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70 a.C.
Nasce ad Andes
41-39 a.C.
Compone le Bucoliche
37-31 a.C.
Compone le Georgiche
29 a.C.
Inizia la stesura dell'Eneide
Di umili origini, si recò a Roma dove sentì vivo il richiamo della poesia e della filosofia e strinse amicizia con Asinio Pollione e Cornelio Gallo. A Napoli, alla scuola di Sirone, si applicò allo studio della filosofia di Epicuro. L'espropriazione dei terreni natii a seguito della battaglia di Filippi, la contrapposizione della serenità della vita agreste al disordinato tumulto della lotta politica e civile, l'identificazione dell'ideale di vita epicureo nella pace dei campi e l'esperienza letteraria degli idilli teocritei sono alla base delle Bucoliche o Egloghe, 10 componimenti in esametri caratterizzati dalla genuinità dell'ispirazione e dalla purezza delle espressioni che evoca. Protetto da Mecenate, a lui dedica le Georgiche, poema in 4 libri in esametri; i quattro libri trattano della colture dei cereali, degli alberi e delle vite, dell'allevamento del bestiame e dell'apicoltura. Su invito di Augusto inizia invece a comporre l'Eneide, un'epopea in 12 libri. Nel 19 si recò in Grecia per verificare alcuni particolari del racconto, ma durante il viaggio di ritorno si ammalò e morì a Brindisi. Augusto ordinò a Vario di pubblicare l'opera incompiuta, senza integrazioni o modifiche: fu un successo. Virgilio raggiunse l'apice della contemplazione nel Medio Evo, quando era considerato mago, maestro di ogni sapienza e addirittura profeta del cristianesimo.
Melibeo:
O Titiro, tu che stai sdraiato sotto l'ombra di un ampio faggio
componi un canto silvestre col sottile zufolo;
noi lasciamo i territori della patria e i dolci campi,
noi fuggiamo dalla patria; tu, o Titiro, abbandonato all'ombra
insegni ai boschi a riecheggiare (il nome della) bella Amarillide.
Titiro:
O Melibeo, un dio ha fatto questa pace per noi:
e infatti quello per me sarà sempre un dio;
un tenero agnello spesso dai nostri ovili bagnerà la sua ara.
Quello ha permesso che i miei bovi pascolassero, come vedi,
e che io stesso componga ciò che voglio con il calamo agreste.
Melibeo:
Certamente non ti invidio; piuttosto mi meraviglio: dovunque
in tutti i campi a tal punto c'è scompiglio. Ecco io stesso
spingo avanti a malincuore le caprette; questa, o Titiro, la porto a stento:
qui poco fa infatti tra i densi corbezzoli lasciò due gemelli,
speranza del gregge!, partoriti sulla nuda pietra.
Spesso mi ricordo la quercia toccata dal fulmine predire a noi questa
disgrazia,
se la mente non fosse stata così sciocca,
(spesso lo diceva la sinistra cornacchia dal leccio cavo).
Ma tuttavia, Titiro, dicci chi sia questo dio.
Titiro:
Io stolto, Melibeo, credevo che la città, che chiamano Roma,
(fosse) simile a questa nostra, dove spesso noi pastori
siamo soliti portare i teneri piccoli dei greggi.
Così io sapevo i cuccioli simili alle cagne, così i capretti alle madri;
così ero solito paragonare le cose grandi alle piccole.
Ma questa città svetta tra le altre tanto
Quanto sono soliti (fare) i cipressi tra i flessibili viburni.
Melibeo:
E quale grande motivo fu la causa di vedere Roma?
Titiro:
La libertà, che (sebbene) tardiva tuttavia mi vide inerte,
dopoché la barba cadeva sempre più bianca a me che la tagliavo;
tuttavia mi vide e giunse dopo lungo tempo,
dopoché mi ha amato Amarillide, (e) Galatea mi ha lasciato.
Infatti, lo ammetterò, finché Galatea mi amava
Non c'era speranza di libertà, ne cura del gregge.
Sebbene molte vittime uscissero dai miei recinti,
e un ricco formaggio fosse pressato per la città ingrata,
mai la mia (mano) destra tornava a casa pesante di denaro.
