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UMBERTO SABA
Umberto Saba nasce a Trieste nel 1883 da Rachele Coen, ebrea, e da Ugo Poli, che abbandona la famiglia prima ancora della nascita del figlio. Da grande, Umberto rinuncerà al cognome paterno per assumere quello di Saba. Il nome, che in ebraico significa "nonno", potrebbe rimandare alla figura del bisnonno che era un letterato, oppure può essere stato suggestionato dall'assonanza col cognome dell'amatissima balia slovena Gioseffa Schebar.
Dopo il ginnasio Saba abbandona gli studi, la sua formazione culturale e letteraria è così da autodidatta. Incominciano a manifestarsi in lui eventi di nevrastenia che lo affliggeranno per tutta la vita, provocandogli periodici stati di depressione alternati a momenti di maniacale ipereccitazione. Nel 1905 incontra e sposa Carolina Wolfler, la donna che gli ispirerà tante poesie: dall'unione nasce Linuccia, l' unica figlia. Alla fine della guerra mondiale Saba rileva una libreria in Via S. Nicolò, dove per vent'anni alternerà alla produzione di poesie un fervido e partecipato commercio di libri antichi e moderni. Negli anni Venti entra in rapporto con altri letterati, come Svevo e Montale. Seguiranno però anni difficili per Saba e la sua famiglia: dapprima sempre più frequenti crisi depressive lo inducono ad affidarsi alle cure psicoanalitiche, poi le persecuzioni razziali lo costringono ad allontanarsi dalla comunità israelitica e a ricorrere alla sua doppia origine per evitare conseguenze più gravi. Privato della possibilità di svolgere il suo lavoro di libraio, nel 1943 fugge a Firenze con la famiglia, ma dovrà continuamente cambiare domicilio per non cadere nelle mani dei nazisti. Saba si trasferisce poi a Roma e qui si avvicina al Partito comunista. La sconfitta delle sinistre alle elezione del 1948 lo getta in un profondo stato di angoscia e di rassegnato isolamento, per combattere il quale inizia a fare uso di stupefacenti.
Affronta numerosi tentativi di disintossicazione e viene ripetutamente ricoverato in clinica. Nello stesso momento la sua nevrastenia diventa sempre più aggressiva. Nel 1957, dopo la morte della moglie e sempre più grave per la sua situazione, muore in una clinica romana.
OPERE
"Il CANZONIERE è la storia, il romanzo psicologico, di una vita povera di avvenimenti esterni; ricca a volte, fino allo spasimo, di moti e di risonanze interne." Così, Umberto Saba, celato dietro lo pseudonimo di Giuseppe Carimandrei, commentava nel 1948 la propria opera in Storia e cronistoria del Canzoniere, sintetizzando i caratteri di una delle più originali avventure poetiche del Novecento.
Il romanzo del Canzoniere ebbe diverse edizioni, vivo il poeta, nel 1921, 1945, 1948 e 1951, e altre postume, fino alla più recente del 1968. E' articolato in capitoli che seguono la storia della vita del poeta, come una sorta di diario le cui pagine non procedono per semplici aggiunte e ampliamenti, ma compongono un organismo rigorosamente unitario e coerente. L'edizione definitiva del Canzoniere del 1961 risulta divisa in tre parti. La prima parte comprende le poesie composte tra il 1900 e il 1920, confluite nella prima edizione dell'opera, suddivise in nove sezioni, e rivela già la presenza dei temi e dei caratteri stilistici peculiari della poesia di Saba: luoghi come Trieste e la sua gente, l'attenzione alla vita quotidiana, l'amore per un contatto semplice e immediato con le cose, espressioni nel linguaggio quasi prosaico di una poesia che vuol essere programmaticamente, fin da allora, poesia di cose e non di parole.
La seconda parte del Canzoniere comprende le poesie composte tra il 1921 e il 1932. Complessivamente tutta la parte è caratterizzata da una più forte presenza tematica dell'io, autobiografico e psicologico. A ciò si può aggiungere la crescente nevrosi di Saba, che arriva talvolta a credere fermamente di essere ormai prossimo alla morte. La sezione Cuor morituro ospita temi insistenti come la malattia, il dolore, la morte avvertita come incombente minaccia, lo strazio di abbandonare una vita fatta di cose un tempo tanto amate. Infine, per l'importanza tematica riservata al rapporto ambiguo, ma fecondo di ispirazione, del poeta con la psicoanalisi, è da ricordare la sezione Il piccolo Berto.
La terza parte del Canzoniere comprende le poesie composte tra il 1933 e il 1954. Sono anni in cui il poeta attraversa stati d'animo e condizioni di vita diversi: da un raggiunto equilibrio interiore ai momenti in cui la tragica esperienza delle persecuzioni razziali propone come via di fuga solo la memoria di un tempo lontano, biografico o mitico, rifugio consolatorio del dramma del presente; fino alle poesie degli ultimi anni, dove prevalgono la stanchezza e il progressivo affievolirsi di una voce sempre più chiusa in se stessa e nell'angoscia della nevrosi, a riflettere faticosamente sul senso della vita e della poesia.
