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Chiesa e realtà temporali
Il dualismo cristiano
I rapporti fra religione e politica si sono definiti secondo assetti riconducibili alla fondamentale distinzione tra sistemi monisti e sistemi dualisti. Nei sistemi monisti rientrano quelle realtà socio-politiche caratterizzate dal fatto di non conoscere distinzione fra temporale e spirituale, ma anzi credere in una profonda compenetrazione dell'elemento religioso con l'elemento politico. Il mondo antico precristiano era caratterizzato dal sistema monista poiché la distinzione tra cittadino e fedele era del tutto impensabile; la religione infatti era considerata un elemento fondamentale nell'edificazione della società politica ed un fattore di coesione sociale e di identità nazionale. I sistemi monisti nel tempo hanno conosciuto diverse esplicitazioni. Una è la ierocrazia, o governo della classe sacerdotale, in cui l'elemento religioso e spirituale prevale su quello politico e sociale; un esempio è lo Stato di Israele del Vecchio Testamento, l'organizzazione politica del popolo ebraico era funzionale al rispetto dell'Alleanza di Dio con Abramo e la legge religiosa era anche legge civile. Un'altra esplicitazione si ha nella Chiesa di Stato, dove il principio politico predominò su quello religioso e l'attività religiosa fu considerata come una parte dell'attività statale. Anche a Roma la religione era fattore di identificazione e coesione civile, infatti il culto degli dei era funzionale alla grandezza politica di Roma: l'imperatore era anche pontifex maximus. La divinizzazione degli imperatori rappresentò il punto più alto di sacralizzazione della politica. I sistemi monisti sono stati tipici di società non toccate dal cristianesimo, come nelle società islamiche, ma nelle società già cristianizzate si è ricaduti nei sistemi monisti ogni qual volta il cristianesimo si sia affievolito e le istituzioni politiche si siano affermate (come il nazismo e il marxismo). Il sistema dualista è stato portato dal cristianesimo. Nell'episodio evangelico del tributo tratto dalle pagine di Marco ("rendete a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio") mostra proprio questo principio dualistico e trova riscontro anche in altre pagine del Vangelo, come nel processo a Gesù dinnanzi a Pilato dalle pagine di Giovanni ("il mio regno non viene da questo mondo"). Esiste quindi una sovranità distinta dalle sovranità temporali. Con l'ammonimento a distinguere Dio da Cesare si distinse conseguentemente tra società civile e società religiosa, tra autorità civile e autorità religiosa, tra legge civile e legge religiosa; si venne inoltre a creare il problema della doppia fedeltà del cittadino-fedele. Il principio dualistico cristiano ha messo in moto un processo di secolarizzazione della politica, riportandola all'interno dei suoi limiti. Esso tuttavia non sempre è stato di semplice attuazione, a causa delle diversità di condizioni ambientali e territoriali, ma ha dovuto trovare diversi modi e forme. Si sono infatti avute diverse modalità di realizzazione concreta del principio dualista. Innanzitutto i cosiddetti sistemi dualisti embrionali, nel millennio che va dal IV al XIV secolo, caratterizzati dalla tornante tendenza ad un ricongiungimento fra potere religioso e potere politico. Una prima espressione si trova nel periodo del basso impero romano e nell'alto medioevo, con il cosiddetto cesaropapismo, cioè quell'orientamento volto a restituire un primato dell'autorità civile (Cesare) sull'autorità religiosa (il Papa). Altra espressione della medesima tendenza si trova nell'età medievale con la riforma gregoriana e dopo la vittoria del papato sull'impero nella lotta per le investiture, rappresentata dalla teoria della potestà giuridica diretta della Chiesa sulla realtà temporale (potestas directa Ecclesiae in temporalibus). Le difficoltà di attuazione del principio dualista in questo periodo emersero non sul piano della distinzione fra leggi o fra società, ma delle autorità o potestà. Diverso sistema fu espresso dalla teoria canonistica della potestà giuridica indiretta della Chiesa sulla realtà temporale (potestas indirecta Ecclesiae in temporalibus), all'epoca della Controriforma e osservata fino alle soglie del Vaticano II, in base alla quale sussisteva un primato dell'autorità ecclesiastica su quella politica solo in alcune materie (res mixtae). Ad essa si contrappose, da parte statale, il sistema giurisdizionalista confessionista, proprio