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Affidamento dei minori
PROVVEDIMENTI CHE VENGONO ADOTTATI NEI RIGUARDI DELLA PROLE NELL'AMBITO DI SEPARAZIONE E DIVORZIO.
Quando si parla di provvedimenti relativi alla prole non è opportuno distinguere tra provvedimenti che vengono adottati durante la vita fisiologica della coppia, ovvero la costanza di matrimonio o la convivenza more uxorio, e fasi, invece, patologiche quali la separazione e il divorzio. Questa unitarietà prende le mosse dal fatto che il giudice, ogni qualvolta debba pronunciare un provvedimento di protezione della prole minorenne, deve seguire come criterio guida sempre l'interesse della prole; poi specificato anche nelle convenzioni internazionali come prevalente o esclusivo interesse della prole.
Questa nozione ha fatto ingresso nel nostro ordinamento nella legge del '77 che disciplina l'adozione poi modificata sulla scia di dichiarazioni di stampo internazionale. La nozione di "interesse della prole" concretizza una clausola generale, quindi ha un contenuto variabile rimesso alla discrezionalità del giudice, per cui è difficile da definire ma non impossibile.
Da quando questa nozione è entrato nel nostro ordinamento c'è stata un'evoluzione radicale dell'approccio metodologico ad essa e questa linea evolutiva si è sviluppata principalmente su due direttive:
dall'astratto al concreto (o dal generale al relativo)
dal negativo al positivo.
In passato si percorreva, per avvicinarsi a questa nozione d'interesse del minore, la via delle PREDETERMINAZIONI ASTRATTE. Ovvero in via aprioristica si diceva: "è conforme all'interesse del minore questo?". Es.: è rispondente all'interesse del minore stare con il genitore più facoltoso? E' più rispondente che il minore stia con il genitore cui non si può addebitare la colpa di un'eventuale crisi coniugale? E' rispondente all'interesse del minore vedere i nonni, o non vederli?
Ben presto si è capito però che questa via era espressione di una logica generalizzante e quindi astrattizzante, che soprattutto in questa materia doveva essere abbandonata subito. Adesso la moderna civilistica afferma che questa logica va abbandonata in tutto il campo del diritto civile, ma a maggior ragione già allora si percepiva che doveva essere accantonata ove si trattasse di protezione del minore.
Quest'evoluzione ha preso il via dall'85 in poi, anche se ci sono state sentenze della Cassazione già nell'80 in cui la Corte ha ammonito tutti gli operatori giuridici esortandoli a valutare l'interesse concreto del minore nel rispetto della peculiarità e della specificità di ogni persona.
L'introduzione della Carta Costituzionale è stata fondamentale per accentuare questa sensibilità alla individualità della persona.
La dottrina ha immediatamente percepito questa evoluzione e, soprattutto nell'ambito dei criteri che in passato erano stati elaborati circa l'affidamento della prole all'esito di separazione e divorzio, gli effetti si sono subito sentiti. Es.: prima di questa sensibilità si riteneva che il minore no potesse essere affidato al genitore che, con il suo comportamento, avesse determinato la disgregazione della coppia (caso di addebito di separazione).
Grazie a queste sentenze della Cassazione, invece, si è distinto tra: idoneità educativa del genitore e sua condotta morale = oggi anche in caso di separazione addebitata ad un genitore tendenzialmente ciò non è ostativo a che quel genitore diventi affidatario della prole.
In passato si riteneva perché il genitore affetto da malattia mentale non potesse essere affidatario di prole, oggi invece si è capito che questo non lo si può dire a priori: bisogna valutare di che tipo di patologia si tratta.
Questa impostazione sta avendo sviluppi ulteriori perché anche sulla base del pregiudizio si è sempre ritenuto che comunque debba essere disposto il coaffido della prole (= il minore deve comunque sempre essere affidato congiuntamente ai due genitori).
