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STORIA
IL DOPOGUERRA IN ITALIA E L'AVVENTO DEL FASCISMO
In Italia, i problemi del dopoguerra erano aggravati dalla debolezza delle strutture democratiche e dalla crisi della classe dirigente liberale. L'economia presentava i tratti tipici della crisi post-bellica: sviluppo abnorme di alcuni settori industriali (con problemi di riconversione), deficit del bilancio statale e inflazione galoppante. La società era in fermento. La classe operaia, tornata alla libertà sindacale, chiedeva sia miglioramenti economici sia maggior potere in fabbrica. I contadini del centro-sud, insofferenti dei vecchi equilibri sociali, chiedevano alla classe dirigente l'attuazione delle promesse fatte nel corso del conflitto. I ceti medi, coinvolti dall'esperienza della guerra, si organizzavano per difendere i loro interessi e i loro ideali patriottici. Il processo di democratizzazione era agli inizi, il suffragio universale maschile era stato applicato per la prima volta nel 1913. La decisione dell'intervento era stata presa contro l'orientamento delle masse popolari e della maggioranza parlamentare, provocando fratture nel paese in seno ad una classe dirigente che con la fine della guerra si trovò contestata, isolata e incapace di dominare il fenomeno di mobilitazione di massa che il conflitto aveva suscitato, perdendo l'egemonia di cui aveva goduto fino allora. Invece ne risultarono favorite le forze socialiste e cattoliche estranee alle responsabilità della guerra, e che meglio interpretavano le nuove dimensioni assunte dalla lotta politica.
I cattolici furono i primi portatori di novità, dando vita nel gennaio del 1919 ad una nuova formazione politica che prese il nome di Partito Popolare Italiano che, ebbe padre riconosciuto e primo segretario in don Luigi Sturzo.
Il movimento si presentava con un programma di impostazione democratica ma strettamente legato al mondo cattolico e alle sue strutture organizzative.
Altra grande novità nel panorama politico italiano fu la crescita impetuosa del Partito Socialista, con schiacciante prevalenza della corrente di sinistra, ora chiamata "massimalista".
Il loro leader di maggiore spicco era il direttore dell'"Avanti" Giacinto Menotti Serrati, che si poneva come obiettivo l'instaurazione della repubblica socialista fondata sulla dittatura del proletariato. In polemica con questa impostazione, si formarono nel Psi gruppi di estrema sinistra. Fra questi gruppi emergevano a Napoli quello a cui faceva capo Amedeo Bordiga, e a Torino Antonio Gramsci.
All'indomani della guerra, il Psi era schierato su posizioni troppo rivoluzionarie, ciò finì con l'isolare il movimento operaio e ridurne i margini di azione politica, precludendosi la possibilità di collaborazione sia con le forze democratico-borghesi, spaventate
dalla minaccia di una dittatura proletaria, sia con quei gruppi che difendevano "i valori della vittoria". Fra questi gruppi, per lo più destinati a vita breve, faceva spicco quello fondato a Milano il 23 marzo 1919, da Benito Mussolini, con il nome di "Fasci di combattimento".
Politicamente, il movimento chiedeva audaci riforme sociali e si dichiarava favorevole alla repubblica, ma ostentava un acceso nazionalismo e una feroce avversione socialistica.
Agli esordi il "fascismo" raccolse scarse adesioni, con uno stile politico aggressivo e violento, tutto teso verso l'azione diretta.
Infatti, furono protagonisti del primo caso di guerra civile dell'Italia postbellica: lo scontro con un corteo socialista avvenuto a Milano il 15 aprile del 1919 concluso con l'incendio dell'Avanti.
