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Presso i Romani gli abiti più in uso si riducevano a tre; la varietà era nel colore, nella stoffa, negli ornamenti.
Erano abiti maschili la tunica (tunica), la toga (toga), il mantello (laena, lacerna); femminili la tunica, la stola (stola), la sopravveste (ricinium, palla).
La tunica era un abito di lana, stretto alla vita da una cintura; consisteva in due pezzi di stoffa cuciti insieme in modo che quello davanti arrivasse sin sotto i ginocchi e quello dietro ai polpacci.
Verso il III secolo d.C., quando si diffuse l'uso dei pantaloni lunghi e aderenti alla gamba, divennero comuni anche le tuniche con le maniche lunghe che anteriormente passavano per stranezze di effemminati.
Generalmente la tunica era ornata da una striscia di porpora (clavus), la quale serviva anche per indicare l'appartenenza ad un determinato ordine: la tunica dei senatori, infatti, aveva una larga striscia (latus clavus o laticlavium), quella dei cavalieri una striscia più stretta (angustus clavus).
Durante la celebrazione del trionfo i comandanti vittoriosi indossavano una tunica riccamente ornata di ricami in forma di palma (tunica palmata).
Di tutte le tuniche di uso comune il tipo più ricco era la Delmatica, venuta di moda solo in età più tarda; questa poteva essere anche di lino o di seta e molti nell'intimità della loro casa il Romano stavano in tunica.
Se aveva freddo si copriva con un mantello o aumentava il numero delle tuniche.
La toga rappresentava l'abito di rito quando si doveva esercitare un pubblico ufficio; e in toga doveva mostrarsi in Roma chiunque non volesse passare per uno schiavo o per un modesto bracciante; ma di questo indumento il Romano aveva cura di sbarazzarsi non appena si trovava in famiglia o lontano dal mondo ufficiale.
La toga era di lana bianca e pesante, tutta di un pezzo e tagliata in forma di ellisse.
Una toga ornata di una balza di porpora, la toga praetexta, era riservata ai sommi magistrati, ad alcuni sacerdoti e ai fanciulli sotto ai diciassette anni; durante la celebrazione di un trionfo si indossava la toga picta e nella celebrazione dei riti auguri e sacerdoti usavano una toga variamente colorata (trabea).
Ma in generale la toga era pura, cioè senza ornamenti.
Alcuni tipi di mantello, che si usava mettere sulla toga, nell'età imperiale vennero sostituendo, per praticità, la toga stessa.
Di mantelli ve ne erano vari tipi: il pallium, la lucerna, la paenula.
Il pallium si portava su per giù come la toga, ma essendo più corto e non raddoppiato, non impicciava, come la toga, la libertà dei movimenti.
La lacerna, in origine mantellina militare, venne usata come abito borghese durante l'impero ed ebbe un diffusione grandissima.
La paenula era un mantello molto semplice, di solito fornito di un cappuccio, e serviva soprattutto contro il freddo e il cattivo tempo.
Si indossava passando la testa attraverso un'apertura centrale, e rimaneva, così, sulle spalle senza bisogno di fermaglio.
La laena era una mantellina rotonda e corta, di stoffa pesante; la povera gente la portava grezza, ma nei banchetti se ne usavano di riccamente colorate per completare l'abito proprio dei banchetti, un attillatissimo farsetto finemente guarnito (vestis cenatoria o synthesis).
Esistevano altri tipi di mantelli pesanti e con cappuccio: il cucullus ('cappuccio'), il bardocucullus, il birrus, la caracalla (quest'ultimo tipo era lungo sino ai piedi, e lo trovava tanto adatto per tutte le occasioni, se ne introdusse l'uso anche fra i soldati).
Nella Roma primitiva le donne vestivano come gli uomini, cioè andavano in toga, ma ben presto l'abito femminile si differenziò dal maschile, e la toga fu imposta alle donne solo se di provata disonestà.
Le matrone portavano sulla pelle una tunica di lino (tunica interior) sopra la quale indossavano la stola, un lungo vestito che scendeva sino ai piedi, stretto alla vita da una cintura, e ornato all'orlo estremo da una balza di porpora.
Per uscire in pubblico le Romane, nei primi secoli della Repubblica ,coprivano le spalle con un semplice mantello quadrato (ricinium).
Questo negli ultimi secoli della Repubblica e nell'età imperiale fu sostituito da un soprabito molto ampio.
