GUERRE PUNICHE
Puniche (guerre), denominazione corrente delle tre guerre svoltesi dal 264 al 146 a.C. tra Romani e
Cartaginesi per il possesso del bacino occidentale del Mediterraneo.
Le origini del conflitto
I rapporti tra Roma e Cartagine,
mentre fino agli inizi del III sec. a.C. erano stati amichevoli e regolati da trattati che
determinavano le rispettive sfere d'influenza economica e politica (509, 348 e 306 a.C.) o senz'altro le
impegnavano in un'alleanza offensiva o difensiva, come nel 278 contro Pirro,
divennero difficili e ostili dopo che, nella loro crescente espansione, si
trovarono di fronte a contendersi l'egemonia sui paesi del Mediterraneo
occidentale. Roma, assicuratasi il dominio delle popolazioni italiche e
sottomesse le città della Campania e della Magna Grecia, pretendeva libertà
d'azione ed esclusivo controllo delle coste e dei mari della penisola;
Cartagine, nel pieno dinamismo di una florida attività marinara e commerciale,
favorita dalla decadenza della talassocrazia ateniese e dall'accesso al mondo
economico dell'Egitto tolemaico, mirava a impossessarsi di tutta la Sicilia e della sua ricca
produzione granaria e a ingerirsi nelle faccende d'Italia. Diverse di razza, di
cultura e di religione, e con profonde differenze nella struttura economica e
nelle istituzioni politiche e militari, le due città giunsero, ancor prima di
iniziare le ostilità, a tal punto di tensione che la rottura apparve
inevitabile. La causa occasionale fu offerta dai Mamertini, che per difendere
dagli attacchi di Gerone di Siracusa il possesso di Messina, accolsero in città
un presidio di Cartaginesi. L'aiuto si rivelò subito un intervento armato che
mirava a far di Messina un avamposto punico per la conquista della Sicilia e
per il controllo della navigazione attraverso lo stretto. L'inaspettata
minaccia indusse una parte dei Mamertini a rivolgersi a Roma
Prima guerra punica (264-241 a.C.)
Fatto
uscire con uno stratagemma il presidio cartaginese e insediatosene uno
romano, Messina venne stretta d'assedio dai Cartaginesi e da Gerone II, loro
alleato. Da Reggio, con una flotta approntata dai socii navales delle
città greche, il console Claudio Caudice attraversò lo stretto e si impadronì
della città contesa. Al primo successo ne seguirono subito altri nel campo
diplomatico e in quello militare. Numerose popolazioni indigene, nonché lo
stesso Gerone, passarono dalla parte dei Romani e molte località, tra le quali,
dopo dura lotta, la fortezza di Agrigento (262) vennero conquistate. Ma
Cartagine, per essere vinta, doveva essere battuta sul mare: Roma se ne rese
conto ben presto e sfruttando, contrariamente a quanto sostiene la tradizione,
la sua precedente esperienza marinara, allestì una nuova flotta di circa 130
tra quinqueremi e triremi munite di pontili arpionati ("corvi*") con la quale,
al comando del console Caio Duilio, riportò nel 260 un'importante vittoria a
Mylae (Milazzo). Negli anni seguenti i Romani si rivolsero contro le basi
puniche della Corsica e della Sardegna, ottenendo notevoli successi; poi, mentre
la guerra in Sicilia si trascinava con varia fortuna, tentarono di attaccare il
nemico in Africa, nel cuore stesso del suo territorio. Nella primavera del 256
i consoli Manlio Vulsone e Attilio Regolo con quattro legioni imbarcate su una
flotta di 330 navi (di cui circa 265 da guerra), dopo avere spezzato
l'opposizione cartaginese in una grande battaglia nelle acque del capo Ecnomo
(presso l'od. Licata), approdarono nei pressi del promontorio Ermeo (capo Bon),
per accamparsi poi a Clupea (od. Kelibia). Attilio Regolo, rimasto solo in
seguito al richiamo del collega, in un primo tempo riuscì a ridurre i
Cartaginesi in condizioni critiche; ma poi, con il proporre patti durissimi a
una richiesta di pace li esasperò a tal punto che, arruolati nuovi contingenti
di mercenari in Grecia e in Spagna e affidatone il comando allo spartano
Santippo, gli inflissero una grave sconfitta nella valle del fiume Bagrada (od.
