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La seconda rivoluzione industriale
L'industria si diffonde e diventa il settore trainante dell'economia
Il fenomeno più importante della seconda metà dell'Ottocento, denominato "il secolo dell'industrializzazione', fu appunto il diffondersi dell'economia industriale. L'Inghilterra, che alla fine del Settecento aveva dato inizio alla rivoluzione industriale, era l'unico Paese in cui l'industria si era sviluppata sensibilmente, mentre in tutti gli altri Stati europei prevaleva un'economia di tipo agricolo. I primi a seguire l'Inghilterra nell'industrializzazione furono la Francia e il Belgio nei primi decenni dell'Ottocento; poi, attorno alla metà del secolo, emersero anche Germania, Olanda, Svezia e, fuori dall'Europa, Stati Uniti e Giappone. L'Austria, la Russia e l'Italia invece dovettero aspettare gli ultimi decenni dell'Ottocento per veder sorgere le industrie.
L'industrializzazione portò un grande cambiamento nella società e nell'economia dei Paesi che toccò: l'industria divenne il settore trainante dell'economia che, da agricola che era, si trasformò in economia industriale, e venne introdotto un nuovo metodo per stabilire la ricchezza degli Stati, a seconda delle tonnellate di acciaio prodotte e dell'energia (cavalli vapore) impiegata nelle fabbriche. I Paesi così misurati venivano poi suddivisi in Paesi ricchi (grado di industrializzazione alto) e Paesi poveri (produzione industriale bassa o nulla).
L'industria si trasforma e si sviluppano nuovi settori
Nella seconda metà dell'Ottocento l'industria non solo si diffuse, ma si trasformò; per questo gli storici indicano questo fenomeno come seconda rivoluzione industriale, per distinguerla da quella avvenuta in Inghilterra alla fine del Settecento.
Se l'industria tessile era stata il motore della prima rivoluzione, nella seconda presero questo ruolo due nuovi settori: la siderurgia e la chimica. Questo fu un fatto importante in quanto: l'industria tessile produce beni di consumo, merci cioè che sono destinate ad un consumo rapido e che poi vengono sostituite; l'industria siderurgica e chimica invece producono merci (come l'acciaio, i fertilizzanti, la soda) che non vengono consumate direttamente, ma che vengono trasformate prima di essere immesse sul mercato.
Alcuni prodotti derivati dall'acciaio: macchine industriali, binari, scafi navali e impalcature per grattacieli. Prodotti chimici: coloranti artificiali, materie plastiche (tra cui, importante, la celluloide, che permise la nascita del cinema), fibre artificiali, concimi, dinamite e soda, impiegata in grandi quantità nell'industria chimica, del vetro e nei detersivi.
Petrolio ed energia elettrica favoriscono l'industrializzazione
Alla fine dell'Ottocento si svilupparono anche nuove forme di energia; al carbone si affiancarono infatti l'energia elettrica e il petrolio. Quest'ultimo in particolare, che sarebbe poi diventato la più importante forma di energia nel nostro secolo, cominciò ad avere una grande importanza con l'invenzione del motore a scoppio (fine Ottocento). Le invenzioni che invece permisero di utilizzare, trasportare ed accumulare l'energia elettrica furono la turbina, la dinamo e il generatore. Le centrali elettriche erano alimentate col carbone o con l'energia idraulica; in questo modo, anche Paesi poveri di risorse minerarie ma ricchi di acqua come l'Italia, poterono prendere parte alla rivoluzione industriale.
I trasporti e le comunicazioni favoriscono lo sviluppo industriale
Nella seconda metà dell'Ottocento si espanse la rete stradale e vennero resi navigabili numerosi fiumi e canali. Le nuove locomotive, inventate verso il 1850 per sostituire il primo modello a vapore di Stephenson, viaggiavano a 50 chilometri orari, che divennero poi 80 alla fine del secolo. La rete ferroviaria più sviluppata era quella britannica, ma, dopo la metà del secolo, le ferrovie si diffusero rapidamente anche in Germania, in Francia e negli Stati Uniti.
Lo sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni fu molto importante per l'industria, per due motivi: in primo luogo perché permetteva alle fabbriche di commerciare i loro prodotti in breve tempo e a grandi distanze e analogamente di ricevere le materie prime rapidamente; in secondo luogo perché per costruire le ferrovie erano necessari l'acciaio e la ghisa, che venivano richiesti in grandi quantità alle industrie siderurgiche, le quali incrementavano la produzione e, di conseguenza, i guadagni.
Ma lo sviluppo delle comunicazioni non interessò solamente le ferrovie; dopo il 1870 i battelli a vapore sostituirono le navi a vela, gli scafi in metallo presero il posto di quelli in legno e l'elica subentrò alle ruote a pale.