La calzatura propria del cittadino romano, destinata ad accompagnare l'abito nazionale, cioè la toga, erano i calceus comune, vi era il calceus patricius, che solo i patrizi potevano calzare: di cuoio rosso, legato con quattro strisce di pelle e ornato di una fibbia lunata di avorio, e infine il calceus senatorius, proprio dei senatori, simile al precedente, ma di cuoio nero.
Calzare i calcei in casa altrui, costituiva una grave sconvenienza.
Chi era invitato ad un banchetto, incaricava uno schiavo di portare alla casa dell'ospite le soleae.
Suole tenute ferme mediante striscioline di cuoio che si facevano passare fra dito e dito.
Calzatura semplice, di tipo domestico; uscire con questo tipo di sandali costituiva una sconvenienza simile a quella di portare i calcei per casa.
Altre calzature erano la caliga, che i Romani mettevano quando erano in divisa militare, e, passando a tipi più rozzi, quella chiamata pero, che consisteva in una pelle non conciata avvolta intorno al piede, o la sculponea, zoccolo con la suola di legno, usata dagli schiavi e dai contadini.
Le calzature femminili differivano da quelle maschili solo per la maggiore morbidezza della pelle, per la vivacità dei colori, di cui erano molto usati il rosso e il dorato, e per la ricchezza degli ornamenti, talvolta costituiti da pietre preziose.
I Romani anche fuori di casa andavano a capo scoperto; al massimo mettevano un cappuccio (cucullus), se pioveva, e un cappello a larghe tese (petasus), se dovevano intraprendere un viaggio in estate o star lunghe ore fermi al sole, per esempio al teatro.
Durante i Saturnali, le allegre feste dei Romani, tutti mettevano in testa un piccolo berretto un pò ridicolo (pilleus) che nei giorni normali portavano solo i liberti.
Dell'abbigliamento muliebre in genere, gli scavi ci hanno restituito in abbondanza anelli, fibbie, aghi da infilare nei capelli, diademi ornati d'oro e di pietre preziose che arricchivano la pettinatura; svariatissimi i braccialetti, le collane, le catenelle da collo, i grossi anelli da mettere alla caviglie, gli orecchini.
Gli uomini, invece, nell'adornarsi erano molto sobri; l'unico loro ornamento consisteva negli anelli, e solo i liberi li potevano portare.
Durante la Repubblica si teneva nell'anulare della sinistra un solo anello che serviva anche da sigillo, la cui impronta aveva il valore di firma autentica; durante l'impero, invece, si portavano anelli di ogni tipo e l'ambizione spingeva alcuni a caricarsene addirittura le dita.
Questi anelli, per le pietre preziose che vi erano incastonate, raggiungevano anche un valore grandissimo e venivano conservati in un apposito scrigno, la dactyliotheca.
Nei tempi più antichi i Romani lasciavano crescere liberamente capelli, barba e baffi.
Nel II sec. a. C. dalla Sicilia vennero in Italia numerosi barbieri (tonsores), e l'uso di farsi la barba si diffuse rapidamente (con l'installazione dei negozi 'tonstrina').
Il III sec. a. C. (il secolo delle guerre puniche) segnò il trionfo del rasoio.
Dalla fine del III sec. a. C. al principio del II d. C., i Romani nel trattare la propria barba facevano un omaggio alla moda e anche agli dèi.
I giovinetti non si radevano la prima peluria, ma lasciavano che crescesse tanto da avere l'aspetto di una barba; allora quella prima barba veniva tagliata e consacrata, di regola, a una divinità (depositio barbae).
Deposta la prima barba si continuava a portare una barbetta (barbula) di cui i giovani eleganti avevano grande cura, e così sino ai quaranta anni (età in cui cominciano i primi fili bianchi).
Adriano, avendo il volto difettoso, si lasciò crescere la barba, e così ricominciò la moda di portare la barba lunga sino a che, sotto Costantino, risorse l'uso di radersi.
I capelli erano portati lunghi solo dai giovinetti liberi e dagli schiavi che facevano parte del servitorame di lusso.
Per quello che riguarda la pettinatura femminile, le giovinette si pettinavano molto semplicemente , raccogliendo i capelli in un nodo cadente sulla nuca o in trecce avvolte intorno alla testa; più complicate e più varie erano le pettinature delle signore maritate, suggerite dalle leggi della moda o dal capriccio personale.
Comunissime erano le parrucche, i capelli posticci, le tinture; non soltanto le donne le usavano, ma anche un gran numero di uomini.