Megerda) presso Tunisi, facendolo anche prigioniero (255 a.C.). Il disastro,
aggravato dalla perdita, in seguito a una tempesta nei pressi di capo Pachino
(capo Passero), della flotta con i superstiti dell'esercito di Regolo riportò
la guerra in Sicilia e sulle coste italiane. Per oltre un decennio per terra e
per mare le due contendenti si logorarono in una lotta estenuante, in cui i
Romani, insieme con notevoli successi come la conquista di Panormo (Palermo),
subirono gravi danni per i naufragi delle flotte successivamente allestite e
nel vano tentativo di impadronirsi delle basi di Lilibeo (Marsala) e di
Drepanum (Trapani), mentre i Cartaginesi, ridotti alle coste occidentali
dell'isola consumarono una gran quantità di uomini e mezzi in una attività
bellica a carattere sempre più difensivo. Ci furono anche approcci di pace
(250), promossi da Annone il Grande. A patrocinarne il buon esito, secondo la
tradizione, da Cartagine, ove si trovava prigioniero, sarebbe stato inviato lo
stesso Attilio Regolo. Ma a Roma prevalse la volontà di guerra, che si
manifestò decisa alcuni anni dopo, quando, per risolvere le ostilità entrate in
una fase statica, si decise un ultimo sforzo, costruendo, con il contributo di
un prestito forzoso di privati cittadini, 200 nuove quinqueremi. Il comando
della flotta (circa 300 navi) venne affidato a Lutazio Catulo, che nelle acque
delle isole Egadi (241 a.C.)
si scontrò con l'armata navale (circa 400 navi) che i Cartaginesi avevano
allestito per liberare dall'assedio Lilibeo e Drepanum, sconfiggendola
duramente. Cartagine venne costretta alla pace, che ottenne a condizione di
rinunciare alla Sicilia e alle isole circostanti, di pagare entro dieci anni
un'indennità di guerra di 3.200 talenti e di impegnarsi a non far guerra agli
alleati di Roma.
Dalla prima alla seconda guerra
punica (241-219 a.C.)
Negli
anni immediatamente successivi alla sconfitta, la politica di Cartagine,
resa difficile dalla crisi economica e da una pericolosa insurrezione dei
mercenari, subì ulteriori insuccessi con la perdita della Sardegna e della
Corsica e l'esborso ai Romani di altri 1.200 talenti. Ma quando il potere dalla
fazione degli Annoni, sostenitori degli interessi dei proprietari terrieri,
ritornò nelle mani dei Barcidi, che erano a capo del partito dei grossi
affaristi, riprese vigore la politica espansionistica. Campo prescelto fu la
penisola iberica dove eccellenti generali (Amilcare Barca, il genero Asdrubale
e il figlio Annibale, succedutisi l'un l'altro nel comando dell'esercito) si
assicurarono dalle Colonne d'Ercole all'Ebro un vasto possedimento, ricco di
metalli, copioso di uomini e fornito di valide basi (Cadice, Akraleuke
[Alicante], Carthago Nova [Cartagena]). Roma, che in un primo tempo vide di
buon occhio le mire dei Cartaginesi distolte dalla Sicilia per un paese ove non
aveva nessun interesse, incominciò a preoccuparsi della rinascita della potenza
punica. Cercò pertanto di porvi riparo con la stipulazione di un trattato con
Asdrubale, che si impegnava a non passare in armi il confine dell'Ebro (226 a.C.). La situazione si
complicò quando Sagunto, posta in una zona non inibita all'influenza punica, ma
ultimamente alleata di Roma, fu assediata e presa da Annibale (219), il nuovo
bellicoso comandante cartaginese tutto inteso alla conquista della Spagna
centrale. Il fatto venne ritenuto dai Romani (è discutibile con quanto
fondamento) un'infrazione degli accordi stabiliti. Se la guerra non scoppiò
subito lo si dovette al fatto che Roma era già impegnata militarmente
nell'Illiria; fu dichiarata però poco dopo la caduta della città, quando
Cartagine respinse l'inaccettabile ultimatum che ne imponeva la restituzione,
assieme alla consegna di Annibale e dei suoi consiglieri.
La seconda guerra punica (218-201 a.C.)