Fra il 1919 ed il 1920 l'Italia attraversò una fase di convulse
agitazioni sociali e di profondi mutamenti negli equilibri politici. Fra il
giugno ed il luglio
Nel giugno 1920 Giolitti, ormai ottantenne, tornò al potere con un
programma molto avanzato in cui proponeva fra l'altro la "nominatività dei
titoli azionari" e una "imposta straordinaria sui sovrapprofitti" realizzati
dall'industria bellica. I risultati più importanti li ottenne in politica
estera: il negoziato diretto con
L'occupazione delle fabbriche e la scissione di Livorno segnarono in Italia la fine del biennio rosso. La crisi economica si tradusse con un forte aumento della disoccupazione, nelle campagne ci fu un improvviso sviluppo del fascismo-agrario. Tra la fine del 1920 e gli inizi del 1921, il movimento subì un rapido processo di mutazione, accantonando l'originario programma radical-democratico e si fuse su strutture paramilitari (le squadre d'azione) in lotta contro il movimento socialista. In due anni di lotte le leghe socialiste avevano ottenuto non solo aumenti salariali, ma avevano creato degli uffici di collocamento, dove le stesse controllavano il mercato del lavoro. Comunque questo sistema celava all'interno punti di debolezza, venivano privilegiati i salariati senza terra, rispetto alla categoria intermedia (mezzadri, piccoli affittuari, salariati fissi) che aspiravano a distinguere la loro posizione da quella dei braccianti, i proprietari terrieri scoprirono nei fasci lo strumento capace di abbattere il potere delle leghe. Il movimento fascista vide affluire nelle sue file numerose reclute: ufficiali smobilitati che faticavano a reinserirsi nella vita civile; figli della piccola borghesia. In pochi mesi il fenomeno dello squadrismo" dilagò in tutte le province padane, estendendosi anche in Toscana ed in Umbria.
Immune rimase solo il Mezzogiorno. Il successo travolgente dell'offensiva fascista non può spiegarsi solo con fattori di ordine militare, né può essere imputato solamente agli errori dei socialisti; pesanti furono anche le responsabilità del governo. Giolitti infatti, pur evitando di favorire apertamente lo squadrismo, pensò di servirsene per ridurre a più miti pretese i socialisti. In questa strategia si convocarono le nuove elezioni di maggio 1921, per favorire l'ingresso dei candidati fascisti nei cosiddetti blocchi nazionali, per impedire una nuova affermazione dei partiti di massa. I risultati delle urne delusero chi aveva voluto le elezioni. I socialisti subirono una flessione lieve, i popolari si rafforzarono. La maggiore novità fu costituita dall'ingresso alla camera di 35 deputati fascisti capeggiati da Mussolini.
L'esito delle elezioni portò alle dimissioni di Giolitti all'inizio di
Luglio. Il suo successore, l'ex socialista Ivanoe
Bonomi, tentò una tregua d'armi tra i due partiti in lotta. Mussolini
accettò in quanto voleva inserirsi nel gioco politico "ufficiale", una
strategia però non condivisa dai fascisti intransigenti dello squadrismo
agrario, che sabotarono in ogni modo il patto di pacificazione, giungendo a
mettere in discussione la leadership di Mussolini. La ricomposizione si ebbe al
congresso dei Fasci tenutosi a Roma ai primi di novembre. Mussolini sconfessò
il patto di pacificazione. I ras riconobbero
in Mussolini la guida ed il movimento si trasformò in partito. Nasceva così il
Partito Nazionale Fascista che contava 200 mila iscritti. Nel febbraio del 1922
la guida del governo fu affidata a Luigi
Facta, l'agonia dello Stato liberale entrò nella sua fase culminante. Il
fascismo si rese protagonista di operazioni più ampie e clamorose, giocando
contemporaneamente su due tavoli, quello
della "violenza armata" e quello della "manovra politica". L'immobilismo
socialista era sia sul piano della tattica parlamentare che quello della
mobilitazione di massa. Addirittura disastrosa si rilevò la decisione, presa
dai dirigenti sindacali di proclamare per il primo agosto uno "sciopero
generale" legalitario in difesa delle libertà costituzionali: i fascisti
lanciarono una violenta offensiva contro il movimento operaio che usciva da
questa prova materialmente e moralmente distrutto. L'unica conseguenza fu un
inutile scissione ai primi di ottobre del
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