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Le fattispecie estintive del rapporto di lavoro possono essere individuate:
Non costituiscono, al contrario, causa di estinzione del rapporto il fallimento e la liquidazione coatta amministrativa dell'impresa (art. 2119, ult. co., c.c.).
Secondo le disposizioni civilistiche il recesso è un negozio unilaterale e recettizio (cioè, efficace dal momento in cui viene a conoscenza dell'altra parte). Il recesso è altresì estrinsecazione di un diritto potestativo, in quanto, benché la manifestazione di volontà sia unilaterale, produce effetto nella sfera giuridica di un altro soggetto, il quale vedrà estinguersi il rapporto.
Nel caso del prestatore di lavoro le dimissioni assumono valenza di atto di natura estintiva, avendo il rapporto di lavoro esaurito la funzione relativa all'interesse del lavoratore. In specie, ai sensi degli artt. 2118 e 2119 c.c., il recesso del prestatore è così regolato:
in caso di contratto di lavoro a tempo indeterminato, è sempre ammesso purché venga rispettato il termine di preavviso fissato dal contratto collettivo o dagli usi (pena il pagamento dell'indennità di mancato preavviso);
qualora ricorra una giusta causa, se il rapporto è a tempo indeterminato non è necessario rispettare il termine di preavviso, mentre se il contratto è a tempo determinato è possibile recedere prima della scadenza del termine.
Le ipotesi di giusta causa, di regola tipizzate nei contratti collettivi, possono concernere sia la sfera del lavoratore sia quella del datore. In quest'ultimo caso il recesso del prestatore da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza l'osservanza del preavviso dà, comunque diritto a percepire l'indennità sostitutiva del mancato preavviso (art. 2119 c.c.).
Quanto alla forma delle dimissioni, esse sono di regola considerate un atto a forma libera, a meno che non via sia una diversa previsione da parte del contratto collettivo il quale può disciplinare, oltre che la forma dell'atto, anche quella della sua comunicazione.
Contro eventuali pressioni del datore di lavoro volte a far presentare le dimissioni, è stato previsto:
che le dimissioni della lavoratrice se presentate in occasione di matrimonio devono essere confermate, a pena di nullità, davanti alla DPL;
che le dimissioni presentate durante il periodo di gravidanza dalla lavoratrice oppure dalla lavoratrice o dal lavoratore durante il primo anno di vita del bambino o nel primo anno di accoglienza del minore adottato o in affidamento, devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro territorialmente competente.
Nel rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, il lavoratore che si dimette è tenuto a dare al datore preavviso
del recesso stesso nel termine e nei modi stabiliti dai contratti collettivi,
dagli usi o secondo equità; lo stesso deve fare il datore che intende avvalersi
del potere di licenziare ad nutum o per giustificato motivo (art. 2118, co. 1,
c.c.). L'obbligo del preavviso è volto ad evitare che l'interruzione ex abrupto
del rapporto possa comportare conseguenze dannose per
L'esercizio del diritto potestativo di recesso da parte del datore di lavoro (licenziamento) trova numerosi limiti legislativi. Tali limiti non può dirsi costituiscano violazione del principio di parità contrattuale delle parti. Ciò perché nel cotesto socio economico che ha caratterizzato l'evoluzione della legislazione speciale del lavoro, il rapporto di lavoro presentava una obiettiva e stridente disparità tra le parti: un contraente forte, il datore di lavoro, un contraente debole, il lavoratore.
Il potere del datore di licenziare il lavoratore trova la sua regolamentazione in una serie di fonti succedutesi nel tempo - Codice Civile, L. 604/1966, Statuto dei lavoratori, L. 108/1990, altre leggi speciali che lo assoggettano:
La prima disciplina legislativa vincolistica venne introdotta con la legge n. 604 del 1966 che, mantenendo intatta la libertà di dimissioni, regolamentò invece i licenziamenti individuali, dichiarando illegittimo il licenziamento non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo. Tale normativa era applicabile, però, solo a imprese con più di 35 dipendenti. Un decisivo passo in avanti sul piano sul piano della effettività della stabilità del posto di lavoro è stato poi compiuto con la legge n. 300 del 1970 (statuto dei lavoratori), che, all'art. 18, prevede la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, quando il giudice ritenga non sussistere la giusta causa o il giustificato motivo del licenziamento. La legge 108 del 1990, infine, ha dato un nuovo assetto alla normativa del licenziamenti innovando la legge n. 608 del 1966 e modificando l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. In particolare ha esteso anche alle piccole imprese la disciplina del recesso per giusta causa e giustificato motivo, prevedendo l'obbligo di riassunzione o, in alternativa, il risarcimento del danno per il lavoratore illegittimamente licenziato. Per le grandi imprese, la nuova normativa ha ampliato la possibilità di ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro dei dipendenti illegittimamente licenziati.
