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ITALIANO. Luigi Pirandello
Pirandello nacque a Cavusu, chiamato dallo scrittore 'Caos' (comune di Girgenti, oggi Agrigento) da Stefano e Caterina Ricci Gramitto, in una famiglia di agiata condizione borghese dalle tradizioni risorgimentali; il padre era stato garibaldino. La famiglia commerciava e produceva zolfo. Dopo un'istruzione elementare impartitagli da maestri privati, andò a studiare in un istituto tecnico e poi al ginnasio. Qui si appassionò subito della letteratura. A soli undici anni scrisse la sua prima opera Barbaro, andata persa. Per un breve periodo aiutò il padre nel commercio di zolfo, facendo anche esperienza diretta con il mondo degli operai nelle miniere e sulle banchine del porto mercantile. Lo scrittore iniziò i suoi studi universitari a Palermo nel 1886, per recarsi in seguito a Roma, dove continuò i suoi studi di filologia romanza che poi dovette completare a Bonn su consiglio del suo maestro Ernesto Monaci e a causa di un insanabile conflitto con il rettore dell'ateneo capitolino. A Bonn, capitale culturale di allora, Pirandello ebbe l'opportunità di conoscere grandi maestri. Si laureò nel 1891 con una tesi sulla parlata agrigentina 'Voci e sviluppi di suoni nel dialetto di Girgenti'. Il tipo di studi, però, gli fu probabilmente di fondamentale ausilio nella stesura delle sue opere, dato il raro grado di purezza della lingua italiana utilizzata. Nel 1903, poco dopo le nozze, un allagamento in una miniera di zolfo, in cui Pirandello e la sua famiglia avevano investito il loro capitale, li ridusse sul lastrico. Questa notizia accrebbe il disagio mentale, già manifestatosi, della moglie di Pirandello, Maria Antonietta Portulano. Nonostante la moglie andasse sempre più spesso soggetta a crisi isteriche, di cui Pirandello stesso era il bersaglio, egli acconsentì che fosse ricoverata in un ospedale psichiatrico solo diversi anni dopo. La malattia della moglie portò lo scrittore ad approfondire lo studio dei meccanismi della mente e della reazione sociale dinnanzi alla menomazione intellettuale, portandolo ad avvicinarsi alle nuove teorie sulla psicanalisi di Sigmund Freud. Spinto dalle ristrettezze economiche e dallo scarso successo delle sue prime opere letterarie, Pirandello insegnò per qualche tempo come professore di stilistica all'Istituto superiore di Magistero. Il suo primo grande successo fu merito del romanzo Il fu Mattia Pascal, pubblicato nel 1904 e subito tradotto in diverse lingue. In questo periodo collaborò con alcune riviste letterarie e anche con il Corriere della Sera. La riflessione di Pirandello sul tema della follia appare memorabilmente in molte opere, come l'Enrico IV o come Il berretto a sonagli, nel quale inserisce addirittura una ricetta per la pazzia: dire sempre la verità, la nuda e cruda e tagliente verità, infischiandosene dei riguardi e delle maniere, delle ipocrisie e delle convenzioni sociali, porterà presto all'isolamento e, agli occhi degli altri, alla pazzia. Pirandello aderì al fascismo ma fu criticato più volte dalla stampa del regime per non aver scritto opere conformi allo spirito e agli ideali fascisti, pessimiste e prive di amor di Patria. Grande appassionato di cinematografia, mentre assisteva a Cinecittà alle riprese di un film tratto dal suo Il fu Mattia Pascal, si ammalò di polmonite. Il suo corpo ormai segnato dal tempo e dagli avvenimenti della sua vita non sopportò oltre, e Pirandello morì lasciando incompiuto un nuovo lavoro teatrale, I giganti della montagna. Egli scrisse nel testamento le sue ultime volontà sul suo funerale. E' stato avvolto in un lenzuolo bianco e portato sul carro dei poveri. Il suo corpo è stato bruciato, e le sue ceneri sparse per il 'Caos' (la sua tenuta).
