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Cessazione del rapporto di lavoro




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cessazione del rapporto di lavoro


Casi di estinzione del rapporto di lavoro

Le fattispecie estintive del rapporto di lavoro possono essere individuate:

  • nel recesso unilaterale del datore di lavoro (licenziamento), che rappresenta l'ipotesi più rilevante: di esso si dirà nei paragrafi seguenti;
  • nel recesso unilaterale del lavoratore (dimissioni), che si concreta in una dichiarazione di volontà, unilaterale, recettizia e a forma libera (salvo che sull'ultimo punto i contratti collettivi dispongano diversamente);
  • nel mutuo consenso, che ricorre quando le parti del rapporto siano concordi nel voler porre fine allo stesso;
  • nella scadenza del termine, che costituisce fattispecie estintiva per i soli rapporti a tempo determinato;
  • nella morte del lavoratore, che conduce all'estinzione del rapporto in ragione del carattere personale ed infungibile della prestazione lavorativa;
  • nella impossibilità sopravvenuta della prestazione o per forza maggiore;
  • nelle altre ipotesi legislativamente previste.

Non costituiscono, al contrario, causa di estinzione del rapporto il fallimento e la liquidazione coatta amministrativa dell'impresa (art. 2119, ult. co., c.c.).

Il recesso del prestatore di lavoro (c.d. dimissioni)

Secondo le disposizioni civilistiche il recesso è un negozio unilaterale e recettizio (cioè, efficace dal momento in cui viene a conoscenza dell'altra parte). Il recesso è altresì estrinsecazione di un diritto potestativo, in quanto, benché la manifestazione di volontà sia unilaterale, produce effetto nella sfera giuridica di un altro soggetto, il quale vedrà estinguersi il rapporto.

Nel caso del prestatore di lavoro le dimissioni assumono valenza di atto di natura estintiva, avendo il rapporto di lavoro esaurito la funzione relativa all'interesse del lavoratore. In specie, ai sensi degli artt. 2118 e 2119 c.c., il recesso del prestatore è così regolato:

in caso di contratto di lavoro a tempo indeterminato, è sempre ammesso purché venga rispettato il termine di preavviso fissato dal contratto collettivo o dagli usi (pena il pagamento dell'indennità di mancato preavviso);

qualora ricorra una giusta causa, se il rapporto è a tempo indeterminato non è necessario rispettare il termine di preavviso, mentre se il contratto è a tempo determinato è possibile recedere prima della scadenza del termine.

Le ipotesi di giusta causa, di regola tipizzate nei contratti collettivi, possono concernere sia la sfera del lavoratore sia quella del datore. In quest'ultimo caso il recesso del prestatore da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza l'osservanza del preavviso dà, comunque diritto a percepire l'indennità sostitutiva del mancato preavviso (art. 2119 c.c.).

Quanto alla forma delle dimissioni, esse sono di regola considerate un atto a forma libera, a meno che non via sia  una diversa previsione da parte del contratto collettivo il quale può disciplinare, oltre che la forma dell'atto, anche quella della sua comunicazione.

Contro eventuali pressioni del datore di lavoro volte a far presentare le dimissioni, è stato previsto:

che le dimissioni della lavoratrice se presentate in occasione di matrimonio devono essere confermate, a pena di nullità, davanti alla DPL;

che le dimissioni presentate durante il periodo di gravidanza dalla lavoratrice oppure dalla lavoratrice o dal lavoratore durante il primo anno di vita del bambino o nel primo anno di accoglienza del minore adottato o in affidamento, devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro territorialmente competente.

Il preavviso

Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il lavoratore che si dimette è tenuto a dare al datore preavviso del recesso stesso nel termine e nei modi stabiliti dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità; lo stesso deve fare il datore che intende avvalersi del potere di licenziare ad nutum o per giustificato motivo (art. 2118, co. 1, c.c.). L'obbligo del preavviso è volto ad evitare che l'interruzione ex abrupto del rapporto possa comportare conseguenze dannose per la controparte. In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto a corrispondere all'altra parte un'indennità (la c.d. indennità di mancato preavviso) equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. Tale indennità ha natura risarcitoria, sicché essa è dovuta anche in caso di dimissioni per giusta causa, essendo l'interruzione immediata del rapporto - la giusta causa non ne consente la prosecuzione neanche provvisoria - conseguenza di un fatto dipendente dal datore.

Il potere del datore di licenziare ed i suoi limiti sostanziali

L'esercizio del diritto potestativo di recesso da parte del datore di lavoro (licenziamento) trova numerosi limiti legislativi. Tali limiti non può dirsi costituiscano violazione del principio di parità contrattuale delle parti. Ciò perché nel cotesto socio economico che ha caratterizzato l'evoluzione della legislazione speciale del lavoro, il rapporto di lavoro presentava una obiettiva e stridente disparità tra le parti: un contraente forte, il datore di lavoro, un contraente debole, il lavoratore.

