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L'età delle rivoluzioni - Giuseppe Mazzini




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L'età delle rivoluzioni - Giuseppe Mazzini


Apostolo del risorgimento italiano, dopo aver visto il triste spettacolo degli esuli carbonari che <<s'affollavano a Genova, poveri di mezzi, in cerca d'aiuto>> per poter espatriare, aveva appena 16 anni, ma quella vista lo convinse che si poteva e si doveva lottare per la libertà della patria. S'iscrisse alla Carboneria, ma, tradito da un compagno, fu arrestato e incarcerato a Savona (1830); qui ebbe modo di riflettere sulle ragioni per cui i moti carbonari erano falliti e si convinse della necessità di cambiare i metodi di lotta. Si stabilì a Marsiglia, ma prima volle scrivere una lettera aperta a Carlo Alberto, invitandolo a farsi paladino dell'indipendenza italiana. Nell'estate del '31 fonda la Giovine Italia, perché, secondo lui, bisognava puntare soprattutto sui giovani, che <<sono il corpo sano della libertà, e del progresso>>. Mazzini chiariva le idee ai rivoluzionari per mezzo d'alcuni motti:

'Una, libera, indipendente, repubblicana': il nostro paese doveva essere unito, libero di scegliere la propria forma di governo, indipendente dall'Austria e, una volta realizzate queste condizioni, il popolo avrebbe potuto decidere di fare dell'Italia una repubblica unitaria.

'Dio e popolo': il programma spettava realizzarlo al popolo; a questi Dio, aveva affidato la missione di conquistarsi la libertà.

'Pensiero e azione': per raggiungere gli obiettivi della Giovine Italia era necessario dargli la consapevolezza dei propri diritti, ai quali corrispondevano doveri altrettanto precisi. il popolo, che doveva fare la rivoluzione, sulla base di un preciso pensiero doveva far subentrare l'azione, preceduta dalla guerra per bande. Secondo Mazzini ogni individuo aveva il compito di creare la propria nazione, e ogni nazione di creare l'umanità, cioè l'Europa. Per questo, a Berna, nel 1834, fonda la Giovine Europa.

I moti mazziniani (Genova, 1833; Savoia, 1834; Emilia-Romagna, 1843; Cosenza, 1844; Sapri, 1857) fallirono per vari motivi:

Non ebbero l'appoggio del popolo, anzi talvolta furono osteggiati proprio dalla popolazione;

fare l'unità italiana significava eliminare lo stato pontificio, e questo contrastava con la coscienza cattolica;

per fare la rivoluzione bisognava disporre di un vero esercito, cosa allora indisponibile.

I fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, saputo dei moti a Cosenza, il 16 giugno 1844 sbarcarono a Crotone, e furono giustiziati.


I liberal-moderati

Col fallimento dei moti carbonari, ripresero quota i liberal-moderati.

Tra di questi spiccano i nomi di Massimo D'Azeglio, Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo, Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari.

Massimo D'Azeglio sosteneva che l'unità d'Italia si poteva fare solo con i Savoia e che l'Italia doveva essere una confederazione di stati guidati da Carlo Alberto.

Vincenzo Gioberti predicava la nascita di una confederazioni di monarchie guidate dal papa.

Cesare Balbo voleva una Confederazione Italiana guidata dai Savoia.

Carlo Cattaneo auspicava la nascita di una repubblica federale sul modello degli U.S.A.

Secondo Giuseppe Ferrari occorreva prima occuparsi del popolo, per poi pensare a problemi come l'indipendenza, la libertà politica, la repubblica federale.


Socialismo e Comunismo

Tra i primi socialisti va ricordato Robert Owen, un ex operaio inglese che fondò dei villaggi di cooperazione dove ciascuno lavorava in base alle proprie capacità, e il ricavato veniva distribuito in base alle esigenze. Alla sua opera s'ispirò il movimento cartista, che nel 1838 compilò una 'Carta del Popolo' che conteneva alcune rivendicazioni sul proletariato: suffragio universale, voto segreto, eleggibilità dei non proprietari, retribuzione agli eletti, per soddisfare il mandato ricevuto (Art. 69). Un altro pioniere del socialismo fu Saint-Simon: secondo lui il sistema capitalistico era fondato su due grossi mali: la proprietà privata e la libera concorrenza: era necessario abolirle perché i mezzi di produzione diventassero possedimento dello stato.

Sulla scia di Saint-Simon si pose Pierre-J. Proudhon, che scrisse un libro intitolato: "Che cosa è la proprietà? E' un furto".

