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Il fascismo e le leggi razziali




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IL FASCISMO E LE LEGGI RAZZIALI


La nascita del fascismo

Il fascismo nacque ufficialmente il 23 marzo 1919 a Milano, dove un gruppo di ex combattenti, guidati da Benito Mussolini, fondarono i Fasci italiani di combattimento. Inizialmente questo movimento si schierava a sinistra ma era caratterizzato da una forte spinta nazionalistica, come dimostra il programma politico del movimento stesso che prevedeva una rivalutazione della vittoria sull'Austria durante il primo conflitto mondiale, e da una grande ostilità verso le forze socialiste. A partire dal 1921 il movimento fascista subì un radicale cambiamento: passò da un movimento basato su un programma democratico ad un movimento paramilitare basato sulle squadre d'azione; esse avevano come obiettivo l'eliminazione delle forze socialiste.

Il movimento fascista, con il congresso di Roma del 9 novembre 1921, si trasformò da movimento in partito e nelle elezioni politiche dello stesso anno furono eletti alla Camera 35 fascisti capeggiati da Mussolini.

La politica di Mussolini di questo periodo si sviluppo secondo due direttrici ben distinte:

la prima consisteva nel cercare di trovare degli accordi politici che garantissero la partecipazione dei fascisti ad un nuovo governo;

la seconda, quella che poi prevalse, consisteva nel preparare gli squadristi ad un prossimo colpo di stato.


Il colpo di stato: la marcia su Roma

Il colpo di stato voluto da Mussolini ebbe inizio il 27 ottobre 1922 quando lo stesso Mussolini ordinò la mobilitazione generale dei fascisti. La mattina seguente decine di migliaia di squadristi si diressero verso Roma rivendicando il potere politico del regno. I fascisti diretti verso la capitale non dovettero affrontare nessuna difficoltà in quanto il re Vittorio Emanuele III rifiutò di proclamare lo stato di assedio; anzi, lo stesso re gli fornì il proprio sostegno al movimento. La vittoria morale di Mussolini fu così forte che chiese ed ottenne di essere nominato dal re a capo del nuovo esecutivo.


Mussolini al potere

Subito dopo esser arrivato al potere, nel dicembre 1922, Mussolini istituì il Gran Consiglio del Fascismo che aveva il compito di indicare le linee guida della politica fascista.

Nei primi anni da capo del governo, caratterizzati da un governo di coalizione, Mussolini intraprese una politica economica atta al riassetto delle casse statali ed alla riduzione della spesa pubblica. La prima importante riforma fu quella scolastica (1923) promossa dal ministro - filosofo Giovanni Gentile con la quale: fu ribadita l'importanza delle discipline umanistiche su quelle tecniche; fu introdotto un esame di stato al termine di ogni ciclo di studio in modo da mettere sullo stesso piano le scuole pubbliche e private; fu elevata l'età della scuola dell'obbligo con l'intento di combattere l'analfabetismo.

Sempre nel 1923, con l'intento di ampliare la propria maggioranza parlamentare, Mussolini fece approvare una nuova legge elettorale basata sul sistema maggioritario. Con essa si garantivano i due terzi dei seggi alla coalizione che ottenesse almeno il 25% dei suffragi. Il nuovo sistema di voto fu utilizzato nelle elezioni politiche del 6 aprile 1924, durante le quali la coalizione fascista, pur essendo conscia di una vittoria sicura ed ampia, fece ricorso a numerose violenze, con conseguenti brogli, ottenendo una vittoria straordinaria.

Subito dopo le elezioni, il deputato socialista Giacomo Matteotti denunciò alla Camera i brogli elettorali e, forse per questo motivo, fu rapito ed ucciso da un gruppo di squadristi il 10 giugno 1924. Gli esecutori materiali dell'omicidio furono subito arrestati mentre i mandanti non furono mai trovati. Il delitto Matteotti contribuì ad un improvviso isolamento del partito fascista, isolamento che tuttavia non intaccò la supremazia parlamentare dello schieramento fascista. L'opposizione, infatti, non riuscì a mettere in minoranza il governo e l'unica iniziativa che riuscì a prendere fu quella di abbandonare i lavori parlamentari per riunirsi in una separata sede, con l'intento di convincere i moderati dello schieramento fascista a mettere in crisi la maggioranza. Alla separazione, che prese il nome di "secessione dell'Aventino", non partecipò il partito comunista fermo sulla posizione di uno sciopero generale. Mussolini, per far rientrare la protesta, si dimise dal ministero degli Interni e costrinse alle dimissioni alcuni esponenti fascisti più coinvolti nel delitto Matteotti. Non appena la protesta rientrò Mussolini passò al contrattacco. Il 3 gennaio 1925, con un discorso alla Camera nel quale si assumeva la responsabilità del delitto Matteotti, Mussolini, ordinando una serie di arresti che colpivano esponenti dell'opposizione, proclamò la dittatura.