Il potere del datore di licenziare il lavoratore trova la sua regolamentazione in una serie di fonti succedutesi nel tempo - Codice Civile, L. 604/1966, Statuto dei lavoratori, L. 108/1990, altre leggi speciali che lo assoggettano:

  • sia al limite sostanziale della sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo;
  • sia a limiti procedurali afferenti alla forma del negozio con cui detto potere deve essere esercitato.

La prima disciplina legislativa vincolistica venne introdotta con la legge n. 604 del 1966 che, mantenendo intatta la libertà di dimissioni, regolamentò invece i licenziamenti individuali, dichiarando illegittimo il licenziamento non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo. Tale normativa era applicabile, però, solo a imprese con più di 35 dipendenti. Un decisivo passo in avanti sul piano sul piano della effettività della stabilità del posto di lavoro è stato poi compiuto con la legge n. 300 del 1970 (statuto dei lavoratori), che, all'art. 18, prevede la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, quando il giudice ritenga non sussistere la giusta causa o il giustificato motivo del licenziamento. La legge 108 del 1990, infine, ha dato un nuovo assetto alla normativa del licenziamenti innovando la legge n. 608 del 1966 e modificando l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. In particolare ha esteso anche alle piccole imprese la disciplina del recesso per giusta causa e giustificato motivo, prevedendo l'obbligo di riassunzione o, in alternativa, il risarcimento del danno per il lavoratore illegittimamente licenziato. Per le grandi imprese, la nuova normativa ha ampliato la possibilità di ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro dei dipendenti illegittimamente licenziati.

Per effetto della delineata evoluzione normativa, in base alle disposizioni vigenti, il recesso da parte del datore di lavoro è:

esercitabile liberamente solo in ipotesi marginali, espressamente escluse dal campo di applicazione della normativa vincolistica (recesso ad nutum);

di regola vincolato alla sussistenza di una giusta causa o un giustificato motivo (licenziamento per giusta causa e giustificato motivo);

vietato in una serie di casi in cui, rispetto all'interesse datoriali, prevale quello del prestatore alla conservazione del posto di lavoro (divieto di licenziamento);

assolutamente nullo se ispirato a motivi illeciti (licenziamento discriminatorio).

Disciplina vincolistica dei licenziamenti

Per effetto dell'art. 1 della legge n. 604 del 1966 il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c. o per giustificato motivo. Tale norma, che trova ulteriore supporto negli artt. 18 dello Statuto dei lavoratori e 2 della legge n. 108 del 1990, ha introdotto nel nostro ordinamento un regime vincolistico del licenziamento, con conseguente stabilità del posto di lavoro, in quanto non consente che il provvedimento unilaterale di recesso, intimato dal datore, sia privo di motivazione ed infatti esso può essere adottato solo in presenza di una giusta causa o un giustificato motivo.

Il recesso ad nutum

La disciplina limitativa del potere di licenziamento non si applica nelle ipotesi in cui è ammesso il recesso ad nutum, cioè la possibilità per il datore di licenziare senza alcun vincolo di giustificazione. Essa ricorre solo in alcune ipotesi espressamente previste, e cioè nei confronti:

  • dei dirigenti, salvo che i contratti collettivi od individuali contengano clausole limitative al riguardo;
  • dei lavoratori a tempo determinato, in quanto la legge n. 604 del 1966 fa riferimento ai soli rapporti di lavoro a tempo indeterminato;
  • dei lavoratori domestici;
  • degli atleti professionisti;
  • dei lavoratori ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici;
  • dei lavoratori in prova (ma sul punto cfr. cap. III, par. VI.1);
  • dei lavoratori licenziati per riduzione di personale;
  • dei lavoratori dipendenti da organizzazioni di tendenza;
  • del coniuge e dei parenti entro il 2deg. grado del datore.

Divieto di licenziamento

La disciplina garantistica in tema di licenziamento non solo impone che il licenziamento sia intimato in presenza di una specifica motivazione che lo consenta, salve le eccezioni di cui sopra, ma prevede inoltre delle situazioni in pendenza delle quali vige un divieto di licenziamento.

Sussiste un vero e proprio divieto di licenziamento nei casi di:

  • sospensione del rapporto di lavoro dipendente da fatto del lavoratore (malattia, infortunio, gravidanza e puerperio, servizio militare);
  • matrimonio della lavoratrice;
  • stato di gravidanza e puerperio;
  • fruizione dei congedi previsti dalla legge;

e nei confronti dei:

  • dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali e dei candidati e membri della commissione interna, per un anno dalla cessazione dell'incarico;
  • lavoratori che partecipano ad azioni di sciopero;
  • lavoratori chiamati a svolgere funzioni pubbliche;
  • servizio di leva obbligatorio (sostituito dal 1° gennaio 2005 dal servizio militare professionale - oggi non più praticabile) e richiamo alle armi.

