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La letteratura dell'Età Romantica




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La letteratura dell'Età Romantica


Studiare il Romanticismo solo attraverso i suoi massimi esponenti non fornisce un quadro completo del fenomeno. Pertanto vedremo, in sintesi, quali sono gli sviluppi letterari del periodo in esame, al fine di comprendere meglio un movimento così complesso, quale è appunto quello Romantico, e le influenze da esso esercitate nella letteratura del periodo successivo.

In particolare cercheremo di comprendere come si collochino gli altri letterati nell'ambito delle due principali tendenze del Romanticismo: quella oggettiva (in cui troviamo Manzoni) e quella soggettiva (in cui si colloca Leopardi)

Ricordiamo che tali due tendenze, unite per l'ultima volta proprio nel Romanticismo, si svilupperanno separatamente conducendo la prima direttamente al Verismo, l'altra al Decadentismo. Questo ci conferma come qualsiasi sviluppo culturale successivo all'età Romantica abbia, in diversa misura, un rapporto di filiazione con quella che, a ragione, è definita una rivoluzione culturale, parallela alle altre due rivoluzioni, una politica (Rivoluzione Francese) e l'altra economica (Rivoluzione Industriale), con cui si apre l'età contemporanea.




Caratteri generali della letteratura romantica


La letteratura dell'età che corrisponde storicamente al trentennio 1820­-1850 è in prevalenza ispirata ai princìpi romantici del vero o e della popo­larità .

Il primo si ridusse in gran parte all'accoglimento del motivo civile-patriot­tico, il quale scaturiva dalla sempre più avvertita esigenza di una soluzione unitaria del problema nazionale, e conferisce a molta letteratura romantica il carattere oratorio e polemico della letteratura di battaglia.


Quando è il vero storico ad essere fatto oggetto dell'opera letteraria, il poeta o lo scrit­tore, se si esclude il capolavoro del Manzoni, tende più a stabilire un rapporto tra il passato ed il presente, che a perseguire l'obiettiva rappresentazione degli eventi e l'analisi psicologica dei personaggi; tale rapporto ne condi­ziona però, sia la scelta degli argomenti da trattare (episodi dai quali emerga il valore italiano durante la dominazione straniera, lotta dei comuni medie­vali contro l'Impero, e soltanto in un secondo tempo eventi del tardo Sette­cento o del primo Risorgimento), sia lo stesso modulo narrativo, il quale prende spesso lo spunto dal fatto storico per abbandonarsi ad ampie descri­zioni pittoriche del costume od a prolisse divagazioni di natura sentimentale. Tutto ciò in uno stile e con mezzi espressivi che tradiscono facilmente la ricerca della tipica semplicità e chiarezza del modello manzoniano.


Il secondo principio, quello della popolarità , si riflette tanto sul con­tenuto quanto sulla forma e sfocia sia nella tendenza propriamente realistica, che approda a felici esiti artistici soltanto nella poesia dialettale di Porta e Belli, sia nella tendenza patetico-sentimentale, che è comune a quasi tutta la lirica minore del perido che, per soddisfare il desiderio di farsi facilmente comprendere, a volte indulge alla musicalità espressiva dei moduli arcadici, a volte accentua la, foga dei sentimenti, e favorisce in tal modo l'avvento di quello che sarà chiamato il secondo romanticismo di Aleardi e Prati.


Il rinnovamento civile-letterario dei contenuti comporta anche il rinno­vamento dei generi: abbandonato il bagaglio delle forme classicheggianti, quali la canzone ed il verso sciolto, si coltivano forme più libere, come la bal­lata e la romanza; la tragedia e la commedia scompaiono nella classica distinzione per far luogo al dramma, in cui il comico ed il tragico si fondono in unità di ispirazione; si afferma la novella in versi, che solitamente ha per oggetto argomenti storico-fantastici; i generi si riducono sostanzialmente al lirico, al narrativo, al drammatico, ed acquistano il valore di istintiva ed indistinta, anzi che disciplinata, espressione artistica.

