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Immagini di Salò e della Resistenza - La seconda guerra mondiale




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1 Il trasferimento a Venezia.


Sin dai primi giorni dell'ottobre del 1943, Giuseppe Croce, l'allora direttore generale dell'Istituto Luce, iniziò a predisporre il trasferimento da Roma dell'ente e dei suoi dipendenti. Partirono diciotto vagoni, contenenti gli uomini ed i macchinari dell'Istituto, e furono diretti a Venezia. Non tutti gli operatori andarono al Nord, ma soltanto quelli più fedeli o quelli attratti soprattutto dalle invitanti paghe di 10.000 lire mensili per i più qualificati, e 5.000-5.500 per i tecnici di seconda categoria.

Lello Dongiovanni, in un'intervista raccolta da Argentieri, ha raccontato così la decisione di alcuni operatori di trasferirsi a Venezia:

«Eravamo ancora giovani, e solo una minoranza di noi credeva nel fascismo. Non volevamo perdere il lavoro: perciò accettammo i contratti offertici. Chi aveva una moglie e una famiglia da accudire restò a Roma. Noi che eravamo scapoli, partimmo e quasi tutti ci sposammo a Venezia[i]

L'organico del Luce fu diminuito approssimativamente ad un centinaio di persone ed alloggiato in varie pensioni ed hotel. Gli uffici, la redazione del cinegiornale, la direzione, le moviole, gli archivi e la sezione fotografica furono improvvisamente sistemati in Calle San Luca, all'albergo Bonvecchiati. Inizialmente, la sala di ristorazione fu adattata per ospitare la sala di sincronizzazione; mentre nei bagni furono sistemati i laboratori del Servizio Fotografico e l'archivio di circa diecimila negativi.

Per sopperire alla mancanza a Venezia di uno stabilimento per lo sviluppo e la stampa della pellicola, i redattori del Luce si valsero, per diversi mesi, di un piccolo laboratorio gestito da un collaboratore a Torino. Successivamente, nell'ottobre del 1944, il Luce fu dotato di una spaziosa residenza a Sant'Elena dei Giardini, nel cineborgo della Repubblica di Salò. Anche la reperibilità della pellicola, fornita dalla Ferrania, era fonte di diversi problemi, dovendo essa giungere da Milano[ii].

Rispetto alla precedente organizzazione dell'Istituto Luce, nei mesi della Repubblica Sociale Italiana, il Reparto Guerra non fu ripristinato. Le Attualità fotografiche costituirono dunque le uniche squadre operative del Luce, a cui era assegnata la funzione di documentare ufficialmente gli avvenimenti, nonché le vicende politiche ed istituzionali della RSI.

La produzione fotografica dell'Istituto Luce, nel corso della Repubblica Sociale, ammontò a circa 15.300 fotografie. Da una nota inviata a Mussolini[iii], in data 5 marzo 1945, si quantificavano infatti come 14.942 le fotografie scattate dalla nascita della RSI, a coprire la documentazione di circa 579 avvenimenti. Inoltre, da tali immagini erano state ricavate, fino a tale data, 45.523 copie diffuse alla stampa quotidiana e periodica, e nello stesso arco di tempo erano state utilizzate per allestire delle mostre fotografiche, concernenti temi d'attualità, in 26 città italiane.

Accanto all'Istituto Luce, operarono nella ripresa degli avvenimenti anche i vari fotografi tedeschi della Propaganda Kompanien dell'esercito, dell'aviazione, della marina e della Waffen-SS, presso le quali erano appunto distaccati i vari fotografi di guerra. I fotografi dipendevano dall'Oberkommando der Wehrmacht, cioè dalla sezione del comando supremo delle forze tedesche, incaricata della propaganda, ed a cui giungevano tutte le immagini, per essere sottoposte al vaglio della censura prima di poter essere distribuite alle agenzie di stampa. Furono circa 500.000 le fotografie di guerra scattate dalle PK sui vari fronti, nelle retrovie o nei paesi occupati dalle truppe tedesche, fra il 1939 ed il 1945[iv]. E furono proprio le PK a fotografare la liberazione di Mussolini, il 12 settembre del 1943, a Campo Imperatore sul Gran Sasso, ritraendolo rattrappito in un cappotto col bavero rialzato, intento a salire su di un piccolo aereo.

L'ampliamento degli sguardi fotografici aumentò anche la polisemia delle fotografie, e testimoniò le eventuali diversità o somiglianze, da parte delle PK e dell'Istituto Luce, nel messaggio politico affidato allo strumento fotografico, nell'interpretazione e nella rappresentazione del conflitto medesimo. Ma all'interno dello stesso Luce, esistettero soprattutto diversità e somiglianze fra la rappresentazione dei primi anni di guerra e la rappresentazione degli anni di Salò.


2 Le principali tematiche della rappresentazione.


L'Istituto Luce fotografò il primo congresso del PFR a Verona, il 14 novembre 1943, per poi concentrarsi su alcuni temi fotografici che ricorsero spesso nella produzione dell'Istituto Luce durante gli anni di Salò, come la rinascita delle forze armate, l'adesione dei giovani che numerosi si presentavano ad arruolarsi nelle caserme, la ribadita fratellanza con i tedeschi, le nuove armi messe a disposizione dall'alleata Germania, la crescente militarizzazione delle donne.