Giusta causa e giustificato motivo

Con riguardo al limite sostanziale, il primo problema che si pone è quello del significato da attribuire al concetto di giusta causa ed a quello di giustificato motivo, tenuto conto anche del fatto che, in relazione a quest'ultimo, dottrina e giurisprudenza distinguono il giustificato motivo soggettivo da quello oggettivo.

La giusta causa

La nozione di giusta causa si ricava anzitutto dall'art. 2119, c.c., che contempla la possibilità per ciascuna delle parti di recedere dal contratto prima della scadenza del termine se il contratto è a tempo determinato, ovvero senza preavviso se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto. Anteriormente all'emanazione della L. 15 luglio 1966, n. 604, recante 'Norme sui licenziamenti individuali', la dottrina e la giurisprudenza ritenevano giusta causa di licenziamento, oltre all'inadempimento del lavoratore, anche ogni altro fatto idoneo a menomare il rapporto di fiducia personale, considerato connotato essenziale del rapporto di lavoro. Tale orientamento muta dopo l'entrata in vigore della L. 604/1966, alla luce della quale si attribuisce alla giusta causa un significato più ristretto, riportando il concetto di fiducia entro i limiti oggettivi dell'affidamento del creditore nell'esattezza dei successivi adempimenti, generalmente rilevante in tutti i rapporti di durata. In tal modo, il concetto di giusta causa trova 'una puntuale definizione nella stessa nozione di giustificato motivo soggettivo, dal quale si differenzierebbe solo per la particolare gravità dell'inadempimento' (GHERA), e cioè solo da un punto di vista quantitativo, non anche qualitativo. Il comportamento del lavoratore deve essere valutato caso per caso dal giudice, anche quando - come di solito accade - esso sia espressamente previsto dai contratti collettivi come giusta causa di licenziamento. In altri termini, il giudice è chiamato a verificare la conformità delle disposizioni contrattuali alla nozione legale di giusta causa, e, dunque, in concreto, a verificare se le mancanze addebitate al prestatore siano così gravi da imporre la risoluzione del rapporto anziché l'irrogazione di sanzioni disciplinari.

Il giustificato motivo soggettivo

Il giustificato motivo soggettivo è analogo alla giusta causa, dalla quale si distingue, come si è detto, solo da un punto di vista quantitativo, per la minore gravità dell'inadempimento. Ai sensi dell'art. 3, L. 604/1966, l'ipotesi si verifica quando il lavoratore incorre in un 'notevole inadempimento degli obblighi contrattuali'; l'inadempimento è notevole, per l'art. 1455, c.c., quando è di non scarsa importanza, avuto riguardo all'interesse delle parti. Così come nell'ipotesi del licenziamento per giusta causa, la dottrina e la giurisprudenza ritengono non vincolanti per il giudice le tipizzazioni delle condotte legittimanti il licenziamento per giustificato motivo soggettivo contenute nei contratti collettivi.

Il giustificato motivo oggettivo

L'art. 3, L. 604/1966, contempla anche l'ipotesi di giustificato motivo oggettivo che si realizza in presenza di ragioni inerenti 'all'attività produttiva, alla organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa'. Tali ragioni - da intendersi come esigenze 'effettivamente rispondenti a criteri obiettivi di ordinato svolgimento dell'attività produttiva, desumibili da regole di comune esperienza' (GHERA) - prevalgono sull'interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro. Non esiste uniformità di vedute in dottrina ed in giurisprudenza in ordine alla sindacabilità o meno delle scelte imprenditoriali che conducono al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Da un lato, infatti, vi è chi, richiamandosi all'art. 41, Cost., sostiene l'insindacabilità nel merito da parte del giudice di tali scelte, dal lato opposto vi è chi afferma la necessità di un controllo di merito circa la loro razionalità. In ogni caso, la giurisprudenza prevalente ritiene legittimo solo il licenziamento che costituisce per il datore l'extrema ratio: quello che interviene, cioè, in mancanza di ogni reale possibilità di recupero del lavoratore nell'organizzazione produttiva. Ancora la giurisprudenza, infine, riconduce nell'ambito del giustificato motivo oggettivo alcuni casi di licenziamento che, benché collegati alla persona del lavoratore, non possono rientrare nell'ipotesi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo perché non integrano un inadempimento: così è a dire, ad esempio, per il licenziamento per superamento del periodo di comporto, giustificato dal perdurare dell'impossibilità temporanea del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa.

È, peraltro, a carico del datore di lavoro l'onere di dimostrare l'effettività delle ragioni poste a base del licenziamento e l'impossibilità di una diversa proficua utilizzazione dei lavoratori licenziati.

Il licenziamento determinato da giustificato motivo oggettivo, allorché investe una pluralità di lavoratori, non costituisce una ipotesi di licenziamento collettivo, il quale ai senso dell'art. 11 della legge 604/66 è sottratto alla normativa vincolistica in tema di recesso.