Melibeo:
Mi meravigliavo che la mesta Amarillide invocasse gli dei,
per chi lasciavi pendere ciascun frutto sull'albero:
Titiro era lontano da qui. Gli stessi pini, Titiro,
le stesse fonti , questi stessi arbusti ti invocavano.
Titiro:
Che fare? Non mi era lecito uscire dalla schiavitù,
ne conoscere altrove dei tanto benevoli.
Qui vidi quel giovane, o Melibeo,
per il quale i nostri altari ogni anno fumano per dodici giorni;
qui quello per primo dette la risposta a me che chiedevo:
'Pascolate come prima i bovi, garzoni; soggiogate i tori'.
Melibeo:
Fortunato vecchio, dunque i tuoi campi rimarranno,
e (saranno) grandi abbastanza per te, sebbene la nuda pietra
e la palude ricopra tutti i pascoli con il giunco fangoso.
Pascoli sconosciuti non danneggeranno le pecore gravide,
né il contagio del gregge vicino (ti) nuocerà.
Fortunato vecchio, qui tra i fiumi noti
E le fonti sacre prenderai la frescura ombrosa;
qui per te, come sempre, dal confine vicino la siepe
succhiata dalle api Iblee per quanto riguarda il fiore del salice,
spesso ti persuaderà a prendere sonno con il lieve ronzio;
qui sotto l'alta rupe il potatore canterà all'aria,
ne tuttavia nel frattempo le roche colombe., tua delizia,
ne la tortora dall'alto olmo cesserà di gemere.
Titiro:
Prima dunque i cervi leggeri pascoleranno nell'aria
E il mare lascerà sulla spiaggia i pesci a secco,
e prima, avendo vagato per entrambi i territori,
il Parto esule berrà all'Arari e la Germania (bagnerà) il Tigri,
che il volto di quello sia cancellato dal nostro cuore.
Melibeo:
Invece di noi alcuni andranno dagli Afri assetati,
una parte verrà alla Scizia e all'Oasse vorticoso di fango
o ai Britanni del tutto isolati dal resto del mondo.
. . .
Un soldato empio avrà questi campi tanto coltivati,
un barbaro queste messi: ecco, dove la discordia
porta i miseri cittadini; per questi noi abbiamo seminato i campi!
Ora Melibeo innesta i peri, poni in ordine le viti!
Andate caprette mie, una volta gregge felice.
Io non vi vedrò più d'ora in avanti, sdraiato in una grotta ombrosa,
pendere da lontano da una rupe cespugliosa;
non canterò nessun canto; caprette, mentre vi pascolo,
non brucherete il citiso in fiore o i salici amari.
Titiro:
Tuttavia avresti potuto riposare qui con me questa notte
Sopra le fronde verdi: ho frutti dolci,
castagne morbide e abbondante formaggio,
e ormai in lontananza fumano i caminetti
e le ombre cadono sempre più lunghe dai monti.
Denique quid
vesper serus vehat, unde serenas
ventus agat nubes, quid cogitet humidus Auster,
sol tibi signa dabit. Solem quis dicere falsum
audeat. Ille etiam caecos instare tumultus
saepe monet fraudemque et operta tumescere bella.
Ille etiam exstincto miseratus Caesare Romam,
cum caput obscura nitidum ferrugine texit
inpiaque aeternam timuerunt saecula noctem.
Tempore quamquam illo tellus quoque et aequora ponti
obscenaeque canes inportunaeque volucres
signa dabant. Quotiens Cyclopum effervere in agros
vidimus undantem ruptis fornacibus Aetnam
flammarumque globos liquefactaque volvere saxa!
Armorum sonitum toto Germania caelo
audiit, insolitis tremuerunt motibus Alpes.
Vox quoque per lucos volgo exaudita silentis
ingens et simulacra modis pallentia miris
visa sub obscurum noctis, pecudesque locutae,
infandum! sistunt amnes terraeque dehiscunt
et maestum inlacrimat templis ebur aeraque sudant.
Proluit insano contorquens vertice silvas
fluviorum rex Eridanus camposque per omnis
cum stabulis armenta tulit. Nec tempore eodem
tristibus aut extis fibrae adparere minaces
aut puteis manare cruor cessavit et altae
per noctem resonare lupis ululantibus urbes.
