restrittiva rispetto alla legislazione pregressa, il provvedimento amministrativo di ammissione al programma di protezione attribuivo dello status di collaboratore di giustizia strictu sensu (ora a sua volta sostituito dalla ammissione alle c.d. misure speciali di protezione). Mette conto precisare che, ai fini della concessione dei benefici, il requisito del ravvedimento deve essere accertato non solo con riguardo alla liberazione condizionale, da cui detto requisito è stato verosimilmente mutuato, ma anche,  in base a quanto si desume agevolmente dal tenore letterale del 4°comma dell'art. 16 nonies,, con riferimento alla detenzione domiciliare.

Un cenno particolare deve essere effettuato in merito al requisito del ravvedimento.

Al riguardo sembra doversi escludere che il requisito de quo possa essere desunto dalla condotta di collaborazione posta in essere dal reo (condotta che può dar luogo all'applicazione delle attenuanti di cui al 7°comma dell'art. 74 del D.P.R. 309/1990 e di cui all'art. 8 del d.l. 152/1991), in quanto il ravvedimento del reo non figura tra gli elementi costitutivi delle predette circostanze attenuanti (le norme de quibus non richiedono infatti che la condotta di collaborazione tragga origine da motivi positivamente apprezzabili sotto il profilo etico-sociale) valutabili come sintomo di pentimento o di redenzione morale. D'altra parte è del tutto evidente che la condotta di collaborazione ben può essere frutto di valutazioni utilitaristiche finalizzate al conseguimento dei vantaggi e dei benefici che la legge vi ricollega, di talchè il giudice non è tenuto ad accertare se tale condotta costituisca o meno espressione del ravvedimento del reo.

Ciò posto può essere interessante segnalare quanto affermato in merito al requisito de quo in un recente provvedimento del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, ove si osserva quanto segue: "ad avviso del Collegio l'accertamento del  requisito in esame(da intendesi quanto meno come raggiungimento da parte del condannato di una piena ed effettiva revisione critica rispetto al proprio precedente operato contra legem e che pertanto sia suscettibile di evidenziare il definitivo abbandono dei "disvalori" e degli atteggiamenti antisociali su cui si fondavano le precedenti condotte criminose) postula una valutazione globale della condotta del condannato che non può prescindere, oltre che dalle risultanze dell'osservazione penitenziaria, dalla positiva fruizione, conformemente al principio della gradualità del trattamento penitenziario, per un congruo periodo di tempo, del beneficio dei permessi premio (circostanza ancora non integrata)" .

L'ipotesi esaminata di detenzione domiciliare sembra quindi configurare una sorta di premio per quei condannati per reati particolarmente gravi da cui però hanno preso le distanze sia attraverso una condotta di collaborazione, che da luogo all'applicazione delle attenuanti, sia attraverso una condotta intramuraria rispondente positivamente al trattamento penitenziario da cui si possa desumere la revisione critica del proprio passato e quindi una sorta di ravvedimento




E. Dolcini Le misure alternative oggi: alternative alla detenzione o alternative alla pena in op. cit. p 869

V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Ordinamento penitenziario, commento articolo per articolo Cedam, Padova II ed., 2000, sub art. 47 quater pp. 473 e 474

Corte Cost. 18.10.1995, n° 438, in Giur. Cost. 1995, p.3445.

P.Comucci, Problemi applicativi della detenzione domiciliare, cit., p. 214

Trib. Sorv. Milano: Ord. 7 maggio 2002 in Foro Ambrosiano, 2003, pp. 105 e 106.

P.Canevelli, Commento alla legge 8.03.2001, n° 40, in Dir. Pen. Proc., 2001, p.813.

Cass. Sez I 1 luglio 2002 Pres. D'Urso Rel. Chieffi in : La giustizia penale 2003 (parte II: diritto penale) p. 126

P.Canevelli, op. cit.,  p.808.

M. Canepa, S. Merlo op. cit. p.307

Tribunale di Sorveglianza di Firenze, ordinanza n. 6726/02 del 22.10.2002

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