I limiti procedurali posti al potere di licenziamento: la forma del licenziamento

Oltre ai limiti sostanziali di cui si è appena detto, il potere di licenziamento del datore incontra anche limiti procedurali, attinenti alla forma del licenziamento. infatti:

deve essere comunicato al lavoratore per iscritto. La forma orale è ammessa solo per i licenziamenti dei lavoratori domestici e dei lavoratori in prova;

la motivazione del recesso non deve necessariamente essere enunciata nell'atto di intimazione del licenziamento; il prestatore di lavoro può chiedere, entro 15 giorni dalla comunicazione, i motivi che hanno determinato il recesso;

il datore di lavoro, nei sette giorni dalla richiesta del lavoratore, deve comunicare per iscritto i motivi che, una volta enunciati, sono immodificabili;

la giurisprudenza richiede anche l'immediatezza e la tempestività dell'adozione e, quindi, della comunicazione del licenziamento intimato per giusta causa; sembra logico ritenere che tale requisito, in ossequio ai princìpi generali in tema di risoluzione per inadempimento, per i quali la gravità di quest'ultimo va valutata alla stregua dell'interesse del creditore, debba valere anche in presenza di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento. L'onere della prova della sussistenza del giustificato motivo o della giusta causa grava sul datore.

L'impugnazione del licenziamento

L'impugnazione del licenziamento, da parte del lavoratore, deve avvenire, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla sua comunicazione o da quella dei motivi, se non contestuale. La previsione di un termine di decadenza induce a ritenere che il legislatore non si riferisca alle ipotesi in cui il licenziamento è espressamente dichiarato dalla legge nullo od inefficace. L'impugnazione può anche essere stragiudiziale, ossia effettuata per mezzo di qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota, anche attraverso l'organizzazione sindacale, la volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento. In tal caso, il prestatore può ricorrere al giudice del lavoro dopo aver esperito la procedura di conciliazione prevista dagli accordi sindacali o dai contratti collettivi ovvero quella disciplinata dall'art. 7, L. 108/1990 e dagli artt. 410 - 412, c.p.c.. In proposito, va rilevato che una delle principali innovazioni introdotte dalla L. 108/1990 consiste nell'obbligo, imposto ad entrambe le parti del rapporto, di esperire il tentativo di conciliazione stragiudiziale se il licenziamento è intimato in difetto di giusta causa o giustificato motivo da datore soggetto alle regole della tutela obbligatoria; la comunicazione della richiesta di conciliazione equivale ad impugnazione del licenziamento ed impedisce la decadenza. In caso di esito positivo, tanto della conciliazione obbligatoria quanto di quella facoltativa, il verbale, depositato presso la Cancelleria del Tribunale competente territorialmente, è reso esecutivo con decreto del giudice del lavoro; in caso di esito negativo,  si forma processo verbale con le indicazioni del mancato accordi e di eventuali soluzioni proposte di cui il giudice dovrà tenere conto (art. 412 c.p.c.). In alternativa le parti possono definire la controversia mediante arbitrato irrituale.

Il D.Lgs. 387/98, disciplinante la riforma del pubblico impiego, ha introdotto anche norme di modifica al processo del lavoro: attualmente l'art. 410 c.p.c. prevede il tentativo obbligatorio di conciliazione che deve essere promosso, anche tramite associazione sindacale, da chi intenda impugnare giudizialmente l'atto di licenziamento. L'esperimento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda volta all'impugnazione giudiziale del licenziamento.

Il tentativo di conciliazione, come detto, può essere di tipo sindacale, nel qual caso esso avviene secondo le procedure previste dai contratti collettivi, oppure di tipo amministrativo, nel qua caso deve avvenire presso la Commissione di conciliazione, istituita presso ciascuna Direzione provinciale del lavoro, competente territorialmente. L'esperimento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda volta all'impugnazione giudiziale del licenziamento (art. 412 bis c.p.c.). Se il ricorso viene proposto in difetto di tentativo di conciliazione il giudice deve sospendere il processo e fissare un termine perentorio non superiore a 60 giorni entro giorni entro cui le parti devono proporre la richiesta del tentativo di conciliazione. Trascorso inutilmente tale termine, il processo può riassunto entro il termine perentorio di 180 giorni.

Come detto, la richiesta di tentativo di conciliazione, una volta che ne sia stata data comunicazione al datore di lavoro, ha l'importante effetto di interrompere la prescrizione e di sospendere, per tutta la durata del tentativo e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni temine di decadenza.

Illegittimità del licenziamento

A seguito di impugnazione del licenziamento, nel caso in cui venga accertata l'illegittimità del recesso, il giudice potrà dichiarare:

l'inefficacia del licenziamento, intimato senza forma scritta, senza indicazione dei motivi ed, in generale, senza il rispetto delle formalità di cui all'art. 2 della legge 604 del 1966;

la nullità del licenziamento, indipendentemente dalla motivazione addotta. allorché esso sia stato discriminatorio, cioè determinato da ragioni di credo politico, fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato ecc. ecc., oppure motivato da motivo illecito;

l'annullamento del licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo (artt. 1 legge 604 del 1966 e 18 della legge 300 del 1970).

