Moshe Bejsky (1921 - ), figura
ispiratrice e per molto tempo leader del 'Tribunale del bene'.
Moshe Bejsky nasce a Dzialoszyce, borgo di diecimila anime
vicino a Cracovia, nel 1921 da genitori ebrei. Il paese in cui nacque era
abitato in maggioranza da ebrei e il giovane Moshe durante l'infanzia fece una
doppia vita: il mattino frequentava la scuola statale con gli altri ragazzi, il
pomeriggio quella ebraica. Il padre di Bejsky, Ben-Ziot, era un sarto molto
religioso e dagli scarsi mezzi finanziari che però fu molto attento
all'educazione dei suoi quattro figli. A tredici anni Moshe si trasferisce a
Cracovia dove, per poter frequentare il Ginnasio, lavora in diversi campi fino
trovare definitivamente impiego in una tipografia. Vivendo in un ambiente in
cui la società ebraica era vista di cattivo occhio, aderì con convinzione al
gruppo sionista della città. Egli, come tutti i sionisti, pensava che gli ebrei
non avrebbero potuto vivere in pace se non in uno stato solo ebraico. Quando
però il sogno sionista di Moshe stava per avverarsi, fu fermato da un problema
cardiaco che gli impedì di partire con altri sionisti verso un Kibbutz in
Palestina. Moshe dunque rimase in Polonia e assistette all'invasione nazista
nel 1939. Nessuno aveva la minima idea di cosa fosse il vero obiettivo di Adolf
Hitler, ma, in ogni caso, molti ebrei si spostarono nel territorio polacco
occupato dall'Armata Rossa ed entrarono in massa nell'amministrazione
sovietica, speranzosi nella fine dell'antisemitismo. Bejsky non venne arruolato
per questioni anagrafiche e decise, come molti altri ebrei, di passare al di là
del fiume San in territorio Sovietico, ma non riuscendo nell'intento perché
l'esercito polacco in ritirata aveva fatto saltare tutti i ponti. Decise quindi
di tornare a Dzialoszyce. I tedeschi, entrati nel villaggio, non presero
all'inizio nessuna misura anti-semita, ma Moshe si accorse di quanto stava per
succedere quando un'ambulanza tedesca si rifiutò di soccorrere alcuni ebrei
feriti in un bombardamento. Quindi decise di tornare a Cracovia dove contava di
riprendere il suo vecchio lavoro, ma rimase sconvolto alla vista del ghetto ancora
in costruzione e decise di tornare per l'ennesima volta al suo paese. Nel 1942
la situazione degli ebrei nel villaggio peggiorò consistentemente per la
crescente ostilità da parte dei polacchi e per le notizie che circolavano su
un'imminente deportazione. Infatti, il 3 settembre 1942 i tedeschi ordinarono a
tutti gli ebrei di Dzialoszyce di farsi trovare nella piazza alle due in punto
con una tuta da operaio e un sacco di non più di trenta chili. Dopo una prima
divisione una parte fu caricata su un treno mentre un gruppo di mille perone
(anziani, bambini e malati) non cominciò nemmeno il viaggio. Moshe fu quindi
trasferito in vari campi di lavoro nei dintorni di Cracovia da uno dei quali
poi riuscì a fuggire per rifugiarsi in un sottotetto insieme ad altre quindici
persone. Quando il nascondiglio divenne poco sicuro Moshe si decise a chiedere
aiuto ad un suo vecchio compagno di scuola il quale glielo negò senza mostrare
un briciolo di compassione. Egli in ogni caso decise di nascondersi nel
magazzino della famiglia dell'ex-amico per qualche giorno fino a che, finite le
scorte di cibo, decise di prendere il treno per Cracovia. In città, dopo non
essere neanche riuscito a mangiare in un ristorante, chiese aiuto ad un suo
vecchio dipendente che divise il suo piccolo appartamento e il suo misero
stipendio con lui finché fu costretto ad andarsene per colpa dei sospetti dei
vicini sempre pronti a denunciare la presenza di un ebreo nascosto ai tedeschi.
Moshe quindi ritornò al campo di lavoro da cui era scappato ricominciando a
trasportare carbone senza che nessuno si accorgesse di niente. Il campo di
Plaszow, che in quel periodo conteneva circo duemila prigionieri, era diviso in
tre parti: il quartiere tedesco, il settore ebraico e una prigione per gli
oppositori polacchi. Le condizioni di questo campo peggiorarono sensibilmente
quando, nel febbraio 1943 Amon Goeth divenne comandante di Plaszow; egli non
essendo né un semplice burocrate né un accanito antisemita, si dedicava a quel
lavoro perché gli permetteva di dare sfogo alla sua violenza. Ad un mese dalla
sua promozione furono rafforzate le misure anti-fuga e abolita ogni sorta di
concessione ai prigionieri. Il comandante aveva l'abitudine di sparare
indiscriminatamente dalla sua villa situata su una collina ai prigionieri che
lavoravano nelle vicinanze. Nell'Aprile del 1944 furono trasferiti ad Auschwitz
milleduecento adulti e duecentocinquanta bambini; già a quel tempo si stava
cominciando, in vista della disfatta, a cancellare i crimini dello sterminio:
infatti, furono dissotterrati molti corpi e bruciati. Moshe aveva sentito da
alcuni conoscenti, che lavoravano fuori dal campo ma che venivano lì a dormire
la notte, di una fabbrica in cui le razioni di cibo erano quantomeno decenti e
gli orari di lavoro più umani, quella fabbrica era diretta da un imprenditore
tedesco nato in Cecoslovacchia il cui nome era Oskar Schindler; egli, come
quasi tutti i tedeschi del suo paese, sulla spinta del sogno revanscista aveva
aderito al partito nazionalsocialista pur non condividendone molte posizioni.
Moshe poteva partire per la nuova fabbrica di Oskar Schindler perché tecnico
specializzato ma dovette corrompere un kapò, un certo Marcel Goldberg sempre
alla ricerca di soldi in cambio di favori, per poter portare con lui anche i
suoi due fratelli. Insieme partirono su un treno stracolmo di persone alla
volta di Brinnlitz dove nella nuova fabbrica di munizioni Bejsky divenne
esperto nel falsificare documenti e lasciapassare. La fabbrica riuscì a
proseguire la sua attività di salvataggio fino al 9 Maggio 1945 quando l'Armata
Rossa entrò nel campo di Brinnlitz liberando gli operai e dando notizie
riguardo agli ebrei in Polonia. Moshe, dopo la fine della guerra riprese la sua
attività da sionista e si dedicò negli anni successivi a organizzare il
trasporto di molti ebrei soprattutto nordafricani in Israele, dove poi si
trasferì anch'egli dopo aver ottenuto la laurea in Giurisprudenza a Parigi.
Cominciò a lavorare per uno studio d'avvocati e a comportarsi esattamente come
un ebreo arrivato prima della guerra fino a quando fu chiamato a testimoniare
al processo Adolf Eichmann: egli alla domanda del pubblico ministero sul perché
non avesse fatto niente per fermare l'impiccagione di un ragazzo si accorse che
in Israele non si aveva un'idea veritiera di cosa era sta la Shoah. Bejsky decise
quindi di diventare magistrato e di far sapere non solo al suo paese ma anche
al mondo intero la storia del suo salvatore; questa battaglia fu dura e molto
lunga ma alla fine riuscì convincere i suoi compatrioti che, accanto al
sacrosanto dovere di non dimenticare il male ricevuto, c'è un altrettanto sacro
dovere di ricordare il bene che si è ricevuto.