delle monarchie assolute (sec. XVII - XVIII), caratterizzato da un duplice orientamento degli Stati: la tutela del cattolicesimo assunto come religione ufficiale, la sottoposizione della Chiesa e delle istituzioni ecclesiastiche a pesanti controlli. Questi due sistemi furono accomunati dalla considerazione della distinzione fra Cesare e Dio anche come distinzione di società giuridicamente organizzate. Da questo momento si cominciò a pensare al rapporto tra Chiesa e Stato in termini di due ordinamenti paralleli. Fra XIX e XX secolo prevalsero altri due sistemi: il sistema separatista integrale, espressione della dottrina liberale che riconduce il fenomeno religioso a fatto privato; il sistema giurisdizionalista agnostico e separatista, in tutti gli Stati liberali nell'Ottocento e negli Stati marxisti nel Novecento, caratterizzato da un regime di pesanti controlli e condizionamenti nei confronti di tutte le organizzazioni religiose, partendo dall'agnosticismo dello Stato o addirittura dall'ateismo e dall'anticlericalismo. Questo spiega la forte reazione della Chiesa e le aspre controversie con gli Stati. A questi sistemi separatisti si è opposto il sistema concordatario o di collaborazione fra le due autorità, che presuppone la distinzione fra leggi, autorità e società. Questo sistema ha avuto una diversa connotazione: nel caso di Stati totalitari o autoritari, ha lo scopo di garantire alle Chiese locali più o meno ampi spazi di libertà; nel caso di Stati democratici, serve a favorire la sana collaborazione fra la Chiesa e la comunità politica.
Principi canonistici sui rapporti fra Chiesa e comunità politica
Una teoria
canonistica dei rapporti fra Chiesa e comunità politica si può elaborare sulla
base di due testi del Concilio Vaticano II: la costituzione pastorale "Gaudium et spes" e la dichiarazione "Dignitatis humanae" sulla libertà
religiosa. Esistono poi altri documenti, come il decreto "Apostolicam actuositatem" sull'apostolato dei laici, il decreto "Christus Dominus" sull'ufficio pastorale
dei vescovi, la costituzione dogmatica "Lumen
gentium", perché per elaborare una teoria dei rapporti tra Chiesa e
comunità politica, sarà preliminarmente necessario avere ben presente che cos'è
In particolare: il principio di libertà religiosa
La libertà religiosa venne recisamente condannata nel 1864 da Pio IX nel "Sillabo" e un secolo dopo fu riconosciuta dal Concilio Vaticano II nella dichiarazione "Dignitatis humanae" del 1965. Dal punto di vista storico la libertà religiosa nasce come rivendicazione del diritto dei credenti di poter professare liberamente la propria fede religiosa, con esclusione di qualsivoglia impedimento proveniente dall'esterno; quindi la libertà religiosa ha una valenza propriamente giuridica. Ma la libertà religiosa può essere oggetto di valutazione anche in altri ambiti come quello filosofico e teologico, dove i caratteri salienti sono il rapporto tra verità ed errore e la doverosità o meno di aderire alla verità una volta che sia stata conosciuta. Diversa dalla libertà religiosa è la libertà di coscienza, che costituisce uno dei contenuti della libertà religiosa, ma si può anche dire che è la libertà di coscienza a comprendere quella religiosa se si intende la prima come libertà di avere o meno un credo religioso mentre la seconda l'esercizio della libertà di coscienza nello specifico ambito religioso. La libertà religiosa è da distinguersi anche dalla libertà della Chiesa (libertas Ecclesiae) e dalla libertà cristiana. La prima si pone sul piano giuridico ed è la libertà di cui la Chiesa deve godere nell'ordine temporale; la seconda si pone sul piano teologico e consiste nel moto spontaneo verso il bene della persona, è la libertà di andare verso la verità e comporta il superamento della legge esteriore per intima adesione alla legge di Dio, la carità. Si deve distinguere inoltre dalla tolleranza religiosa, che evoca il non perseguire un fenomeno religioso che si vorrebbe represso. Nella "Mirari vos" e nel "Sillabo" veniva condannata la concezione filosofica della libertà religiosa, tale concezione importava di conseguenza il relativismo, il sincretismo e l'indifferentismo in materia religiosa. E' ovvio che tali posizioni sono incompatibili con l'essere stesso della Chiesa, per cui non può essere indifferente credere o non credere. Ovviamente il Concilio Vaticano II ha ribadito questi insegnamenti affermando che sul piano morale sussiste l'obbligo di cercare e seguire la verità, poiché