Vennero costruiti dei canali navigabili che ridussero le distanze tra i continenti: il canale di Suez, inaugurato nel 1869, permise di andare dal Mediterraneo al Mar Rosso e all'oceano Indiano senza dover circumnavigare l'Africa, mentre il canale di Panama, aperto nel 1913, collegò l'oceano Atlantico all'oceano Pacifico.
Nella seconda metà dell'Ottocento altre due invenzioni contribuirono a far diventare il mondo sempre più piccolo: il telegrafo (1851) e il telefono (1876), con cui si poteva comunicare da una parte all'altra del globo dapprima con impulsi elettrici, poi con la voce.
Tutte le invenzioni sopracitate non rivoluzionarono solo il mondo economico e il mondo degli affari, ma anche la vita quotidiana di ogni persona.
Il mercato e il libero scambio
L'espansione dei trasporti e delle comunicazioni ebbe anche altre conseguenze, ad esempio l'estensione e l'unificazione del mercato, ovvero l'insieme della domanda e dell'offerta delle merci. Il mercato si ampliò enormemente grazie ai nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione, che permisero a ogni città, paese o villaggio di partecipare intensamente al commercio mondiale e contribuirono all creazione di un mercato globale.
Tra il 1850 e il 1870 la quantità di merci commerciate nel mondo si triplicò, espansione dovuta anche al fatto che in questo periodo prevalsero le idee economiche del liberalismo.
I liberali sostenevano che il commercio mondiale dovesse diventare totalmente libero e che le merci, quando attraversavano le frontiere degli Stati, non dovessero essere soggette a tasse doganali (dazi), così da arricchire le nazioni e migliorare la vita di tutti.
I dazi erano delle tasse che gli Stati applicavano sulle merci straniere per aumentarne il prezzo e favorire quindi i prodotti nazionali. I liberali invece pensavano che la libera concorrenza, conseguenza dell'abolizione dei dazi, avrebbe migliorato il commercio, in quanto ogni produttore avrebbe dovuto immettere sul mercato merci di eguale qualità di quelle della concorrenza, ma a minor prezzo; per far questo avrebbe dovuto sperimentare mezzi di produzione nuovi e tecnologie più avanzate e meno costose, migliorando così la produzione e il commercio mondiale.
Secondo i liberisti, infine, lo Stato non deve intervenire nella vita economica, se non costruendo strutture che possano favorire il commercio. I prezzi dei prodotti devono essere dettati interamente dalla domanda e dall'offerta.
Gli industriali furono favorevoli al liberalismo, in particolare quelli inglesi, tedeschi e dei Paesi economicamente e tecnologicamente più avanzati, perché potevano vendere le loro merci, prodotte con tecnologie più avanzate e meno costose, sui mercati stranieri a minor prezzo di quelle locali, battendone così la concorrenza.
A mano a mano che si sviluppavano anche le altre nazioni europee seguirono l'esempio inglese e abolirono i dazi doganali; per questo motivo il periodo che va dal 1850 al 1870 è detto "l'età d'oro del libero scambio".
1873 - 1896: la "grande depressione" dell'economia mondiale
Da come ne ho parlato fino ad ora, l'economia ottocentesca sembrerebbe quasi perfetta, ma ciò nn è vero; nell'Ottocento, infatti, più volte si ebbero crisi economiche.
Per quanto riguarda l'agricoltura, le crisi erano causate da eventi naturali come siccità o, al contrario, piogge troppo abbondanti, neve o grandine. Quando si verificavano questi fenomeni, i raccolti di frumento, granturco, patate, che costituivano la principale alimentazione della maggior parte della popolazione, andavano distrutti e intere regioni rimanevano senza cibo. Una crisi agricola di questo tipo colpì l'Europa nel 1846-47: a causa del cattivo raccolto di grano e di patate, centinaia di migliaia di persone morirono, soprattutto nelle regioni agricole più povere come l'Irlanda; altrettante dovettero emigrare all'estero in cerca di un posto in cui poter sopravvivere.
L'industria fu soggetta fin dall'inizio della rivoluzione industriale, periodicamente, a frequenti crisi economiche. L'alternarsi di periodi di sviluppo ad altri di crisi era ritmico: prima si aveva un lungo periodo di rapido sviluppo, con aumento dei guadagni degli industriali e, seppur in forma minore, degli operai; poi sopraggiungeva una breve ma disastrosa crisi che portava alla chiusura di numerose fabbriche e, di conseguenza, alla disoccupazione e alla miseria.