Anche se al Luce fu inizialmente demandato di visualizzare la politica di socializzazione che la Repubblica Sociale intendeva attuare, esso rappresentò, più che altro, una società civile che permanentemente veniva mobilitata in armi, essendo rivestita da una guerra che assumeva sempre più caratteri totalizzanti. L'estetizzazione delle masse era ormai sostituita da una rappresentazione fotografica che tendeva ad effettuare una vera e propria militarizzazione delle masse.

«Piumetto al vento, gamba sicura, muscoli d'acciaio, finalmente è rinato l'esercito nostro, agile, potente e sicuro. Eccola la nostra patria, al di qua del Garigliano, capace ancora di riunire, dopo l'onta e la disperazione, nuove armi, nuovi cuori, nuove speranze», era il commento orale di un cinegiornale Luce del febbraio 1944, che raffigurava un'adunata di bersaglieri.

Il Luce riprese i giovani mentre si recavano ai distretti militari, fotografando le varie fasi dell'arruolamento, da quando si sottoponevano alle visite mediche, a quando ricevevano le divise. Una volta inquadrati nei vari reggimenti, il Luce li fotografò in fila per la distribuzione del rancio, od intenti a baciare la bandiera giurando fedeltà alla RSI, per poi riprenderli durante le varie esercitazioni. La fotografia doveva testimoniare ed enfatizzare la rinascita e la potenza dell'esercito di Salò, pronto a difendere la patria contro «gli invasori anglo-americani» e «gli italiani traditori».

Per costruire l'immagine di un'intera società che aderiva alla RSI, il Luce fotografò spesso alcuni ragazzi di quindici anni rispondere agli appelli delle autorità militari della Repubblica Sociale, ed accorrere ad impugnare le armi per essere arruolati.

Se in alcune fotografie le donne erano ancora ritratte a recare fiori o doni ai vari soldati, o a distribuire il rancio agli stessi soldati di ritorno dagli addestramenti, ben presto tale immagine materna fu sostituita da una crescente militarizzazione della figura femminile. Il Luce fotografò le giovani donne, arruolatesi come Ausiliare o nei reparti femminili delle Brigate Nere, durante gli addestramenti sportivo-militare a cui erano sottoposte, durante i corsi per divenire radiotelegrafiste o dattilografe, riprendendole durante le cerimonie dell'alzabandiera o del cambio della guardia; mentre marciavano nelle esercitazioni o sfilavano compatte nelle vie delle città, od ancora si esercitavano a sparare, sostituendo ormai i fucili ai cerchi e ai palloni di una volta.  

Ma in molte fotografie delle sfilate delle truppe fasciste per le strade della città, risalta agli occhi come ad attenderli sui marciapiedi non vi fossero più le folle festanti di una volta, ma soltanto vie solitarie ed impaurite.

Nel frattempo, a Verona, l'8 gennaio 1944, iniziava il processo ai «traditori» del 25 luglio, ma fu vietato al Luce di riprendere le immagini del processo[v], così come fu vietata la diffusione di quelle riguardanti la fucilazione di Ciano, De Bono, Marinelli, Pareschi e Gottardi, avvenuta la mattina dell'11 gennaio 1944 nel forte Procolo. L'operatore del Luce Vittorio Abbati, infatti, si recò nel tribunale per filmare il processo, ma appena il presidente Vecchini lo scorse, gli intimò di sgomberare l'aula. Abbati, non rassegnandosi, riuscì ad entrare anche nel forte Procolo, ed a filmare i momenti dell'esecuzione, ma raccontò che il rullo della pellicola impressionata gli fu strappato dal federale di Verona, prima che egli riuscisse a lasciare la città. Secondo la testimonianza di Filippini[vi], la pellicola fu sviluppata nella massima segretezza, e fu inviata a Mussolini, il quale, dopo averla visionata, intimò che la documentazione dovesse essere bruciata. Sempre secondo Filippini, durante la permanenza a Venezia, lo stampatore Mele estrasse dalla pellicola le fotografie della fucilazione, raffiguranti i corpi uccisi e le sedie divelte sul terreno, che alla fine della guerra furono affidate agli americani e da questi diffuse, e che ancora oggi sono presenti nell'Archivio Fotografico dell'Istituto Luce.

Se negli anni precedenti, la sacralizzazione fotografica del culto del duce era stata diminuita, durante la Repubblica Sociale tale rappresentazione fu quasi totalmente interrotta. La decisione, d'altronde, era la conseguenza logica ed inevitabile della propaganda fotografica condotta negli anni precedenti. La personificazione della potenza del regime fascista nel corpo di Mussolini, d'altra parte, non poteva non crollare nel momento che tale corpo iniziava ad avere un peggioramento fisico.