Sono infine da ricordare i benefici influssi che sui nostri poeti e scrittori esercitarono i contatti sempre più frequenti con le letterature straniere, con­tatti resi possibili dalle numerose traduzioni dal francese, dall'inglese, dal tedesco.




La prosa



Prosa politica e storiografia


Analizzando le dottrine romantiche e la letteratura che da esse ebbe origine, è apparsa chiara la stretta dipendenza di questa dal massimo problema che agitò le menti ed il cuore degli Italiani durante l'età risorgimentale: la liberazione dallo straniero e l'unificazione politica.


Il fermento di idee da cui scaturì la polemica unitaria e repubbli­cana di Giuseppe Mazzini od il socialismo di Carlo Pisacane, l'accentuato nazionalismo di Gioberti od il conservatorismo illuminato di Balbo e D'Azeglio, il moralismo di Tommaseo od il positivismo e radicalismo di Cattaneo, si sia manifestato con maggior forza e con maggior chiarezza di intenti nella trattatistica politica; non potendo, tuttavia, essere ignorata la trasposizione del pensiero politico nel campo letterario, è doveroso tener presenti quegli scrittori che maggiormente hanno saputo concretare tale trasposizione con opere rivolte, od alla educazione della coscienza nazionale (posizioni idealistiche), o ad una più matura ricostruzione del passato alla luce del presente.


Romantico per la passionalità della sua predicazione, foscoliano per l'im­petuosità dell'azione, GIUSEPPE MAZZINI (1805-1872), in opposizione al concetto classico del bello, fu assertore di un fine pedagogico dell'arte, la quale avrebbe dovuto sostituire al vero reale il vero morale, agli affetti i principi, all'essenza l'idea: nessuna opera artistica, a parer suo, può essere considerata tale se non serve all'avvenire dell'umanità. Egli considerò la letteratura passata come espressione della società in cui era sorta: a quella presente e futura assegnò come contenuto il suo vangelo sociale, come fine l'ispirazione polare e religiosa.

Primo fra i critici moderni considerò l'arte e l'artefice « frutto» e non «causa» dei loro tempi, e non infrequentemente, numerosi suoi scritti, mise in stretto rapporto di dipendenza tendenze letterarie e pensiero politico di una determinata epoca. Dei molti saggi d'argomento letterario pubblicati dal Mazzini su giornali e periodici, due soprattutto si raccomandano alla nostra attenzione: Dell'amor patrio di Dante e D'una letteratura europea. Nel primo intese difendere l'Alighieri da tutti coloro che volevano vedere nelle sue violente invettive contro Firenze e contro gli Italiani soltanto il segno di un'ira partigiana.

Nel secondo viene affermata l'esistenza, in Europa, di un pensiero e di una meta comune: i giovani cui sta a cuore il progresso debbono perciò studiare i volumi di tutte le genti, porsi a contatto con loro, ed aspirare, accomunati dalle medesime sciagure, ad uno stesso fine.


Se declamatorio ed immaginoso è lo stile della prosa mazziniana, la quale, pur con inconfondibili accenti personali, discende direttamente da quella foscoliana, retorico ed enfatico è lo stile della prosa di VINCENZO GIOBERTI (1801-1852), volta più a persuadere con la forza improvvisa degli scorci e dei moduli letterari, che a penetrare profondamente nell'animo del lettore. Mazziniano in gioventù, anch'egli considerò il problema del risorgimento italiano come un problema di educazione spirituale (idealismo): il nostro popolo non sarebbe mai addivenuto all'indipendenza politica senza prima procedere ad un rinnovamento interiore, senza tornare a riprendere coscienza del suo pri­mato e della sua tradizione. L'unica forza ideale, a parer suo, in grado di realizzare l'unità nazionale degli Italiani, nonostante il frazionamento politico del paese, era il cattolicesimo, il quale, se per tutti i popoli assumeva il valore di religione universale, per il nostro popolo era parte integrante della sua storia e della sua cultura. Era stato il cattolicesimo a far grande l'Italia agli occhi delle altre nazioni, ed ancora il cattolicesimo poteva riportare l'Italia al suo ufficio di « nazione madre del genere umano », se avesse saputo ristabilire un rapporto positivo tra fede e cultura, accogliendo le esigenze di modernizzazione che provenivano dai ceti intellettuali più, operosi e più interessati ad un civile progresso. -Da tale profonda convinzione scaturisce direttamente il «guelfismo» giobertiano, con tutte le implicazioni politiche che esso ebbe a comportare (federazione dei prìncipi italiani presieduta dal pontefice). Soltanto in un secondo momento, combat­tuto da gesuiti e democratici, da mazziniani e conservatori, condannato dalla stessa Chiesa, auspicò nell'opera sua migliore, Del rinnovamento civile d'Italia (1851), l'unificazione del paese ad opera della Casa Savoia, mise in rilievo i mali dell'assolutismo e della reazione cattolica, e formulò un programma politico che comprendeva la cessazione del potere temporalistico della Chiesa di Roma e l'inserimento della politica italiana nella vita europea.