In passato l'interesse della prole era inteso semplicemente come assenza di pregiudizio, mancanza di arbitrio, mancanza di capriccio o dei genitori o dello stesso minore (nel caso in cui lo stesso fosse ascoltato) = se un provvedimento non è dannoso per l'interesse del minore, per ciò stesso è rispondente.
Oggi è più limitato = art. 330 Cod. Civ. e art. 333 Cod. Civ. che disciplinano la decadenza della potestà e i casi di condotta pregiudizievole che comunque integrano gli estremi per addivenire ad una pronuncia di decadenza di potestà genitoria.
Però anche nel caso in cui vi sia conflitto tra i due genitori su una questione di particolare importanza (art. 316 Cod. Civ.), ma non così grave da portare alla separazione dei coniugi, difficilmente il giudice si troverà davanti a un genitore che propone una soluzione pregiudizievole e uno che la propone favorevole. Tutti e due proporranno la soluzione che per loro è più vantaggiosa nell'interesse del figlio. E' importante distinguere tra la struttura di questo procedimento ex art. 316 e l'art. 145 che disciplina l'intervento del giudice per il caso di disaccordo sull'indirizzo familiare. Nell'ambito dell'art. 316 c'è l'ONERE a carico dei genitori di individuare, nel ricorso che è proposto davanti al giudice del Trib. per i Minori, i provvedimenti che si ritengono opportuni.
Es.: un genitore vuole mandare il figlio alla scuola pubblica e l'altro alla scuola privata. Dov'è il pregiudizio per il figlio? Non c'è.
In questi casi non si può considerare l'interesse del minore solo in via negativa, ma anche in via positiva. Ovvero in caso di provvedimenti paritariamente rispondenti all'interesse del minore bisogna privilegiare quello che maggiormente è in grado di promuoverne la personalità. L'ordinamento è preoccupato da questa volontà in fieri, in via di formazione e quindi valuta positivamente l'interesse del minore; e anche questa è stata una conquista importante dovuta soprattutto alle dichiarazioni internazionali (Dich. ONU 1959, Dich. (New York 1989 ratificata in Italia dalla l. 176/91).
Ciò ha permesso di modificare anche la trattazione di altre tematiche relative sempre alla materia minorile: es.: dir. di visita in capo ai nonni: si discute se i nonni possano vantare il diritto di vedere i nipoti oppure no. In passato vi erano principalmente due impostazioni:
GIURISPRUDENZA: leggeva la potestà genitoria come limite del diritto di visita. I giudici affermavano che il genitore deve essere considerato come il migliore giudice dell'educazione dei figli e quindi può legittimamente vietare il rapporto del nipote con i nonni. Solo nel caso in cui da questo divieto dovesse derivare un pregiudizio al minore allora i nonni potranno attivarsi proprio ex art. 333 Cod. Civ. adducendo una condotta del genitore pregiudizievole ai figli.
DOTTRINA: trova il suo antesignano, sotto questo profilo, nel De Cupis. Leggeva non la potestà genitoria come limite al diritto di visita dei nonni, ma il diritto di visita dei nonni come limite di potestà genitoria.
Questa dottrina riteneva che la possibilità dei nonni di avere un rapporto proficuo con i nipoti fosse non solo lecito, ma addirittura rispondente all'interesse del minore. E questa dottrina si è anche sforzata di andare a ricercare nel nostro sistema di diritto di famiglia quelle che potessero essere delle spie normative a sostegno di quanto detto. E in effetti delle spie normative ci sono: art. 433 (persone obbligate agli alimenti = gli ascendenti), art. 246 (parenti legittimati ad azione di disconoscimento della paternità), art. 117 (parenti legittimati ad azione per invalidità matrimoniale). Anche questo però non si può dire a priori se sia rispondente all'interesse del minore. Allora soprattutto ad opera di Perlingeri si è preso atto che è significativo che neppure il legislatore del '75 abbia codificato il diritto di visita dei nonni. Secondo Perlingeri sarebbe stato residuo del principio di effettività di cui all'art. 3, II comma, della Cost. prevedere il diritto di visita in capo ai nonni, proprio perché come vi sono genitori e genitori, così vi sono nonni e nonni. E poi lo stesso Perlingeri evidenzia che raramente il conflitto che interessa un giudice è quello che vede opposti i genitori e i nonni. Il conflitto che deve interessare il giudice è quello che riguarda o il genitore e il minore, o il minore e i nonni. Anche qui vi è l'abbandono di quelle soluzioni aprioristiche , meccanicistiche considerate prima.