verità ed errore non sono sullo stesso piano. Viceversa la dichiarazione conciliare affronta la questione della libertà religiosa dal punto di vista giuridico. Tratta infatti delle responsabilità che incombono sullo Stato nell'assicurare a tutti quella piena libertà grazie alla quale ciascuno può soddisfare l'obbligo morale di conoscere e seguire la verità. Quindi interlocutore del documento conciliare è l'autorità pubblica che non deve obbligare le coscienze ma garantire ciascuno da eventuali coazioni. Nella "Dignitatis humanae" la libertà religiosa è considerata come un diritto naturale, fondato sulla dignità della stessa persona umana, che si definisce diritto ad essere immuni da coercizioni esterne in materia religiosa. Sono titolari di questo diritto tutti gli uomini, infatti a motivo della loro dignità tutti quanti gli uomini sono spinti dalla loro stessa natura a cercare la verità, soprattutto quella concernente la religione. Però gli uomini non sono in grado di soddisfare a questo obbligo se non godono della libertà psicologica e dell'immunità dalla coercizione esterna. Si tratta dunque di un diritto pubblico soggettivo, cioè un diritto del soggetto che si esprime nei rapporti per i quali si manifesta il potere di comando (imperium), ed è al contempo un diritto individuale ed un diritto collettivo, che spetta in primo luogo ad ogni uomo ma di cui possono essere titolari anche formazioni sociali. La libertà religiosa comporta il diritto di non essere impediti ad agire in conformità della propria coscienza, ma ciò può incontrare dei limiti. Infatti nell'esercizio di tutte le libertà si deve osservare il principio morale della responsabilità personale e sociale: quindi tener conto tanto dei diritti altrui quanto dei propri doveri verso gli altri, quindi agire secondo giustizia e umanità. Poiché la società civile ha il diritto di tutelarsi contro gli abusi, spetta soprattutto al potere civile provvedere a tale protezione secondo norme giuridiche conformi all'ordine morale oggettivo. Limite legittimo al diritto di libertà religiosa è quello che si uniforma rigorosamente ai diritti umani o diritti naturali. Nella Chiesa è sempre stato costante l'insegnamento per cui l'atto di fede non può che essere libero. Il Vaticano II afferma che l'uomo deve rispondere volontariamente a Dio credendo, perciò nessuno può essere costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà. Il diritto interno della Chiesa vieta ogni coazione nell'opera di evangelizzazione e nell'amministrazione del battesimo (cann. 748 ed 865). Con il pontificato di Giovanni Paolo II il magistero sulla libertà religiosa è stato approfondito. Sicuramente con la Lettera ai Capi di Stato sulla libertà religiosa e sul documento finale di Helsinki, del primo settembre 1980, nella quale è chiarito il pensiero della Chiesa sulla libertà religiosa come diritto dell'uomo, individuale e collettivo, in particolare come diritto delle singole confessioni religiose. Si dilunga nell'individuare e definire i singoli contenuti del diritto di libertà religiosa, evidenziando come nella moderna società non possa essere più ristretto nella classica libertà di professare la propria credenza religiosa, nella libertà di culto o nella libertà di proselitismo. E' precisato che sul piano personale libertà religiosa significa anche libertà di educazione religiosa dei figli; la libertà delle persone di beneficiare dell'assistenza religiosa; libertà di non essere costretti a compiere degli atti contrari alla propria fede; libertà di non subire limitazioni e discriminazioni nelle diverse manifestazioni di vita. Sul piano comunitario libertà religiosa è la libertà che ad ogni comunità religiosa deve essere assicurata di scegliere liberamente i propri ministri, di esercizio del ministero, di avere istituti di formazione religiosa, di pubblicare libri religiosi, di comunicare ed insegnare la fede con ogni mezzo, di svolgere attività di educazione, di beneficenza, di assistenza. Nella misura in cui la libertà religiosa raggiunge la sfera più intima dello spirito, essa sostiene la ragion d'essere delle altre libertà, cioè è matrice e fondamento di tutte le altre libertà. Rispetto alla "Dignitatis humanae", che parte da una definizione in negativo della libertà religiosa, Giovanni Paolo II la colloca in un contesto positivo, relativamente alle responsabilità nel rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della vita religiosa a livello individuale e a livello collettivo.