In campo letterario è soprattutto interessante il quadro dello sviluppo organico della nostra letteratura contenuto nel capitolo VII, parte II, del Primato morale e civile degli Italiani Il declino delle lettere italiane inizia, per il Gioberti, nell'età rinascimentale, quando cioè comincia ad attenuarsi la coscienza morale ed il senso di respon­sabilità per una partecipazione attiva alla vita civile e politica: il loro risor­gimento, preparato dal ritorno del culto di Dante nella seconda metà del Settecento, è legato alla capacità degli scrittori moderni di far proprie le esigenze e le speranze della grande massa dei lettori, vale a dire, di presentare nelle loro opere contenuti a carattere popolare e nazionale ad un tempo. Questi concetti esercitarono una notevole e positiva influenza sulla critica posteriore, a cominciare da De Sanctis.


Prosatore versatile e rappresentante del pensiero repubblicano-fede­ralista fu CARLO CATTANEO (1801-1869): capo del Consiglio di guerra durante le Cinque Giornate di Milano, fu tenace assertore della libertà intellettuale, prima ancora di quella politica, e concepì il disegno dell'unità nazionale come unico mezzo per poterla realizzare concretamente: tale unità, a differenza del federalismo neoguelfo, fu da lui intravista in forma federativa di repubbliche sul modello svizzero -americano, conscio come era dei diversi livelli culturali e delle diverse strutture econo­miche che contraddistinguevano allora le regioni italiane. Tardo illuminista e precursore del positivismo, diede vita alla rivista scientifica Il Politecnico (1839-1845 e 1860-1863): con essa Cattaneo intendeva promuovere una graduale evoluzione degli stati italiani verso idee e sistemi liberali, premessa indispensabile per la loro con­fluenza in un accordo federativo.

Cattaneo intravede nel progresso economico , scientifico e tecnologico, la possibilità per l'Italia di acquisire indipendenza e libertà (più che nell'educazione morale e civile). Pertanto si colloca al di fuori dell'idealismo romantico degli altri autori trattati.


In posizione alternativa alla concezione metafisica e romantica della li­bertà avanzata da Mazzini, sta la convinzione realistica di CARLO PI­CANE (1818-1857) che nessuna forma di libertà sia possibile senza una recedente eliminazione delle disuguaglianze sociali, e che a tale eliminaz­ione debbano concorrere con un'azione di forza, cioè con la rivolu­zione, le grandi masse popolari e contadine, pena il fallimento del movi­mento risorgimentale: a determinare questa convinzione nello sfortunato protagonista della spedizione di Sapri, che pur aveva aderito in un primo momento al « volontarismo etico » mazziniano, furono la serrata analisi della realtà economica del nostro paese, della quale è affermata perentoria­mente l'importanza prioritaria nei confronti della realtà politica, e le precor­ritrici aperture sociali, che inseriscono questo nostro pensatore nell'ambito della corrente socialista europea. Le sue tesi sono desumibili soprattutto dal` Saggio sulla rivoluzione, terminato poco prima della sua tragica fine e pubbli­cato postumo nel 1860: in esso, con una prosa sobria ma efficace, con uno stile distaccato ma obiettivo, Pisacane indica nell'insurrezione armata il traguardo finale del suo programma politico, traguardo possibile solo che si sappia far leva sull'insopprimibile aspirazione delle plebi a migliorare le pro­prie condizioni di vita: il risorgimento della patria non può significare altro, per esse, che il raggiungimento dell'ugualianza sociale.