Umorismo pirandelliano
Le vicende che descrive Pirandello sono tutte paradossali, però dietro il paradosso lo scrittore svela profondi e amari drammi creando personaggi di una toccante umanità. Gli uomini e la vita appaiono spesso comici, ma di una comicità che nasconde dolorose tragedie. Nella vita tutto sembra logico e naturale, ma la logica lascia spesso il posto all'assurdo, che per Pirandello è ben più vivo e reale, come lo sono il dolore e la sofferenza che la nostra ragione rifiuta perché disumani e assurdi. L'umorismo pirandelliano, pensieroso e amaro, esprime le contraddizioni e i profondi turbamenti del mondo contemporaneo, attraverso il sentimento del contrario si scopre la tragica realtà che è celata dietro l'apparenza talvolta ridicola delle cose e se ne esprime la desolante angoscia, tormentosa e senza uscita. Pirandello ritiene che l'universo sia in continuo divenire, e l'uomo, partecipe di questo flusso vitale, vorrebbe comprenderlo; così cerca di porsi di fronte a tale flusso per analizzarlo, se non che non possiede mezzi idonei ed è troppo limitato nello spazio e nel tempo per poter conseguire qualche utile risultato. La sua investigazione riesce a cogliere solo aspetti superficiali, parziali, cioè le forme, che pur se vere (cioè pertinenti all'Essere) nel momento in cui sono colte o prodotte, sono destinate a divenire ben presto false poiché il flusso vitale è inarrestabile e mutando li falsifica. Così l'uomo cerca disperatamente di imbrigliare il flusso entro forme finite e inadeguate, e più si sforza di produrre forme sempre nuove e diverse, più spreca energia e si aliena, poiché le forme che produce, accumulandosi e ammassandosi, si ritorcono contro l'uomo isolandolo dalla realtà.
La dicotomia volto/maschera è un aspetto particolare della precedente e concerne l'impossibilità di rapporto autentico tra gli uomini. Ciascuno di noi è un essere in continuo divenire dalla nascita fino alla morte, e ogni giorno, ogni ora, ogni attimo siamo diversi. Però la società, la cultura e alla fine noi stessi ci vogliamo identici: dunque produciamo, volenti o no, una serie di maschere o modelli coi quali ci esprimiamo in società, e nella vita di ogni giorno non ci mostriamo mai per quelli che siamo, ma ad ogni circostanza indossiamo una maschera diversa, diversa anche in relazione alla persona alla quale ci rapportiamo. In conclusione, ciascuno di noi sente di essere uno, ma, di fatto, si manifesta per cento, mille persone diverse, ciascuna di queste è poi ulteriormente moltiplicata dalle svariate ottiche e personalità degli altri e diventano centomila; cosicché quell'uno potenziale non manifestandosi mai nel corso della vita, di fatto è come se non esistesse, se fosse nessuno. Per Pirandello il tempo è una delle tante forme create dall'uomo, per sue esigenze teoriche e pratiche, dunque è insussistente e falsa al pari delle altre. E' vera, invece, la nozione di durata o tempo soggettivo, scandito cioè dalla coscienza di ognuno di noi. Ma la durata non solo non conosce la distinzione presente - passato - futuro, ma non procede neppure linearmente e a senso unico: ammette salti, balzi in avanti e indietro, accelerazioni e decelerazioni variabili indefinitamente. Cosicché, per questo aspetto, ogni individuo è una galassia a sé stante, che può sfiorare o scontrarsi con le altre, ma mai comunicare, poiché manca qualsiasi termine comune di riferimento, e un mezzo che veicoli messaggi senza manipolazioni e interferenze. La dicotomia comicità/umorismo è alla base del pensiero pirandelliano, non per nulla lo scrittore siciliano dedicò a tale argomento vari saggi teorici, tra i quali è di capitale importanza L'umorismo. In questo saggio Pirandello dà queste definizioni: la comicità è l'avvertimento del contrario, l'umorismo, invece, è il sentimento del contrario, e per illustrarle ricorre, tra l'altro, ad un esempio di questo genere: supponiamo di vedere una donna anziana, truccata e vestita in modo appariscente. La nostra prima reazione sarà una gustosa risata, in questo consiste la comicità, una sorpresa che ci coglie del tutto impreparati. Ma se riflettiamo sui motivi psicologici di tale comportamento, se pensiamo che la donna anziana si atteggia in tal modo perché tenta di allontanare da sé lo spettro della vecchiaia e della morte, non ridiamo più ma, grazie al sentimento del contrario, individuiamo nella sorte di lei la nostra, comune a tutta l'umanità. Quindi possiamo definire la comicità superficiale, e l'umorismo approfondito e riflesso. Tutta la migliore produzione di Pirandello si muove all'insegna dell'umorismo con due tendenze costanti e congiunte: per un verso quella di aggredire tutte le false certezze, smascherare i luoghi comuni, gli atteggiamenti fossilizzati dall'abitudine, dall'altro una posizione di larga comprensione e benevolenza.
