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LEZIONI SU CESARE PAVESE
LA VITA. LA PERSONALITÀ. IL MITO.
1. I dati fondamentali della biografia di Pavese si possono ricavare da qualsiasi manuale.
Alcuni momenti e aspetti bisogna, però, sottolinearli:
- un legame profondo con la sua terra, la regione piemontese delle Langhe, una zona collinare; un legame tanto profondo che l'esperienza dell'infanzia langhigiana diventa per lui fondamentale per dare un senso alla vita, come vedremo; [In questo senso, c'è qualcosa che accomuna Pavese a Pascoli.]
- la formazione in un ambiente politico e culturale dominato dalla figura severissima di Gobetti. [1] L'influsso del gobettiano professore di liceo Augusto Monti;
- gli anni del confino a Brancaleone Calabro, dopo i quali subisce la delusione di vedere sposata la donna che amava. Questo 'traccerà nella sua esistenza un solco di incolmabile dolore, di disperata frustrazione ' (Mondo).
- l'istintiva avversione al fascismo, che però non lo spinge, come altri suoi amici, a partecipare direttamente alla lotta partigiana;
- l'iscrizione al P.C.I. dopo la Liberazione, come atto di volontà per partecipare alle speranze e agli entusiasmi di allora;
- il suicidio, dopo un'ennesima delusione amorosa, per una donna americana Costanza Dowling. E' il 27 agosto 1950. Quell'anno aveva vinto il prestigioso Premio Strega.
2. Il suicidio (Cfr. Marchese, Storia ecc.) è la tragica conclusione di una vita vissuta sotto il segno dell'angoscia, un sentimento tormentoso che gli derivava dal sentire l'esistenza come un 'essere per la morte'. Questa intima sofferenza accompagnerà sempre Pavese, sarà il suo 'vizio assurdo'.
Pavese sembra incarnare così, nella sua vita, la figura sveviana dell''inetto', che si trova a fronteggiare doveri e impegni troppo superiori alle sue possibilità psichiche: erano i doveri e gli impegni imposti dall'ambiente gobettiano e dall'insegnamento ricevuto dal suo maestro Augusto Monti. In termini psicoanalitici Monti diventa un sorta di super ego che incombe minaccioso e mai soddisfatto, e che sempre gli ingiunge di arrivare alla 'maturità', alla razionalità, all'adesione piena alla vita.
Ma Cesare Pavese rispondeva a questa sfida del super ego con i sintomi di una vera malattia psicologica: l'inadeguatezza al reale, la difficoltà nella comunicazione con gli altri, l'impossibilità di un lineare rapporto d'amore con una donna, la frustrazione ricorrente nella ricerca della felicità, la solitudine.
Ha scritto Elio Gioanola: 'Da questo ambiente [l'ambiente gobettiano] Pavese imparò a ignorare l'inconscio e a tentare la costruzione volontaristica della sua vita, nel tentativo impossibile di rimarginare il deficit psichico con una serie di costruzioni velleitarie. Da questo conflitto Pavese finì per uscirne umanamente stroncato. Mentre era proprio nella sua 'immaturità' la riserva [della sua poesia]: egli è uno dei molti artisti decadenti che hanno costruito la poesia sulle rovine della loro vita; [fu] poeta nella misura in cui riuscì a toccare, nei traumi dell'angoscioso conflitto, il fondo intatto dei suoi miti personali '.
Immaturità, dunque, come sorgente di poesia. Che significa? Che Pavese traeva alimento alla sua poesia dal legame profondo e mai rescisso con l'infanzia e i suoi 'miti', le sue 'favole', le sue 'verità'. Comprendere questo legame di Pavese con l'infanzia - perciò - è la chiave di accesso a tutta la sua opera più grande.
Il conflitto interiore di cui abbiamo parlato, cioè l'incapacità di aderire alla vita pur volendolo, si espresse nei termini di un altro conflitto, tra 'campagna' e 'città'. Cioè Pavese, per dare una spiegazione alle contraddizioni della sua personalità, elaborò una sorta di teoria che contrapponeva la 'natura' alla civiltà, cioè la 'campagna' alla 'città', con sottolineatura positiva per il primo termine.
Questa contrapposizione gli veniva suggerita sia dalla letteratura americana (che esaltava, con Anderson, la vitalità istintiva e selvaggia, il primitivo) sia dalle letture degli studiosi del mito e degli psicoanalisti: le due fonti convergevano nel dirgli che esisteva nel profondo dell'individuo un patrimonio di verità e di valori che nascono con lui, sono 'natura', si scoprono nell'infanzia e che si oppongono alla società, alla civiltà, alla 'città'.