Da qui: interesse del minore = criterio guida per ogni provvedimento che debba essere adottato in relazione ai minori.
L'interesse del minore è codificato nell'art. 155 Cod. Civ. (= provvedimenti relativi al minore in ambito di separazione); art. 6 della l. n. 98/'70 sul divorzio poi modificata da l. n. 74/'87; artt. 316, 317 bis Cod. Civ.
AFFIDAMENTO DELLA PROLE NELL'AMBITO DI SEPARAZIONE E DIVORZIO
Questo argomento ha subìto anch'esso un'evoluzione sempre grazie all'elaborazione comunitaria ed internazionale che sempre di più ha fatto emergere un dato: importanza per il minore di coltivare la BIGENITORIALITA', in altre parole di rapportarsi con due modelli distinti non solo quando la coppia e la famiglia è ancora unita, ma anche e soprattutto in caso di disgregazione dell'unione familiare (N.B. molte proposte di legge vogliono introdurre una formula che sancisca il diritto del minore alla bigenitorialità nell'ambito del C.C.).
In passato, ma ancora oggi, la forma prevalente di affido della prole è quella monoparentale, ovvero nell'ambito della separazione (personale, consensuale, giudiziale) il minore viene affidato esclusivamente ad uno dei genitori.
Cosa significa essere affidato ad un genitore?
In passato si riteneva che essere affidatario della prole significasse che la titolarità della potestà genitoria permaneva comunque in capo ad entrambi i genitori; invece l'esercizio di questa potestà si andava a consolidare esclusivamente in capo al genitore affidatario.
Confronto fra art. 317 e art. 155 c.c.:
art. 317, II comma: impedimento di uno dei genitori:"La potestà comune dei genitori non cessa quando, a seguito di separazione, di scioglimento, di annullamento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio i figli vengono affidati ad uno di essi"; rif. Art. 155:" l'esercizio esclusivo della potestà spetta al genitore affidatario". = C'è in contrasto tra le due disposizioni: è l'art. 317 che va letto alla luce dell'art. 155 o viceversa?
( L'art. 155 ha segnato una novità importante della riforma del diritto di famiglia perché il codice del '42, ad es., in piena adesione con quanto già fatto dal codice del 1865 non stabiliva a chi spettasse l'esercizio della potestà per i casi di separazione, perché i due legislatori - 1865 e 1942- avevano ritenuto più opportuno che fosse il giudice, di volta in volta, a determinare chi dovesse esercitare la potestà. Differenza anche tra il codice del '42 e il codice Napoleonico che espressamente stabiliva che l'esercizio della potestà non potesse mai competere al genitore cui fosse addebitabile la rottura dell'unione).
I termini dell'adozione sono molto cambiati: in passato il conflitto tra i due art. veniva risolto nel senso che l'art. 317 dove parla della permanenza della potestà comune allude alla permanenza della titolarità della potestà genitoria che non può venir meno all'esito della separazione. Ma siccome l'art. 317 subito rinvia all'art. 155, e siccome l'art. 155 dice che l'esercizio compete in via esclusiva al genitore affidatario = in questi termini veniva risolto il conflitto: affidamento monoparentale = forma pressoché esclusiva di affidamento.
In seguito, soprattutto grazie al dir. internazionale, la sensibilità degli operatori in materia familiare è molto cambiata: sempre di più si dice che non è vero sia l'art. 317 che va letto alla luce dell'art. 155, ma il contrario.