Non alias caelo ceciderunt plura sereno
fulgura nec diri totiens arsere cometae.
ergo inter sese paribus concurrere telis
Romanas acies iterum videre Philippi;
nec fuit indignum superis, bis sanguine nostro
Emathiam et latos Haemi pinguescere campos.
Scilicet et tempus veniet, cum finibus illis
agricola incurvo terram molitus aratro
exesa inveniet scabra robigine pila
aut gravibus rastris galeas pulsabit inanis
grandiaque effossis mirabitur ossa sepulchris.
Di patrii, Indigetes, et romule Vestaque mater,
quae Tuscum Tiberim et Romana Palatia servas,
hunc saltem everso iuvenem succurrere saeclo
ne prohibete! Satis iam pridem sanguine nostro
Laomedonteae luimus periuria Troiae;
iam pridem nobis caeli te regia, Caesar,
invidet atque hominum queritur curare triumphos;
quippe ubi fas versum atque nefas: tot bella per orbem,
tam multae scelerum facies; non ullus aratro
dignus honos, squalent abductis arva colonis
et curvae rigidum falces conflantur in ensem.
Hinc movet Euphrates, illinc Germania bellum;
vicinae ruptis inter se legibus urbes
arma ferunt; saevit toto Mars inpius orbe;
ut cum carceribus sese effudere quadrigae,
addunt in spatia et frustra retinacula tendens
fertur equis auriga neque audit currus habenas.
Finalmente il sole darà segnali a te (sopra) che cosa il
vespero serale arrechi, donde il vento spinga le nuvole che portano il sereno,
che cosa l'umido Scirocco mediti. Chi oserebbe chiamare il sole falso? Esso
avvisa inoltre spesso che sono imminenti i clandestini tumulti, e che si
preparano la frode e le nascoste guerre.
Esso inoltre ebbe compassione di Roma dopo che fu ucciso Cesare, quando coprì
il capo lucente di fuligine oscura, e la generazione empia temette un'eterna
notte. Sebbene in quel tempo anche la terra e le onde del mare e le cagne
oscene e gli uccelli che volavano fuori di tempo (importunae) davano segnali.
Quante volte abbiano visto l'Etna traboccante ribollire nei campi dei Ciclopi;
avendo rotti i crateri, e vomitare globi di fiamme e pietre liquefatte! La
Germania udì suoni di armi per tutto il cielo, le Alpi tremarono per movimenti
insoliti. Anche una voce fortissima fu udita spesso per i boschi silenziosi, e
fantasmi pallidi in modi strani furono visti sotto le tenebre della notte, e il
bestiame parlò, cosa da non dirsi! I fiumi si fermano e la terra si apre, e
l'avorio mesto piange e i bronzi sudano nei templi. Il Po, re dei fiumi,
straripò travolgendo le selve nei pazzi vortici, e portò gli armenti con le
stalle per tutti i campi. Né in quello stesso tempo fibre minacciose
(cessarono) di apparire nelle viscere di
malaugurio, o il sangue cessò di uscire dai pozzi, o le alte città di risuonare
nottetempo per lupi che urlavano. Molti fulmini non caddero altre volte quando
il cielo era sereno, né comete minacciose risplendettero tante volte. Laonde
Filippi vide le schiere romane azzufarsi tra di loro per la seconda volta con
armi uguali; né fu spiacevole agli dei che l'Emazia e i piani spaziosi dell'Emo
si facessero grassi due volte con il nostro sangue. Certamente verrà anche un
tempo in cui l'agricoltore, lavorando in quelle regioni la terra con l'aratro
ricurvo, troverà aste corrose dalla scabra ruggine, o percuoterà elmi vuoti coi
rastrelli pesanti, e si meraviglierà delle grandi ossa, avendo scavate delle
tombe. O dei patrii, o eroi protettori del paese, e o Romolo e tu madre Vesta,
che proteggi il Tevere toscano e il Palatino romano, non impedite che almeno
questo giovane soccorra al secolo rovinato! Già da lungo tempo noi scontammo
abbastanza con il nostro sangue gli spergiuri di Troia regno di Laomedonte; già
da lungo tempo la reggia del cielo invidia te, o Cesare, a noi, e si lagna che
tu curi i trionfi degli uomini: poiché quaggiù il bene e il male è confuso:
tante guerre sono per il mondo, tante sorta di delitti; nessun onore degno
all'aratro; i campi sono squallidi essendo stati condotti via i coltivatori, e
le falci ricurve si trasformano in spade rigide. Di qua l'Eufrate muove guerra,
di là la Germania, le città vicine portano guerra dopo aver rotto le alleanze
tra di loro; il crudele Marte infuria in tutto il mondo: come le quadrighe
quando si sono lanciate fuori dai ripari, aumentano di velocità a ogni giro, e
il cocchiere, che tira i freni inutilmente, è trasportato dai cavalli, e il
cocchio non sente più le briglie.