Anche la sua poetica, Pavese la farà derivare dalle riflessioni sul mito.
Vediamo cosa sia il mito in Pavese.
3. IL MITO
E' fondamentale in Pavese, sempre.
Per lui 'mito' è il tesoro di verità, affetti e sensazioni che ci derivano dall'infanzia, nell'età pre-razionale. Pavese ha il suo : la sua terra, le Langhe.
Il mito si fa ossessivo per gli spatriati e gli sradicati, che non hanno un passato in cui riconoscersi.
Il mito presuppone la nostalgia di esso e quindi il tema del 'ritorno', non solo fisico, ma spirituale, a quel 'clima'.
Ne La luna e i falò questo ritorno si rivela impossibile, perché non si recupera ciò che si è perduto ( appunto i falò della notte di S. Giovanni e la luna ).
Allora chi è rimasto legato alla sua terra, chi non è partito vive ancora il mito, che gli altri hanno perduto? Chi resta è radicato, è 'qualcuno', è felice?
No. Qui scocca l'antinomia pavesiana. Non c'è salvezza neanche in chi rimane. Anguilla che torna alla Gaminella ritrova odori e sapori, ma anche il peso di una irrimediabile miseria, che distrugge l'umano nell'uomo (Valino incendiario).
Già in Paesi tuoi [2] Pavese manifesta attrazione per il mondo contadino nel quale vede incarnato il suo mito del primitivo (vale a dire di un mondo ancestrale in cui l'uomo misteriosamente entrava in contatto con la natura, che era terribile ma anche innocente, cioè al di qua del peccato).
Questa intuizione (risale al Vico) del valore del mito si confermerà con studi psicoanalitici sull'inconscio collettivo (Jung) [i miti - per esempio indiani e cinesi - nei loro contenuti simbolici, appartengono a un inconscio primordiale e collettivo dell'umanità, il quale diventa il quadro di riferimento di ogni coscienza individuale. Questi simboli sono chiamati archetipi e sono presenti in ognuno di noi, a prescindere dalle nostre esperienze concrete e storiche, e sono essi a guidare la nostra esistenza. [Noi siamo cioè guidati dal mito anche quando crediamo di essere al posto di guida], con studi etnografici (De Martino e Lévy Bruhl) che influenzeranno poi la sua poetica, la cui elaborazione sarà comunque lenta e stratificata.
Soprattutto in Feria d'agosto e in Dialoghi con Leucò Pavese esprime la componente astoricistica della sua cultura, indicando nell'irrazionale e nel mistero la prima ispirazione della poesia.
Irrazionale vuol dire quelle 'illuminazioni' alogiche, quei miti, quelle fantasie, che germinano in noi dall'inconscio e che risalgono alla prima infanzia, quando il fanciullo intuisce miracolosamente, senza mediazioni razionali, il segreto della vita. [E sono miti legati al sesso, alla donna/uomo, alla violenza, alla morte, al sangue]. Essi sono legati a luoghi 'unici', quei luoghi dell'infanzia che il ricordo fa assoluti, colloca fuori del tempo e dello spazio e trasfigura [anche solo un giardino, o una stanza, o una strada, o un oggetto ecc.] facendoli diventare simboli della vicenda umana, di quella propria e di quella universale.
L'influsso di Vico o degli etnografi è però filtrato dalla sensibilità propria di Pavese: e allora il mito pavesiano evoca 'sue', personali, angosce primordiali: il mare, la vigna, la collina, la terra, luoghi in cui esplode la vita, piena, forte, calda, ma in cui si scatena la violenza, 'il selvaggio', la sessualità che fa sgomento e paura, la morte.
Perciò per lui il mito non è consolazione od oblio, ma un mezzo per arrivare a conoscere una più vasta realtà, e perciò si ricollega alla poetica, perché nella poesia si rappresenta questa più vasta conoscenza di sé e del mondo.
'E' necessario - osserva Pavese in La selva, che fa parte di Feria d'agosto - fissare attraverso la parola la contemplazione atemporale dell'esperienza e far rivivere nel mito lo stato di aurorale verginità della natura, per rendersi consapevoli del proprio esistere e del proprio destino. I simboli cui attinge il poeta sono sovranamente umani, necessari a serbare la coscienza di sé e insomma a vivere. '
Nei Dialoghi con Leucò Virbio (Cfr. Il lago), morto in Grecia, è risuscitato da Diana ma in Italia, nel Lazio, in mezzo a uno splendido paesaggio: dovrebbe essere felice, ma non lo è. La sua felicità è immobile, non ha passato, non ha ricordi. Senza di essi non c'è identità, non c'è vita. Virbio infatti ricorda l'infanzia (l'epoca della scoperta) e rievoca il tempo in cui 'pensai che dietro i monti di casa, lontano, dove il sole calava, - bastava andare, andare sempre - sarei giunto al paese infantile del mattino, della caccia, del gioco perenne. Non sapevo di volere la morte.'