Con una popolazione pressoché uguale di numero ma
con un potenziale bellico superiore per il possesso di una flotta, per l'uso
delle truppe nazionali e per importanti riserve a loro disposizione, i Romani
ordinarono le forze secondo un progetto offensivo che mirava all'invasione
dell'Africa e della Spagna. Annibale, a sua volta, forte dell'appoggio del
partito al potere a Cartagine, ma privo di mezzi navali concepì l'audace piano
di penetrare in Italia attraverso le Alpi con un piccolo e agguerrito esercito,
con un piano bellico volto ad abbattere il prestigio di Roma, così da
risvegliare ambizioni e velleità di autonomia dei popoli italici. Lasciata la Spagna al fratello
Asdrubale, con un esercito, costituito da Iberi, da Libici e da Numidi, di
35.000-40.000 uomini (di cui solo 20.000 fanti e 6.000 cavalieri giunsero in
Italia) e di 37 elefanti, passò i Pirenei, poi le Alpi, attraverso un valico di
difficile identificazione (Monginevro, Col Clapier o Piccolo San Bernardo)
calando all'improvviso nella pianura padana, dove sconfisse dapprima al Ticino
Publio Cornelio Scipione, poi alla Trebbia lo stesso Scipione con Tiberio
Sempronio Longo (218). Assicuratosi l'appoggio dei Galli e il controllo della
Cisalpina, nella primavera seguente attraversò gli Appennini e, discendendo
nell'Italia centrale per la più difficile via di mezzo, colse di sorpresa a
nord del Trasimeno l'esercito di Caio Flaminio e lo distrusse pressoché
completamente insieme con la cavalleria dell'altro console, Cneo Servilio (217 a.C.). Nonostante la
strepitosa vittoria, Annibale, forse perché non disponeva del materiale bellico
indispensabile per un assedio indubbiamente lungo, evitò Roma, proseguendo la
marcia lungo l'Adriatico attraverso il Piceno e il Sannio, raggiunse l'Apulia,
ricca di grano e di foraggio e quivi si fermò a svernare, tentando nel
frattempo di attirare dalla sua parte gli alleati italici e di avere aiuti da
Filippo V di Macedonia. I Romani ricorsero alla nomina di un dittatore, Quinto
Fabio Massimo, che al comando delle quattro legioni ricostituite, tra dissensi
di ogni genere, ebbe il coraggio di adottare una strategia temporeggiatrice
(onde il soprannome di Cunctator, Temporeggiatore), che consisteva
nell'evitare di venire a battaglia campale con l'avversario e nel molestarlo
continuamente ai fianchi e in scaramucce, infliggendogli senza tregua sensibili
perdite. Roma aveva il tempo frattanto di riaversi dai rovesci subiti e già
qualche buona notizia giungeva dalla Spagna, dove Cneo Cornelio Scipione aveva
occupato in un'azione navale la foce dell'Ebro e teneva impegnato Asdrubale,
impedendogli di recar soccorso al fratello in Italia. Ma la prudenza di Fabio
Massimo era mal sopportata dal popolo insofferente di mezze misure e smanioso
di rivincita. Così i due consoli del 216, il patrizio Lucio Paolo Emilio e il
plebeo Terenzio Varrone, con un esercito di circa 50.000 uomini, affrontarono
Annibale, inferiore di forze, sulla destra dell'Ofanto presso Canne, e furono
duramente sconfitti dalla sua straordinaria abilità tattica. La nuova grande
disfatta, in cui perì lo stesso Paolo Emilio e si salvarono poche migliaia di
uomini, ebbe come immediata conseguenza la defezione in gran numero degli
Apuli, dei Sanniti, dei Lucani, dei Bruzi e, quindi, di Capua e, alla morte di
Gerone II, di Siracusa (215) e infine di Taranto e di altre città del litorale
ionico. Dal canto suo Filippo V di Macedonia si affrettò a offrire ad Annibale
la sua alleanza. Nella crisi della confederazione romano-italica rimasero però
fedeli l'Etruria, l'Umbria, il Lazio e, pur tra molte esitazioni, alcune città
marinare del basso Tirreno e non poche località negli stessi territori
occupati. Con il loro appoggio, dopo un momentaneo sgomento che poneva in
dubbio la sua possibilità di sopravvivere, Roma passò alla controffensiva con
tenacia, con ordine e con lo spiegamento di tutte quelle doti civili e militari
che ne costituirono le ammirate peculiarità. Riprese la strategia di Fabio
Massimo, intraprendendo una guerra sui più diversi fronti (Italia, Spagna,
Sicilia, Grecia), in cui, alternando la difesa a ben determinate conquiste,
mirava a logorare il nemico in casa e a impedirgli di ricevere rinforzi da
fuori. Annibale d'altronde, nonostante i successi ottenuti, finì via via col
trovarsi quasi bloccato nel Bruzio. Impossibilitato a soccorrere Siracusa
conquistata da Claudio Marcello nel 212 a.C., non poté impedire che Capua prima (211 a.C.) e Taranto poi (209)
ricadessero sotto il dominio romano. Anche il pericolo di un esercito che
Asdrubale, sfuggendo alla sorveglianza pur severa e fino allora efficace del
giovane Publio Cornelio Scipione - che, inviato in Spagna dopo la morte del
padre Publio e dello zio Cneo aveva conquistato Carthago Nova (209) e sconfitto
lo stesso Asdrubale nella battaglia di Becula (208) -, condusse in aiuto al
fratello, venne stroncato dai consoli Claudio Nerone e Livio Salinatore nella
battaglia del Metauro, in cui cadde lo stesso comandante cartaginese (207 a.C.). Era la prima
chiara e importante vittoria dei Romani dall'inizio delle ostilità e Annibale
si arrese alla necessità di ritirarsi definitivamente nel Bruzio nei pressi di
Crotone. Da qui assistette impotente alla sottomissione della Spagna per opera
di Scipione (battaglia di Ilipa poco a nord di Siviglia, 206), alla decadenza
del prestigio dei Barcidi in patria e alla inutilità di una testa di ponte
creata dall'altro fratello, Magone, sulle coste della Liguria, con l'intenzione
di sollevare i Galli.