Semplicemente straordinaria appare la coerenza poetica del Canzoniere, nonostante comprenda l'arco di cinquant'anni di vita del poeta. Il nodo centrale di tutta la poesia di Saba è certo l'amore alla vita, la "calda vita" vibrante e seducente come un vasto gioco che il poeta vuole bramosamente provare. La vita del poeta è la vita di tutti, la vita delle cose, degli animali, della folla, che egli sente scorrere dentro di sé e dargli voce; ed è la vita quotidiana della gente semplice e comune che popola la strada, il porto, l'osteria, lo stadio o il cinema.
L'amore per la vita non è però un amore senza contrasti: esso pure, come ogni amore, ha le sue pene profonde e segrete, le sue angosce, i suoi tormenti, che fanno sì che "bere al calice della vita" sia un'esperienza perlopiù amara. Ma l'uomo non può che accettare questa condizione e vivere la sua vita il più possibile aperta e piena, pur se dentro il cuore cova il segreto dolore di un uomo di pena che soffre. La poesia diviene allora anzitutto un sollievo alla pena, caricandosi di un profondo valore sociale. Al poeta è data soprattutto una qualità: l'onestà.
Nei suoi componimenti dedica spazio alle donne e in particolare agli adolescenti: a essi Saba dedica molte tra le sue liriche più efficaci, ora inebriandosi all'acerba seduzione della fanciulla, ora elevando la freschezza impetuosa del fanciullo a mitico paradigma della giovinezza, luce bellissima e breve della vita. Alcuni personaggi spiccano: sono Lina e Linuccia, la moglie e la figlia, presenze dominanti.
Accanto alle persone, domina anche un luogo: Trieste, città che il poeta ama sia perché è la sua città sia per la sua posizione, la storia, la vita che la popola.
Saba si riconosce lontano dagli ermetici, in nome della semplicità e della chiarezza. Questi due attributi sono tipici di un fanciullo. Infatti anche Saba, come Pascoli, analizza l'infanzia e la descrive come qualcosa che bisogna conservare nonostante il processo della vita tenda a distruggerla. "Il poeta è un bambino che si meraviglia delle cose che accadono a lui stesso, diventato adulto. Solo là dove il bambino e l'uomo coesistono, in forme il più possibile estreme, nella stessa persona, nasce il miracolo: nasce Dante. Dante è un piccolo bambino, continuamente stupito di quello che avviene ad un uomo grandissimo; sono veramente "due in uno"." Da Prime Scorciatoie di Saba.
Il problema dell'infanzia rimanda direttamente al rapporto di Saba con la psicoanalisi e con la sua vicinanza al pensiero freudiano. Prima tra tutto è angosciato dal rapporto tra padre-madre, ma anche da quello tra sensualità e amore e fra individuo e umanità, che nella poesia sabiana si rispecchia nel conflitto tra l'io lirico e coralità epica.
TESTI
Trieste è tra i temi più cari a Saba. Il poeta intrattiene con la città un rapporto tutto speciale: l'ama non perché è la sua città, ma per le sue vie, colori, per la sua brulicante umanità, per il suo porto. Qui il poeta ritrova la pienezza di quella "calda vita" di cui fece prima esperienza nella solidarietà forzosa della caserma e che in Trieste ritrova più libera e più piena. Trieste è per Saba un luogo privilegiato anche per il suo carattere contraddittorio di città portuale, aperta, disinibita e sempre giovane di vita nuova e fresca, ma al tempo stesso città riservata e diffidente, graziosa di una grazia scontrosa e acerba. In questi aspetti Saba ritrova la sua anima, da una parte tesa a immergersi nel flusso della folla, dall'altra bisognosa di isolamento e solitudine. Ad ogni via, nome o strada Saba fa corrispondere un suo preciso stato d'animo e una determinata sensazione.
Ho attraversata tutta la città.
Poi ho salita un'erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all'ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un'aria strana, un'aria tormentosa,
l'aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.
La lirica appartiene alla prima parte della raccolta ed è collocata nella terza sezione dal titolo Trieste e una donna.
Schema metrico: strofe libere, frequenti rime baciate. La rima baciata viene introdotta per contrastare chi aveva soppresso la rima, c'è un ritorno alla tradizione. Sono presenti molti enjambements. La lirica composta da tre strofe, parla del complesso amore del poeta per la sua città. Nelle strofe si susseguono tre principali sequenze: il poeta usa per prima la sequenza narrativa, poi quella descrittiva e infine si ha una riflessione, Saba ci esterna la sua sentenza personale e conclusiva. Nella prima strofa il poeta racconta di una camminata per i quartieri di Trieste che lo induce a scrivere la poesia. Alla fine della passeggiata Saba giunge al luogo solitario da cui guarda la città e la racconta. Nella seconda strofa Saba propone una serie di notazioni sui luoghi della città e la paragona ad un ragazzaccio aspro e vorace, per dire che la città è scontrosa e ingorda di vita. Nella terza strofa, Saba ribadisce che Trieste è una città viva, animata, però conserva anche un angolo tranquillo, fatto apposta per lui e per i suoi momenti di riflessione, quando vuole stare da solo, con calma e tranquillità.