Il Minculpop, in un primo tempo, aveva cercato di resuscitare l'immagine condottiera di Mussolini, diramando una disposizione, nel 1943, in cui si raccomandava di illustrare la ricorrenza del 28 ottobre con una «fotografia del Duce possibilmente con l'elmetto[vii].» Ma nessun elmetto, tuttavia, poteva rivitalizzare l'immagine di Mussolini, che, dimagrito e con gli occhi incavati in un viso sempre più ossuto, sembrava ormai lo spettro dell'uomo di una volta, e poteva incarnare per analogia l'agonia del regime di Salò.

A conseguenza di ciò, nel successivo novembre, sempre il Minculpop ordinò ai giornali di «non pubblicare più, fino a nuovo ordine, fotografie riguardanti il  Duce, se non diramate da questo Ministero[viii].» Durante il periodo di Salò, la fotografia del Luce fu chiamata in molte occasioni ad attestare la contrapposizione fra «l'Italia invasa», dipinta sempre in pessime condizioni, e «l'Italia repubblicana fascista», per enfatizzare la Repubblica Sociale come un baluardo di civiltà.

Questa propaganda di contrapposizione, più che alla fotografia stessa, era spesso affidata alle didascalie che venivano apposte su di essa. Così era per le fotografie del Luce che ritraevano «alcuni ragazzi russi venuti in Italia volontariamente a seguito delle nostre truppe», per essere «educati e inviati al lavoro dall'Istituto Artigianelli Don Orione». Od ancora, una fotografia del Luce, che ritraeva alcuni ragazzi intenti a pregare prima di iniziare il pranzo, era accompagnata da una didascalia che tendeva ad alimentare tale contrapposizione, e che così recitava: «Nell'Italia invasa dal nemico, come già avvenne nella Spagna, i bambini vengono strappati alle loro famiglie e deportati in Russia per essere "bolscevizzati": nell'Italia fascista fanciulli russi, che seguirono volontariamente i nostri soldati, vengono educati secondo i princìpi più umani e civili. La preghiera prima del pasto.»

L'attenzione per i bambini come una prerogativa del fascismo era enfatizzata anche attraverso le immagini del Luce che ritraevano i vari servizi dell'Opera Nazionale Maternità ed Infanzia, come le fotografie concernenti la distribuzione del latte, il servizio medico-ambulatoriale, il servizio di asilo nido assicurato alle mondine del lavoro. Anche in questa rappresentazione, le fotografie erano strumento della suddetta contrapposizione, come nel caso di una fotografia del Luce, diffusa il 13 dicembre 1944, che riprendeva alcuni bambini in colonia intenti a mangiare, e la cui didascalia specificava così:

«Mentre nell'Italia invasa i bambini si associano in bande di ladri e delinquenti e muoiono per inedia e malattie -"la mortalità infantile a Roma è del 4509 per 1000" dice la Reuter- nell'Italia repubblicana anche quest'anno le colonie dell'ONB hanno ritemprato decine di migliaia di piccoli italiani.»

Ad attestare come gli americani stessero riducendo l'Italia in schiavitù, gli apparati di propaganda della Repubblica Sociale si appropriarono anche di alcune fotografie di soldati americani. Dopo la conquista di Palermo, molti soldati americani, per fornire immagini rassicuranti ai propri familiari, erano soliti effettuare delle fotografie ricordo, a carattere quasi sempre folcloristico, fra le quali, la più diffusa, era quella in cui si facevano lustrare le scarpe da qualche sciuscià del meridione[ix]. La propaganda fascista e tedesca si appropriò di tale modalità rappresentativa, per stravolgerne il contenuto e le intenzionalità, e sottolineare così il servilismo che gli Alleati avrebbero sistematicamente imposto agli abitanti dei territori occupati.

Queste fotografie ispirarono un cartellone propagandistico, che fu affisso in quei mesi nel Novarese, che enfatizzava la schiavitù italiana e l'egemonia conquistatrice ed imperialista degli Stati Uniti. Il manifesto fascista[x] ritraeva un uomo dal viso arcigno, vestito elegante e con bombetta a stelle e strisce, che giocherellava con un immenso mappamondo, mentre un italiano in ginocchio gli puliva le scarpe, sotto gli occhi disperati e tristi di una donna e di un bambino. Nel manifesto era affissa una didascalia che recitava: «La libera America promette dollari e lavoro agli italiani; ma se 12 milioni di suoi lavoratori disoccupati vivono di sussidi, quale lavoro potrà dare ai popoli vinti se non servaggio e disonore?»

E quando la Repubblica Sociale produsse e diffuse, a mezzo di manifesti murali e cartoline, un'illustrazione disegnata da Boccasile, che ritraeva il soldato americano intento a saccheggiare un altare dominato da un enorme crocifisso, gli Alleati si affidarono alla fotografia per controbattere tale propaganda deleteria nei loro confronti. Gli operatori americani iniziarono così a produrre, e successivamente diffondere, una serie di fotografie che ritraevano i propri soldati nell'intento di pregare dentro le chiese, in posizione di silenzioso rispetto di fronte ad altari e crocifissi integri e non saccheggiati[xi]. Queste fotografie dovevano smentire e contrastare lo stereotipo del soldato americano irrispettoso e profanatore dei luoghi sacri italiani, che spesso era propagandato, appunto, dagli apparati di Salò.