A suo parere la società socialista si sarebbe dovuta realizzare senza rivoluzione.


Gli operai avvertivano che il socialismo non affrontava il problema alle radici; quindi, la Lega dei Comunisti, chiese a Karl Marx e Friedrich Engels di stilare il Manifesto del Partito Comunista. A loro parere era un'utopia volere risolvere la questione sociale attraverso le vie pacifiche. Il loro era un socialismo scientifico. Secondo i comunisti era necessaria la lotta di classe (il metodo) per liberare il proletariato dallo sfruttamento della borghesia, abolire la proprietà privata e instaurare la dittatura del proletariato, per giungere ad una società senza classi.


Il Quarantotto in Europa

Il Continente era stato interessato da una grand'esplosione demografica (90 milioni d'europei in più); era seguita una grave crisi industriale e una terribile carestia che provocò dappertutto disoccupazione, miseria ed emigrazione; inoltre si aggiungeva la questione sociale. Come al solito la rivoluzione cominciò in Francia, a Parigi, quando il primo ministro Guizot proibì una manifestazione antigovernativa, e il furore dei parigini esplose: in soli due giorni divampò quella che fu chiamata la Terza Rivoluzione Francese, dopo quelle del 1789 e 1830, che costrinse Luigi Filippo ad abbandonare la Francia. Proclamata la Seconda Repubblica fu istituita una commissione per i lavoratori (presidente Blanc, vicepresidente Albert); agli operai furono riconosciuti il diritto al lavoro e la riduzione della giornata lavorativa a 11 ore; fu concesso il suffragio universale maschile; s'istituirono gli opifici nazionali. La media e la piccola borghesia, ma soprattutto i contadini, temevano il pericolo rosso (i socialisti) e con la nuova Assemblea Nazionale Costituente la rivoluzione si fermò e si fece marcia indietro, cominciando dal 'licenziamento' di Blanc e Albert. E il 10 dicembre fu eletto presidente della repubblica Luigi Napoleone Bonaparte, nipote del Grande Corso.


1a Guerra d'Indipendenza

Alla notizia dell'insurrezione di Vienna [13 marzo 1848 (che costrinse il Metternich a fuggire in Inghilterra) ], i liberali di Venezia erano passati all'azione: liberati dal carcere politico Niccolò Tommaseo e Daniele Manin, costituirono la Guardia Civica e proclamarono la Repubblica di San Marco.

Anche a Milano il popolo insorse, dando inizio alle Cinque Giornate (18-23 marzo), durante le quali si combatté accanitamente contro il generale Radetzky e le sue truppe, che furono costrette a rifugiarsi nel Quadrilatero: una linea fortificata pressoché inespugnabile, con i vertici nelle fortezze di Verona, Legnago, Mantova e Peschiera. Intanto le popolazioni di Modena e Parma avevano cacciato i sovrani e costituito Governi provvisori. Bisognava resistere e trovare l'appoggio di un vero esercito: l'unico disponibile era quello del Regno di Sardegna. Ma mentre i moderati avrebbero visto di buon occhio l'intervento di Carlo Alberto, i democratici ricordavano che egli era stato il traditore dei carbonari e il fucilatore dei mazziniani. Anche Carlo Alberto aveva i suoi dubbi: da un lato l'esercito piemontese era impreparato ad affrontare una guerra contro le collaudate truppe austriache, ma dall'altro la guerra avrebbe potuto avere i suoi risvolti positivi, come l'ingrandimento del Regno di Sardegna con l'annessione della Lombardia e il ruolo di paladini dell'indipendenza italiana per i Savoia. Fu proprio questo a far decidere Carlo Alberto; infatti, il 23 marzo 1848, adottò come bandiera il tricolore con lo scudo dei Savoia e dichiarò guerra all'Austria. I popoli delle Due Sicilie e di Roma costrinsero i loro sovrani ad inviare rinforzi, mentre giungevano volontari dalla Toscana e dalla Polonia.

Purtroppo ci si mosse troppo tardi; a Milano l'insurrezione era iniziata il 18, ma i piemontesi vi giunsero solo il 26, e solo i primi d'aprile presero contatto con i nemici. Ciò consentì agli austriaci di trincerarsi nel Quadrilatero, dove potevano ricevere rinforzi.

Altro motivo della sconfitta fu il tradimento di Pio IX; questi aveva affermato che, come capo di tutti i cattolici, non poteva permettere alle sue truppe di combattere contro gli austriaci, pure cattolici, per paura di uno scisma, ed aveva richiamato le sue truppe; l'esercito di Carlo Alberto ora si trovava solo.

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