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Luigi Capuana
Capuana nasce a Mineo, in provincia di Catania, da una famiglia di
agiati proprietari terrieri e a Mineo frequenta le scuole comunali.
Nel 1851 si iscrive al Reale Collegio di Bronte che lascia dopo solo due anni
per motivi di salute, proseguendo comunque lo studio da autodidatta.
Conseguita la licenza si iscrive, nel 1857, alla Facoltà di giurisprudenza di
Catania che abbandona nel 1860 per prendere parte all'impresa garibaldina in
funzione di segretario del comitato clandestino insurrezionale di Mineo e in
seguito come cancelliere nel nascente consiglio civico.
Risale al 1861 la leggenda drammatica in tre canti
'Garibaldi' pubblicata a Catania dall'editore Galatola.
Nel 1864 si stabilisce a Firenze per tentare 'l'avventura letteraria'
e vi rimarrà fino al 1868.
A Firenze frequenta gli scrittori più noti dell'epoca, tra i quali Aleardo
Aleardi e nel 1865 pubblica i suoi primi
saggi critici sulla 'Rivista italica', diventando nel 1866 critico
teatrale della 'Nazione'.
Nel 1867 pubblica sul quotidiano fiorentino la sua prima novella dal titolo 'Il dottor Cymbalus' che prende a modello il racconto di Dumas figlio 'La boite d'argent'.
Nel 1868 ritorna in Sicilia pensando di rimanervi per poco
tempo ma la morte del padre e i problemi economici, lo costringono a rimanere
nell'isola.
Diventa dapprima ispettore scolastico, poi consigliere comunale di Mineo e
infine viene eletto sindaco del paese.
Fu in questo periodo che si accosta alla filosofia idealistica di Hegel.
Nel 1875, Capuana si reca per un breve soggiorno a Roma e nello stesso anno, su consiglio dell'amico Giovanni Verga, si trasferisce a Milano dove inizia a collaborare al Corriere della Sera come critico letterario e teatrale.
Nel 1877 esce a Milano la sua prima raccolta di novelle, Profili di donne e il romanzo Giacinta, considerato il manifesto del verismo italiano.
Nel 1880, nello stesso anno in cui Verga pubblica Vita dei campi, Capuana, che è un entusiasta divulgatore del naturalismo francese e contribuisce con Verga a elaborare la poetica del verismo italiano, raccoglie i suoi articoli su Zola Studi. Ritorna a Mineo, dove inizia a scrivere il romanzo che lo renderà celebre vent'anni dopo, dal titolo Il Marchese di Roccaverdina (originariamente Il Marchese di Santaverdina).
Dal 1882 al 1883 lo scrittore risiede a Roma e dirige il 'Fanfulla della Domenica'. Gli anni fino al 1888 li trascorrerà a Catania e a Mineo, per tornare infine a Roma dove vi rimarrà fino al 1901..
In questi anni la sua produzione letteraria fu ricchissima.
Nel 1882 pubblica una raccolta di fiabe dai molti motivi folkloristici,
'C'era una volta', le raccolte di novelle 'Homo' (1883),
'Le appassionate' (1893), 'Le paesane'(1894) e i migliori
saggi critici nei quali, staccandosi dal naturalismo, rivela una propria
estetica dell'autonomia dell'arte.
Sempre di questo periodo sono i suoi romanzi più noti, tra i quali 'Profumo', che apparve dapprima in 10 puntate su 'Nuova Antologia' dal luglio al dicembre 1890 e in volume nel 1892 e 'Il Marchese di Roccaverdina' (1901).
Nel maggio del 1888 va in scena, al teatro Sannazzaro di Napoli, una commedia in cinque atti tratta dal romanzo 'Giacinta' con buon successo di critica e di pubblico.
Nel 1900 lo scrittore ottiene la cattedra di letteratura italiana presso l'Istituto Femminile di Magistero a Roma, Lavora inoltre al romanzo 'Rassegnazione' che esce in cinque puntate su 'Flegrea' dall'aprile al maggio dello stesso anno.
Nel 1902 Capuana si trasferisce a Catania, per insegnare lessicografia e stilistica all'università.
Tra le sue ultime opere vi sono i volumi di fiabe e novelle, Coscienze (1905), Nel paese di Zagara (1910), Gli Americani di Rabbato (1912).