La fotografia del Luce, invece, doveva ancora una volta testimoniare visivamente la propaganda fascista, che additava gli anglo-americani come i distruttori, attraverso i propri continui bombardamenti, dei tesori artistici e religiosi dell'Italia. Il Luce inviò in molte città i propri operatori, nell'aprile del 1944, a riprendere gli effetti dei bombardamenti. Ad Arezzo, gli operatori fotografarono i danni riportati sulla Chiesa di San Bernando, sul Portico Laterale con affreschi di Mano di Montepulciano, sul muro di facciata della Chiesa di San Pier Piccolo. A Prato, gli operatori fotografarono la casa col tabernacolo di Filippino Lippi, per poi andare a Figline di Prato, a fotografare un Soprintendente alle Galleria intento a ricostruire un affresco raffigurante una Madonna col Bambino. Nel gennaio del 1945, gli operatori si aggirarono invece a Verona, fotografando le varie opere d'arte danneggiate o distrutte dai bombardamenti anglo-americani[xii]. A volte, all'illustrazione sistematica degli effetti dei bombardamenti, si accompagnava l'enfatizzazione delle premure del regime di Salò, sia per la conservazione delle opere, sia per la ricostruzione di ciò che gli Alleati avevano danneggiato.

«Oltre 50 statue del Duomo sono state danneggiate in modo irreparabile dal bombardamento anglo-americano», era la didascalia che accompagnava, nell'agosto del 1944, le fotografie del bombardamento di Milano avvenuto nell'anno precedente. Alla distruzione dell'anglo-americano si contrapponeva la ricostruzione ad opera dell'Italia fascista, testimoniata dalle fotografie che nel medesimo mese venivano divulgate, e raffiguranti alcuni «operai specializzati adibiti a riparare i danni causati a centinaia di pezzi architettonici distrutti dalle schegge delle bombe.»

Negli anni di Salò, inoltre, si andò sempre più ad accentuare la rappresentazione del bombardamento come un martirio della popolazione dovuto dalla crudeltà dei bombardieri anglo-americani. Il Luce continuò sistematicamente a fotografare tutti gli effetti dei bombardamenti avvenuti sul suolo italiano, da Padova a Firenze, da Pistoia ad Ancona, da Castelfiorentino-Certaldo a Marghera. A Verona, dopo il bombardamento del gennaio 1944, il Luce fotografò, fra le macerie delle case, i cadaveri che venivano coperti da alcuni lenzuoli bianchi, e la preparazione delle bare di legno per trasportarli. Il Luce fotografò anche le persone scavare fra le rovine a trovare e riconoscere i cadaveri, nonché la disperazione delle persone fra le macerie di ciò che una volta erano le proprie case.

Ancor più ampia fu la documentazione sui bombardamenti avvenuti a Roma nel marzo del 1944, fotografando gli effetti di tali bombardamenti sulla parrocchia di San Benedetto, al quartiere Ostiense, sulla Casa della Maternità alla Garbatella, sul convento delle suore Orsoline o sull'asilo d'infanzia in via Lorenzo il Magnifico. A Pontelongo, presso Padova, gli operatori del Luce fotografarono i rurali rifugiarsi nei campi durante l'allarme aereo, riprendendo le case coloniche colpite, le madri che stringevano a se i figli, fotografando anche una bambina che era nata durante i bombardamenti. Nel luglio del 1944 gli operatori del Luce tornarono a Verona, per fotografare l'Ospedale Civile «colpito dalle bombe dei "Liberatori"» , riprendendo i vari padiglioni dell'edificio, nonché le suore, gli infermieri ed i ricoverati che «fuggono durante l'allarme». Ma alcune immagini furono, ovviamente, classificate come riservate e quindi non pubblicate.

Se gli effetti dei bombardamenti erano, in molte occasioni, ostentati per testimoniare e denunciare la criminalità degli Alleati; molti furono, invece, i temi sociali rimossi dalla fotografia del Luce. Primo su tutti fu senz'altro la lotta contro i «borsari neri» e «gli affamatori del popolo», un argomento esaltato nella stampa periodica e nella propaganda murale, attraverso diverse vignette, e che fu fotografato quasi sempre dai fotografi militari tedeschi, con ricorrenti immagini di mercati spontanei. 

Il Luce preferì, invece, raccontare visivamente l'attività assistenziale di alcune mense, per attestare gli interessi del regime verso i lavoratori. A tal fine, nel maggio del 1944, gli operatori del Luce fotografarono l'inaugurazione di una mensa collettiva a Milano nei pressi di Porta Vittoria, specificando nella didascalia che i servizi della mensa ammontavano a «500 pensioni, 3000 razioni giornaliere al prezzo di L. 4, compresi la minestra e secondo piatto.»