Le sanzioni contro il licenziamento illegittimo

Il licenziamento illegittimo perché non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo è annullabile; quello illegittimo per ragioni formali (cioè intimato senza il rispetto della forma scritta, senza l'indicazione dei motivi ovvero senza il rispetto delle formalità previste dall'art. 2, L. 604/1966) è inefficace; infine, quello 'discriminatorio', quello delle lavoratrici madri e quello intimato per causa di matrimonio sono nulli.

Ai fini dell'individuazione delle conseguenze della declaratoria di illegittimità del licenziamento, occorre distinguere:

  • la c.d. tutela reale, consistente nella condanna del datore alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno da questi subito, pari ad un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto e comunque non inferiore a 5 mensilità; il lavoratore ha, comunque, facoltà di risolvere il rapporto e pretendere, in alternativa alla reintegrazione effettiva, la corresponsione di un'indennità pari a 15 mensilità da sommarsi all'indennità risarcitoria;
  • la c.d. tutela obbligatoria, che consiste nella condanna del datore alla riassunzione del lavoratore entro 3 giorni ovvero al pagamento di una indennità determinata dal giudice tra un minimo ed un massimo legislativamente previsti; la scelta tra le due soluzioni spetta allo stesso datore.

Ora per stabilire se la tutela accordata al prestatore sia quella reale oppure quella obbligatoria occorre far riferimento alle dimensioni dell'impresa, sotto il profilo del numero dei dipendenti, tenendo presente che nel computo vanno compresi anche i lavoratori a tempo indeterminato parziale in proporzione all'orario effettivamente svolto ed i lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, mentre non vanno computati il coniuge ed i parenti entro il secondo grado del datore. Dunque, l'art. 18, St. lav., modificato dall'art. 1, L. 108/1990, che disciplina la c.d. tutela reale, stabilisce che essa si applica nei confronti dei datori, imprenditori e non imprenditori, che occupano più di 15 dipendenti in ciascuna unità produttiva o ufficio in cui svolge la propria attività il lavoratore licenziato o più di 5 se si tratta di impresa agricola o più di 15 (o 5 se impresa agricola) nello stesso comune sebbene in più unità produttive od uffici, ovvero nei confronti dei datori che abbiano complessivamente alle proprie dipendenze più di 60 prestatori di lavoro. Come osserva GHERA, l'innovazione più importante introdotta dalla L. 108/1990 è costituita dal riferimento alla complessiva dimensione organizzativa del datore: pertanto, risultano oggi garantiti dalla tutela reale i lavoratori dipendenti da datori che comunque abbiano alle proprie dipendenze più di 60 prestatori, indipendentemente dal frazionamento organizzativo in unità produttive. La tutela obbligatoria, invece, spetta ai sensi dell'art. 8, L. 604/1966, come modificato dall'art. 2, L. 108/1990, nei confronti dei datori che occupano fino a 15 dipendenti per ogni unità produttiva (fino a 5 se impresa agricola) o fino a 60 dipendenti ovunque essi si trovino. In conclusione, un chiarimento merita il concetto di 'unità produttiva' che la giurisprudenza, anche anteriore alla L. 108/1990, definisce come quella porzione della più vasta organizzazione imprenditoriale dotata di autonomia in senso tecnico-produttivo. Dalla interpretazione giurisprudenziale non si discosta la dottrina dominante, che valorizza l'aspetto funzionale dell'unità produttiva caratterizzata dal fatto di realizzare un risultato autonomo, che tuttavia si inserisce in quelli perseguiti dalla più ampia organizzazione anche non imprenditoriale (DE LUCA TAMAJO, D'ANTONA, PISANI).

Il licenziamento discriminatorio

L'art. 3, L. 108/1990, sancisce esplicitamente la nullità del licenziamento intimato per ragioni discriminatorie (politiche, sindacali, religiose, razziali, di lingua e di sesso), a prescindere dall'applicabilità o meno della normativa limitativa dei licenziamenti e, quindi, anche nelle aree in cui è ammesso il recesso 'ad nutum'. Il licenziamento discriminatorio dà in ogni caso diritto, al lavoratore che ne sia vittima alla tutela reale, quali che siano le dimensioni dell'impresa.