Per effetto della delineata evoluzione normativa, in base alle disposizioni vigenti, il recesso da parte del datore di lavoro è:
esercitabile liberamente solo in ipotesi marginali, espressamente escluse dal campo di applicazione della normativa vincolistica (recesso ad nutum);
di regola vincolato alla sussistenza di una giusta causa o un giustificato motivo (licenziamento per giusta causa e giustificato motivo);
vietato in una serie di casi in cui, rispetto all'interesse datoriali, prevale quello del prestatore alla conservazione del posto di lavoro (divieto di licenziamento);
assolutamente nullo se ispirato a motivi illeciti (licenziamento discriminatorio).
Per effetto dell'art. 1 della legge n. 604
del 1966 il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per
giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c. o per giustificato motivo. Tale
norma, che trova ulteriore supporto negli artt. 18 dello Statuto dei lavoratori
e 2 della legge n. 108 del
La disciplina limitativa del potere di licenziamento non si applica nelle ipotesi in cui è ammesso il recesso ad nutum, cioè la possibilità per il datore di licenziare senza alcun vincolo di giustificazione. Essa ricorre solo in alcune ipotesi espressamente previste, e cioè nei confronti:
La disciplina garantistica in tema di licenziamento non solo impone che il licenziamento sia intimato in presenza di una specifica motivazione che lo consenta, salve le eccezioni di cui sopra, ma prevede inoltre delle situazioni in pendenza delle quali vige un divieto di licenziamento.
Sussiste un vero e proprio divieto di licenziamento nei casi di:
e nei confronti dei:
Con riguardo al limite sostanziale, il primo problema che si pone è quello del significato da attribuire al concetto di giusta causa ed a quello di giustificato motivo, tenuto conto anche del fatto che, in relazione a quest'ultimo, dottrina e giurisprudenza distinguono il giustificato motivo soggettivo da quello oggettivo.
La nozione di giusta causa si ricava anzitutto dall'art. 2119, c.c., che contempla la possibilità per ciascuna delle parti di recedere dal contratto prima della scadenza del termine se il contratto è a tempo determinato, ovvero senza preavviso se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto. Anteriormente all'emanazione della L. 15 luglio 1966, n. 604, recante 'Norme sui licenziamenti individuali', la dottrina e la giurisprudenza ritenevano giusta causa di licenziamento, oltre all'inadempimento del lavoratore, anche ogni altro fatto idoneo a menomare il rapporto di fiducia personale, considerato connotato essenziale del rapporto di lavoro. Tale orientamento muta dopo l'entrata in vigore della L. 604/1966, alla luce della quale si attribuisce alla giusta causa un significato più ristretto, riportando il concetto di fiducia entro i limiti oggettivi dell'affidamento del creditore nell'esattezza dei successivi adempimenti, generalmente rilevante in tutti i rapporti di durata. In tal modo, il concetto di giusta causa trova 'una puntuale definizione nella stessa nozione di giustificato motivo soggettivo, dal quale si differenzierebbe solo per la particolare gravità dell'inadempimento' (GHERA), e cioè solo da un punto di vista quantitativo, non anche qualitativo. Il comportamento del lavoratore deve essere valutato caso per caso dal giudice, anche quando - come di solito accade - esso sia espressamente previsto dai contratti collettivi come giusta causa di licenziamento. In altri termini, il giudice è chiamato a verificare la conformità delle disposizioni contrattuali alla nozione legale di giusta causa, e, dunque, in concreto, a verificare se le mancanze addebitate al prestatore siano così gravi da imporre la risoluzione del rapporto anziché l'irrogazione di sanzioni disciplinari.
