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LETTERATURA E MALE: UN INEVITABILE CONNUBIO
Il tema del male è stato affrontato dai principali scrittori e poeti di ogni epoca storica. D'altra parte si tratta di una questione di fondamentale importanza pratica, che ci riguarda sia come singoli individui sia come uomini inseriti all'interno di un particolare contesto sociale. Per questo intellettuali e scrittori hanno cercato di analizzarne le sfaccettature e di presentare nelle loro opere dei modelli che fossero in grado di individuarne l'essenza. Questo procedimento è perfettamente riscontrabile, ad esempio, nelle tragedie di Seneca, la cui attività si colloca nel periodo della prima età imperiale. Sotto il nome di Seneca ci sono giunte nove coturnate e una pretesta di dubbia autenticità: Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamennon, Thyestes, Hercules Oetaeus e Octavia.
Nelle sue tragedie Seneca ha analizzato con scrupolo quasi scientifico tutti quegli aspetti dell'essere umano che la sua stessa filosofia condannava. Se il saggio stoico deve praticare quotidianamente il controllo delle passioni e il distacco dai beni terreni, e coltivare con costanza le virtù legate ad una esistenza vissuta nella piena consapevolezza di ogni istante, i protagonisti delle sue tragedie calpestano senza ritegno il bene, la giustizia e tutti loro valori positivi. Si tratta di personaggi totalmente privi di ratio, intenti solo ad infrangere ogni legge umana e divina; l'unica scienza ammessa è la magia nera, cioè il controllo delle forze della natura a scopi malefici. Questi 'eroi' rifiutano la vista della luce, gettandosi con perverso piacere dentro gli abissi della passione; sono anime malate, che hanno perso la ragione e per questo si ritrovano in balia di se stesse. Vero e proprio emblema del male è Medea, protagonista della tragedia omonima, la quale arriva ad uccidere con le proprie mani i figli avuti da Giasone, innocenti vittime della sua incontrollabile sete di vendetta. Gli eroi del teatro di Seneca dunque sono tutti eroi del male. L'unica eccezione è rappresentata da Ercole, che l'autore presenta come eroe della constantia.
La scelta di Seneca di rappresentare in queste tragedie un panorama desolato e senza luce può essere spiegata considerando il contesto storico in cui egli ha operato. Gli anni del dominio giulio-claudio, infatti, sono anni cupi e violenti, segnati dalla presenza di imperatori dal temperamento spesso poco stabile e da un forte senso di tensione. Paradossalmente in questo periodo, e in particolare durante gli anni di Nerone, fiorirono tre dei più grandi scrittori latini: Seneca, Petronio e Lucano, tutti e tre morti suicidi per sfuggire all'imperatore, che li avrebbe fatti giustiziare. Non bisogna quindi stupirsi della loro visione drammatica dell'esistenza umana. Se Seneca descrive un mondo dominato dal nefas e da parricidi, incestuosi e assassini, Lucano lo presenta governato dalla crudeltà umana e divina (con particolare gusto dell'orrido ), mentre Petronio ride di una società costituita da intellettuali privi di principi e morale, liberti arricchiti e ignoranti, scrocconi e pervertiti.
Tra gli episodi più inquietanti del Bellum Civile di Lucano può essere ricordato quello in cui Sesto Pompeo si reca a consultare la maga Erictho, precedentemente descritta come una strega al di fuori dai canoni, estranea ad ogni forma di vita sociale e completamente immersa in un dimensione notturna e infera. Nella scena di necromanzia, la cui atmosfera non può non ricordarci quella di molti film horror, la terribile ed empia maga fa tornare l'anima di un defunto nel corpo di un soldato caduto.
Raddoppiate con un incantesimo le tenebre della notte,
la lugubre testa avvolta in una fosca nube,
si aggirò fra i cadaveri degli uccisi abbandonati senza sepoltura.
Subito fuggirono i lupi, fuggirono, ritratti gli artigli,
i rapaci insaziati, mentre la Tessala sceglie
il proprio veggente, e frugando tra le viscere gelate della morte,
trova le fibre d'un polmone gonfie e intatte,
e cerca di suscitare la voce nel corpo defunto.
Infine, trafitta la gola del corpo prescelto, lo prende,
e arpionatolo con un uncino dai lacci ferali, trascina
lo sventurato cadavere su ciottoli e pietre, e lo porta,
per farlo rivivere, ai piedi dell'alta rupe di un monte
cavernoso, prescelto dalla sinistra Erictho per le sue magie.