Le novelle
Novella, teatro e romanzo sono i generi letterari principali praticati da Pirandello, in particolare il genere novellistico. Progetta di raccogliere tutte le novelle già scritte e quelle ancora da scrivere in una raccolta organica che decide di chiamare Novelle per un anno. Il titolo deriva dall'intenzione di scriverne 365; ma ne vengono ultimate 225. La lettura delle novelle in base alla data di composizione permette di ripercorrere le fasi fondamentali dell'evoluzione pirandelliana. Un primo gruppo di novelle ha caratteristiche prevalentemente veriste: vi domina la denuncia delle ipocrisie sociali che condizionano la vita della persone, i molteplici aspetti delle sofferenze che l'uomo è costretto a subire o le improvvise prese di coscienza della drammaticità della condizione umana. In molti testi è il caso che, senza alcuna ragione o possibilità di previsione, schiaccia i personaggi. In altre novelle prevalgono l'elemento drammatico e lirico: è il caso, ad esempio, di Ciàula scopre la luna che ha per protagonista il misero, solitario minatore Ciàula. Tipicamente pirandelliana è la patetica conclusione, che ci mostra lo sventurato Ciàula incantato davanti alla vista della luna, all'uscita dalla miniera nella quale trascorre quasi tutta la propria esistenza. La produzione delle novelle degli anni della maturità presenta una marcata caratteristica di narrazione a tesi: costruisce una vicenda con lo scopo di far comprendere un aspetto del proprio pensiero. L'insieme degli eventi è però fondato sul caso, la ragione non ha alcun potere di dominare a vantaggio dell'uomo la realtà che, d'altronde, non può essere distinta dall'illusione. Le novelle pirandelliane degli ultimi anni toccano invece, soprattutto, il tema della morte. Nelle novelle successive all'attribuzione del premio Nobel, avvenuta nel 1934, non manca un accostamento a tematiche religiose. Si tratta però, sempre, di una religiosità in cui l'umorismo coinvolge e problematizza gli stessi temi teologici. Sempre nell'ultimo periodo in alcune novelle l'autore, stimolato dalla propria produzione teatrale, sperimenta situazioni inverosimili, fantastiche o surreali.
I romanzi
Anche nella produzione di romanzi in una prima fase Pirandello si ispira al Verismo: analizza tematiche regionali e costumi siciliani dando prova di umorismo narrativo.