Il giustificato motivo soggettivo è
analogo alla giusta causa, dalla quale si distingue, come si è detto, solo da
un punto di vista quantitativo, per la minore gravità dell'inadempimento. Ai
sensi dell'art.
L'art.
È, peraltro, a carico del datore di lavoro l'onere di dimostrare l'effettività delle ragioni poste a base del licenziamento e l'impossibilità di una diversa proficua utilizzazione dei lavoratori licenziati.
Il licenziamento determinato da giustificato motivo oggettivo, allorché investe una pluralità di lavoratori, non costituisce una ipotesi di licenziamento collettivo, il quale ai senso dell'art. 11 della legge 604/66 è sottratto alla normativa vincolistica in tema di recesso.
Oltre ai limiti sostanziali di cui si è appena detto, il potere di licenziamento del datore incontra anche limiti procedurali, attinenti alla forma del licenziamento. infatti:
deve essere comunicato al lavoratore per iscritto. La forma orale è ammessa solo per i licenziamenti dei lavoratori domestici e dei lavoratori in prova;
la motivazione del recesso non deve necessariamente essere enunciata nell'atto di intimazione del licenziamento; il prestatore di lavoro può chiedere, entro 15 giorni dalla comunicazione, i motivi che hanno determinato il recesso;
il datore di lavoro, nei sette giorni dalla richiesta del lavoratore, deve comunicare per iscritto i motivi che, una volta enunciati, sono immodificabili;
la giurisprudenza richiede anche l'immediatezza e la tempestività dell'adozione e, quindi, della comunicazione del licenziamento intimato per giusta causa; sembra logico ritenere che tale requisito, in ossequio ai princìpi generali in tema di risoluzione per inadempimento, per i quali la gravità di quest'ultimo va valutata alla stregua dell'interesse del creditore, debba valere anche in presenza di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento. L'onere della prova della sussistenza del giustificato motivo o della giusta causa grava sul datore.
L'impugnazione del licenziamento, da parte
del lavoratore, deve avvenire, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla sua
comunicazione o da quella dei motivi, se non contestuale. La previsione di un
termine di decadenza induce a ritenere che il legislatore non si riferisca alle
ipotesi in cui il licenziamento è espressamente dichiarato dalla legge nullo od
inefficace. L'impugnazione può anche essere stragiudiziale, ossia effettuata
per mezzo di qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota, anche attraverso
l'organizzazione sindacale, la volontà del lavoratore di impugnare il
licenziamento. In tal caso, il prestatore può ricorrere al giudice del lavoro
dopo aver esperito la procedura di conciliazione prevista dagli accordi sindacali
o dai contratti collettivi ovvero quella disciplinata dall'art.
Il D.Lgs. 387/98, disciplinante la riforma del pubblico impiego, ha introdotto anche norme di modifica al processo del lavoro: attualmente l'art. 410 c.p.c. prevede il tentativo obbligatorio di conciliazione che deve essere promosso, anche tramite associazione sindacale, da chi intenda impugnare giudizialmente l'atto di licenziamento. L'esperimento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda volta all'impugnazione giudiziale del licenziamento.
Il tentativo di conciliazione, come detto,
può essere di tipo sindacale, nel qual caso esso avviene secondo le procedure
previste dai contratti collettivi, oppure di tipo amministrativo, nel qua caso
deve avvenire presso
Come detto, la richiesta di tentativo di conciliazione, una volta che ne sia stata data comunicazione al datore di lavoro, ha l'importante effetto di interrompere la prescrizione e di sospendere, per tutta la durata del tentativo e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni temine di decadenza.
A seguito di impugnazione del licenziamento, nel caso in cui venga accertata l'illegittimità del recesso, il giudice potrà dichiarare:
l'inefficacia del licenziamento, intimato senza forma scritta, senza indicazione dei motivi ed, in generale, senza il rispetto delle formalità di cui all'art. 2 della legge 604 del 1966;
la nullità del licenziamento, indipendentemente dalla motivazione addotta. allorché esso sia stato discriminatorio, cioè determinato da ragioni di credo politico, fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato ecc. ecc., oppure motivato da motivo illecito;
l'annullamento del licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo (artt. 1 legge 604 del 1966 e 18 della legge 300 del 1970).