A Roma parve giunto il
tempo dell'azione decisiva, nella convinzione sempre più radicata che per
scacciare Annibale dall'Italia bisognava portare la guerra in Africa. Per
volontà del popolo e in contrasto con il senato, che frappose ostacoli di ogni
genere, l'incarico venne affidato a Scipione che, con l'aiuto entusiastico
delle città alleate, allestì in Sicilia una flotta e un esercito agguerrito se
non numeroso (400 navi da carico e 40 da guerra, 24.800 fanti e 2.200
cavalieri). Nella primavera del 204 sbarcò in Africa presso Utica e con l'aiuto
del re numida Massinissa, spodestato da Siface, alleato dei Cartaginesi,
passando da vittoriose azioni di guerra (Campi Magni, 203) a ben studiate
proposte di pace, riuscì a ottenere il richiamo di Annibale dall'Italia. Il suo
rientro in patria non poteva significare che la ripulsa di ogni trattativa e la
inevitabile ripresa delle ostilità. Scipione accettò il confronto e batté
decisamente nella piana tra Naraggara e Zama il suo grande avversario proprio
con quella tattica di cui Annibale era stato maestro (202). La pace, conclusa
l'anno dopo, mentre lasciava a Cartagine l'autonomia e il suo territorio
africano, la obbligava a divenire alleata di Roma, nella condizione di Stato
semidipendente senza tuttavia il diritto di esercitare una propria politica
estera, a consegnare le navi da guerra (tranne dieci) e gli elefanti, a
riconoscere il regno di Massinissa, alla rinuncia d'ogni possesso nel
Mediterraneo, nonché al versamento in cinquant'anni di una indennità di 10.000
talenti d'argento.
Cartagine cessò di esistere
come grande potenza, lasciando a Roma il dominio del bacino del Mediterraneo
occidentale. Poté durare ancora poco più di mezzo secolo, finché la rinascente
prosperità, considerata come una pericolosa minaccia, ne decise la rovina
definitiva.
Terza guerra punica (149-146 a.C.)
Che Cartagine infatti, ridotta a un modesto Stato
ma con una fiorente economia industriale e commerciale, potesse costituire
ancora una terribile concorrente all'egemonia nel Mediterraneo, era in Roma
opinione corrente dei politici come degli uomini d'affari. Catone poi, che
l'aveva visitata a capo di una ambasceria nel 153 o nel 152 ed era rimasto
sorpreso della sua prosperità, si era fatto un caparbio quanto ascoltato
assertore della necessità di eliminarla (ceterum censeo Carthaginem esse
delendam, del resto io penso che Cartagine debba essere distrutta).
Pertanto la fine di Cartagine divenne un punto fermo della politica estera di
Roma, dopo che ebbe affermato il suo predominio in Oriente e in Grecia. La
stessa situazione in Africa ne offrì il pretesto. Poiché le pretese di
Massinissa, sostenute dalle armi, si facevano sempre più frequenti e pressanti
e l'arbitrato di Roma nelle frequenti controversie risultava di norma a loro
sfavorevole, i Cartaginesi a un'ultima provocazione, violando il trattato del
201, risposero con la forza (151-150
a.C.). Era l'occasione attesa per dichiarare la guerra,
che fu condotta da parte dei Romani con spietata e fredda determinazione. I due
consoli Manio Manilio e Lucio Marcio Censorino, sbarcati in Africa con un forte
esercito, con il pretesto che si sarebbero assunti loro il compito di
difenderli da Massinissa, chiesero ai Cartaginesi la consegna delle armi, delle
macchine belliche e delle navi. Nella speranza di conservare i propri beni e la
libertà essi accettarono la dura pretesa; ma quando venne imposto di
abbandonare la città e di stabilirsi a 15 km dalla costa, decisero di resistere a
oltranza. Per superare il loro disperato coraggio, dopo due anni di vano
assedio, venne inviato Scipione Emiliano, che conquistò e rase al suolo la
città strappata a palmo a palmo ai suoi eroici abitanti che preferirono morire
tra gli incendi e le distruzioni piuttosto che arrendersi (146 a.C.). Così Cartagine
scomparve in un'immane rovina, settecento anni dopo la fondazione, mentre il
suo territorio costituì la nuova provincia di Africa con Utica per
capoluogo.