Vuol dire che quella condizione di 'gioco perenne' (assenza di dramma e dolore e fatica) non è della vita, ma solo fuori della vita, solo della morte. Perciò Virbio dirà a Diana: Ho bisogno di stringere a me un sangue caldo e fraterno [] incontrare la donna, il mio simile, vivere con l'uomo, dividere con lui la vita. Ho bisogno di avere una voce e un destino [cioè un'identità, essere qualcuno, con la sua storia]. Troppe volte mi sono specchiato nel lago [cioè ho visto soltanto me stesso]. Chiedo di vivere, non di essere felice. ' Quindi c'è opposizione immedicabile tra vivere ed essere felici.
Pavese, quindi, coniugando Vico e Jung fonda proprio sul mito l'incanto polisemico (= dai molti significati) della poesia, che egli ricerca nella primitività ambivalente degli archetipi (le idee, i sentimenti fondamentali dell'essere umano in quanto tale, di centomila anni fa come di oggi): la terra, per esempio, come fonte di vita e di morte, la terra è sesso e sangue, sensualità e violenza. [3]
Le strutture fondamentali dell'immaginario di Pavese compaiono molto presto, già con le poesie di Lavorare stanca. Schematicamente l'opposizione principale nel mondo pavesiano è questa:
CITTÀ' |
CAMPAGNA |
strada |
terra / collina |
donna-aggressività |
donna-sesso / donna-dolcezza |
solitudine e adolescenza |
Sfrenatezza / dolcezza infanzia |
dovere e impegno politico |
|
|
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inverno e notte |
estate-sole d'agosto |
lampioni, pioggia, tabacco |
calore, incendio, colline bruciate |
La città, insomma, che a livello di coscienza è la maturità, la fermezza, l'impegno, nel simbolismo profondo, nella 'verità' del mito, è il luogo della solitudine, dell'alienazione, della mancanza; luogo di prostitute, sbandati, ubriachi, di vecchi e ragazzi deviati, che nel sesso e nell'alcool cercano i sostituti della felicità, ma sono infelici.
La campagna, invece, terra e collina, è la pienezza della vita, sia perché luogo aperto, selvaggio, libero sia perché idea della madre (le mammelle delle colline), da cui si viene e in cui ci si rifugia.
Per adesso è sufficiente aver posto queste basi, che ci consentono di affrontare con maggiore consapevolezza la lettura delle principali opere di Pavese.[AdL1]
LA POESIA.
Pavese comincia la sua attività di scrittore come poeta. Passerà, però, presto ai racconti e ai romanzi. Poi tornerà ancora, di tanto in tanto, a scrivere versi.
Sull'opera poetica di Pavese (cioè sulla sua opera in versi) si può rinviare alle pagine di Guglielmino (Il sistema letterario. Novecento. pp. 1000 e ss. ), con appena qualche integrazione.
1. Prima di tutto bisogna ricordare che nel 1936, quando apparvero le poesie pavesiane (Lavorare stanca), era dominante in Italia il gusto 'ermetico', cioè una concezione della poesia come espressione di sentimenti e immagini in un linguaggio 'chiuso', difficile, astratto, lontano da ogni contatto con la realtà quotidiana: un linguaggio che usava il simbolo, l'allusione misteriosa, la parola che rimanda ad altre parole per essere capita. Insomma una poesia per pochi intenditori, aristocratica, tutta intimistica anzi solipsistica.
Le poesie di Pavese apparvero subito molto diverse e in contrasto con la lirica ermetica: esse raccontavano dei fatti, descrivevano il mondo quotidiano, gli ambienti popolari, la campagna o le strade della città, e lo facevano con un linguaggio molto vicino al parlato. Quindi era una lirica che sembrò realistica, non più chiusa nel mondo privato dell'autore, ma aperta alla società, alle pene, ai drammi degli altri.
2. C'era anche una novità stilistica e metrica, come abbiamo accennato.
Il verso di Pavese era ampio, lungo (aveva il ritmo del decasillabo ma era di tredici sillabe), sembrava una prosa: e ne puoi vedere esempi nel manuale citato.
Pavese la chiamò poesia - racconto, poesia che voleva avere 'la massima aderenza alle cose'.