La dittatura fascista

Dopo aver messo a tacere l'opposizione con arresti o esili degli oppositori e con la "fascistizzazione" delle testate giornalistiche, Mussolini si dedicò all'ampliamento dei suoi poteri. Nell'aprile 1926 fu approvata una legge sindacale con la quale si proibiva lo sciopero. Nel 1928 fu approvata una nuova legge elettorale che introduceva il sistema a lista unica.

L'effettiva realizzazione dello stato dittatoriale, cioè l'inserimento nelle strutture statali di organismi propri del partito fascista, avvenne quando, il 9 dicembre 1928, fu costituzionalizzato il Gran Consiglio del Fascismo. Esso rappresentava il punto di giunzione tra la struttura statale e quella del partito, strutture entrambe guidate da Mussolini.

Pur potendo essere definito un regime dittatoriale, il regime conservò in vigore lo Statuto del Regno (Statuto Albertino) piegandolo però alle proprie esigenze. La "scomoda" presenza del re, il quale non era subordinato al fascismo, fece si che il totalitarismo di Mussolini non fu mai perfetto.


v    I rapporti tra il regime e il Vaticano

L'intento principale di Mussolini era quello di far penetrare il fascismo nella società. Ciò fu fortemente ostacolato dalla Chiesa che poteva contare su un grande sostegno popolare (circa il 99% della popolazione era cattolica). Mussolini, consapevole dell'impossibilità di governare schierandosi contro la Chiesa, cercò quindi di trovare un accordo con il Vaticano, accordo che ponesse fine ai gravi contrasti presenti tra lo stato italiano ed il Vaticano stesso fin dai tempi del Risorgimento. L'accordo si concluse l'11 febbraio 1929 con la stipulazione dei Patti Lateranensi, firmati da Mussolini e dal cardinale Gasparri. I Patti si articolavano in tre parti:

un trattato internazionale con il quale la Chiesa riconosceva lo stato italiano che a sua volta riconosceva lo stato del Vaticano;

una convenzione finanziaria con la quale l'Italia si impegnava a pagare alla Chiesa una cospicua somma a titolo di risarcimento per la perdita dei territori dello stato pontificio;

un concordato con il quale si regolavano i rapporti Stato - Chiesa. In particolare si stabiliva l'esonero dal servizio di leva per i sacerdoti e la validità civile del matrimonio religioso.


v    La politica economica del regime

Le prime riforme economiche del regime avevo lo scopo di individuare una "via" alternativa al capitalismo ed al socialismo, "via" che il regime credette di identificare nel corporativismo. Esso consisteva nella gestione diretta dell'economia da parte delle categorie produttive, che sarebbero dovuto essere organizzate in corporazioni distinte per settori di attività. Questa terza "via" restò soltanto un progetto in quanto non fu mai attuata.

Nei primi anni di regime si intraprese una politica economica liberista che mirava ad un rilancio della produzione, in particolare nel settore privato. A partire dal 1925 la politica economica del regime passò dal liberismo al protezionismo. Il primo importante provvedimento fu l'inasprimento dei dazi sui cereali a cui seguì una forte campagna propagandistica, chiamata "battaglia del grano", il cui scopo era quello di raggiungere l'autosufficienza nel settore dei cereali.

Con la crisi del 1929, anche l'Italia attraversò un periodo difficile se pur in misura inferiore rispetto agli altri stati europei. Il periodo difficile fu segnato da una pesante recessione che sfociò in un grande aumento del numero di disoccupati nel settore industriale e commerciale. Il regime, per far fronte alla crisi, mise in atto una serie di provvedimenti che si svilupparono seguendo due direttrici fondamentali:

lo sviluppo dei lavori pubblici, in modo da alleviare le crescenti tensioni sociali;

l'intervento diretto o indiretto dello Stato per salvare i settori in crisi.