Il licenziamento illegittimo perché non
sorretto da giusta causa o da giustificato motivo è annullabile; quello
illegittimo per ragioni formali (cioè intimato senza il rispetto della forma
scritta, senza l'indicazione dei motivi ovvero senza il rispetto delle
formalità previste dall'art.
Ai fini dell'individuazione delle conseguenze della declaratoria di illegittimità del licenziamento, occorre distinguere:
Ora per stabilire se la tutela accordata
al prestatore sia quella reale oppure quella obbligatoria occorre far
riferimento alle dimensioni dell'impresa, sotto il profilo del numero dei dipendenti,
tenendo presente che nel computo vanno compresi anche i lavoratori a tempo
indeterminato parziale in proporzione all'orario effettivamente svolto ed i
lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, mentre non vanno
computati il coniuge ed i parenti entro il secondo grado del datore. Dunque,
l'art.
L'art.
Il licenziamento disciplinare, intimato
come misura sanzionatoria, ha dato luogo in passato a contrasti
giurisprudenziali sia in ordine alla sua legittimità sia in ordine alla sua
riconducibilità nell'area di applicazione dell'art.
Scopo primario della legge è quello di assicurare la mobilità dei lavoratori licenziati, attraverso la loro iscrizione in liste di disoccupazione privilegiate, che consentano lo spostamento di lavoratori con un notevole bagaglio di professionalità acquisito dalla imprese recedenti ad imprese bisognevoli di personale qualificato, favorendo la ricollocazione dei lavoratori licenziati.
La procedura di mobilità trova applicazione pertanto in tutte le ipotesi di eccedenze di personale delle imprese, distinguendosi tuttavia, formalmente, due autonome fattispecie e cioè:
esuberi manifestati a causa di un processo di trasformazione o di crisi aziendale per il quale sia stato concesso l'intervento straordinario della Cassa integrazioni guadagni, nel caso in cui l'impresa ritenga di non poter garantire il reimpiego dei lavoratori eccedenti (messa in mobilità);
esuberi dovuti a riduzione o trasformazione di attività o lavoro o cessazione di attività in seguito ai quali il datore di lavoro adotti la decisione di procedere a riduzione (almeno 5 licenziamenti in 120 giorni) del personale (licenziamento collettivo per riduzione di personale).
D'altra parte la procedura prevista per i licenziamenti collettivi per riduzione del personale è sostanzialmente ripresa dalla procedura di mobilità tant'è che, ad avviso della dottrina maggioritaria, si può parlare di una regolamentazione sostanzialmente unitaria delle riduzioni di personale (Ghera).
La disciplina della materia dei licenziamenti collettivi può essere attuata purché ricorrano i seguenti presupposti (art. 24 della legge 223 del 1991):
deve trattarsi di un'impresa che occupa più di 15 dipendenti;
si intendano effettuare almeno 5 licenziamenti nell'arco di 120 giorni;
ciò avvenga nell'ambito della medesima unità produttiva o nell'ambito di più unità produttive della stessa provincia;
detti licenziamenti siano conseguenza della riduzione o trasformazione di attività o lavoro ovvero della cessazione dell'attività.
L'art. 24 della legge 223/91 delinea la procedura da seguire rimandando testualmente alle norme dettate in materia di mobilità. In particolare, quando una impresa intende procedere ad almeno 5 licenziamenti nell'arco di 120 giorni, a seguito di una trasformazione dell'attività e del lavoro, nell'ambito di ciascuna unità produttiva o di più unità produttive presenti sul territorio della stessa provincia, deve preventivamente darne comunicazione per iscritto alle rappresentanze sindacali aziendali nonché alle rispettive associazioni di categoria. In mancanza di tali rappresentanze, la comunicazione deve essere effettuata alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. In ogni caso, la comunicazione deve contenere l'indicazione:
Entro 7 giorni dalla data di ricevimento
della comunicazione, a richiesta delle rappresentanze sindacali aziendali e
delle rispettive associazioni, si procede ad un esame congiunto tra le parti,
che ha il fine di esaminare le cause che determinano l'eccedenza del personale
e di evitare i licenziamenti. Qualora la consultazione abbia esito negativo, il
direttore dell'Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione
convoca le parti al fine di un ulteriore esame della situazione, anche
formulando proposte per la realizzazione di un accordo. Esaurita questa fase
senza che un accordo sia raggiunto, l'impresa ha facoltà di licenziare i
lavoratori eccedenti, individuati secondo i criteri di scelta indicati dai
contratti collettivi o, in difetto, nel rispetto dei seguenti criteri,
individuati nell'art. 5 della legge 223 del
Una volta individuati i lavoratori, il datore di lavoro può esercitare il diritto di recesso che deve essere comunicato per iscritto e nel rispetto del termine di preavviso.