Con una felice sintesi Elio Gioanola definisce 'realismo lirico' la cifra della poesia di Pavese. Gioanola adopera anche la formula 'realismo mitico', per alludere alla capacità pavesiana di trovare nell'esperienza delle cose, della vita concreta (= realismo), il mito, la verità profonda ed eterna (= mito ).
E tuttavia Lavorare stanca 'non preludeva tanto a sviluppi creativi nell'ambito della lirica in versi, quanto alla preparazione dei ritmi del racconto in prosa (Poesia italiana del Novecento, Librex, p. 645).
3. Però dopo le prime poesie a Pavese sembrò che la sua lirica corresse un rischio: di diventare una specie di raccontino in versi, un disegno soltanto, quasi uno schizzo di certi ambienti popolari e di certi personaggi (cioè una specie di bozzettismo naturalistico).
Per evitare questo pericolo Pavese modificò un po' il suo modo di fare versi e le sue liriche non si svolsero più come racconti, ma come una catena di immagini, attraverso le quali egli ricreava fantasticamente la realtà (vedi nel manuale a p. 1001).
Tuttavia questi cambiamenti non snaturarono la poesia pavesiana, che rimase sempre in bilico tra il racconto e l'immagine.
4. Se scendiamo ora nel cuore della lirica di Pavese troviamo che fin dall'esordio il giovane scrittore (come accade solo ai grandi) ha trovato i temi e i toni ai quali resterà fedele per tutta la vita, in ogni sua opera.
Ecco allora che già compaiono i contrasti dolorosi tra il mondo della campagna e quello della città. E il primo è il luogo dell'infanzia, piena di mistero, di scoperte, di 'verità' profonde (i miti) che colpiscono l'animo e restano dentro tutta la vita: nella campagna c'è il sesso, la scoperta della donna come femmina, la passione violenta, lo scatenarsi degli istinti; in città la solitudine, la povertà dei sentimenti, la freddezza.
Emerge, in mezzo agli altri temi, la figura dell'espatriato, che, fatta la fortuna, torna al suo paese e cerca di ritrovare nella sua terra se stesso, il senso della vita, recuperando il passato. Sarà il tema, questo, dell'ultimo romanzo, La luna e i falò.
5. Alcune poesie esemplari sono: I mari del Sud, Incontro, Il Dio - Caprone, Grappa a settembre.
Le prime due sono antologizzate nel manuale.
Il Dio - Caprone è una poesia che svolge il tema della campagna come infanzia e mito.
Non c'è vero realismo, la fantasia si concentra tutta sul 'selvaggio', che è sangue e sesso.
Al centro il caprone, favoloso animale circondato di mistero: la campagna è piena di misteri per il ragazzo che viene dalla città in estate (= il ragazzo è lui) e tra animali e gente dei campi impara il sesso e che donne e capre, se si uniscono al maschio, restano gravide.
Quando arriva la notte e si leva la luna, le capre si agitano, perché vanno in cerca del caprone. Questo, di notte, assale ogni femmina, animale o umana e la sua violenza fa scorrere sangue. Talvolta i cani feroci strappano la catena, si uniscono al caprone e 'poi ballano tutti, tenendosi ritti e ululando alla luna.'
E la vita dei contadini si svolge in questa campagna dominata dalle forze primordiali dell'istinto: essi lavorano, zappano, cantano, bevono vino, fanno figli, ed hanno 'i volti bruciati' come il colore della terra, perché 'l'idea di nerezza' richiama 'l'intimità di rapporto tra il contadino e la terra.'
In questa istintualità primordiale le donne e i contadini assumono atteggiamenti e comportamenti animali e gli animali assurgono a dimensioni demoniache, in una caratteristica mancanza di distinzioni.
L'altra lirica, Grappa a settembre, realizza l'ideale dell'immagine - racconto: ci sono 'poche immagini (nebbia, mattino, grappa, donne) che si inseguono e si intrecciano, scambiandosi qualità e caratteristiche' (Gioanola, cit. p. 660).
E' settembre, i mattini sono chiari sul fiume. C'è odore di tabacco e c'è la grappa. 'Tutto si ferma e matura.' Al mattino si vedono solo donne, che ricevono il sole 'come fossero frutta', anch'esse maturano ('Le strade / sono come le donne, maturano ferme.). Poi l'odore del tabacco si confonde con quello della grappa: 'è un nuovo sapore' che emana dalle cose. 'E' così che le donne / non saranno le sole a godere il mattino.'
La donna conclude la lirica, cioè da protagonista, che ha la capacità di godere delle cose perché essa è 'natura', è istinto, è terra.
PAVESE NARRATORE.
1. Dopo le prove iniziali, nel 1938 - 39, Pavese compone Il carcere. E' la trascrizione dell'esperienza vissuta durante il confino a Brancaleone Calabro.