Quando alla primavera novella l'acqua freddissima scorre giù
dai monti canuti, e le glebe rammollite si sfasciano per lo Zefiro, già allora
il toro cominci per me a gemere per l'aratro piantato, e il vomero piantatto
logorato dal solco. Appagherà i desideri dell'agricoltore, avido, solamente
quel campo, che sentì due volte il sole, due volte il freddo; l'immenso
raccolto di esso suole sfondare i granai. Ma prima che noi fendiamo col ferro
un terreno sconosciuto, sia cura di apprendere prima i venti e la varia natura
del clima, e le coltivazioni e le naturali proprietà ereditarie dei luoghi, e
che cosa ciascuna regione produca e che cosa ciascuna rifiuti. Qui crescono
meglio le biade, là le uve, altrove verdeggiano i figli degli alberi e le
gramigne spontanee. Non vedi, come il Tmolo manda i profumi del croco, l'India
l'avorio, i Sabei effeminati i loro incensi, invece i Calibi ignudi il ferro, e
il Ponto il castoreo dall'acuto odore, l'Epiro le palme delle cavalle
dell'Elide? La natura impose queste leggi e patti eterni a certi luoghi subito
nel tempo, in cui per la prima volta Deucalione scagliò le pietre nel vuoto
mondo, da cui nacquero gli uomini, razza dura. Orsù dunque, i robusti tori
rivoltino il pingue suolo della terra subito dai primi mesi dell'anno, e
l'estate le zolle rovesciate. Ma se la terra non sarà grassa, basterà renderla soffice
con un piccolo solco verso il sorgere di Arturo: là, affinché le erbe non
nuociano alle messi rigogliose, qui, affinché la poca umidità non abbandoni la
terra sterile.
Tu stesso lascerai che i maggesi mietuti riposino ad anni alternati, e che il
campo ozioso si indurisca per la quiete; oppure seminerai, mutata la stagione,
il frumento là, dove prima avrai raccolto i legumi lieti per i baccelli che si
agitano o i frutti della piccola veccia e gli steli fragili e la selva rumorosa
dell'amaro lupino. Certamente la messe del lino dissecca il campo, dissecca i
papaveri cospersi di sonno Leteo; ma tuttavia la fatica (è) facile alternando;
sola non vergognare di saziare i terreni magri con letame grasso, né di
spargere la cenere che insudicia i campi sterili. Così anche i campi riposano
mutando i prodotti, né frattanto nessun profitto si trae dalla terra non arata.
Nec tamen, haec
cum sint hominumque boumque labores
versando terram experti, nihil inprobus anser
Strymoniaeque grues et amaris intiba fibris
officiunt aut umbra nocet. Pater ipse colendi
haud facilem esse viam voluit, primusque per artem
movit agros curis acuens mortalia corda
nec torpere gravi passus sua regna veterno.
Ante Iovem nulli subigebant arva coloni;
ne signare quidem aut partiri limite campum
fas erat: in medium quaerebant ipsaque tellus
omnia liberius nullo poscente ferebat.
Ille malum virus serpentibus addidit atris
praedarique lupos iussit pontumque moveri,
mellaque decussit foliis ignemque removit
et passim rivis currentia vina repressit,
ut varias usus meditando extunderet artis
paulatim et sulcis frumenti quaereret herbam.
[Ut silicis venis
abstrusum excuderet ignem.]