Leggendo l'art. 155 ci si accorge che al genitore non affidatario non compete semplicemente una titolarità di potestà genitoria perché, rif. al III comma, anch'egli svolge la potestà per le decisioni di maggior gravità. Cosa significa dire che il coniuge non affidatario ha il dovere di vigilare se poi gli compete solo la titolarità? E cosa significa affermare che può ricorrere al giudice quando ritiene che siano state assunte decisioni pregiudizievoli per i figli, se il legislatore non volesse presupporre una compartecipazione dei due genitori all'esercizio della potestà genitoria?
Oggi la dottrina più sensibile a queste tematiche afferma che anche all'esito della separazione ecc. la potestà compete ad entrambi i genitori; ma non solo potestà come titolarità, ma anche come esercizio della stessa.
In realtà abbandonare questa visione dissociante dell'esercizio della potestà, dal punto di vista pratico, comporta degli effetti:
se noi affermassimo che il genitore non affidatario ha solo la titolarità e non l'esercizio della potestà, a carico del genitore non affidatario potrebbe essere pronunciato un provvedimento di decadenza dalla potestà (art. 330)?
L'art. 316 nel sancire che la potestà genitoria comunque va esercitata di comune accordo da entrambi i genitori, appresta un procedimento per comporre un contrasto su questioni di particolare importanza relativamente all'esercizio di tale potestà.
In un passato abbastanza recente si individuavano due presupposti per l'operatività di questo articolo:
A) armonia della coppia
B) convivenza dei genitori
Quindi l'art. 316 poteva attivarsi solo se la coppia non era in crisi. E quindi in caso di separazione e di divorzio non si poteva ricorrere all'art. 316, ad es. se tra i coniugi separati o divorziati sopravveniva un disaccordo sulla scuola da far intraprendere al figlio minore.
Con riguardo all'armonia bisogna segnalare che ormai da tempo è stato abbandonato questo presupposto sia perché è un concetto abbastanza evanescente e poi perché, come ha sottolineato anche Perlingeri, è un po' particolare parlare di armonia laddove i genitori non riescono a risolvere un contrasto che per giunta non interessa loro in prima battuta, ma il minore.
Con riguardo, invece, alla convivenza oggi, proprio sulla base delle precedenti riflessioni, si ritiene che anche l'art. 316, ovvero il procedimento predisposto per comporre i conflitti, possa essere attivato anche per il caso di conflitto tra genitori separati o divorziati = anche il genitore non affidatario ha non solo la titolarità di potestà genitoria, ma anche l'esercizio di essa.
Delle differenze però ci sono tra i due genitori, esse non attengono però alla qualificazione giuridica delle situazioni giuridico - soggettive che competono ai genitori, ma alle modalità di esercizio.
POTESTA'GENITORIA= ufficio in funzione educativa, per cui non può cambiare la sua portata in caso di convivenza o nel caso in cui la convivenza venga meno anzi dovrebbe potenziarsi nel secondo caso quando è più forte l'esigenza di tutela della prole.
Gli autori e giudici che riconoscono anche in capo al genitore non affidatario la partecipazione all'esercizio dell'attività potestativa osservano che comunque rimangono delle prerogative in capo al genitore affidatario. Perché in capo al genitore affidatario si parla di potestà potenziata? Questa scelta del legislatore è stata una scelta dovuta: è ovvio che la cessazione della convivenza modifichi le modalità di esercizio della potestà, però bisogna anche considerare le esigenze di protezione di terzi, cioè soggetti diversi che vengono in contatto con i genitori. Proprio per garantire un minimo di certezza ai rapporti tra il genitore affidatario e i terzi il legislatore ha stabilito che per le questioni di non particolare importanza le decisioni possono essere prese unilateralmente dal genitore affidatario. Quindi per i terzi che vengono a contatto con il minore si deve far riferimento al genitore affidatario. Questo però rileva solo da un punto di vista esterno perché poi anche la questione di non particolare importanza che venga risolta unilateralmente dal genitore affidatario nell'ambito, invece, del menage con l'altro genitore deve essere frutto di decisione comune.