Non è tanto un racconto di fatti e personaggi ma, nonostante la narrazione in terza persona, è l'indagine su una coscienza inquieta (la sua), che sente il peso della sua solitudine, il bisogno di spezzarla andando verso gli altri, ma non è capace di liberarsene, perché avverte oscuramente che il suo destino è nell'essere solo.
Può sembrare realismo, in verità è un lungo racconto intimistico e autobiografico. Non manca la donna, Concia, che, al solito, è natura, istinto, maternità e sesso, primitività.
2. Nel 1941 appare Paesi tuoi. Nasce subito un equivoco: mentre in Italia (dopo Bernari, con Tre operai e Moravia, con Gli indifferenti) si andava sviluppando la richiesta di realismo, contro l'intimismo della prosa d'arte e degli ermetici, questo racconto è giudicato appunto 'realistico'.
C'erano delle ragioni: è infatti il racconto di un incontro fra Talino (contadino violento e istintivo), ex carcerato, e Berto (cittadino disadattato) uscito anche lui dallo stesso carcere. Berto è goffo e incerto, Talino energico e sicuro. I due si stabiliscono in campagna. Berto vi trova un mondo sanguigno e bestiale, pieno di simboli e di riti. Scopre che Talino ha incendiato il cascinale di un rivale, che la sorella di lui ne è stata un tempo l'amante. Berto inorridisce e, anche perché innamorato della sventurata ragazza, se ne va. Ma Talino continua la sua furia: ucciderà per gelosia la sorella, conficcandole un forcone nella gola e si consegnerà ai gendarmi sotto gli occhi esterrefatti di Berto.
E' un testo complesso, questo. In esso si intrecciano le suggestioni di Verga con quelle degli scrittori realistici americani (tanto amati da Pavese), mentre, dietro l'apparente naturalismo, si può scorgere la presenza dei soliti miti (città / campagna ecc.).
Significativa la dimensione mitica e sacrificale che Luperini trova nel dissanguamento di Gisella, trafitta dal forcone ('un rito iniziatico - il sacrificio per le messi - non un documento sociale e realistico.')
LE OPERE DELLA MATURITÀ
1. Ci soffermeremo su quattro opere. Due molto importanti, anche se non eccezionali, e due che sono i capolavori di Pavese.
2. Significativo è Il compagno (1945 - 6), storia di Pablo che, da superficiale suonatore di chitarra, matura pian piano una coscienza morale e politica e si fa militante della Resistenza.
Pavese paga così il suo pedaggio al neorealismo e alla poetica dell'impegno, cioè si adegua al clima del dopoguerra quando lo scrittore doveva essere 'impegnato', e partecipare così, con la penna, alla lotta politica contro il fascismo e contro il regime moderato post fascista.
Il romanzo riesce soltanto in parte. E' il segno evidente che l'ispirazione resistenziale non era quella vera di Pavese e che la scelta di quel tema, congeniale a molti scrittori del suo tempo, per lui era una forzatura.
3. L'altra opera, fondamentale, è Dialoghi con Leucò.
Sono 27 brevi dialoghi, preceduti da una Avvertenza, che afferma la vitalità simbolica del linguaggio del mito, da cui riemergono aspetti primordiali e inquietanti dell'esistenza.
'Il centro tematico è la trama di cui è tessuto il destino umano, governato crudelmente dagli dèi, indifferenti e annoiati nella loro eternità.
Ma i mortali hanno bisogno di speranze e si nutrono di emozioni e passioni, come Saffo, che è tanto più viva dell'inerte ninfa Britomarti. Calipso, per esempio, non riesce a trattenere Odisseo, che non è attratto da un'immortalità priva di ansie.
Armanda Guiducci, studiosa di Pavese, trova che, accanto al tema del destino nell'angoscia della solitudine, in un mondo - carcere, compare l'altro tema (L'inconsolabile) di Orfeo, estrema incarnazione di Pavese stesso. E' il mito più esemplare: 'l'idea cupa del destino come ripetizione, giacché ciò che è stato sarà, e l'idea disperata della poesia unica salvezza contro l'angosciosa solitudine in un destino in un destino invincibile, che imprigiona.
4. Per La casa in collina e La luna e i falò sono largamente sufficienti le pagine e le schede di Guglielmino, integrate dalle schede di Marchese.
LO STILE
Per lo stile, sono sufficienti le osservazioni di Guglielmino e di Marchese.
una sintesi dei romanzi citati è nelle schede del Dizionario Vallecchi o del Dizionario CDE.
Pagina:
3
[AdL1]
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