Il licenziamento disciplinare

Il licenziamento disciplinare, intimato come misura sanzionatoria, ha dato luogo in passato a contrasti giurisprudenziali sia in ordine alla sua legittimità sia in ordine alla sua riconducibilità nell'area di applicazione dell'art. 7, St. lav.. I dubbi interpretativi sono sorti perché l'art. 7, co. 4, St. lav., statuisce che 'fermo restando quanto disposto dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro'. Secondo un orientamento giurisprudenziale ormai superato (Cass. S.U., 20 marzo 1981, n. 1781), al licenziamento doveva riconoscersi natura disciplinare quando il contratto collettivo lo contemplava tra le sanzioni disciplinari e rinviava esplicitamente alla procedura di contestazione di cui all'art. 7, St. lav.. Oggi, in seguito alla sentenza n. 204/82 della Corte costituzionale, i commi 1, 2 e 3 dell'art. 7, St. lav., si applicano anche 'alla sanzione disciplinare del licenziamento, per la quale la normativa si limiti ad includere il licenziamento medesimo tra le sanzioni disciplinari e non richiami espressamente il regime per questo previsto dall'art. 7, L. 300/1970'. Anche il licenziamento disciplinare è dunque sottoposto ai vincoli di carattere procedurale contemplati dall'art. 7, St. lav.: così, il datore ha l'obbligo di portare il codice disciplinare a conoscenza del lavoratore, di contestare preventivamente l'addebito a quest'ultimo e di sentirlo a sua difesa. La mancata osservanza della procedura disciplinare determina la nullità del licenziamento, con conseguente applicazione dell'art. 18, St. lav..

I licenziamenti collettivi

La L. 23 luglio 1991, n. 223, recante 'Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro', disciplina anche i licenziamenti collettivi per riduzione di personale. Lo Stato italiano è giunto alla emanazione di tale legge a seguito di due condanne della Corte di Giustizia Europea per la mancata attuazione nel nostro ordinamento della direttiva CEE n. 129 del 1975.

Scopo primario della legge è quello di assicurare la mobilità dei lavoratori licenziati, attraverso la loro iscrizione in liste di disoccupazione privilegiate, che consentano lo spostamento di lavoratori con un notevole bagaglio di professionalità acquisito dalla imprese recedenti ad imprese bisognevoli di personale qualificato, favorendo la ricollocazione dei lavoratori licenziati.

La procedura di mobilità trova applicazione pertanto in tutte le ipotesi di eccedenze di personale delle imprese, distinguendosi tuttavia, formalmente, due autonome fattispecie e cioè:

esuberi manifestati a causa di un processo di trasformazione o di crisi aziendale per il quale sia stato concesso l'intervento straordinario della Cassa integrazioni guadagni, nel caso in cui l'impresa ritenga di non poter garantire il reimpiego dei lavoratori eccedenti (messa in mobilità);

esuberi dovuti a riduzione o trasformazione di attività o lavoro o cessazione di attività in seguito ai quali il datore di lavoro adotti la decisione di procedere a riduzione (almeno 5 licenziamenti in 120 giorni) del personale (licenziamento collettivo per riduzione di personale).

D'altra parte la procedura prevista per i licenziamenti collettivi per riduzione del personale è sostanzialmente ripresa dalla procedura di mobilità tant'è che, ad avviso della dottrina maggioritaria, si può parlare di una regolamentazione sostanzialmente unitaria delle riduzioni di personale (Ghera).

La disciplina della materia dei licenziamenti collettivi può essere attuata purché ricorrano i seguenti presupposti (art. 24 della legge 223 del 1991):

deve trattarsi di un'impresa che occupa più di 15 dipendenti;

si intendano effettuare almeno 5 licenziamenti nell'arco di 120 giorni;

ciò avvenga nell'ambito della medesima unità produttiva o nell'ambito di più unità produttive della stessa provincia;

detti licenziamenti siano conseguenza della riduzione o trasformazione di attività o lavoro ovvero della cessazione dell'attività.

L'art. 24 della legge 223/91 delinea la procedura da seguire rimandando testualmente alle norme dettate in materia di mobilità. In particolare, quando una impresa intende procedere ad almeno 5 licenziamenti nell'arco di 120 giorni, a seguito di una trasformazione dell'attività e del lavoro, nell'ambito di ciascuna unità produttiva o di più unità produttive presenti sul territorio della stessa provincia, deve preventivamente darne comunicazione per iscritto alle rappresentanze sindacali aziendali nonché alle rispettive associazioni di categoria. In mancanza di tali rappresentanze, la comunicazione deve essere effettuata alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. In ogni caso, la comunicazione deve contenere l'indicazione:

  • dei motivi che determinano la situazione di eccedenza di personale;
  • dei motivi tecnici, organizzativi, produttivi, per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare i licenziamenti;
  • del numero, della collocazione aziendale e dei profili professionali del personale eccedente, nonché del personale abitualmente impiegato.