La più grande crisi economica dell'Ottocento fu quella che durò, in varie fasi, dal 1873 al 1896 e che colpì sia l'economia europea sia quella statunitense. La crisi prese inizio dal settore agricolo: a causa dello sviluppo dei trasporti l'Europa venne invasa dal grano americano, prodotto a minor costo e quindi più economico di quello europeo. Per battere la concorrenza statunitense allora i produttori europei diminuirono il prezzo del loro grano, diminuendo anche la percentuale del guadagno che andava agli agricoltori. Nello stesso periodo le fabbriche di tutto il mondo (ora anche quelle statunitensi e di altri Paesi neo-sviluppati) immisero sul mercato grandi quantità di merci, molto superiori alla domanda. In questo modo una parte di quelle merci rimase invenduta e gli industriali, come avevano già fatto gli agricoltori, abbassarono i prezzi per far sì che tra le merci vendute ci fossero le loro. Molti stabilimenti, di tutti i settori, fallirono, gettando sul lastrico migliaia di operai.
A quel punto lo Stato, che con il liberalismo era stato estromesso dalle faccende economiche, intervenne pesantemente nell'economia (fatta eccezione che in Inghilterra). Vennero attuate politiche protezionistiche, vennero cioè aumentati in maniera esorbitante i dazi doganali per far diventare più care le merci estere e favorire quelle interne. Inoltre gli Stati europei (sempre Inghilterra esclusa) appoggiarono le industrie con commesse e appalti. Le commesse sono degli acquisti che lo Stato opera presso privati di prodotti che gli sono utili (navi, armi); gli appalti invece sono concessioni che lo Stato dà alle industrie per la costruzione e la gestione di servizi e opere pubbliche (ferrovie, porti).
Il capitalismo cambia: dalla libera concorrenza ai monopoli
La crisi del 1873 provocò il fallimento di molte industrie. Furono soprattutto le piccole industrie a chiudere, in quanto non disponevano di grandi capitali e quindi non erano in grado di rinnovarsi e di modernizzare i sistemi di produzione. Le industrie maggiori invece diventavano sempre più potenti ed erano avvantaggiate dalla diminuzione della concorrenza.
Si verificò un fenomeno di concentrazione industriale (in inglese trust): molte aziende si fusero insieme e crearono grosse compagnie dirette da un'unica direzione. In questo modo si riusciva ad eludere, facendola diminuire, la concorrenza e ad ottenere la supremazia su alcuni settori.
Negli ultimi venti anni dell'Ottocento quindi il capitalismo cambiò profondamente: dalla libera concorrenza si passò al monopolio di alcune aziende in dati settori. Più frequente del monopolio è però l'oligopolio (dal greco oligos = poco), in cui il mercato è controllato da poche industrie.
I trust decidevano liberamente i prezzi delle merci che esponevano, senza dover più tenere conto della concorrenza, ma solo regolandosi in base ai costi di produzione e alla convenienza.
Quanto più le industrie si sviluppavano e si concentravano, tanto più avevano bisogno di denaro per i loro investimenti. Soprattutto nel settore meccanico e chimico, in cui le innovazioni si susseguivano senza sosta, le imprese necessitavano di capitali per rinnovarsi.
All'inizio della rivoluzione industriale le industrie nascevano coi finanziamenti dei proprietari; poi però, con lo sviluppo dell'industria, furono necessari i finanziamenti delle banche, le uniche che disponevano del denaro necessario per aprire un'industria. Per questo motivo le banche divennero sempre più importanti, fino a diventare comproprietarie delle fabbriche; questa dipendenza si accentuò con la crisi di fine secolo, in quanto l'unico mezzo che avevano le industrie per ottenere dei capitali era chiederli alle banche.
In molti casi le industrie e le banche erano di proprietà della stessa famiglia, quella che aveva costruito la fabbrica o fondato la banca. Altre volte invece la proprietà era frazionata tra molti proprietari: si parla allora di società per azioni, una firma di società che cominciò a diffondersi nella seconda metà dell'Ottocento. Nella società per azioni (S.P.A.), ogni proprietario possiede un certo numero di azioni, in proporzione al denaro versato, e l'impresa è diretta da chi ne possiede la maggior parte. I guadagni dell'industria vengono divisi tra gli azionisti, proporzionalmente al numero di azioni che possiedono. Le azioni vengono vendute e comprate nelle borse, che nella seconda metà del secolo divennero i centri della vita economica delle nazioni.
Molte banche comprarono le azioni di varie industrie e al tempo stesso le industrie ne compravano alcune delle banche. Industrie e banche, capitale industriale e capitale finanziario, si trovarono dunque ad essere sempre più collegati tra loro, sempre più dipendenti gli uni dagli altri.
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