Compiendo un salto temporale notevole, il male è una delle principali tematiche negative del Romanticismo europeo. Opponendosi al rigido materialismo e al vuoto deismo degli illuministi, i romantici decisero di affidarsi nuovamente alla spiritualità e alla religiosità. Ciò determinò anche un profondo interesse per l'indagine del sovrannaturale, l'esoterismo, la magia, l'alchimia. In questa dimensione si afferma prepotentemente, attraverso le pagine di molti scrittori romantici, l'immagine del principe delle tenebre, Satana, a cui viene dedicato un culto oscuro e blasfemo. Il grande fascino che il male ha esercitato sull'anima romantica è stato magistralmente individuato da Mario Praz, autore di La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica. Crudeltà, lussuria, morte e sangue caratterizzano quel filone del Romanticismo definito "nero", in cui atmosfere orrorose sono popolate di spettri, visioni macabre e inquietanti apparizioni, il tutto all'insegna del totale rifiuto della ragione.
Una delle opere più interessanti della prima generazione romantica in Inghilterra è La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge, posta ad apertura delle Ballate liriche scritte insieme a William Wordsworth. In questa ballata un vecchio marinaio dall'aspetto spettrale e dagli occhi scintillanti si rivolge a un invitato a nozze impedendogli di recarsi alla festa. Gli racconta del suo viaggio per mare e della tempesta che trascina l'imbarcazione fino al Polo Sud. Ad aiutare i marinai giunge un albatros, simbolo del legame che unisce l'uomo alla natura. Proprio quando tutto sembra ormai essere sul punto di risolversi per il meglio, il vecchio marinaio uccide l'uccello salvifico con la sua balestra: è l'inizio di una tremenda avventura che porterà i suoi compagni alla morte e cambierà inevitabilmente la sua esistenza.
Alla fine incrociammo un Albatro,
Sbucò di tra la bruma;
Lo salutammo in nome del Signore,
Quasi che fosse un'anima cristiana.
Ci nacque a poppa un vento benigno;
L'Albatro ci teneva compagnia,
Ed ogni giorno, per cibo o per gioco,
Compariva al richiamo di noi.
"Dio ti scampi, mio vecchio Marinaio,
Dai diavoli che ti torturano così!
Perché fai quella faccia?"Con la balestra
Io abbattei quell'Albatro.
Questo momento segna l'inizio della punizione non solo di colui che ha commesso l'atto empio, ma anche dei suoi compagni, che comunque risultano essere suoi complici. Il Marinaio non dà alcuna spiegazione delle ragioni che lo hanno spinto ad uccidere l'albatro e a rompere la sacra legge dell'ospitalità (l'uccello,infatti, era stato ben ricevuto dalla ciurma). Si tratta di un gesto apparentemente senza senso. Come si può spiegare il fatto che un uomo in condizioni disperate arrivi ad eliminare volontariamente l'unico portatore di salvezza? Forse la risposta a questa domanda la si può trovare considerando i concetti di eros e tanatos sviluppati da Sigmund Freud in un'opera del 1929, Il disagio della civiltà. Qui Freud afferma che eros e tanatos sono due impulsi presenti nell'umanità e tra loro contrapposti: l'uno è l'impulso alla creatività, alla vita, l'altro quello all'aggressività, alla morte. L'atto del Marinaio dunque è frutto di questo istinto di morte, tanto forte quanto privo di giustificazione. L'essenza del male sta proprio qui: nessun movente è più irragionevole e insieme più irresistibile che fare una cosa solo perché non la si deve fare.
Questo lato particolarmente oscuro dell'animo umano è analizzato anche in altre due note opere letterarie: Il signore delle mosche di William Golding e Delitto e castigo di Fedor Dostoevskij.
Il tema portante de Il signore delle mosche è lo smascheramento del mito romantico del bambino inteso come puro ed innocente. L'autore, infatti, narra la storia di un gruppo di bambini inglesi finiti su un isola deserta a causa di un disastro aereo. Invece di darsi da fare per organizzarsi al meglio, i bambini iniziano a non rispettare le regole stabilite per poi riunirsi, sotto l'influenza del perfido ma carismatico Jack, in una tribù di selvaggi dai volti dipinti e dagli istinti sanguinari. Anche in questo caso l'influenza di tanatos è evidente, ma non basta a spiegare il comportamento di questi bambini. Il vero artefice di tutto in questo caso è Jack, ragazzo arrogante, violento, desideroso solo di affermare se stesso (Schopenhauer docet); Jack è malvagio, ma la sua malvagità esercita un fascino irresistibile sugli altri bambini, che uno ad uno passano dalla sua parte abbandonando quasi con sollievo le rigide ma giuste regole che Ralph aveva fissato. Jack offre loro cibo e protezione, Ralph solo costrizioni e doveri. Mentre il secondo cerca di costruire un'organizzazione democratica fondata sulla razionalità, il primo è abile nello sfruttare le irrazionali paure dei suoi compagni, e così la Bestia, inesistente creatura inizialmente temuta da tutti, diventa una sorta di divinità "nera" da adorare e servire in cambio di libertà, potere e sangue. Il Signore delle mosche, cioè Satana, il Male assoluto, diventa vero protagonista del romanzo, a dimostrare che le anime dei bambini sono candide proprio perché si possono facilmente "macchiare".