LAVORI PUBBLICI

Furono realizzate nuove strade e diversi kilometri di rete ferroviaria. Fu avviato un imponente progetto di bonifica che aveva lo scopo di recuperare le terre incolte. La bonifica più importante portata a termine fu quella delle paludi dell'Agro Pontino che rappresentò un grande successo propagandistico per il regime.


SOSTEGNO STATLE

Il sostegno statale riguardo principalmente il settore bancario. Il governo per salvare le banche dal fallimento creò l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) che divenne azionista di maggioranza delle banche rilevandone, di fatto, le partecipazioni industriali, ottenendo quindi il controllo di diverse imprese italiane. Lo stato divenne quindi uno stato - imprenditore.


Il protezionismo si accentuò sempre più con il passare del tempo. La politica economica del regime, condizionata dalle ingenti spese belliche, divenne una politica autarchica, indirizzata cioè verso una sempre maggiore autosufficienza.


v    La politica estera: l'impresa coloniale e i rapporti con la Germania

Fin dalla sua comparsa, il movimento fascista fu caratterizzato da una componente nazionalistica che faceva si che il movimento si proponesse come restauratore delle glorie imperiali di Roma. Le prime aspirazioni imperiali del regime furono parecchio vaghe. Esse si limitarono soltanto ad una lieve contestazione delle decisioni di Versailles. Anche se lievi, le contestazioni fecero diventare più tesi i rapporti tra l'Italia e la Francia. Nonostante ciò, come dimostrò l'accordo di Stresa per ostacolare il riarmo della Germania, l'Italia restò nel sistema di sicurezza collettiva fondato dalle potenze vincitrici del primo conflitto mondiale. Lo scopo principale della politica imperialistica del regime era quello, come affermò lo stesso Mussolini, di conquistare territori coloniali dove "esportare" l'eccedenza demografica del popolo italiano. Mussolini identificò i territori nel corno d'Africa: in Etiopia. La conquista del territorio africano, oltre a dare sfogo alla vocazione imperialista del regime, fece passare in secondo piano, data la grande mobilitazione popolare, le difficoltà economiche - sociali del paese.

L'iniziativa coloniale ebbe inizio nell'ottobre 1935 quando truppe italiane invasero l'Etiopia senza dichiarare guerra. Immediatamente il governo francese ed il governo inglese condannarono l'azione proponendo al consiglio della Società della Nazioni l'adozione di sanzioni contro l'Italia. Le sanzioni, consistenti nel divieto di esportare in Italia merci utili all'industria bellica, ebbero tuttavia un'efficacia molto limitata. Sul fronte bellico, gli etiopi, che si batterono con molta forza per oltre 7 mesi guidati dal negus Hailè Selssiè, non riuscirono a resistere alla spedizione italiana che contava più di 400.000 uomini. La guerra terminò il 5 maggio 1936 quando le truppe italiane, guidate dal maresciallo Badoglio, entrarono in Addis Abeba.

Dal punto di vista economico, la conquista dell'Etiopia fu per l'economia italiana un grave peso mentre sul piano politico rappresento un grande successo per il consenso al regime.

Dopo l'espansione coloniale, Mussolini si dedicò ad un riallacciamento dei rapporti tra l'Italia e la Germania. Il riavvicinamento fu sancito 25 ottobre 1936 con la firma del patto che prese il nome di Asse Roma - Berlino ma che tuttavia inizialmente non sfociò in un'alleanza militare. Nei progetti originari di Mussolini, il riavvicinamento alla Germania doveva essere uno strumento in grado di mettere pressione sulle altre potenze occidentali, con lo scopo di ottenere vantaggi nel settore coloniale. Tuttavia, la grande aggressività di Hitler costrinse Mussolini ad accettarne in maniera passiva tutte le sue iniziative. I rapporti di dipendenza tra l'Italia e la Germania furono definitivamente sanciti nel maggio 1939 con la firma di un patto di alleanza militare: il Patto d'acciaio.



Il fascismo e le leggi razziali

Alla fine degli anni Trenta, il regime fascista intraprese una campagna discriminatoria nei confronti degli abitanti delle colonie, prima, e degli ebrei, dopo. Il fondamento teorico alla politica razziale era basato su alcune considerazioni che affermavano l'esistenza della razza italiana e la sua appartenenza al gruppo delle cosiddette razze ariane già identificate da governo nazista in Germania. La discriminazione prese piede in Italia dopo esser iniziata in Germania con la promulgazione delle leggi di Norimberga (15 settembre 1935) con le quali si negava agli ebrei la cittadinanza tedesca e di conseguenza alcuni importanti diritti, come ad esempio il diritto di voto, e con le quali si proibivano i matrimoni tra i tedeschi e gli ebrei. Questa seconda proibizione aveva come obbiettivo la protezione del sangue tedesco che, nelle teorie di Hitler, era "superiore" rispetto a quello degli ebrei e di tutti i "non ariani".