Entro 7 giorni dalla data di ricevimento della comunicazione, a richiesta delle rappresentanze sindacali aziendali e delle rispettive associazioni, si procede ad un esame congiunto tra le parti, che ha il fine di esaminare le cause che determinano l'eccedenza del personale e di evitare i licenziamenti. Qualora la consultazione abbia esito negativo, il direttore dell'Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione convoca le parti al fine di un ulteriore esame della situazione, anche formulando proposte per la realizzazione di un accordo. Esaurita questa fase senza che un accordo sia raggiunto, l'impresa ha facoltà di licenziare i lavoratori eccedenti, individuati secondo i criteri di scelta indicati dai contratti collettivi o, in difetto, nel rispetto dei seguenti criteri, individuati nell'art. 5 della legge 223 del 1991, in concorso tra loro: carichi di famiglia; anzianità; esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Il licenziamento collettivo per riduzione di personale è:

  • annullabile, se non vengono rispettati i criteri di cui si è appena detto;
  • inefficace, se la sua intimazione o le comunicazioni sindacali non siano effettuate per iscritto ovvero se non venga rispettata la procedura di cui alla L. 223/1991.

Una volta individuati i lavoratori, il datore di lavoro può esercitare il diritto di recesso che deve essere comunicato per iscritto e nel rispetto del termine di preavviso.

La violazione della procedura e dei criteri di scelta può comportare due conseguenze sui licenziamenti:

inefficacia (art. 5, comma 3) che si ha quando il licenziamento sia intimato in forma orale, oppure nel caso in cui le comunicazioni sindacali siano avvenute senza forma scritta ovvero nell'inosservanza della procedura descritta;

annullabilità che si ha nel caso in cui non siano stati rispettati i criteri di scelta.

I licenziamenti inefficaci o annullabili possono essere impugnati. L'impugnazione deve avvenire nel termine di 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento, con qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore di impugnazione. Se l'illegittimità del licenziamento è riconosciuta dal giudice, si applica l'art. 18, St. lav. (tutela reale - reintegrazione e risarcimento).

L'art. 5, comma 3, ultima parte, non trova applicazione nel caso di inefficacia o di illegittimità del recesso intimato dai datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale ecc. ecc.. In tale ipotesi, infatti, si applica la tutela obbligatoria dei licenziamenti della legge 604 del 1966, e non la tutela reale.

La mobilità

L'istituto della mobilità, disciplinato dalla legge 223 del 1991 (come modificata dal Dlgs 151 del 1997), rientra nell'ambito di quei sistemi messi a punto dal legislatore, noti con il nome di ammortizzatori sociali, per rendere meno gravi sul piano sociale i fenomeni di crisi occupazionale.

Con la procedura di mobilità, in assenza della quale la crisi si riserverebbe tutta a carico dei lavoratori licenziati, viene attuato un meccanismo di intervento dello Stato sociale per consentire, in un certo spazio temporale e al concorrere di certe condizioni, il passaggio dei lavoratori licenziati da impresi in crisi ad imprese con bisogno di mano d'opera, transitando per una speciale lista di collocamento e godendo, in attesa della nuova occasione lavorativa, in tutto o in parte, di un sostegno di reddito.

La L. 223/1991 prevede che i prestatori di lavoro, in caso di licenziamenti collettivi per riduzione o trasformazione di attività o lavoro, siano posti in mobilità, mediante l'iscrizione in una lista di collocamento preferenziale, che dovrebbe consentire di accedere con più facilità a nuove occasioni di lavoro; ad essi spetta anche la c.d. indennità di mobilità, ossia un trattamento economico variabile in base all'età del lavoratore. La mobilità è prevista anche per l'ipotesi in cui l'impresa ammessa al trattamento straordinario d'integrazione guadagni non sia in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi né di ricorrere a misure alternative.

In entrambi i casi dovrà essere esperita la procedura descritta nei precedenti paragrafi al fine di effettuare i licenziamenti nei confronti dei lavoratori in esubero e collocare tali lavoratori in mobilità.

Quanto alle conseguenze della messa in mobilità, queste si rilevano sotto tre distinti profili e cioè:

esercizio del recesso nei confronti di ogni singolo lavoratore interessato della procedura, estinguendosi in tal modo il rapporto di lavoro;

iscrizione dei lavoratori licenziati nelle liste di mobilità;

erogazione, per i lavoratori aventi diritto, dell'identità di mobilità.

Le liste di mobilità

Hanno lo scopo di agevolare, anche attraverso appositi programmi di riqualificazione professionale, o diverse iniziative, il reinserimento nel mercato del lavoro dei lavoratori licenziati. Alle liste sono iscritti i lavoratori (operai, impiegati e quadri) per i quali sia cessato il rapporto di lavoro a seguito di riduzioni di personali ed i lavoratori in CIGS sa licenziare per impossibilità di reimpiego. L'iscrizione avviene a seguito di apposita comunicazione effettuata alla DRL da parte dell'impresa recedente, e di un iter procedurale in cui intervengono a vario titolo diversi soggetti istituzionali con funzioni in materia di collocamento e politica del lavoro. L'iscrizione nelle liste di mobilità costituisce presupposto essenziale per accedere al relativo trattamento economico (indennità di mobilità). I vantaggi sono legati, oltre che al trattamento economico, anche dalla maggiore facilità con cui è possibile accedere a nuove occasioni lavorative.