Per ottenere quest'effetto si adoperava una tintura (sapo, spuma Batava), che rendeva le chiome rosse fiammanti.
Per fare posticci biondi erano tanto ricercati i capelli nordici che le chiome dei barbari divennero oggetto di un commercio attivissimo.
Greci e Romani scrivevano su papiro e su carta pecora (pergamena); ma i Greci facevano anche largo uso di cocci , i Romani di tavolette cerate.
Chi studiava la geometria tracciava figure su di una tavoletta cosparsa di sabbia.
Le prime fabbriche di carta di papiro sorsero in Egitto, dove cresce la pianta che fornisce alla lavorazione la materia prima.
I Romani perfezionarono i procedimenti di fabbricazione e riuscirono a rendere la superficie della carta perfettamente liscia, comprimendola col torchio o battendola col martello.
Il libro presso i popoli più antichi non esisteva.
Per raccogliere più pagine insieme si usava incollare le pagine una di seguito all'altra in modo da formare una lunga striscia che poi si avvolgeva formando un rotolo, antenato del nostro libro.
Agli inizi dell'età imperiale si cominciò ad usare diversamente la pergamena: si piegò, e si tagliò in modo da formare dei quaderni (quaterniones).
Questi quaderni, cuciti insieme e riuniti sotto una copertina, avevano l'aspetto simile al nostro libro.
L'alto costo della pergamena rispetto al papiro mantenne in vita per tutta l'età romana l'uso dei rotoli di papiro.
L'inchiostro era nero e si otteneva mescolando vari ingredienti: fuliggine di resina o di pece, feccia di vino, nero di seppia.
Si adoperava anche l'inchiostro rosso, ma solo nei libri per dare rilievo al titolo.
La resistenza dell'inchiostro variava secondo le qualità, alcune volte bastava passare sul papiro una spugna bagnata per togliere ogni traccia di inchiostro.
Per tracciare le lettere sul papiro e sulla pergamena ci si serviva di una cannuccia appuntita (calamus) o di una penna d'uccello (penna), quando il calamo si spuntava veniva temperato con un coltellino o si cambiava.
Biglietti, appunti, quietanze, si scrivevano su tavolette cerate (cerae); come varietà di tavolette di legno e di cera si fabbricavano tavolette di avorio.
Nonostante la relativa scarsità di materia scrittoria, nel mondo romano si scriveva moltissimo.
Circolava anche, in foglietti volanti, una pubblicazione che informava il popolo degli atti pubblici più importanti (forma modesta di giornale).
Nelle grandi famiglie vi era un numero di schiavi addetti a scrivere sotto dettatura la corrispondenza o a ricopiarla (servi ab epistolis); vi erano inoltre gli schiavi addetti a ricopiare i libri (amanuenses).
Negli ultimi anni della repubblica per l'acquisto dei libri si preferì ricorrere al libraio (bibliopola), comprando una copia che fosse disponibile, altrimenti commissionandola.
In Roma i librai erano numerosi e le loro botteghe si trovavano nell'Argiletum o nelle adiacenze.
Ogni libraio aveva a disposizione un gran numero di amanuensi, e, quando un'opera era molto richiesta, veniva dettata contemporaneamente a diversi.
Il numero delle biblioteche private era elevato.
Durante l'impero si cominciarono ad aprire grandi biblioteche pubbliche.
Nell'antichità la posta c'era, ma serviva solo alle autorità dello stato, dovendo le autorità residenti nella capitale essere sempre in contatto coi capi civili e militari delle provincie.
Lo stato assicurava la regolarità del servizio postale con lo stabilire lungo le strade più importanti e a determinati intervalli dei corrieri ovvero dei carri postali che velocemente consegnavano ciò che avevano ricevuto alla stazione postale più vicina.
L'esigenze di quel servizio erano curate dai magistrati addetti alle poste.
Essi avevano sotto si se un certo numero di impiegati.
I privati solo occasionalmente ottenevano il permesso di valersi della posta di stato.
Chi aveva molte relazioni politiche o finanziarie aveva propri schiavi come messaggeri privati (cursores).
Più spesso l'incarico del recapito era dato ad amici, a mercanti, a cursori forestieri provenienti dai luoghi dove la lettera era indirizzata.
Il contenuto rimaneva segreto e, poichè non esistevano buste la lettera veniva piegata in modo che lo scritto rimanesse nell'interno; si legava, poi, con un cordoncino e si sigillava.
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