Le prime leggi discriminatorie in Italia, accompagnate da una forte campagna di propaganda  (in parte pagata segretamente da agenti tedeschi incaricati da Goebbels), erano contenute nel Regio Decreto Legge n. 880; con esse si vietava il madamismo (l'acquisto di una concubina) e il matrimonio degli italiani con i "sudditi delle colonie africane".

A queste leggi seguirono una serie di leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei. Queste leggi, che ricalcavano essenzialmente quelle naziste, furono fatte precedere da un manifesto di alcuni scienziati pubblicato con il titolo "Il manifesto della razza" sulla rivista La difesa della razza il 5 agosto 1938.


v    Il manifesto della razza

Il manifesto, al quale aderirono personaggi di spicco come Giorgio Almirante, Galeazzo Ciano, Agostino Gemelli e Giovanni Gentile, si articolava in dieci punti e fissava le linee guida del razzismo fascista.

I primi tre punti definivano l'esistenza delle razze umane, in particolare la loro classificazione in piccole razze e grandi razze, come concetto biologico e non basato su considerazioni storiche, linguistiche o religiose.

Il quarto punto affermava l'origine ariana della maggioranza della popolazione residente in Italia a quel tempo.

Il quinto ed il sesto punto affermavano l'esistenza di una razza italiana ormai "pura" per una serie di motivazioni storiche la più importante delle quali era il fatto che, in seguito all'invasione dei Longobardi (sesto secolo D.C.), l'Italia non era stata protagonista di movimenti imponenti di popoli che fossero stati in grado di influenzare la fisionomia razziale della nazione stessa.

Il settimo e l'ottavo punto affermavano la necessità che il popolo italiano si dichiarasse apertamente razzista. Gli italiani appartenevano alla razza italiana che poteva essere ricondotta all'insieme delle razze ariano - nordiche e non a quella delle razze mediterranea a cui potevano essere ricondotte, invece, alcune popolazioni africane.

Il nono punto apriva la vertenza sulla razza ebraica affermando in particolare che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana (erano considerati l'unica popolazione a non essere stata assimilata in Italia) in quanto erano caratterizzati da elementi razziali non europei.

Il decimo ed ultimo punto, infine, affermava la necessità che i caratteri fisici e psicologici degli italiani, simili per moltissimi aspetti a quelli delle popolazioni europee, non dovessero essere intaccati, quindi alterati, con incroci con popolazioni extra - europee, gli ebrei in particolare.


v    Le leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei in Italia

Prima di promulgare una serie di leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei, il governo fascista, come del resto fece anche il governo nazista, si preoccupò di risolvere lo spinoso problema di chi dovesse essere classificato "ebreo". A questo fine fu promulgata una legge che dichiarava "ebreo" chiunque fosse nato da genitori entrambi ebrei oppure da un ebreo e da uno straniero oppure da una madre ebrea in condizioni di paternità ignota oppure chi, pur avendo un genitore ariano, professasse la religione ebraica.

Risolto il problema della classificazione, il regime diede vita ad una legislazione antisemita che comprendeva:

il divieto di matrimonio tra gli italiani e gli ebrei;

il divieto per le pubbliche amministrazioni e per le società private di avere al proprio servizio lavoratori ebrei;

il divieto per gli ebrei di avere alle proprie dipendenze dei domestici di razza ariana;

il divieto di iscrizione dei ragazzi ebrei nelle scuole pubbliche i quali furono "dirottati" in scuole gestite dalle comunità ebraiche dove avrebbero potuto svolgere la funzione di insegnante solo i docenti ebrei;

diverse limitazioni sulle attività private degli imprenditori ebrei;

la revoca della cittadinanza italiana concessa agli ebrei dopo il 1919.


Nella classificazione degli ebrei si ammetteva anche la figura dell'ebreo 'arianizzato', cioè un ebreo che avesse ottenuto particolari meriti militari, civili, o politici. A questa categoria di ebrei le leggi discriminatorie furono applicate con alcune eccezioni e con diverse limitazioni.

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