Gli operatori fotografarono gli interni delle cucine, il refettorio dalla capienza di 500 posti, la caldaia, le persone in fila in attesa dell'apertura e la successiva distribuzione delle vivande agli operai. Il Luce effettuò diversi servizi fotografici anche nelle mense aziendali, riprendendo le varie fasi della giornata, dalla preparazione del pane alle operaie riprese nel momento del mangiare come nel caso della Pirelli di Milano. Il Luce fotografò anche le mense assistenziali di Torino, situate negli stabilimenti della Fiat e Soc. Microtecnica. Anche in questo caso, le fotografie erano accompagnate dalla didascalia che quantificava i servizi nelle seguenti cifre di «conviventi giornalieri 1900, 5 sale di distribuzione vitto, 3 cucine, 1°  piatto, 2° piatto. Alloggio a L. 13 complessivo giornaliero. A sinistrati e sfollati bisognosi assistenza supplementare.»

Successivamente, nel mese di agosto, gli operatori del Luce fotografarono anche le «grandi razionali cucine Fiat per operai», che distribuiva «60.000 razioni giornaliere», riprendendo la cernita dei cereali, o le operazione di preparazione delle minestre, che venivano «poste in speciali bidoni per essere avviate al centro di distribuzione». Nello stesso mese si aggirarono a Torino in una «mensa allestita a cura del PFR», a fotografare la distribuzione al popolo della «minestra a L. 2.»

Anche le immagini di lavoro erano quasi sempre negate, ad esclusione di un servizio fotografico sulla pesca nell'alto Adriatico, effettuata con la scorta militare tedesca, riprendendo le varie fasi fino al rientro delle imbarcazioni a Chioggia. Minime erano le immagini sul lavoro in fabbrica, ove gli operatori del Luce spesso entrarono però a immortalare gli operai delle officine che, durante le pause di lavoro, erano compositi ad ascoltare i comizi volanti di propaganda delle sezioni locali del Partito Fascista Repubblicano, o le distribuzioni dei doni ed i concerti organizzati sempre dal PFR.

Ancora più negata fu infine l'esperienza della Resistenza. Rare furono le fotografie del Luce a proposito, e per il più concentrate a raffigurare alcune azioni di rastrellamento e gli interrogatori degli uomini della X Mas, con l'intento di encomiare l'opera di polizia dei soldati. Più accurato era poi il servizio fotografico che illustrava un'azione della Guardia Nazionale Repubblicana in Slovenia, di cui il fotografo riprese tutte le fasi, dalla cattura all'esecuzione del partigiano. Ancor più negate erano le azioni dei partigiani, ad esclusione delle fotografie che riprendevano il funerale di Gentile, ucciso dai partigiani dei GAP di Firenze.


3 La politicizzazione della morte.


Se nella fotografia ufficiale dell'Istituto Luce, l'esistenza dei partigiani era soltanto sfiorata, la loro morte era invece ostentata nelle fotografie sia delle squadre fasciste, sia soprattutto degli operatori delle PK. Le fotografie dei partigiani morti appartenevano ad una più ampia politicizzazione della morte. L'intento affidato a tali fotografie era di confermare, sia a se stessi sia agli avversari, la propria intatta capacità di dominio e l'efficienza dei propri apparati militari. L'ostentazione di tali corpi doveva testimoniare la potenza delle proprie squadre, e rappresentare, perciò, un monito per la popolazione, e per gli stessi partigiani, affinché essi si astenessero dal compiere alcuna azione politica o di ribellione, pena la rappresaglia contro i civili del luogo o gli esponenti politici della Resistenza.

Simili fotografie rientravano anche in una più ampia messa in scena della morte, con la quale non si uccideva soltanto la persona, ma anche la sua dignità, la sua umanità[xiii]. Una demonizzazione del nemico che, attraverso l'affissione del suo corpo con ganci da macellaio, si spingeva fino a degradarlo al rango di un animale.

Ma simili immagini riflettevano anche la feroce aggressività dei tedeschi e dei fascisti, che sapendo ormai di aver perduto la guerra, riversavano tutta la loro rabbiosa rivalsa sui nemici e sulla popolazione. Le fotografie di tali eccidi testimoniavano l'atroce violenza dettata dalla conoscenza della propria ineluttabile sconfitta, e molte di esse furono successivamente utilizzate dai tribunali come strumento di prova ed individuazione dei responsabili dei vari eccidi.

Alla fotografia della morte come monito apparteneva la drammatica sequenza dell'esecuzione di quarantadue partigiani a Villamarzana, il 15 ottobre del 1944, documentata dal fotografo privato Pavanello[xiv], dietro la commissione del comando della Guardia Nazionale Repubblicana e della Brigata Nera di Rovigo. Pavanello fotografò il macabro rituale dell'esecuzione, con i partigiani che venivano apposti di fronte alla casetta di un barbiere, sul cui muro era scritto a grosse lettere «primo esempio», per poi riprendere anche i corpi senza vita sul terreno, prima di essere ammassati su un camion per essere portati via.