La violazione della procedura e dei criteri di scelta può comportare due conseguenze sui licenziamenti:
inefficacia (art. 5, comma 3) che si ha quando il licenziamento sia intimato in forma orale, oppure nel caso in cui le comunicazioni sindacali siano avvenute senza forma scritta ovvero nell'inosservanza della procedura descritta;
annullabilità che si ha nel caso in cui non siano stati rispettati i criteri di scelta.
I licenziamenti inefficaci o annullabili
possono essere impugnati. L'impugnazione deve avvenire nel termine di 60 giorni
dalla comunicazione del licenziamento, con qualsiasi atto scritto idoneo a
rendere nota la volontà del lavoratore di impugnazione. Se l'illegittimità del
licenziamento è riconosciuta dal giudice, si applica l'art.
L'art. 5, comma 3, ultima parte, non trova applicazione nel caso di inefficacia o di illegittimità del recesso intimato dai datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale ecc. ecc.. In tale ipotesi, infatti, si applica la tutela obbligatoria dei licenziamenti della legge 604 del 1966, e non la tutela reale.
L'istituto della mobilità, disciplinato dalla legge 223 del 1991 (come modificata dal Dlgs 151 del 1997), rientra nell'ambito di quei sistemi messi a punto dal legislatore, noti con il nome di ammortizzatori sociali, per rendere meno gravi sul piano sociale i fenomeni di crisi occupazionale.
Con la procedura di mobilità, in assenza della quale la crisi si riserverebbe tutta a carico dei lavoratori licenziati, viene attuato un meccanismo di intervento dello Stato sociale per consentire, in un certo spazio temporale e al concorrere di certe condizioni, il passaggio dei lavoratori licenziati da impresi in crisi ad imprese con bisogno di mano d'opera, transitando per una speciale lista di collocamento e godendo, in attesa della nuova occasione lavorativa, in tutto o in parte, di un sostegno di reddito.
In entrambi i casi dovrà essere esperita la procedura descritta nei precedenti paragrafi al fine di effettuare i licenziamenti nei confronti dei lavoratori in esubero e collocare tali lavoratori in mobilità.
Quanto alle conseguenze della messa in mobilità, queste si rilevano sotto tre distinti profili e cioè:
esercizio del recesso nei confronti di ogni singolo lavoratore interessato della procedura, estinguendosi in tal modo il rapporto di lavoro;
iscrizione dei lavoratori licenziati nelle liste di mobilità;
erogazione, per i lavoratori aventi diritto, dell'identità di mobilità.
Hanno lo scopo di agevolare, anche attraverso appositi programmi di riqualificazione professionale, o diverse iniziative, il reinserimento nel mercato del lavoro dei lavoratori licenziati. Alle liste sono iscritti i lavoratori (operai, impiegati e quadri) per i quali sia cessato il rapporto di lavoro a seguito di riduzioni di personali ed i lavoratori in CIGS sa licenziare per impossibilità di reimpiego. L'iscrizione avviene a seguito di apposita comunicazione effettuata alla DRL da parte dell'impresa recedente, e di un iter procedurale in cui intervengono a vario titolo diversi soggetti istituzionali con funzioni in materia di collocamento e politica del lavoro. L'iscrizione nelle liste di mobilità costituisce presupposto essenziale per accedere al relativo trattamento economico (indennità di mobilità). I vantaggi sono legati, oltre che al trattamento economico, anche dalla maggiore facilità con cui è possibile accedere a nuove occasioni lavorative.
La cancellazione dalle liste, oltre ad intervenire in una serie di casi in cui il lavoratore non accetti le offerte formative, di riqualificazione o occupazionali provenienti dai centri per l'impiego e degli altri soggetti abilitati, è la normale conseguenza della cessazione dallo stato di disoccupazione, della scadenza del periodo di godimento dei trattamenti e delle indennità ovvero dello scadere dei termini di permanenza nelle liste stesse per i lavoratori non ammessi all'indennità di mobilità.