In Delitto e Castigo la situazione è completamente diversa. Il protagonista del romanzo è un povero studente, Raskolnikov, che vive in una misera camera d'affitto a Pietroburgo grazie ai soldi che la sorella gli manda. Preso da una esaltazione superomistica decide di assassinare e rapinare una vecchia usuraia, in modo da affermare la sua completa libertà e la sua superiorità su ogni altro uomo, ma anche per aiutare la sua famiglia (questa però non è di certo la ragione profonda che lo spinge ad agire). Tuttavia è presto colto dai rimorsi; da una parte cerca di convincersi della propria superiorità, dall'altra cade in preda a deliri in cui accusa se stesso. Alla fine Raskolnikov decide di confessare tutto a Sonja, una giovane prostituta, l'unica in grado di suscitare in lui un senso di umanità e di amore: "Sonja, io ho un cuore cattivo, lo hai visto: e questo può spiegare molte coseChe cosa mi ha spinto in realtà?Ecco, volevo diventare un Napoleone. Per questo ho ucciso".
Raskolnikov dunque afferma di aver ucciso per diventare potente: in lui c'è qualcosa di demoniaco e la sua superbia può essere paragonata a quella dell'angelo caduto. Il male da lui compiuto è frutto della libertà, di una libera scelta di ribellione che lo porta all'autodistruzione. Egli voleva infrangere un principio, e invece ha compiuto un duplice atto distruttivo, uccidere una vecchia e soprattutto annientare se stesso, dimostrando di essere non un un superuomo, ma un volgare assassino, un "pidocchio" come tutti gli altri.
Una concezione totalmente diversa di male è quella alla base del pensiero leopardiano. Leopardi fa del dolore, della sofferenza e del pessimismo un sistema filosofico. Ciò dipese fortemente dalle avversità che la vita gli pose ben presto davanti: a soli venti anni Leopardi ha già una profonda esperienza del dolore e dell'angoscia, generata in particolare dalla sua deformità, dalla sua salute cagionevole e dall'isolamento in cui è costretto a vivere presso il palazzo di famiglia a Recanati. Alcuni lo hanno accusato di essere così pessimista solo a causa delle sue condizioni fisiche (fatto che comunque sarebbe pienamente giustificato). In realtà Leopardi sfrutta la sua condizione per gettarsi a capofitto nell'analisi della sofferenza umana; non c'è alcun lamento individuale; egli non si presenta come una vittima, e le sue considerazioni sul male vengono fatte con dignità e coscienza della sofferenza, senza 'querele'. Leopardi intende il male come qualcosa di fisico, che intacca e tortura l'uomo nella sua interezza. Il pessimismo leopardiano passa attraverso due fasi fondamentali: pessimismo storico e pessimismo cosmico. Inizialmente Leopardi ritiene che l'infelicità dell'uomo sia un dato puramente storico: gli antichi erano felici perché in grado di abbandonarsi a grandi illusioni, mentre l'uomo moderno le ha distrutte e ha messo in evidenza l'arido vero della condizione sulla terra. In questa fase la natura è ancora considerata una entità positiva e benefica, perché capace di produrre solide e soddisfacenti illusioni. Successivamente Leopardi modifica profondamente le basi del suo 'sistema': la natura non è più qualcosa di positivo, ma una matrigna malvagia, che si preoccupa solo della conservazione della specie e non del singolo (questa concezione è stata anche paragonata alla Wille di Schopenhauer). La responsabilità dell'infelicità umana ora è fatta ricadere per intero sulla natura, che infonde negli uomini la tendenza al piacere, senza però poter soddisfare tale bisogno (teoria del piacere). Questa idea di natura è ben spiegata nel Dialogo della Natura e di un Islandese, appartenente alle Operette morali. Qui vengono meno le ultime briciole di fiducia nei confronti della natura, forza spietata e irrazionale, indifferente al destino dei suoi figli: "Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro, che alla felicità degli uomini o all'infelicitàTu mostri non aver posto mente che la vita di quest'universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera , che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla conservazione del mondo".
Tuttavia il pessimismo di Leopardi raggiunge le sue vette massime in una brevissima poesia, A se stesso, appartenente al cosiddetto "ciclo di Aspasia". Qui il poeta va oltre il bisogno di sfogo, denunciando con versi di straordinaria asprezza la negatività della vita, consacrata dalla fine dell'amore per la bellissima Fanny Targioni Tozzetti, che mai lo ricambiò.
Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.