Tunc alnos primum fluvii sensere cavatas;
navita tum stellis numeros et nomina fecit,
Pleiadas, Hyadas, claramque Lycaonis Arcton;
tum laqueis captare feras et fallere visco
inventum et magnos canibus circumdare saltus;
atque alius latum funda iam verberat amnem
alta petens, pelagoque alius trahit humida lina;
tum ferri rigor atque argutae lamina serrae, --
nam primi cuneis scindebant fissile lignum
tum variae venere artes. Labor omnia vicit
inprobus et duris urgens in rebus egestas.
Prima Ceres ferro mortalis vertere terram
instituit, cum iam glandes atque arbuta sacrae
deficerent silvae et victum Dodona negaret.
Mox et frumentis labor additus, ut mala culmos
esset robigo segnisque horreret in arvis
carduus; intereunt segetes, subit aspera silva,
lappaeque tribolique, interque nitentia culta
infelix lolium et steriles dominantur avenae.
Quod nisi et adsiduis herbam insectabere rastris,
et sonitu terrebis aves, et ruris opaci
falce premes umbras votisque vocaveris imbrem,
heu magnum alterius frustra spectabis acervum,
concussaque famem in silvis solabere quercu.
Né tuttavia la vorace oca e le gru Strimonie e la cicoria
dalle amare radici recan danno in nulla o l'ombra nuoce, nonostante le fatiche
sia degli uomini sia dei buoi abbiano messo in opera questi precetti lavorando
la terra. Lo stesso Giove vuole che il modo da coltivare fosse non facile, e
per primo volle che i campi si lavorassero mediante l'arte, aguzzando l'ingegno
mortale con le preoccupazioni, e non soffrendo che il suo regno intorpidisse in
ozio pesante. Nessun contadino coltivava i campi prima di Giove; non era lecito
nemmeno segnare il campo o dividerlo con confini: cercavano (i beni) in comune,
e la terra da se stessa produceva più volentieri ogni cosa, sebbene nessuno
domandasse. Egli aggiunse il veleno nocivo ai neri serpenti, e comandò ai lupi
di far preda e al mare di agitarsi, e scosse giù il miele dalle foglie, e
nascose il fuoco, e fermò il vino che correva qua e là in ruscelli, affinché il
bisogno ritrovasse a poco a poco col meditare le varie arti, e cercasse la
pianta del frumento nei solchi, e traesse fuori il fuoco nascosto nelle vene
della selce. Allora per la prima volta i fiumi sentirono le barche scavate;
allora il navigante numerò e nominò le stelle, le Pleiadi, le Iadi e l'Orsa
lucente di Licaone; allora si ritrovò a prendere le fiere con i lacci e a
ingannarle col vischio, e a circondare le grandi balze coi cani; e già uno,
andando dove l'acqua è più profonda, batte col ghiaccio il fiume largo, e un
altro trae fuori le reti bagnate dal mare; allora (si trovò) il rigido ferro e
la lama stridente della sega - poiché i primi fendevano il legno spaccabile coi
cunei - allora si formarono le varie arti. La fatica ostinata e la necessità
che incalza nelle circostanze difficili vinse ogni cosa. Cerere insegnò per
primo agli uomini ad arare la terra col ferro, quando già le ghiande e i
corbezzoli della sacra selva mancavano, e Dodona negava il cibo.
Di lì a poco anche una malattia aggiunta al frumento, tanto che la ruggine
dannosa rodesse i gambi, e il cardo sterile sorgesse ispido nei campi: le messi
muoiono, una selva spinosa subentra, e le lappole e i triboli e il loglio
infecondo e l'avena sterile dominano tra le coltivazioni ridenti. Che se nè
distruggerai le erbe con sarchielli assidui, e (ne') spaventerai gli uccelli
col rumore e (ne') diminuirai col falcetto l'ombra della campagna opaca, e
(ne') invocherai la pioggia con le preghiere, ahimè! Tu guarderai indarno il
gran mucchio dell'altro, e calmerai la fame nei boschi avendo scrollate le
quercie.