Muore il 29 novembre
Capuana fu l'assertore più convinto e teoricamente preparato del verismo, sostenitore instancabile del 'metodo impersonale' che vide pienamente realizzato nelle opere dell'amico Verga, in quelle del De Roberto e in parte nelle proprie, ebbe anche notevoli doti di critico che certo furono superiori alle sue capacità inventive dove veniva spesso a mancare proprio quella 'forma vitale' che egli cercava nell'opera d'arte.
Nel primo periodo della sua critica, nel 'Il Teatro
italiano contemporaneo. Studi sulla letteratura contemporanea', la poetica
del verismo che Capuana aveva elaborato si poneva come regola fondamentale quella
di ritrarre direttamente dal vero.
Questo significava che lo scrittore doveva assumere dalla vita contemporanea la
materia e narrare fatti realmente accaduti, senza limitarsi a ritrarli
dall'esterno, ma ricostruendo la storia cogliendo e rivelando tutto il processo
mediante il quale il fatto si era prodotto.
La ricostruzione doveva avvenire attraverso il metodo scientifico perché il più idoneo a far parlare le cose direttamente impedendo che l'autore si servisse dei fatti come di un pretesto per esprimere sé stesso. Bisognava pertanto usare l'impersonalità.
Per poter inoltre condurre una ricostruzione del tutto
veritiera era necessario usare una prosa duttile e viva, con prosa senza
retorica, che risultasse aderente ai fatti.
Si richiedeva pertanto un linguaggio che non alterasse in nessun modo il mondo
che si voleva rappresentare.
Conoscere la realtà che l'artista voleva rappresentare significava perciò conoscere tutti i nuovi strumenti che la cultura contemporanea poteva fornire, dall'indagine dei processi psicologici secondo i principi della fisiologia alla documentazione folkloristica per rappresentare il mondo contadino.
Queste regole, proprie di tutti i veristi, rivelano in Capuana una grande apertura verso tutte le novità culturali che spiega la simpatia che lo scrittore proverà, a settanta anni, verso il futurismo, come anche la sua passione per l'allora nascente arte della fotografia.
Più di un critico ha rimproverato a Capuana il gusto per la sperimentazione, ma è stato proprio questo gusto per la novità che gli consentì di difendere sempre le nuove tendenze e di farsi interprete della narrativa verghiana e delle opere del naturalismo francese.
In seguito lo scrittore si dimostrò pronto a cogliere le tendenze spiritualistiche, estetizzanti e irrazionali, e fu incuriosito dalla parapsicologia.
Capuana fu inoltre pronto ad abbandonare il verismo con 'Gli 'Ismi' contemporanei' e 'Arte e scienza', quando riconobbe che esso rappresentava solamente uno dei tanti ismi della letteratura contemporanea.
L'attività di critico trova riscontro nell'opera narrativa di Capuana dove, fin dagli inizi, con la raccolta di novelle 'Profili di donne' del 1877 si coglie il tema principale della sua ricerca, quello della psicologia femminile, teso a ricostruire narrativamente i processi generatori dei 'fatti umani' con un gusto per i racconti che hanno dello straordinario ricchi di situazioni misteriose e personaggi enigmatici.
Nel 1879 Capuana pubblica il suo primo vero romanzo, Giacinta, nel quale si avverte una esclusiva attenzione per il 'documento umano'.
Nel romanzo si racconta la storia di una donna che, avendo
subito una violenza sessuale da bambina, si trova a dover scontare con tutta la
sua vita e fino al suicidio la 'colpa' che il pregiudizio sociale non
le perdona.
Capuana, attraverso il punto di vista di un medico, cerca di rappresentare il
personaggio 'da scienziato' ma, come dice il Ghidetti 'il
dottore, può solo prendere pessimisticamente atto di una predestinazione senza
riuscire (anche per la grande confusione, è lecito dedurre, di maestri e
dottrine che aveva in testa, proprio come il giovane Capuana) a penetrare il
segreto di una rivolta consumata tutta all'interno della condizione femminile
ed esaurita e spenta dall'autodistruzione'. Ed infatti l'unico aiuto che
la scienza potrà dare a Giacinta sarà il curaro, il veleno che il dottore le
aveva dato come medicamento per il padre e con il quale la donna si ucciderà.