Parallelamente all'insorgere del neoguelfismo, che riteneva il Papato com­ponente provvidenziale e necessaria per la ripresa politica della nazione, e del neoghibellinismo, che concepiva tale ripresa al di fuori della Chiesa nella sua veste di potenza temporale, prende vita una storiografia neoguelfa, o cattolico-liberale, ed una storiografia neoghibellina: da entrambe, in ade­renza alle dottrine romantiche, il passato viene studiato in funzione dei due problemi che dominavano la meditazione e l'azione dei patrioti del tempo, vale a dire l'unità e l'indipendenza della penisola.


Massimo esponente della prima è il torinese CESARE BALBO (1789-1853), uno dei capi della corrente moderata italiana. L'opera maggiore, il Sommario della storia d'Italia, fu pensata a lungo ma stesa in brevissimo tempo nella primavera del 1846: breve e succinta per quanto si riferisce all'evo antico e all'alto Medioevo, la narrazione si amplia nell'esame dell'età comunale, in cui Balbo scorge la prima afferma­zione della nazionalità italiana, e via via si anima di indignazione patriottica nel presentare le tragiche vicende della secolare oppressione straniera: pur indulgendo scopertamente alla teoria neoguelfa, il Sommario finisce per risul­tare un appassionato libro di battaglia in favore dell'indipendenza politica del paese. Il problema dell'indipendenza è al centro delle Speranze d'Italia (1844), e di esso viene prospettata una soluzione diplomatica a carattere euro­peo: rinunziando all'Italia, l'Austria poteva essere «compensata » con una sua maggiore penetrazione nei territori balcanici facenti parte dell'impero turco.




Memorialisti


Anche la letteratura memorialistica è in prevalenza di intonazione poli­tico-patriottica: le vicende personali dei protagonisti delle opere autobiogra­fiche si inseriscono, direttamente od indirettamente, nelle vicende della stessa nazione, tutta protesa a riconquistare la perduta libertà ed a ripercorrere faticosamente il cammino della propria rieducazione civile e morale.

La più nota e più fortunata di tali opere sono Le mie prigioni di SILVIO _PELLICO (1789-1854), il redattore-capo del Conciliatore che, avendo aderito alla Carboneria, fu arrestato; processato e condannato a morte nel 1821 dal­l'Austria, condanna commutata in quindici anni di carcere duro allo Spielberg, (Moravia); graziato dopo otto anni, tornò in patria, si ritirò a Torino, ed ivi trascorse la rimanente parte della vita in qualità di bibliotecario della mar­chesa Barolo, lontano dalle passioni politiche e tutto dedito a pratiche reli­giose. Il racconto della sua penosa odissea di prigioniero si risolve nella storia drammatica delle vicende interiori della propria anima, la quale, attraverso la sofferenza, ritrova Dio e la fede religiosa; le vicende esteriori del suo particolarissimo itinerario spirituale, rappresentato dalle inenarrabili sofferenze del carcere, si tramutano involontariamente in uno spietato atto d'accusa contro l'Austria e contro i suoi ossequenti aguzzini.

La grande lezione morale impartita da Pellico ne Le mie prigioni è di carattere morale: in uno stile limpido e semplice, che richiama da presso la nitidezza della prosa manzoniana, egli afferma il diritto naturale e divino dell'uomo a vivere libero, e scopre in tutti, buoni o malvagi, nel compagno Maroncelli come nel carceriere Schiller, o nei commissari e nelle guardie, il volto segreto della fratellanza umana.