Ancor più cruenti furono le fotografie scattate da un militare della X Mas, e ritraenti l'impiccagione in piazza di Ferruccio Nazionale. Egli fotografò i vari momenti dell'impiccagione, da quando i fascisti scaricarono il corpo da un camion a quando il partigiano fu appeso ad un lampione con al collo un cartellone, su cui era scritto: «Aveva tentato con le armi di colpire la decima.»

Ma se la morte del nemico era ostentata in tali macabre messe in scena, i fotografi delle squadre fasciste non ritraevano mai le vittime degli attentati partigiani, per negare appunto l'esistenza degli stessi. Più sistematica ancora era la rappresentazione delle rappresaglie da parte degli operatori delle PK.

Quando il 23 marzo 1944 vi fu l'attentato gappista in via Rasella di Roma, le PK fotografarono le fasi del rastrellamento, riprendendo i soldati tedeschi pattugliare la strada con le spalle al muro ed i fucili puntati alle finestre delle case. Successivamente, essi fotografarono le persone schierate davanti la cancellata del Palazzo Barberini, controllate a vista dai fucili dei soldati del III battaglione del Polizei-Regiment Bozen e del battaglione Barbarigo della X Mas[xv]. Se queste fotografie riprendevano essenzialmente il momento delle indagini nelle vie, la morte appariva in tante altre fotografie. A Barletta, il 12 settembre 1943, gli operatori tedeschi prima fotografarono il momento della cattura di un gruppo di carabinieri e militari italiani, e successivamente fotografarono i cadaveri stesi sul selciato di dodici guardie municipali, fucilate dai paracadutisti della I° Fallschirm-Division.

Furono ancora i tedeschi a fotografare i corpi dei quindici antifascisti uccisi durante la rappresaglia di Piazzale Loreto. Nelle fotografie compaiono i visi dei militi della brigata autonoma Ettore Muti, posti di picchetto davanti ai corpi senza vita stesi sul terreno. Furono ancora gli operatori delle PK, il 16 agosto 1944, a fotografare l'impiccagione pubblica di tre partigiani[xvi] in una piazza di Rimini, riprendendo le persone che si soffermavano a guardare i tre corpi appesi ad una trave di legno, con sullo sfondo le macerie dei precedenti bombardamenti.

Se il Luce ignorava i partigiani nelle sue fotografie, tuttavia, alcuni operatori dell'Istituto mantennero contatti con alcuni mandatari del CLN, con l'intento di salvaguardare il materiale foto-cinematografico contenuto negli archivi da eventuali tentativi di trafugamento ad opera dei tedeschi[xvii]. L'operatore Filippini iniziò a tenere stretti contatti con Geo Taparelli del CLN, ricevendo il mandato di controllare la situazione all'interno del Luce e di tenersi pronto a proteggere i macchinari e gli archivi dell'Istituto. A tal fine, anche il regista Ferroni manteneva contatti con gli esponenti della Resistenza; mentre all'interno del CLN spiccava, in tale operazione di salvaguardia del Luce, il critico e storico del cinema Francesco Pasinetti.

Pasinetti, infatti, era informato di tutti i movimenti interni al Luce, e delle varie intenzioni che venivano proposte ai danni di esso. Si iniziò così un'opera di occultamento in magazzini lontani dai teatri di posa e sconosciuti ai tedeschi. Ed avvenuta l'insurrezione, il 28 aprile alcune squadre armate guidate da Tapparelli occuparono il Luce, effettuando così il salvataggio del materiale foto-cinematografico da una probabile distruzione.

Realizzatasi la Liberazione, il Luce si aggirò per le vie di Venezia a fotografare le truppe alleate entrare nella città, ritraendo le sfilate di masse festanti sopraggiungere nelle piazze, per poi fotografare i primi rastrellamenti contro i fascisti, e le operazioni per risistemare il Leone ed i cavalli nella Basilica di San Marco. Anche a Milano qualche operatore fotografò i partigiani sfilare per le strade, od i cartelli inneggianti alla Repubblica Socialista, o con sopra impresse le scritte «iscrivetevi al PSIUP.»

Se gli operatori del Luce fotografarono a Mestre il Tribunale del popolo della brigata Garibaldi processare e condannare alcuni fascisti, e successivamente il momento della fucilazione dei medesimi; essi non produssero nessun'immagine sulla morte di Mussolini. Le ultime fotografie scattate a Mussolini[xviii] dal Luce lo ritraevano ad ispezionare i battaglioni della Guardia Nazionale Repubblicana, o durante il «discorso della riscossa», tenuto il 16 dicembre 1944 al Teatro Lirico di Milano, dove gli operatori dell'Istituto cercarono di perpetuare l'immagine condottiera del duce, fotografandolo ad innalzarsi sopra di un carro armato, per poi parlare alle persone situate sotto il balcone del teatro.

Furono, infatti, i fotografi privati come Carrese o Toscani che, insieme agli operatori fotografici aggregati alle squadre americane dei Combat Film, ripresero le immagini dell'impiccagione dei corpi di Mussolini e della Petacci a Piazzale Loreto. Ed il corpo di Mussolini, che per anni era stato osannato dalla propaganda come un prototipo da emulare, e raffigurato dalle fotografie del Luce come l'incarnazione di speciali virtù e determinati modelli di comportamento, ora diveniva il bersaglio dell'odio della popolazione, che scaricava su di esso la rabbia e la povertà causate dalle sofferenze degli anni di guerra.