N.B.: Una distinzione importante su questo punto è partita dal Giorgianni, che distingue: un conto è l'esercizio disgiunto della potestà genitoria, altra cosa è l'esecuzione disgiunta di accordi che sono stati presi nell'esercizio comune della potestà genitoria. Ovvero è possibile ed è doveroso che tutte le questioni che riguardano la vita del minore devono essere decise da entrambi i genitori e questo sia per il caso di convivenza che per il caso di non convivenza. Questo principio dell'accordo, però, potrebbe portare ad una paralisi dell'esercizio della potestà genitoria se per ogni minima decisione bisognasse provocare ed ottenere il consenso dell'altro genitore. Allora il legislatore è uscito da questo vicolo cieco brillantemente perché ha affermato che le decisioni di particolare importanza devono essere prese congiuntamente; una volta però che è stato fissato il programma educativo che i genitori vogliono attuare rispetto al minore, le decisioni che sono meramente esecutive di questo programma possono essere prese disgiuntamente. Di questa impostazione si trova conferma nell'art. 145 c.c. e nell'art. 144 c.c.= questo discorso sulla vita familiare che maggiormente riguarda i rapporti orizzontali, cioè tra i coniugi, ugualmente si può estendere all'art. 316 c.c. che considera di più i rapporti tra genitori e figli, cioè l'indirizzo della vita familiare va concordato, ma la sua attuazione spetta disgiuntamente a ciascun genitore.
AFFIDAMENTO CONGIUNTO E AFFIDAMENTO ALTERNATO
Per il caso di separazione e di divorzio, in passato si disponeva l'affidamento del minore ad uno soltanto dei genitori. Ciò accadeva soprattutto in Italia e in alcuni altri Paesi europei, perché l'esperienza anglo - americana aveva sviluppato un modello diverso di affidamento: l'affidamento congiunto: il minore era affidato, all'esito di una separazione, congiuntamente ai due genitori.
In Italia questa figura è stata introdotta espressamente grazie alla legge di revisione del divorzio (l. n. 74 del 1970). Per la prima volta nell'87 il giudici ha stabilito che, in caso di divorzio, può affidare il figlio a uno dei genitori, ma può anche affidarlo congiuntamente o alternativamente.
Bisogna però segnalare che già prima dell'87, ovvero della norma che puntualmente ha introdotto nel nostro sistema la figura dell'affidamento congiunto, il nostro ordinamento conosceva dei casi di applicazione dell'affidamento congiunto: Trib. di Piacenza; Corte d'Appello di Milano; casi sporadici ma importanti perché fanno capire che a prescindere dall'esistenza di una norma che specificamente abilitasse i giudici a disporre l'affidamento congiunto della prole, dai giudici già allora si erano spinti a pronunciare questo tipo di affidamento, senza per questo incorrere in illegittimità evidenti perché se si fa riferimento all'art. 155 esso non menziona l'affidamento congiunto, e neanche quello alternato; ciò nonostante si applicano entrambi anche nell'ambito della separazione perché comunque l'art. 155 stabilisce che il giudice adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, e quindi in questa formula si ricomprendono queste nuove figure, anche se poi l'incipit di questo articolo farebbe propendere per l'affidamento monoparentale.
Se già è controversa l'applicazione di queste due figure in caso di separazione, ancora più controversa la possibilità di ricorrere a queste figure per il caso di filiazione naturale (rinvio all'art. 317-bis quando il giudice è chiamato a disporre dell'affidamento di prole naturale). Oggi in modo altrettanto pacifico si ritiene che se anche nulla dice in proposito l'art.317-bis c.c., anche in ordine alla prole naturale può essere disposto l'affidamento congiunto e alternato. E che questa conclusione sia ormai irretroversibile è testimoniato da una sua lampanza logica: cioè si sottolinea che se noi prendiamo le norme dell'art. 155, dell'art. 117-bis e dell'art. 6 della legge sul divorzio in realtà queste norme hanno una medesima ratio che è la protezione della prole. Con particolare riguardo alla separazione la dottrina, a tutt'oggi, è divisa nel definire il rapporto tra la fase della separazione e la fase del divorzio. Perché per parte della dottrina la separazione è fase meramente propedeutica al divorzio, e questo sulla base di argomentazioni giuridiche: la separazione altro non sarebbe che una tappa obbligatoria per arrivare poi al divorzio.