Il primo romanzo importante, uno dei capolavori indiscussi della letteratura del '900 è Il fu Mattia Pascal. Singolare è già l'impostazione della trama: Mattia Pascal, impiegato in una biblioteca, va a giocare a Montecarlo e vince una grossa somma. Su un giornale legge che al cadavere di uno sconosciuto è stato attribuito il suo nome: ne approfitta per evadere dalla sua soffocante vita coniugale. Con una nuova identità si stabilisce a Roma, dove si rende conto che senza documenti è come se non esistesse. Tornato a casa scopre che la moglie si è risposata e per lui non c'è più posto, quindi vive quasi come un clandestino scrivendo la propria storia e portando fiori sulla propria tomba. Con questo romanzo si introducono le più tipiche tematiche e novità strutturali e formali delle opere mature. La tesi filosofica centrale dell'opera ruota attorno al relativismo gnoseologico e nichilistico di Pirandello: nessuno può conoscere la verità oggettiva delle cose, né dentro né fuori di sé, per cui ognuno crede in una propria limitata, parziale e precaria verità, che spesso non è altro che errore o illusione. Il caso in realtà domina l'esistenza umana e quella dell'universo e la realtà oggettiva è inconsistente e frantumata in mille inesauribili verità parziali. La visione del ruolo e dell'identità sociale ed esistenziale dell'individuo è pessimistica. Numerose sono le digressioni filosofiche: nella lanterninosofia, concezione secondo la quale l'uomo ha una fonte di luce che si identifica col sentimento della vita e che ci fa vedere il bene e il male, proiettando tutt'intorno a noi un cerchio di luce, di là dal quale è l'ombra nera. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua: forse la morte è solo il soffio che spegne la vita individuale facendola però proseguire in quella universale. Sono notevoli le innovazioni della tecnica narrativa: al narratore esterno si sostituisce un io narrante che spesso dialoga con sé stesso e si analizza; le vicende sono determinate da un caso arbitrario.
Un altro capolavoro è Uno, nessuno e centomila: Vitangelo Moscarda detto Gengè dopo un'osservazione della moglie sulla forma del suo naso riflette sul fatto che gli altri lo vedono in modo diverso da come egli si vede. Scopre cosi che esistono centomila Moscarda: per ogni persona egli ha un'identità diversa. Si domanda allora angosciato chi egli sia e decide di distruggere le varie immagini del suo io che si sono fatti gli altri, come la fama di usuraio ereditata dal padre insieme ad una banca. Ormai quasi tutti lo ritengono fuori di sé; alla fine dona tutti i propri beni ad un ospizio dove egli stesso va a vivere. Alla fine rinuncia ad assumere qualunque identità, perché nessuna "forma" è in grado di rappresentarlo interamente: l'io individuale del protagonista si dissolve nel fluire della vita.
Nel testo la tesi dell'inconsistenza e dell'illusorietà dell'identità individuale è condotta alle estreme conseguenze, in quanto nessuna forma è in grado di adeguarsi alla infinitamente complessa realtà della vita (tema della dissoluzione della personalità).
Il teatro: Enrico IV
Le opere teatrali composte lungo l'arco di tutta la vita sono raccolte sotto il significativo titolo Le maschere nude e svolgono una funzione fondamentale nel teatro del Novecento. Possono suddividersi in commedie veristiche, con sempre più frequente taglio umoristico, opere a tesi filosofica, capolavori innovativi, come Sei personaggi in cerca d'autore e, infine i lavori degli ultimi anni, di ispirazione mitica. Caratteristica delle prime opere teatrali è la presenza di un personaggio, il tipico "uomo pirandelliano" che con le proprie lucide argomentazioni smonta e mette a nudo il sistema di convenzioni, inganni, illusioni. Negli anni della prima guerra mondiale Pirandello si avvicina al teatro grottesco, caratterizzato anch'esso dalla presenza del personaggio "ragionatore", verte sulla denuncia delle finzioni imposte dalle convenzioni sociali, soprattutto nell'ambito della famiglia. Nel capolavoro Cosi è (se vi pare) opera una nuova svolta, fa risaltare le proprie tesi dalla vicenda stessa, inducendo lo spettatore a non comprendere più da che parte stiano la verità e l'illusione, il torto e la ragione: il relativismo pirandelliano. Celebre esempio di testo teatrale a tesi filosofica è il dramma in tre atti Enrico IV.