Quid faciat
laetas segetes, quo sidere terram
vertere, Maecenas, ulmisque adiungere vitis
conveniat, quae cura boum, qui cultus habendo
sit pecori, apibus quanta experientia parcis,
hinc canere incipiam. Vos, o clarissima mundi
lumina, labentem caelo quae ducitis annum,
Liber et alma Ceres, vestro si munere tellus
Chaoniam pingui glandem mutavit arista,
poculaque inventis Acheloia miscuit uvis;
et vos, agrestum praesentia numina, Fauni,
ferte simul Faunique pedem Dryadesque puellae:
Munera vestra cano. Tuque o, cui prima frementem
fudit equum magno tellus percussa tridenti,
Neptune; et cultor nemorum, cui pinguia Ceae
ter centum nivei tondent dumeta iuvenci;
ipse nemus linquens patrium saltusque Lycaei,
Pan, ovium custos, tua si tibi Maenala curae,
adsis, o Tegeaee, favens, oleaeque Minerva
inventrix, uncique puer monstrator aratri,
et teneram ab radice ferens, Silvane, cupressum,
dique deaeque omnes, studium quibus arva tueri,
quique novas alitis non ullo semine fruges,
quique satis largum caelo demittitis imbrem;
tuque adeo, quem mox quae sint habitura deorum
concilia, incertum est, urbisne invisere, Caesar,
terrarumque velis curam et te maximus orbis
auctorem frugum tempestatumque potentem
accipiat, cingens materna tempora myrto,
an deus inmensi venias maris ac tua nautae
numina sola colant, tibi serviat ultima Thule
teque sibi generum Tethys emat omnibus undis,
anne novum tardis sidus te mensibus addas,
qua locus Erigonen inter Chelasque sequentis
panditur -- ipse tibi iam bracchia contrahit ardens
Scorpius et caeli iusta plus parte reliquit --
quidquid eris, -- nam te nec sperant Tartara regem
nec tibi regnandi veniat tam dira cupido,
quamvis Elysios miretur Graecia campos
nec repetita sequi curet Proserpina matrem --
da facilem cursum atque audacibus adnue coeptis
ignarosque viae mecum miseratus agrestis
ingredere et votis iam nunc adsuesce vocari.
O Mecenate, che cosa renda fertili i campi, sotto quale costellazione convenga arare la terra e congiungere le viti agli olmi, quale la cura dei buoi, quale debba essere la diligenza per tenere il bestiame, quanta esperienza (sia necessaria) per le sobrie api, di qui io comincerò a cantare. Voi, o i più splendidi luminari del mondo, che guidate per il cielo l'anno che trascorre; Bacco e Cerere nutrice, (assistetemi) se per vostro dono la terra mutò la ghianda Caonia con la spiga gonfia di grano, e mischiò le tazze dell'Acheloo con le uve ritrovate; e voi, o Fauni, divinità favorevoli degli agresti, venite insieme, o Fauni, o ninfe Driadi: io canto i vostri doni. E tu, o Nettuno, a cui la terra percossa dal tuo gran tridente produsse per la prima volta il cavallo fremente; e abitatore dei boschi, in onore del quale trecento candidi giovenchi pascono i grassi greppi di Cea; tu stesso, o Pan di Tegea, custode delle pecore, assistimi propizio, lasciando il bosco patrio e le balze del Liceo, se il tuo Menalo ti (sta) a cuore, e (tu) o Minerva, interventrice dell'oliva, e (tu) o fanciullo, insegnatore dell'adunco aratro, e (tu) o Silvano, che porti un giovane cipresso dalla radice; e (voi) e dee tutte, a cui (è) cura di proteggere le campagne, tanto quelli che fate crescere senza alcun seme i prodotti inaspettati, quanto quelli che mandate quanto quelli che mandate giù dal cielo ai seminati abbondante pioggia; e principalmente tu, o Cesare, cui è incerto quali cori degli dei siano per possedere tra breve, se cioè vorrai visitare la città e la cura della terra, e il grandissimo orbe, cingendo la tempia col mirto materno, riceverà te protettore delle messi e reggitore delle meteore, oppure sarai dio dell'immenso mare, e i nocchieri onoreranno la tua sola divinità, l'estrema Tule servirà e te, e Tetide compererà per sè con tutte le onde, o se aggiungerai tu stesso nuova costellazione ai mesi lenti, là dove si apre uno spazio tra Erigone e le branche che seguono - ormai lo stesso infuocato Scorpione ritira le branche per te, e lascia più della giusta parte del cielo -: chiunque tu sarai - poiché né il Tartaro potrebbe sperare (di avere) te re, nè una brama di regnare così atroce potrebbe venire a te, sebbene la Grecia ammiri i campi Elisi, e Proserpina, ridomandata, si curi di seguir la madre -, concedi prospero corso, e arridi all'impresa audace, e con compassione con me gli agresti ignari dell'arte, mettiti in via e già sin d'ora avvezzati ad essere invocato con le preghiere.