Intento prevalentemente educativo presentano I miei ricordi di MASSIMO D'AZEGLIO con questa, che è la sua opera maggiore, egli si era proposto, mettendo a profitto la propria esperienza personale, di contribuire in qualche modo alla formazione degli Italiani, i quali, a suo parere, non avrebbero mai potuto aspirare a divenire entità politica senza prima costi­tuirsi in entità spirituale è morale (idealismo). Le linee direttrici di .questa azione riformatrice sono estremamente semplici: assoluta coerenza di condotta e di pensiero, ripudio di ogni dema­gogia e di ogni retorica, rispetto di sé medesimi e degli altri, lealtà nella vita privata e nella vita pubblica, priorità della coscienza nei confronti del proprio tornaconto; il vero progresso dell'umanità, egli afferma, « non istà nelle macchine a vapore, ma nella crescente potenza del senso morale, del senso del giusto-)re del vero ». Le pagine dei Ricordi sono tutte un susseguirsi di felici, ed a volte commosse, rievocazioni della propria vita fino agli avveni­menti del esse sono caratterizzate da una « vena narrativa » tutt'altro che disprezzabile, da un gusto, quasi pittorico, a schizzare scene e bozzetti, a descrivere costumi e paesaggi, a meditare e ad esprimere considerazioni personali sotto forma di sentenze, tanto più efficaci quanto meno rigide e compassate.

Un capitolo a parte è rappresentato dalla cosiddetta letteratura garibal­dina, il cui centro ideale è costituito dalla figura e dalle imprese del Gene­rale, ma il cui valore sostanziale si riduce a quelle opere i cui autori, rievocando la loro partecipazione alle gesta di Garibaldi, rag­giungono un discreto livello letterario e artistico.

È il caso del volumetto Da Quarto al Volturno, Noterelle d'uno dei Mille, GIUSEPPE CESARE ABBA (1838-1910): più che la storia della leggendaria impresa, esso ne costituisce una specie di celebrazione epica, per la tensione eroica che trasfigura gli avvenimenti e per la colorazione sentimentale che smate­rializza, nel ricordo, il fatto storico (la stesura dell'opera risale a vent'anni, dopo la spedizione); la sua fortuna, nella valutazione critica dell'ultimo Otto­cento, è da ascrivere in gran parte alla levigatezza della forma.






Il romanzo storico e la sua evoluzione



La grande fortuna di cui godette il romanzo storico nella prima metà dell'Ottocento è dovuta al fatto che tale genere di narrativa in prosa conciliava due contrastanti tendenze dell'anima romantica: aderenza alla realtà della vita (tendenza oggettiva), primo passo verso il realismo ed il verismo; evasione da questa realtà (tendenza soggettiva), ricostruita in modo fantastico e sentimentale (l'eroe combatte, oltre che per un ideale patriottico, anche per un sogno d'amore).


Favorito da quel culto della storia che contrassegna tutto il secolo, e che, in opposizione all'illuminismo razionalistico, rivendicava l'importanza delle età di mezzo, nella quale veniva collocato, per tutti i popoli europei il primo risveglio della dignità e della grandezza dell'uomo, e per il popolo italiano il primo ridestarsi della coscienza nazionale (lotta dei Comuni contro il Barbarossa), il romanzo storico si diffuse in tutte le letterature moderne, compresa quella americana, e si accattivò gli ampi consensi già toccati in precedenza all'epica.

In Italia, dove si discuteva largamente sui compiti e sui rapporti tra poesia e prosa, tra storia e invenzione, esso fu volto principalmente a divulgare le imprese memorabili della nostra gente; ma lo scoperto intento di civile edu­cazione, e la passione patria che suggestiona poeti e scrittori dell'epoca, sono la ragion prima dello scarso valore artistico di gran parte dei romanzi storici italiani, ad esclusione dei Promessi sposi

A1 capolavoro manzoniano si rifanno in gran numero i romanzieri dell'età risorgimentale, ma del grande maestro non sanno riprendere, e tanto meno eguagliare, l'arte incomparabile: l'unico benefico influsso esercitato dall'insuperabile modello fu quello di frenare, con i1 «realismo » che traspare da ogni sua pagina, la tendenza romantica al vago ed al sentimentale, e di agire efficacemente sullo stile degli innume­revoli imitatori.