Di regola i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità hanno diritto a fruire del relativo trattamento di sostegno del reddito ovvero dell'indennità di mobilità che, tuttavia, è subordinata a ben determinati requisiti soggettivi ed oggettivi e cioè:
i lavoratori devono possedere una anzianità aziendale di almeno 12 mesi, di cui 6 di lavoro effettivamente prestato, con un rapporto a carattere continuativo e comunque non a termine;
i lavoratori devono essere stati collocati in mobilità da parte di imprese rientranti nell'ambito applicativo della CIGS ovvero appartenenti a determinati settori produttivi ed aventi specifiche dimensioni occupazionali.
I lavoratori licenziati da datori di lavoro non imprenditori hanno diritto ad essere iscritti nelle liste di mobilità, ma non anche alla relativa indennità di mobilità. L'entità dell'indennità di mobilità è commisurata al trattamento straordinario d'integrazione salariale spettante al lavoratore collocato in mobilità nella misura del 100% di tale trattamento per i primi 12 mesi e dell'80% dal 13° mese in poi.
L'indennità ha durata variabile in base
all'età dei lavoratori e nell'ubicazione dell'impresa di appartenenza. In
specie essa è corrisposta per un periodo di dodici mesi, elevato a 24 mesi per i
lavoratori che hanno da
L'art. 7, commi 6 e 7, della legge 223 del 1991 disciplina la c.d. mobilità lunga, in base alla quale nelle regioni meridionali, in quelle ove il tasso disoccupazionale è superiore alla media nazionale e in altri ambiti territoriali decisi dagli organismi competenti, è possibile continuare a fruire dell0indennità di mobilità fino al compimento dei requisiti contributivi per la pensione di vecchiaia o di anzianità.
Il ricorso agli interventi straordinari di integrazione salariale di certo attenua le tensioni sociali conseguenti alle riduzioni di personale, ma per altra contribuisce alla diffusione del lavoro sommerso (Ghera) e all'ingente appesantimento della spesa pubblica.
Sicché si è pensato di impiegare i soggetti percettori di indennità varie connesse allo stato di disoccupazione in servizi o lavori di pubblica utilità presso le pubbliche amministrazioni. Questo istituto ha ricevuto una prima sistemazione con il D.L. 299 del 1994 e successivamente è stato organicamente riformato con il Dlgs n. 468 del 1997. Da ultimo è intervenuto il legislatore con il Dlgs n. 81 del 2000 che riduce significativamente sia il novero di attività che possono essere oggetto di LSU sia i potenziali destinatari delle stesse. Ai sensi dell'art. 3 Dlgs 81/00, possono essere oggetto di LSU:
le attività per la realizzazione di opere e la fornitura di servizi di utilità collettiva;
i lavori attivati nei settori della cura della persona; dell'ambiente, del territorio e della natura; dello sviluppo rurale, montano e dell'acquacultura; del recupero e della riqualificazione degli spazi urbani e dei beni culturali;
i servizi tecnici integrati della Pubblica Amministrazione, i trasporti e la connessione logistica.
Sono invece esclusi dall'ambito di
applicazione del provvedimento diverse categorie di lavoratori nei confronti
dei quali non potranno più essere avviati progetti di LSU (art. 2 Dlgs 81/00).
Quanto al rapporto tra utilizzazione e prestatore di attività, che non
costituisce un rapporto di lavoro, sono autorizzati ad utilizzare lavoratori in
attività socialmente utili le P.A., gli enti pubblici economici, le società a
totale o prevalente partecipazione statale (per
Lo svolgimento di attività socialmente utili dà al lavoratore diritto ad un sussidio economico mensile erogato dall'INPS.
Lo scopo del Dlgs 81/00 è quello di esaurire progressivamente il bacino dei lavoratori socialmente utili, espressione di precarietà strutturale e fonte di forti instabilità sociali. Sta di fatto che a distanza di vari anni dalla riforma, i suoi effetti non si sono in pratica realizzati, tant'è che continuano ad essere necessarie sempre nuove misure tampone.
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