Ma né la terra dei Medi, ricchissima di alberi, né l'ameno Gange e l'Ermo torbido per oro, non la Battriana né l'India e tutta l'Arabia Felice fertile per sabbie produttrici d'incenso potrebbero gareggiare coi pregi dell'Italia. Non tori spiranti fuochi dalle narici ararono questi luoghi per i denti dell'immane serpente da seminare, né una messe di uomini si alzò ispida di elmi e di aste fitte; ma messi rigogliose e il liquore Massico di Bacco riempiono; olivi e armenti grassi occupano. Di qui il cavallo da guerra si spinge a testa alta nella pianura; di qui, o Clitunno, bianche greggi e il toro, la più grande delle vittime, bagnati dal tuo sacro fiume, precedettero spesso i trionfi Romani ai templi degli dei. Qui (è) primavera perpetua e estate nei mesi estranei; il bestiame è gravido due volte, gli alberi fruttificano due volte. Ma le tigri rabbiose e il crudel seme dei leoni mancano, né l'aconito inganna i miseri raccoglitori, nè il serpente squamoso trascina smisurati giri per il terreno, ne si riavvolge a spira per tanto spazio. Aggiungi tante nobili città e opere artificiali, tante rocche edificate con la mano su rupi scoscese, e fiumi che scorrono ai piedi di antiche mura. O ricorderò io il mare, che bagna superiormente o quello che inferiormente? O così grandi laghi? Te, o Lario, il più grande, e te, o Benaco, che ti gonfi con flutti e con fremito marino? O ricorderò io i porti e le dighe aggiunte al lago Lucrino e il mare che si sdegna con stridori grandi, là dove l'acqua del porto Giulio risuona lungi dal mare che si riversa, e l'onda tempestosa del Tirreno si introduce nelle acque dell'Averno? Questa stessa mostrò ruscelli d'argento e miniere di rame nelle sue vene, e corse ricchissima di oro. Questa produsse una forte razza di uomini, i Marsi e la gioventù Sabina e i Liguri avvezzi agli stenti e i Volsci armati di spiedi, questa i Deci, i Mari e i grandi Camilli, gli Scipioni duri per la guerra, e te, o Cesare il più grande, che ora, già vincitore nelle estreme spiagge dell'Asia, tiene lontano l'imbelle Orientale dalle Romane rocche. Io ti saluto, o terra Saturnia, grande genitrice di messi, grande di uomini; io tratto a te cose di vanto antico e occupazione, osando schiudere le fonti sacre, e canto una poesia Ascrea per le città romane.
La primavera è utile appunto alle fronde dei boschi, la primavera è utile alle selve; in primavera i terreni si gonfiano, e chiedono semi generatrici. Allora Etere padre onnipotente discende con piogge feconde nel grembo della lieta coniuge, e, grande, unito col grande corpo, nutre tutti i germi. Allora i boschi impenetrabili risuonano per gli uccelli canori, e gli armenti richiedono Venere in giorni determinati; il terreno benefico si dispone a produrre, e sotto le brezze tiepide di Zefiro i campi aprono il seno; la linfa vitale abbonda per tutti, e i germogli osano affidarsi con sicurezza ai nuovi soli, né il pampino teme gli Austri che si levano, o la pioggia compressa in cielo dai violenti Aquiloni, ma manda fuori le gemme e apre tutte le fronde. Io crederei che all'origine del mondo che nasceva non risplendessero giorni diversi, o avessero un diverso tenore: quella era la primavera; il grande mondo viveva una primavera, e gli Euri si astenevano dai soffi invernali, quando le prime bestie bevvero la luce, e la ferrea stirpe degli uomini alzò il capo nei campi duri, e le fiere furono messe nelle selve e le stelle nel cielo. Né i teneri germogli potrebbero sopportare questa fatica, se tanto riposo non corresse tra il freddo e il caldo, e la mitezza del cielo proteggesse la terra.
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