Vediamo solo alcuni tra gli esponenti di questo genere.


Di intenti spiccatamente patriottici, in quanto vi è rivissuto il dramma cin­quecentesco della perduta libertà italiana, sono i due romanzi di MASSIMO D'AZEGLIO (1798-1866), pittore, scrittore, uomo politico, combattente nel 1848, ministro e presidente del Consiglio dopo la sconfitta di Novara.

L'idea di scrivere un romanzo, l'Ettore Fieramosca o la Disfida di Barletta su un episodio memorabile della guerra tra Francesi e Spagnoli per il possesso del napoletano (1503), in cui tredici cavalieri italiani giostrarono vittoriosamente contro tredici cavalieri francesi per rintuzzare l'accusa dì viltà e dì tradimento ad essi rivolta, gli sorse improvvisamente dopo aver portato a termine un quadro che rappresentava quel glorioso fatto d'armi. Nel motivo patriottico si inserisce, non sempre omogeneamente, il motivo romantico dell'amore di Ettore Fieramosca per Ginevra, sposata contro sua voglia al capitano fran­cese Graiano d'Asti: per salvarla dagli artigli del Valentino la conduce nel monastero di Sant'Orsola, ma il duca la fa rapire, e Ginevra muore di dolore e di vergogna; disperato, Ettore si getta allora in mare da una rupe del Gar­gano.

Manca in quest'opera la fusione tra storia e poesia, i caratteri non sono sempre vigorosamente disegnati, lo stile risente dell'improvvisazione; eppure il libro piacque per il calore descrittivo di alcune scene, come quelle inerenti la disfida, per la vivacità di alcuni personaggi minori, come l'oste Veleno e don Litterio, per il rilievo dato a Fanfulla da Lodi, personaggio d'invenzione ma temerario sino alla pazzia. Che questo personaggio singolare fosse particolarmente caro alD'Azeglio lo possiamo dedurre dal fatto che esso ritorna, sostanzialmente lo stesso, nel secondo romanzo, Niccolò de' Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni l'azione risale al tempo della strenua difesa di Firenze in cui perì il Ferrucci (1529-30): protagonista del racconto è un vecchio mer­cante seguace del Savonarola, che ha perduto quattro figli nell'assedio della città, e che alla fine viene arrestato e fatto uccidere da un « pallesco » che ne aveva sedotta la figlia, soccorsa ed aiutata nella sventura dal giovane Fanfulla da Lodi. Nei confronti del primo romanzo, più curato è lo stile, maggiore è il rispetto alla fedeltà storica, realizzata con la ricostruzione della vita privata di una famiglia fiorentina del Cinquecento e con la riproduzione, veristica e pittorica ad un tempo, dei costumi del secolo, ma anche in questo scarsa è la corrispondenza armonica delle parti fra loro.


Temperamento battagliero ed impetuosità d'azione contraddistinguono il livornese FRANCESCO DOMENICO GUERRAZZI (1804-1873), seguace di Maz­zini e protagonista, con Montanelli, della rivoluzione toscana del 1848; esule in Corsica al ritorno di Leopoldo II, deputato al Parlamento dopo l'an­nessione della Toscana al Piemonte, e, come tale, avversario politico del Cavour e dei moderati, perché aderente alla sinistra repubblicana. Tra gli scrittori di questo periodo egli è quello che si ricollega direttamente al roman­ticismo straniero, in particolare a Byron, da lui conosciuto personalmente a Pisa: ciò spiega, nei suoi romanzi, la predilezione per gli affetti cupi e dispe­rati, la presenza di una fatalità incombente su tutti i personaggi in qualità di forza punitrice dei loro delitti, la declamatorietà dello stile. Ragione per cui, movendo essi dalla polemica politica, più che dalla immaginosa rievoca­zione del passato, si differenziano da quelli storici tradizionali per una arti­ficiosa mescolanza di contenuto drammatico, di considerazioni etiche, di oratoria. La battaglia di Benevento comparve quasi contemporaneamente ai Promessi sposi: sullo sfondo dell'impresa di Carlo d'Angiò contro Manfredi di Svevia vi sono narrati fatti di sangue, storie d'amore, strani casi di insidie e di agguati, di congiure e di tradimenti, che fanno assomigliare l'opera, più ad un poema epico in prosa, che ad un romanzo. Il libro godette di grande popolarità per l'acceso amor patrio che lo anima. Ancor più denso di passione patria è l'Assedio di Firenze, scritto, al dire dello stesso autore, « per non aver potuto combattere una battaglia ». È l'opera migliore di Guer­razzi, ed in essa si ritrovano, accentuati, tutti i pregi ed i difetti della sua arte: la nobile fierezza e l'eroica vitalità del popolo fiorentino, vinto ma non domato dall'esercito degli imperiali.


