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Piero calamandrei




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PIERO CALAMANDREI


Dalla "Prefazione al Dei delitti e delle pene"


Capitolo 8°


Lo sfondo su cui si profila il sistema criminale del Beccaria è costituito da quella che il libro chiama la "inutile crudeltà", la "fredda atrocità", la "industriosa crudeltà", la "inutile prodigalità di sup­plizi", quale era ancora messa in pratica, da secoli, in quel tempo. Descrizioni particolari di quei supplizi, il Beccaria non ne dà: la sua concitata protesta si appaga di frasi generiche senza indugiarsi nei particolari, quasi a risparmiare al lettore il ribrezzo fisico di quelle macchine di tortura viste da vicino. Ma chi vada a ricercare in pagine meno concentrate e più documentate la descrizione dei particolari per così dire tecnici di questi tormenti, non può reprimere un senso quasi istintivo di in­credulità: non par possibile che secoli che si celebrano come rinascita della civiltà umana abbian potuto guardar con indifferenza questi orrori, e li abbian lasciati arrivar senza ribellione ai tempi del Beccaria e del Parini.

C'era innanzi tutto, ancor prima che quelle macchine entrassero materialmente in funzione, il tor­mento della carcerazione preventiva e del processo; carcere segreto, senza limiti di durata, in sotter­ranei oscuri, ugualmente feroce per I condannati e per gli imputati che potevano anche essere inno­centi; processo inquisitorio, basato su accuse segrete, nel quale il giudice, che diviene "nemico del reo", "non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce e di far torto a quella infallibilità che l'uomo si arroga in tutte le cose".

E come un episodio del processo, quasi si direbbe una formalità burocratica che lasciava impregiu­dicato il merito, doveva essere considerata secondo la definizione che ne davano I dottori, la tortura: la quale non era nel senso giuridico una pena, cioè una sanzione afflittiva applicata  a chi già fosse riconosciuto reo di un delitto, ma una quaestio procedurale, un modo di ricercare la verità, allo scopo di decidere prima di tutto se l'imputato fosse colpevole o innocente.

Poi come conclusione del processo condotto con questi metodi, veniva la pena; ma in verità tra tor­tura e pena, se grande appariva la differenza di concetto per i dotti giudici, non passava sensibile differenza di dolore per I giudicati che non si intendevan di giurisprudenza. La tortura era talvota così straziante, che produceva la morte dell'imputato ancor prima che si decidesse se era colpevole; e la pena per la studiata lentezza e varietà dei modi usati nell'infliggerla, gareggiava colla tortura; gli stessi ordigni erano ugualmente disposti a torturare gli inquisiti innocenti e a punire I condannati colpevoli.

Ma non meno raffinata era la varietà delle pene; nel sistema delle quali la morte, invece di apparire come il castigo più terribile, appariva come la desiderata fine di altri tormenti assai più crudeli coi quali si cercava di mantenere in vita il condannato e di prolungarne l'agonia per farlo soffrire di più. La pena capitale era comminata senza risparmio non soltanto per I delitti più gravi, ma anche per le più futili infrazioni.

Da un registro dei giustiziati milanesi che appartenne al Beccaria, è possibile, per l'indicazione del supplizio che accompagna ogni nome, farsi un'idea esatta delle pene usate in Milano tra il 1471 e il 1760; vi si legge: "squartato morto", "arrostito vivo", "decapitato", "impiccato", "bruciato", "strusato a coda di cavallo", "tratto a coda di cavallo e poi sospeso", "tenagliato e coppato".

In questa funebre processione di giustiziati hanno il loro posto anche gli untori, il cui supplizio è eternato dalla iscrizione latina allora apposta sulla "colonna infame" di manzoniana memoria:


".excelso in plaustro- candenti prius vellicatos forcipe- et dextera mutelatos manu- rota infringi- rotaque intextos post horas sex iugulari- comburi deinde.- publicatis bonis- cineres in flumen proiici- senatus iussit.".

Son passati più di tre secoli, e ancora non si può leggere questa epigrafe senza raccapriccio. In quei verbali di interrogatorio redatti con cancelleresca impassibilità nel processo degli untori o in cento altri contro le streghe, lo spasimo supplichevole degli inquisiti è ancora vivo e vicino a noi come fosse di ieri: non si regge fino alla fine la lettura di quelle pagine, dalle quali ancora agonizzanti voci umane domandano pietà.

Ma il vero enigma è quello dei giudici, giuristi e teologi, gente di fede e di pensiero, il fior fiore della civiltà del loro tempo: l'enigma di questi dottori che si compiacevano di dissertare in bel latino sui modi più efficaci per dosare I tormenti sul corpo degli inquisiti e con questo seriamente pensa­vano di servir la giustizia; di questi ecclesiastici che, in buona fede, condannavano al rogo le streghe e gli eretici, e con questo erano convinti di servire il vangelo.

Ma non era questa la cieca crudeltà subitanea scatenata dall'ira, la furia collettiva ed anonima delle rivoluzioni; era la meditata crudeltà individuale, alla quale Beccaria allude quando parla della "fredda atrocità", studiata e pesata pacatamente e inferta col gusto dell'artista che sa il fatto suo, la crudeltà legalizzata delle persone per bene che si compiacciono di far soffrire i propri simili come di un dovere compiuto e si sentono in diritto di esecrare, anziché di compiangerle, le loro vittime.

È facile intendere come il sensibilissimo Beccaria, di fronte alla fredda impassibilità che trapela da frasi come queste, non potesse provare per questi giuristi, anche se grandissimi, altro che ripu­gnanza: questi intelletti senza pietà gli apparivano, come possono apparire anche a noi moderni, in­comprensibili. E basta mettere a confronto la psicologia di questi giureconsulti, anche dei più grandi, con quella del Beccaria, per rendersi conto della profonda rivoluzione morale (di cui anche noi siamo figli) operatasi nel Settecento, così diverso e lontano dal Rinascimento, che fu anch'esso, nonostante I suoi splendori, un'età spietata.

Tra I briganti alla macchia e I giudici che sedevano nei tribunali era impegnata un'accanita gara per inventare supplizi sempre più spaventosi: e vincitori non par che fossero I briganti.

La ferocia era diventata così comune, che non commuoveva più: poiché come ammonisce il Becca­ria "a misura che I supplizi diventano più crudeli, gli animi umani, che come I fluidi si mettono sempre a livello cogli oggetti che li circondano, s'incalliscono.".



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