I concordati e gli altri accordi
La
tradizionale forma di collaborazione sono i concordati, ovvero accordi di
diritto internazionale. E' stato favorevole lo sviluppo dell'esperienza
giuridica internazionale, condiviso dalla dottrina canonistica. Ad esempio nel
can. 362 il Pontefice esercita lo ius
legationis nei confronti dei governi civili nel rispetto delle norme di
diritto internazionale. E' da ricordare l'allocuzione concistoriale "In hac quidem" del 1921, con cui
Benedetto XV delineò la politica concordataria dopo i grandi sconvolgimenti
della prima guerra mondiale. Lo Stato è parte contraente del concordato, ma in
futuro non è da escludere che si possano stipulare anche con altri soggetti
internazionali. Per l'individuazione dei soggetti competenti è necessario
rifarsi alle norme costituzionali dei diversi Stati. Per parte della Chiesa il
soggetto competente a stipulare un concordato è
la prima è data dagli accordi fra episcopato ed autorità politica, con un carattere meramente politico; per far sì che l'autorità politica competente adotti nell'ambito dell'ordinamento civile quei provvedimenti di natura normativa o amministrativa che sono attuazione di quanto convenuto con l'autorità ecclesiastica.
la seconda è data dagli accordi con carattere meramente amministrativo, interno all'ordinamento statale; ad esempio l'intesa fra Vescovo diocesano e competente autorità scolastica per la nomina dei docenti di religione.
la terza è data dagli accordi aventi un contenuto normativo, cioè volti ad innovare l'ordinamento giuridico statale.
Non hanno la natura di accordi internazionali né possono qualificarsi come concordati, però si tratta pur sempre di accordi che nascono in un ordinamento giuridico terzo, nel quale le due autorità contraenti si incontrano su un piano di parità. E' evidente che i contenuti dell'accordo devono poi trovare esecuzione nell'ordinamento civile e in quello canonico. Si deve anche contemplare il caso che singoli Vescovi o le conferenze episcopali, con il consenso e con il mandato della Santa Sede, stipulino accordi con l'autorità statale; in questo caso si rientrerebbe nella fattispecie concordataria e rientrano i "concordati quadro", quelli contenenti i principi informatori dei rapporti, e gli accordi attuativi sulle singole materie. L'Accordo di modificazione del concordato lateranense del 18 febbraio 1984, da un lato pone delle norme quadro in determinate materie: insegnamento della religione nelle scuole pubbliche; di assistenza spirituale nelle forze armate, nelle carceri, negli ospedali e negli istituti di ricovero; di tutela del patrimonio storico ed artistico. Dall'altro prevede una clausola generale secondo cui ulteriori materie potranno essere regolate sia da nuovi accordi sia da intese con le competenti autorità. Nel primo caso si tratta di un mandato della Santa Sede a convenire con l'autorità statale, nel secondo sembra un rapporto di sostituzione della Conferenza episcopale italiana alla Santa Sede.
La Chiesa e la comunità internazionale
La presenza della Chiesa nella vita della comunità internazionale è un dato storico incontrovertibile. Dall'origine della comunità internazionale è stato presente anche il papato. Le ragioni storiche sono da ricavare nella sovranità temporale dei Papi e nell'indiscussa posizione di primato sulle sovranità temporali che il papato aveva. La vera ragione di tale presenza è da ricercarsi nell'evolvere della prima esperienza dello Stato moderno verso forme di giurisdizionalismo, cioè quella politica e quella legislazione in materia ecclesiastica tendente a sottomettere la Chiesa sempre più direttamente al controllo dell'autorità civile. Il giurisdizionalismo univa la rivendicazione di una serie di diritti nei riguardi della istituzione ecclesiastica (iura maiestatica circa sacra) che finivano sostanzialmente per violare in maniera grave la libertas Ecclesiae e per soggiogare pesantemente la Chiesa allo Stato. Questa politica trovava un ostacolo nel carattere sopranazionale della Chiesa; questo fu un elemento che sorresse l'altra tendenza a favorire la nascita di Chiese nazionali cioè avente un'organizzazione autonoma rispetto al papato. La politica di presenza della Santa Sede nell'ordinamento internazionale risponde ad un'esigenza politica ben precisa: sottrarre le
Chiese locali
alla giurisdizione nazionale dei moderni Stati sovrani e trattare con gli Stati
la regolamentazione delle materie di interesse ecclesiastico, partendo da un
piano di parità. In sostanza
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