Dopo il 1848 il romanzo storico vero e proprio volge al declino, non tanto per mancanza di nuove opere significative, quanto per una evoluzione del gusto, che al passato antepone il presente, al vago sentimentalismo preferisce una maggiore schiettezza introspettiva nel delineare i personaggi: integrando l'elemento storico con l'elemento realistico, che del Romanticismo è l'aspetto più vitale e duraturo, al soggetto d'invenzione viene sostituito il soggetto tratto dalla realtà quotidiana o dalla realtà contemporanea, ed il romanzo, sotto il moderato influsso di Sand e di Balzac, si avvia a quello che sarà, entro breve tempo, il romanzo psicologico e veristico.

Si ricorda che anche da un punto di vista storico dopo il '48 la situazione politica muta e si avviano quei processi che porteranno all'affermazione di regimi liberali. Pertanto non è più sentita la necessità di ricorrere alla storia per mascherare ragioni politiche; se dopo il Congresso di Vienna i regimi assolutistici non consentivano di fare riferimenti diretti al presente, dopo il '48 la situazione si avvia a mutamenti significativi.

Quanti continuano a produrre opere del genere storico, senza accogliere le nuove istanze di cambiamento, ad esempio i manzoniani, finiscono per cadere nello schema e nell'artificio, in quanto, appunto, sono venute meno le ragioni politiche che ispiravano i loro precursori.



Pertanto il romanzo storico si evolve, accogliendo motivi tratti dalla realtà quotidiana, riattualizzandosi sempre più fino ad arrivare al romanzo verista.

Altra direzione di evoluzione è data dall'approfondimento psicologico, via che porterà attraverso il Decadentismo fino al romanzo psicologico di Svevo.


Il maggiore risultato questo processo evolutivo, nel nuovo indirizzo psicologico del romanzo, è rap­presentato dalle Confessioni di un italiano di IPPOLITO NIEVO nato a Padova nel studiò legge nella città natale, partecipò alla guerra del con i cacciatori a cavallo di Garibaldi, e l'anno seguente si unì alla spedizione dei Mille in Sicilia con incarichi non molto dissimili da quelli di tesoriere del­l'impresa; la morte lo colse, nel nel misterioso naufragio di un vecchio veliero che da Palermo faceva rotta su Napoli. Vissuto in un'epoca che può essere definita di transizione, perché insieme erede degli atteggiamenti del primo Romanticismo e del primo Risorgimento e precorritrice del rinnova­mento spirituale e culturale dell'ultima parte del secolo, Nievo intuì l'ur­gente necessità di risolvere i problemi più assillanti che incombevano sulla giovane nazione: rieducazione morale e civile delle masse popolari, unità economica e sociale del paese, accantonamento di ogni interesse particolaristico e di ogni pregiudizio teorico.