La trama: un giovane, che impersona l'imperatore Enrico IV durante una festa in maschera, viene fatto cadere da cavallo, batte la testa e impazzisce. Per dodici anni egli si crede l'imperatore e, assecondato dai familiari, vive in un castello, circondato da personaggi che mimano la vita dell'undicesimo secolo. Quando il protagonista guarisce, scopre che la donna che egli amava e che impersonava, nella finzione, Matilde di Canossa, è diventata amante di Tito Belcredi, in rivale che ha provocato la sua caduta da cavallo. Decide allora per otto lunghi anni di continuare a fingersi pazzo, per non affrontare la tormentosa realtà: ma quando Belcredi, Matilde e la figlia Frida vengono a trovarlo al castello con uno psicanalista, nel tentativo di ricondurlo alla ragione, la sua "maschera" si spezza e si svela la finzione. Poiché però, per lui, il tempo si è fermato, il protagonista ama la giovane Frida come se fosse la Matilde di un tempo: ma quando egli abbraccia la ragazza, Belcredi lo aggredisce ed egli, spinto anche dal desiderio di vendetta, uccide il rivale trapassandolo con la spada. Il fittizio Enrico IV dovrà quindi continuare a fingersi pazzo, per sfuggire alla conseguenze del proprio delitto e vivere per sempre nel castello con la sua finta corte.
L'autore lo classifica come tragedia e, di fatto, lo costruisce con caratteri propriamente tragici: nella trama (dal finale lucidamente e disperatamente negativo), nella tipologia del personaggio, nell'ambientazione scenografica (una reggia), nel rispetto rigoroso delle tre unità aristoteliche (di luogo, di tempo, d'azione), nel linguaggio (con ampi tratti di solennità e oratoria).
Ma la scenografia, il personaggio e il suo linguaggio non sono autentici: sono frutto di una consapevole messa in scena. Enrico IV è in realtà un individuo del nostro tempo, un borghese qualsiasi che, durante una cavalcata in costume, cade da cavallo,impazzisce e crede di essere veramente l'imperatore da cui è travestito. Poi rinsavisce, ma continua a fingersi pazzo per affermare la propria definitiva e volontaria estraneità alle regole della convivenza sociale, che egli aborrisce. L'ambientazione e il taglio tragico dunque sono inseriti in una doppia cornice di pazzia - una vera e inconsapevole, l'altra finta e consapevole - che li nega nel momento stesso in cui li pone in essere.
La pazzia è il tema centrale dell'Enrico IV, sviluppata nelle sue implicazioni più profonde. Da un lato, essa è vista con gli occhi della società e della storia "ufficiali"; dall'altro è vista con gli occhi del presunto pazzo e cosi diventa il consapevole e volontario esercizio di ribellione e rifiuto di chi non vuole riconoscersi in quella autentica follia che sono le regole, le gabbie, le forme della società e della storia. "Se scoprire allo specchio la vanità della propria maschera significa non poter più vivere, la tragedia dell'uomo è tuttavia proprio questa: che per illudersi di vivere l'uomo non ha altra risorsa se non d'affidarsi a codesta maschera, a codesta larva come gli altri (o lui stesso) l'hanno forgiata"(Silvio D'Amico).
La prima tesi riguarda il rapporto fra la cosiddetta follia e la sanità mentale:secondo il drammaturgo, nei continui e fluidi cambiamenti della vita, il passaggio dall'una all'altra è ininterrotto ed è la società a determinare i parametri che distinguono le due concezioni. La seconda concezione ribadisce ancora una volta come la distinzione fra illusione e realtà sia indefinibile, al punto da vanificare la pretesa esistenza di una realtà oggettiva. Un'ulteriore tesi riguarda il rapporto fra vita e teatro: secondo lo scrittore la vita è teatro, perché vivendo recitiamo, indossando continuamente maschere nel tentativo di darci, attraverso finzioni, un unico volto; al tempo stesso il teatro è vita, giacché gli attori sono persone e i personaggi medesimi sono in qualche modo vivi.
I capolavori pirandelliani successivi abbattono definitivamente la separazione fra attori e pubblico, coinvolgendo gli spettatori nella rappresentazione: questa rivoluzione è detta del teatro nel teatro. Pirandello conclude la propria produzione drammaturgica inaugurando una stagione di miti utopici: di carattere sociale (La nuova colonia), mistico (Lazzaro) ed estetico, con l'incompiuto I giganti della montagna.
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