Altra dottrina, di cui fa parte anche Perlingeri, ritiene che la separazione persona le dei coniugi abbia una sua autonomia funzionale rispetto al divorzio. Perlingeri sottolinea che nel nostro ordinamento vi è una pluralità di norme che tendono alla riconciliazione perché vi è comunque un favor dell'ordinamento al mantenimento della compagine familiare.
Ma sia nel I che nel II caso le conclusioni sono invariate ovvero sia l'affidamento congiunto che quello alternato possono essere disposti nell'ambito della separazione.
Separazione come mera parte prodromica del divorzio.
Appunto perché la separazione si limita ad anticipare gli effetti che saranno propri del divorzio bisogna evitare al minore un'inutile soluzione di continuità: cioè se non si potesse pronunciare l'affidamento congiunto nella separazione ma lo si potesse pronunciare solo nel divorzio si farebbe la separazione personale dei coniugi (= rottura che si determina con la separazione che è evento traumatico per il minore); il minore, necessariamente, dovrebbe essere affidato ad uno solo dei coniugi; poi c'è la fase del divorzio dove il giudice può disporre oltre che dello strumento dell'affido monoparentale anche di quello bigenitoriale e, in quest'ultimo caso, il minore subirebbe un ulteriore mutamento do regime rispetto alla potestà genitoria. E ciò è negativo.
Separazione come fase autonoma rispetto al divorzio.
La separazione deve tendere ad una discussione atta a tentare di ricostruire l'unione familiare. In questo caso la conclusione è ancora più evidente perché il diritto del minore alla bigenitorialità se è forte per il caso in cui l'unione familiare è ormai compromessa ed è tutelato in quella fase, a maggior ragione deve essere tutelato perché più forte nel caso in cui l'unione familiare è sicuramente in crisi, ma non è definitivamente compromessa: nell'ambito della separazione persiste lo status coniugale.
Se si vuole considerare la separazione come fase autonoma a maggior ragione il giudice deve tendere ad un affidamento congiunto proprio per non allentare eccessivamente i fili di un rapporto che sono già messi in discussione, in caso contrario si potrebbero anticipare pesantemente gli effetti del divorzio.
RICORDA! L'unica norma che prevede l'affidamento congiunto e l'affidamento alternato è l'art. 6 della legge sul divorzio. Ciononostante è pacifica la possibilità di ricorrere a questi due tipi di affidamento sia nella separazione che nell'affidamento della prole naturale (artt. 155 e 317-bis).
La valenza dell'affidamento congiunto è diversa se innestiamo la tematica di questo affidamento su ciò che si è detto prima. Ovvero in passato si riteneva che il genitore non affidatario non avesse l'esercizio della potestà -> in questo caso il legislatore inserisce la possibilità dell'affidamento congiunto.
Affidamento congiunto: a tutti e due i genitori compete non solo la titolarità, ma anche l'esercizio della potestà genitoria.
Quindi per il genitore non affidatario eventualmente ammesso, c'è una grossa conquista. Oggi la valenza è un po' ridotta perché comunque si ritiene che anche il genitore non affidatario abbia l'esercizio e a tal riguardo Dogliotti e Boccaccio, ad es., distinguono l'esercizio comune della potestà che si attua nell'ambito di un affido monoparentale dall'esercizio comune della potestà che invece si attua nell'ambito dell'affidamento congiunto perché con riguardo al II caso vi è una maggiore compenetrazione tra le responsabilità dei due coniugi.
Nell'affidamento congiunto, quindi, entrambi i genitori sono affidatari della prole.