Nella lirica Saba usa aggettivi sereni e vitali e altri invece inquietanti per descrivere la città. L'erta è prima popolosa e poi deserta, la grazia della città è scontrosa, della spiaggia si dice che è ingombrata, la cima è sassosa, infine l'aria è strana, tormentosa e natia. Centrale nella poesia è l'ossimoro scontrosa/grazia che definisce il rapporto che intercorre tra Saba e Trieste: un rapporto d'amore, ma anche di diffidenza e di distanza. Tali sentimenti vengono sottolineati dall'utilizzo del toponimo che compare una volta sola, nella seconda strofa, mentre nella prima e nella terza si trova il termine generico città. In generale, tutta la poesia si basa su campi semantici ossimorici.
Il quadro triestino che Saba ci offre non è descritto con intenzioni naturalistiche, ma in chiave soggettiva, in accordo con l'autobiografismo che caratterizza tutto il Canzoniere. Il poeta vede la città in modo contraddittorio, ambiguo e dualistico. La consapevolezza della coesistenza di momenti opposti, positivi e negativi, nella vita di tutti gli uomini è una caratteristica costante della poesia "onesta" di Saba: egli sa che con l'amore nella vita coesiste anche il dolore, come in Trieste coesistono il bene e il male. Attraverso l'onestà della poesia si riesce a conoscere il mistero della realtà e a prendere coscienza della duplicità del proprio sentire, ad accettare la vita e ad amarla per quello che è.
Città vecchia
Spesso, per ritornare alla mia casa
Prendo un'oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
Qualche fanale, e affollata è la strada.
Qui tra la gente che viene che va
Dall'osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l'infinito
nell'umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
Che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d'amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s'agita in esse, come in me, il Signore.
Qui degli umili sento in compagnia
Il mio pensiero farsi
Più puro dove più turpe è la via.
In questa poesia emergono elementi personali dello stesso poeta ed elementi collettivi. Uno di questi, che unisce Saba all'umanità, è il dolore. Le parole chiave amore/dolore/Signore, rimandano alla capacità propria del poeta di amare il dolore altrui, è la chiave che gli consente di penetrare nei misteri dell'assoluto, dell'infinito, di quella verità immutabile celata al fondo della "calda vita". Ecco dunque per quale ragione in Saba l'esperienza del passaggio attraverso le turpi strade di Trieste non rappresenta una discesa agli inferi, ma piuttosto un processo di rigenerazione e purificazione che ha come scopo un ritorno a casa simboleggiante una riconciliazione definitiva tra il poeta e l'umanità, tra il poeta e la vita, tra il poeta e il Signore. Anche in questa lirica, come in Trieste, il testo è diviso in tre parti: quella narrativa, all'inizio, quella descrittiva ovvero la parte che descrive il porto e la sentenza conclusiva, che inizia con l'ultima strofa. In questa poesia emerge una somiglianza tra gli uomini e le merci: come le merci arrivano al porto, così gli uomini riescono ad entrare nella società. Nel verso 20, il primo dell'ultima strofa, possiamo riconoscere un'anastrofe in quanto le parole del verso sono messe in ordine sparso. Nell'ultimo verso invece compare un ossimoro: puro/turpe.
La capra:
Ho parlato a una capra.
Era sola
sul prato, era legata.
Sazia d'erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell'uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi,prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una
voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.
La lirica si apre con un'apparenza di scherzo, il fatto che il poeta parli con una capra sembra irreale e divertente. Proseguendo nella lettura della poesia si capisce però che la capra è un simbolo: descrive il dolore, un dolore che colpisce dentro, va al di là delle esigenze materiali. Nella seconda strofa il gioco allegorico si fa ancora più evidente in quanto il poeta scrive: il dolore è eterno, ha una voce e non varia. Questo sottolinea una condivisione della sofferenza: quando uno soffre, soffre come chiunque altro. Nell'ultima strofa Saba scrive: in una capra dal viso semita, questo aggettivo si pensa si riferisca a sua madre che era di origine ebrea e quindi alle persecuzioni razziali, in realtà è solamente una descrizione visiva.
Dopo le violenze
della Seconda Guerra Mondiale e il periodo di forte repressione instaurato dal
fascismo, fu consequenziale l'esigenza di redigere un documento che desse a
tutti gli individui appartenenti all'Italia gli stessi diritti, indipendentemente
da razza, religione o cultura. Fu così che sessant'anni fa entrò in vigore
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