In questo componimento ritroviamo tutti i temi principali della ricerca filosofica leopardiana, connotati da un nuovo, assoluto pessimismo. Il poeta sente di aver perso ogni speranza, insieme alla voglia di illudersi nuovamente ("l'inganno estremo" è l'ultima illusione, cioè la passione per Fanny). L'esistenza è materialisticamente intesa come "amaro e noia", il mondo altro non è che "fango", mentre l'unico dono concesso dal fato agli uomini è la morte, perché libera l'uomo dalle sue sofferenze e ne annulla la sensibilità. Niente allora vale i sentimenti umani, perché niente è in grado soddisfare il nostro infinito bisogno di piacere. Interessante è il riferimento al "brutto poter", che sottolinea la malvagità del principio che regola l'universo. Si tratta quasi di una divinità negativa, il cui potere si esprime nascostamente a danno di tutti gli esseri viventi. Questo elemento è un chiaro rimando all'abbozzo dell'Inno ad Arimane, all'incirca dello stesso periodo (1833).
Re delle cose, autor del mondo, arcana
Malvagità, sommo potere e somma
Intelligenza, eterno
Dator de' mali e reggitor del moto,
Vivi, Arimane e trionfi, e sempre trionferai.
Perché, dio del male, hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere? L'amore?
Io non so se tu ami le lodi o le bestemmieTua lode sarà il pianto, testimonio del nostro patire.
Pianto da me per certo Tu non avrai
Ma io non mi rassegnerò
Se mai grazia fu chiesta ad Arimane, concedimi ch'io non passi il settimo lustro.
Non ti chiedo nessuno di quelli che il mondo chiama beni: ti chiedo quello che è creduto il massimo de' mali, la morte.
Il poeta dunque crea una vera e propria religione negativa, che dà un taglio netto a tutte le consolazioni della fede. Ad Arimane, principio del male nella cultura iranica, non può che chiedere il male per eccellenza: la morte. Egli prende di mira non soltanto le correnti religiose e spiritualistiche che negli anni della Restaurazione avevano ripreso il sopravvento, ma anche il valore che comunemente è attribuito alla vita: l'esistenza è un oceano di sofferenze, per cui solo l'annullamento totale dell'essere può recare sollievo.
Evidenti tracce di pessimismo le ritroviamo anche nella poesia di Eugenio Montale. Testo esemplare a riguardo è Spesso il male di vivere ho incontrato, appartenente alla sezione "Ossi di seppia" dell'omonima raccolta del 1925. Questa poesia, concisa ed essenziale ma dalla forte carica espressiva, presenta una struttura binaria che contrappone in modo radicale il male al bene.
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuor del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Ognuna delle delle due quartine presenta tre oggetti con funzione di emblema: il rivo strozzato, la foglia riarsa e il cavallo stramazzato per il male, la statua, la nuvola e il falco per il bene. Nella prima quartina i tre emblemi sono disposti secondo un climax ascendente sulla base dell'intensità del male patito. Abbiamo quindi un crescendo di sofferenza che, partendo dal suono lamentoso emesso dall'acqua di un ruscello che ha difficoltà a scorrere, passa attraverso l'incartocciarsi di una foglia bruciata dal sole e ormai priva di vitalità, per poi culminare con l'immagine di un cavallo irrigidito dalla morte. I tre emblemi rappresentano anche i tre regni dell'esistente: la natura inanimata, il regno vegetale e quello animale. Anche nella seconda quartina abbiamo un climax ascendente il cui valore positivo è legato all'innalzamento e al distacco, intesi come prerogative del bene. La statua, con la sua inanimata freddezza, ci restituisce perfettamente l'idea del distacco impersonale; la nuvola, alta nel cielo, è lontana dalle vicende umane, mentre il falco si eleva al di sopra di tutto con il suo volo. Per il poeta dunque il male è ancorato alla natura stessa (l'influenza di Leopardi è evidente), e il bene è individuabile solo nella distanza, nella imperturbabilità, nella "divina Indifferenza". Il male di vivere è la sofferenza implicita nella vita, ma anche la condizione dell'uomo contemporaneo, che di fronte all'insensatezza delle cose e del dolore non può far altro che cercare di ignorarla, nella consapevolezza che qualsiasi azione concreta non avrebbe alcun effetto positivo. Non bisogna poi dimenticare che gli ossi di seppia sono essi stessi emblemi della precarietà, dell'aridità del mondo. Ecco allora che emerge il male di vivere, seguito dall'indifferenza, dall'atonia vitale, dalla fredda immobilità e dalla nevrotica passività. Montale stesso ha scritto in una lettera del '26 rivolta a Svevo di essere "un albero bruciato dallo scirocco anzi tempo". Nemmeno l'indifferenza e l'immobilità possono impedire la dissoluzione dell'essere nel nonsenso universale.
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