I fotografi ripresero la folla affluire a Piazzale Loreto, a contemplare i corpi appesi a testa in giù alla struttura di un distributore di carburante, riversando in certi casi la propria violenza contro di essi, per poi fotografare da vicino i visi di Mussolini e della Petacci tumefatti dalle pallottole. Gli operatori si aggirarono tra la folla che gremiva la piazza, per poi riprendere, da una finestra su Corso Buenos Aires, alcuni momenti del tragitto del camion che trasportava i cadaveri all'obitorio, ed il transito di un piccolo mezzo blindato.

Alcune di queste fotografie furono edite e diffuse sotto forma di cartolina, dietro l'autorizzazione dell'Ufficio propaganda del Corpo Volontari della Libertà di Milano[xix]. Ed all'indomani della Liberazione, si creò così un vero e proprio mercato delle fotografie di Piazzale Loreto.

E quelle edicole e cartolerie, che per tutto il Ventennio avevano venduto ritratti e cartoline di Mussolini, alimentandone così il culto nella popolazione, ora rifornivano i propri clienti con le fotografie di Mussolini appeso per i piedi o steso senza vita sul selciato del piazzale, impugnando in mano un gagliardetto fascista od un labaro.

Il commercio delle fotografie di Piazzale Loreto assunse una tale consistenza da esigere, ai primi del giugno 1945, un intervento da parte dell'allora prefetto di Milano, Riccardo Lombardi, a disporre l'immediato sequestro presso le cartolerie e «in qualsiasi luogo pubblico» di tale materiale fotografico[xx].

La fine della guerra rappresentò anche la fine del monopolio fotografico del Luce. Un monopolio, che spesso era già stato bersaglio di critiche durante gli anni Trenta, e che era sopravvissuto soprattutto per l'azione e l'interessamento dello stesso Mussolini.

Gli operatori del Luce, negli anni successivi al dopoguerra, continuarono a documentare gli avvenimenti politici della nazione. Essi fotografarono le varie forze politiche che visitarono gli archivi dell'Istituto, come i rappresentanti degli Alleati, del CLN, od un giovane Andreotti fotografato all'interno della sede nel 1948. Gli operatori fotografarono la seduta inaugurale della Costituente, riprendendo le varie personalità politiche che affluivano a Roma per parteciparvi, per poi illustrare la lotta contro le cavallette in Sardegna, od il funerale di Maria Goretti.

Il Luce fotografò, per la prima volta nella storia dell'Istituto, una protesta dei disoccupati in piazzale Roma a Venezia ed un congresso del Partito Socialista, per poi riprendere a documentare temi più consoni alla sua tradizione iconografica, come il giuramento del nuovo governo a Palazzo Madama, le visite ufficiali di De Nicola in giro per l'Italia, la partenza di De Gasperi per l'America.

Ma le riprese fotografiche furono sempre più diminuite, per poi essere totalmente interrotte nel 1953, sotto l'azione e la crescente importanza del fotogiornalismo privato, organizzato nelle varie agenzie[xxi] che in quegli anni si ampliarono e si svilupparono. Tuttavia, la metodologia fotografica del Luce nella ripresa ufficiale degli avvenimenti politici sopravvisse nel corso degli anni, rimanendo una tipologia visiva a cui, per certi versi, molti modelli di propaganda s'ispirarono anche nel dopoguerra..





















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Cap. 3 Immagini di Salò e della Resistenza.


[i] L'intervista è riportata in Argentieri M., L'occhio del regime, pag.189.

[ii] Nel 1944 un furgone che trasportava a Venezia la pellicola fu intercettato ed assalito, e nello scontro lo stesso autista, un certo Gatti, fu ucciso. Il Luce fu oggetto anche di un attentato dimostrativo, senza riportare alcune vittime, quando i partigiani fecero esplodere una bomba all'albergo Bonvecchiati.

[iii] Conservata in ACS, SPD, RSI, Carteggio Riservato, b.35, f. Appunto per il Duce del servizio fotografico dell'Istituto Luce. Venezia, 5 marzo 1945.

[iv] Per l'archiviazione di tali fotografie esistono tre fondi: il Bild 101 I, che raccoglie le fotografie scattate dalle compagnie di propaganda dell'esercito e dell'aviazione; il Bild 101 II, che raccoglie quelle provenienti dalla marina; il Bild 101 III, che infine detiene la produzione delle compagnie di propaganda della Waffen-SS. A causa delle ingenti perdite subite durante la guerra e nel dopoguerra, il fondo Blind 101, conservato a Coblenza, è composto oggi da circa 1.100.000 fotografie restituite dagli Stati Uniti al Bundesarchiv nel 1962.

[v] Nell'Archivio Fotografico Luce sono conservate tuttora soltanto le fotografie dell'inizio del processo, con ritratto in primo piano l'avvocato Aldo Vecchini, presidente del tribunale.