Poi si sono ben presto conosciute due tipologie di affidamento congiunto:
A) Affidamento congiunto come residenza privilegiata: collacamento stabile del minore presso la casa di uno dei due genitori. I due genitori sono COAFFIDATARI però il minore, per non essere traumatizzato, viene collocato stabilmente presso la casa di uno dei genitori.
B) Affidamento congiunto con residenza alternata: ad es. 6 mesi da un genitore e sei mesi dall'altro.
Affidamento alternato: i genitori hanno l'esercizio esclusivo della potestà nel periodo in cui il figlio è con loro.
Questa figura di affidamento è vista con grande sfavore da psicologi, sociologi e giudici. In realtà può essere utile per il minore perché in alcuni casi, soprattutto casi di minori già sedicenni, si è dimostrata la perfetta applicabilità di questa figura.
Circa poi l'affidamento congiunto, la dottrina e la giurisprudenza hanno individuato quelli che dovrebbero essere i presupposti per poter pronunciare un affido congiunto:
accordo dei genitori nel richiederlo;
assenza di conflittualità nella coppia;
i genitori non devono avere le rispettive residenze eccessivamente lontane;
rispondenza di questo affidamento a interesse del minore;
idoneità educativa di entrambi i genitori;
età della prole (tenera età).
Questi presupposti hanno avuto poi degli esiti diversi nella pratica.
Si è ritenuto che l'affido congiunto, che impone ai genitori la collaborazione stretta nell'esercizio della potestà, debba essere inserito in un humus quanto mai positivo e quindi devono essere i genitori a richiederlo. La giurisprudenza ha evidenziato che non è necessario che i genitori si siano determinati a chiederlo nel momento in cui, ed es., la causa di separazione sia stata incardinata, perché è molto importante l'opera di mediazione del giudice. Molti genitori possono non averlo chiesto, ma si può far avanti l'idea grazie alla mediazione del giudice.
AFFIDAMENTO CONGIUNTO DISPOSTO: quando i genitori hanno chiesto questo tipo di affido.
AFFIDAMENTO CONGIUNTO DISPOSTO MEDIATO: i genitori si sono determinati poi a questo tipo di affido.
La giurisprudenza milanese ha sviluppato questo presupposto in modo rigorosissimo: per il caso in cui sia stato pronunciato un affidamento congiunto e per il caso in cui poi successivamente alla pronuncia venga meno l'accordo dei genitori, la giurisprudenza milanese intende questo intervenuto disaccordo come una sorta di condizione risolutiva.
Una parte della giurisprudenza, invece, ritiene che l'accordo dei genitori non sia un requisito: se l'accordo c'è meglio, ma anche nel caso in cui i genitori non volessero praticarlo comunque può essere pronunciato. Questo indirizzo non può essere sottovalutato perché è importante la visuale da cui muove, ovvero considerare che anche l'accordo deve essere strumentale all'interesse della prole. Nel caso in cui vi sia una conflittualità tra i genitori così forte che non è stata neanche capace di tradursi in una richiesta di coaffido allora bisogna considerare che sarà molto difficile la gestione di questo coaffido = la giurisprudenza non ne tiene conto sul presupposto che la bigenitorialità sia sempre da preferire rispetto all'affidamento monoparentale.
Nell'ambito di questa corrente giurisprudenziale in cui si concretizza questo affidamento che può essere definito imposto, si possono segnalare due orientamenti:
dispone l'affidamento congiunto anche per il caso in cui vi sia una conflittualità acerrima fra i due genitori e anche se il giudice non vede la fine di questa conflittualità. Cioè il giudice ha elementi tali per comprendere che fra i due genitori non ci sarà mai accordo, ciononostante applica l'affidamento congiunto;
altri giudici, invece, impongono l'affidamento congiunto ma richiedono un correttivo: c'è questa accesa litigiosità tra i coniugi, ma comunque nel corso del giudizio deve essere emerso un impegno minimale di collaborazione. Questo affidamento congiunto, che potremmo definire imposto ma programmatico, perché dovrebbe servire a superare questa insanabile litigiosità, di solito viene pronunciato in via provvisoria.
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