Gli anni '60 in Italia

Gli anni '60 in Italia

Per l'Italia come per la gran parte dei paesi del blocco occidentale gli anni '60 furono caratterizzati dal boom economico. Lo sviluppo interessò soprattutto l'industria manifatturiera, che triplicò nel '61 la sua produzione rispetto al periodo post bellico. L'aspetto più evidente della crescita industriale fu lo sviluppo delle esportazioni di prodotti industriali. L'aumento di produttività fu il risultato della disponibilità di manodopera a basso costo. Diminuivano così gli impiegati nell'agricoltura ( dal 45% del '51 al 30 % di dieci anni dopo) e aumentavano nei servizi e nell'industria ( 32% e 37%).

L'Italia divenne un paese pienamente industriale. Crebbero così i consumi, non solo alimentari, grazie soprattutto all'aumento delle retribuzioni. Il tasso di disoccupazione si abbasso e vi furono notevoli miglioramenti salariali.

Ci fu il boom della televisione che porto nelle case di tutti la lingua italiana e l'automobile divenne simbolo tangibile del benessere e della modernizzazione, assieme alla vespa.

La politica italiana nel '60 usciva da un lungo periodo di centrismo e a causa degli ampi consensi ricevuti dalla sinistra nelle elezioni del '58, la Dc si preparava ad accoglierla nelle proprie file. L'apertura a sinistra maturò in seguito ad una serie di avvenimenti drammatici.

Nelle primavera del '60 il democristiano Fernando Tambroni non riuscendo a trovare l'accordo con socialdemocratici e repubblicani, formò ugualmente un governo monocolore con l'appoggio dei voti del Movimento Sociale: la scelta suscitò le proteste dei partiti laici e della stessa ala sinistra della Dc. La tensione esplose quando il governo autorizzò il Msi a tenere il suo congresso a Genova. Ciò suscitò una vera e propria rivolta popolare. Alla fine, dopo tre giorni di scontro tra operai, antifascisti e polizia, il governo cedette e il congresso fu rinviato. Tambroni fu sconfessato e costretto a dimettersi dalla stessa Dc.

Per superare la crisi fu formato un nuovo governo monocolore presieduto da Fanfani, che nell'agosto del '60 ottenne l'astensione dei socialisti dal Parlamento. La nuova alleanza fu sancita dal congresso della Dc, nel gennaio del '62, con la direzione del segretario Aldo Moro, che riuscì a far accettare la svolta al grosso del suo partito. Un nuovo governo Fanfani, formatosi nel marzo del '62 e composto da Dc, Pri e Psdi, si presentò con un programma concordato con il Psi che si impegnava a dare il suo appoggio a singoli progetti legislativi, quali: la riforma della scuola media (1963), l'attuazione dell'ordinamento ragionale, l'imposizione fiscale nominativa sui titoli azionari, la nazionalizzazione dell'industria elettrica (1962). La riforma fiscale, tuttavia, non fu attuata mentre l'attuazione delle regioni, temuta dalla Dc, fu rinviata.

I contrasti in seno alla maggioranza si inasprirono quando a seguito delle elezioni del '63 la Dc e il Psi persero voti, in favore dei liberali e del partito comunista. Ciò accentuò le resistenze moderate della Dc e le divisioni interne al Psi. Un governo organico di centro-sinistra si formò solo nel dicembre del '63 sotto la presidenza di Aldo Moro ma il processo riformatore fu praticamente bloccato. Inoltre si facevano sempre più sentire il peso delle forze ostili al centro-sinistra. Nell'estate del '64 si vociferò riguardo un possibile colpo si stato promosso dal generale De Lorenzo, capo dei servizi segreti e dallo stesso presidente della Repubblica Segni. Ma a pesare maggiormente sull'equilibrio della coalizione erano i conflitti all'interno della coalizione, soprattutto il malcontento dei gruppi moderati della Dc.

Il Psi pagò, infatti, la partecipazione al governo con una nuova scissione: nel 1964 la minoranza di sinistra, che si opponeva alla scelta governativa e era favorevole alla collaborazione con Pci, diede vita al Partito socialista di unità proletaria.