[vi] Vedi Argentieri M., L'occhio del regime, pag.198. In anni recenti, una copia della pellicola girata da Abbati è stata rinvenuta nell'Archivio Centrale dello Stato di Roma, tra i materiali di un versamento effettuato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

[vii] Disposizione del 27 ottobre 1943 riportata in Matteini C., Ordini alla stampa, pag.320 e in Mignemi A., L'Italia s'è desta, pag.74.

[viii] Disposizione del 6 novembre 1943 riportata in Matteini C., Ordini alla stampa, pag.322 e in Mignemi A., L'Italia s'è desta, pag.74.

[ix] L'immagine dello sciuscià era molto diffusa nella rappresentazione fotografica dei viaggi nell'Italia meridionale. Anche Primo Carnera e la moglie, durante il loro viaggio di nozze, furono fotografati da Amoroso, in riva al mare di Mergellina, mentre uno sciuscià lustrava le loro scarpe, indicando poi la differenza di lunghezza fra i loro piedi.

[x] Il manifesto, realizzato da Coscia, è pubblicato in Mignemi A., L'Italia s'è desta, pag.324.

[xi] La fotografia è pubblicata in Mignemi A., La seconda guerra mondiale. 1940-1945, pag.115.

[xii] Le opere d'arte e gli edifici indicati nelle didascalie erano: la Chiesa di San Sebastiano, il Palazzo Bertani, Santa Maria della Scala, Palazzo Accademia, Cassa di Risparmio, Banca Commerciale, Biblioteca Capitolare, Casa Romantica in Santi Apostoli, Castel Vecchio, Chiesa di San Bernardino, Palazzo Diamanti.

[xiii] Vedi Isnenghi M., L'esposizione della morte, in Ranzato G., Le guerre fratricide, pag.330-352.

[xiv] Tali fotografie furono utilizzate dalla Corte d'Assise straordinaria, nel corso del procedimento penale del dicembre del 1945 contro i responsabili dell'eccidio. Tuttora sono visibili i nomi di Tiezzi e Zamboni, annotate a penna accanto alla loro figura nella fotografia.

[xv] In alcune fotografie concernenti l'eccidio delle Fosse Ardeatine del 24 marzo 1944, dove furono uccise 335 persone, sono visibili le mani delle vittime legate con fili e corde dietro le schiene. Per uno studio sistematico sugli avvenimenti di quei giorni a Roma, concernente sia la dinamica dell'attentato di via Rasella sia le violenze nazi-fasciste, vedi Troisio A., Roma sotto il terrore nazi-fascista e Katz R., Morte a Roma.

[xvi] I tre partigiani si chiamavano Luigi Nicolò, Adelio Pagliarini, Mario Cappelli. La piazza è attualmente intitolata Piazza dei tre martiri.

[xvii] Vedi L'Inviato, Memoriale per l'Alto Commissario all'Epurazione - Cento milioni rubati, in Film d'oggi, Milano, Anno I, n.8, 11 agosto 1945, pag.8.

[xviii] Sembra che l'ultima fotografia di Mussolini vivo sia stata probabilmente scattata a Milano da un operatore privato il 25 aprile 1945, riprendendo Mussolini al rientro in Prefettura dall'Arcivescovado.

[xix] Tali cartoline, oltre a voler costituire un eventuale ammonimento per il futuro nei confronti di chiunque volesse emulare le gesta di Mussolini, intendevano anche rendere universalmente noti il rovesciamento e la desacralizzazione di Mussolini e del suo regime. E se alcuni partigiani avevano fatto impugnare al cadavere di Mussolini un labaro, alcuni anglo-americani, invece, fotografarono i corpi senza vita di Mussolini e della Petacci abbracciati sul pavimento dell'obitorio, per costruire immagini di carattere sensazionalista ad uso e consumo dei propri tabloid nazionali.

[xx] Vedi Luzzatto S., Il corpo del duce, pag.72.

[xxi] Fra le agenzie fotografiche italiane le più importanti furono la Publifoto di Vincenzo Carrese o l'Agenzia Fotografica Farabola di Tullio Farabola. A livello internazionale, nel 1947 Henri Cartier-Bresson, insieme ad altri fotografi, tra i quali spiccava Robert Capa, fondò l'agenzia Magnum Photo, destinata alla registrazione ed alla distribuzione delle immagini, e dotata di una struttura che fornisse garanzia di difesa e riconoscimento della professionalità del fotografo alle persone che vi appartenevano. Conclusasi l'esperienza della Sezione Fotografica, l'Istituto Luce, nel corso degli anni, ha acquisito diversi fondi fotografici di provenienza altrui. Il Luce, ad esempio, conserva nei suoi archivi il fondo DIAL Press, composto da fotografie di cronaca, spettacolo (fuori dal set), sport e politica (fuori dal parlamento), scattate fra il 1956 ed il 1964. Negli ultimi anni, inoltre, sono stati acquisiti fondi fotografici concernenti la produzione italiana dal secondo dopoguerra ad oggi, di cui si sta concludendo l'opera di catalogazione.

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