La cancellazione dalle liste, oltre ad intervenire in una serie di casi in cui il lavoratore non accetti le offerte formative, di riqualificazione o occupazionali provenienti dai centri per l'impiego e degli altri soggetti abilitati, è la normale conseguenza della cessazione dallo stato di disoccupazione, della scadenza del periodo di godimento dei trattamenti e delle indennità ovvero dello scadere dei termini di permanenza nelle liste stesse per i lavoratori non ammessi all'indennità di mobilità.

L'indennità di mobilità

Di regola i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità hanno diritto a fruire del relativo trattamento di sostegno del reddito ovvero dell'indennità di mobilità che, tuttavia, è subordinata a ben determinati requisiti soggettivi ed oggettivi e cioè:

i lavoratori devono possedere una anzianità aziendale di almeno 12 mesi, di cui 6 di lavoro effettivamente prestato, con un rapporto a carattere continuativo e comunque non a termine;

i lavoratori devono essere stati collocati in mobilità da parte di imprese rientranti nell'ambito applicativo della CIGS ovvero appartenenti a determinati settori produttivi ed aventi specifiche dimensioni occupazionali.

I lavoratori licenziati da datori di lavoro non imprenditori hanno diritto ad essere iscritti nelle liste di mobilità, ma non anche alla relativa indennità di mobilità. L'entità dell'indennità di mobilità è commisurata al trattamento straordinario d'integrazione salariale spettante al lavoratore collocato in mobilità nella misura del 100% di tale trattamento per i primi 12 mesi e dell'80% dal 13° mese in poi.

L'indennità ha durata variabile in base all'età dei lavoratori e nell'ubicazione dell'impresa di appartenenza. In specie essa è corrisposta per un periodo di dodici mesi, elevato a 24 mesi per i lavoratori che hanno da 40 a 50 anni e a 36 mesi per i lavoratori con più di 50 anni.

L'art. 7, commi 6 e 7, della legge 223 del 1991 disciplina la c.d. mobilità lunga, in base alla quale nelle regioni meridionali, in quelle ove il tasso disoccupazionale è superiore alla media nazionale e in altri ambiti territoriali decisi dagli organismi competenti, è possibile continuare a fruire dell0indennità di mobilità fino al compimento dei requisiti contributivi per la pensione di vecchiaia o di anzianità.

I lavori socialmente utili

Il ricorso agli interventi straordinari di integrazione salariale di certo attenua le tensioni sociali conseguenti alle riduzioni di personale, ma per altra contribuisce alla diffusione del lavoro sommerso (Ghera) e all'ingente appesantimento della spesa pubblica.

Sicché si è pensato di impiegare i soggetti percettori di indennità varie connesse allo stato di disoccupazione in servizi o lavori di pubblica utilità presso le pubbliche amministrazioni. Questo istituto ha ricevuto una prima sistemazione con il D.L. 299 del 1994 e successivamente è stato organicamente riformato con il Dlgs n. 468 del 1997. Da ultimo è intervenuto il legislatore con il Dlgs n. 81 del 2000 che riduce significativamente sia il novero di attività che possono essere oggetto di LSU sia i potenziali destinatari delle stesse. Ai sensi dell'art. 3 Dlgs 81/00, possono essere oggetto di LSU:

le attività per la realizzazione di opere e la fornitura di servizi di utilità collettiva;

i lavori attivati nei settori della cura della persona; dell'ambiente, del territorio e della natura; dello sviluppo rurale, montano e dell'acquacultura; del recupero e della riqualificazione degli spazi urbani e dei beni culturali;

i servizi tecnici integrati della Pubblica Amministrazione, i trasporti e la connessione logistica.

Sono invece esclusi dall'ambito di applicazione del provvedimento diverse categorie di lavoratori nei confronti dei quali non potranno più essere avviati progetti di LSU (art. 2 Dlgs 81/00). Quanto al rapporto tra utilizzazione e prestatore di attività, che non costituisce un rapporto di lavoro, sono autorizzati ad utilizzare lavoratori in attività socialmente utili le P.A., gli enti pubblici economici, le società a totale o prevalente partecipazione statale (per la Cassazione il rapporto ha natura previdenziale e ciò impedisce al lavoratore la rivendicazione nei confronti di dette amministrazioni di un rapporto di lavoro subordinato, e dei suoi consequenziali diritti).

Lo svolgimento di attività socialmente utili dà al lavoratore diritto ad un sussidio economico mensile erogato dall'INPS.

Lo scopo del Dlgs 81/00 è quello di esaurire progressivamente il bacino dei lavoratori socialmente utili, espressione di precarietà strutturale e fonte di forti instabilità sociali. Sta di fatto che a distanza di vari anni dalla riforma, i suoi effetti non si sono in pratica realizzati, tant'è che continuano ad essere necessarie sempre nuove misure tampone.


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