Giacinta fu il primo romanzo
naturalista italiano e al suo apparire fu definito immorale e scandaloso.
Esso, come lo stesso autore dichiara nella prefazione, fu composto dopo la
lettura di Balzac, di Madame Bovary di Flaubert .
Il romanzo è puramente naturalista, c'è l'attenzione per i fatti patologici, in
questo caso patologia morale, l'amore che diviene ossessione quindi malattia.
La figura che ne emerge è quella del medico, che può intervenire nella realtà
malata e curarla.
In esso, tuttavia, il Capuana non si sofferma tanto sugli elementi
'patologici' di Giacinta, quanto sulle sue reazioni consce e inconsce
di fronte alla realtà.
L'autore vuole penetrare 'il segreto di certe azioni', vuole mostrare,
nell'apparente incoerenza del comportamento della donna, una coerenza che, pur
in contrasto con le leggi della ragione, rientrano in un sistema
psico-fisiologico.
La violenza, subita da bambina, è quindi la chiave che spiega, in termini
deterministici, ogni scelta di Giacinta che, anche se inspiegabile, la condurrà
alla scelta estrema: il suicidio.
Sul piano della tecnica narrativa siamo lontano dall'impersonalità di Verga, in Giacinta è presente il narratore onnisciente che osserva i fatti dall'esterno ed interviene con i suoi commenti.
Il romanzo, che fu pubblicato nel 1891, con questo
Capuana vuole ritornare al nucleo centrale della sua
ispirazione, cioè all'indagine psicologica.
Con questo romanzo lo scrittore si avvia verso il romanzo psicologico moderno, risalendo all'infanzia dei protagonisti e ritrovando i germi del male in azioni che sono in apparenza trascurabili.
Rientrano nel racconto anche scene e immagini regionali con la descrizione pittoresca delle folle paesane in movimento, come la festa della Passione e la processione dei Flagellanti.
Ma il capolavoro di Capuana fu un altro romanzo Il marchese di Roccaverdina pubblicato nel 1901, dopo circa quindici anni di lavoro.
Il romanzo, che intreccia motivi di carattere sociologico, sulla linea della più tipica narrativa verista, all'elemento psico-patologico, è estremamente interessante.
La storia narrata è quella del marchese di Roccaverdina che, per ragioni di convenienza sociale, dà in sposa la giovane contadina che tiene in casa come serva-amante a un suo sottoposto, Rocco Criscione, che si impegna a rispettarla come una sorella ma che in seguito, avvelenato dal sospetto, uccide a tradimento, lasciando che venga incolpato del delitto un altro contadino.
La vicenda, che si snoda sullo sfondo di una campagna siciliana arida e desolata con un ritmo cupo e ossessivo, è narrata in flash-back dal marchese come ricordo angoscioso e come confessione.
Il tema dominante, tutt'altro che facile, è quello della progressiva follia del protagonista dalle prime paure spiritistiche ai vari tentativi di placare l'angoscia e il rimorso con la religione, con il lavoro, con il matrimonio, con il materialismo e l'ateismo, fino alla follia, alla demenza, alla morte. Esso è risolto felicemente dal narratore con una formula realistica che non insiste sul caso patologico, come in Giacinta e in Profumo, ma si serve di una vicenda umana per risalire alla complessa psicologia dei personaggi. Prevale in questa opera di Capuana la fredda analisi a danno dell'abbandono poetico e fantastico.
Tra le opere narrative migliori di Capuana sono da annoverare le novelle ispirate alla vita siciliana, ai personaggi e ai fatti grotteschi e tragici della propria Sicilia, come nel realismo bozzettistico di alcuni racconti della raccolta 'Le paesane' e in altre che non presentano situazioni drammatiche, ma sono divertenti e cercano sempre di mettere in evidenza il lato comico anche se il caso si fa serio.
Nelle novelle numerosi sono i ritratti dei canonici, dei prevosti, dei frati cercatori con la passione della caccia, del gioco e della buona tavola, tipici di tanti personaggi della narrativa del secondo Ottocento.
Le fiabe, scritte in una prosa svelta, ricche di ritornelli e cantilene rimangono forse l'opera più felice del Capuana,solari,festose e strettamente di invenzione.
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