A questa intuizione è informata tutta la sua attività letteraria, notevole se si pensa al limitato periodo di tempo entro cui si svolse

Le Confessioni furono composte in pochi mesi, dal dicembre del 1857 al­l'agosto del 1858: la morte precoce impedì al Nievo quel necessario lavoro di rielaborazione e di rifinitura stilistica dal quale solo possono scaturire il senso dell'armonia delle parti e l'eleganza formale che si addicono ad un'opera eccellente. Numerose, quindi, specie nella seconda parte, le inverosimiglianze di casi o le minuziosità dei particolari, che si traducono, ora in un roman­zesco susseguirsi di colpi di scena, ora in una eccessiva prolissità del racconto. Non sempre la lingua aderisce perfettamente alla sostanza umana del soggetto; spesso la molteplicità dei temi, che dalla rievocazione nostalgica della fanciullezza si estendono alla ammirazione incondizionata dell'azione eroica, alla effusione sentimentale, al commento insistito su problemi morali e politici, all'ironia che sconfina nella caricatura, ingenera dissonanze di toni e varietà di ritmo, che nuocciono in misura maggiore o minore all'unità artistica dell'opera.

Tutto ciò non infirma la grandiosità e novità di concezione del capolavoro nieviano: nella trama di una biografia immaginaria è inserita la rappresen­tazione di straordinari eventi storici, vicini al suo tempo, quali la fine del governo aristocratico veneziano, l'invasione napoleonica, le vicende delle Repubbliche romana e partenopea, i moti e le guerre del 1848-1849. Si noti quindi il progressivo avvicinamento del quadro storico di sfondo all'attualità (processo che poi porterà dal romanzo storico a quello verista):

Dalla folla dei personaggi che nelle figure del libro sembrano vivere una loro vita autonoma, ma che ser­vono tutte a fissare in modo mirabile il costume d'Italia negli ultimi anni del secolo XVIII e nei primi del XIX, emerge la figura della Pisana, il carat­tere più nuovo della nostra letteratura.

Di questa eroina moderna, che. nel racconto compare e scompare con una tale periodicità da far apparire forzati i suoi interventi provvidenziali, Nievo ci ha lasciato un ritratto indimenticabile per rilievo ed acutezza psi­cologica.

L'infanzia della Pisana si confonde con l'infanzia di Carlino, e dalla rie­vocazione dei giorni trascorsi nel castello di Fratta, vero centro ideale della prima parte delle Confessioni, nascono le pagine più suggestive e più poetiche del romanzo (a questo tema evocativo della fanciullezza e dell'adolescenza arriderà in seguito molta fortuna). Il piccolo ambiente feudale settecentesco che vi si agita è avvolto come da un alone di fiaba che tutto ingigantisce, tutto trasfigura sotto l'azione di una fantasia che vede proiettati uomini e cose nella immensità di un mondo reale che pare di sogno.

Al quadro di questa società in disfacimento fa riscontro, nella seconda parte, una tela dai vastissimi orizzonti, nella quale, oltre alle vicende romanzesche dei due protagonisti, si inseriscono il trapasso dal feudalesimo veneto al risorgimento unitario, l'avvincente mondo dei cospiratori, l'accorata desolazione degli esuli, l'entusiasmo dei volontari che combattono a Napoli ed Roma per il trionfo dell'idea repubblicana.

L'attenzione poi ai problemi sociali ed ai caratteri distintivi di una regione, quella del Friuli, anticipa le tematiche di buona parte della letteratura italiana della seconda metà del secolo.

Concludiamo l'evoluzione del romanzo storico con la più complessa e la più singolare tra le figure di letterati dell'età romantica: quella di NICCOLO' TOMMASEO: in lui si accentrano:

i principali motivi del Romanticismo (senso religioso della vita, contemplazione del­l'eterno fluire delle cose, smarrito stupore dinanzi alla grandezza dell'universo, insanabile contraddizione tra la violenza dei sensi e le aspirazioni dello spirito)


si manifestano anche atteggiamenti propri dell'età posteriore, decaden­tistica (novità del linguaggio, poetico, mobilità della fantasia, frammentarietà nella ricerca del particolare, propensione verso la poesia dell'inconscio e del torbido)


e ancor più il tormentato psicologismo di molta parte della lettera­tura italiana ed europea del primo Novecento.



Nato a Sebenico nel 1802, studiò nel seminario di Spalato e seguì poi i corsi di diritto all'Università di Padova, dove si laureò . Dopo un soggiorno di sette anni a Milano, durante i quali entrò in dimestichezza con Manzoni e polemizzò con Monti a proposito della lingua del popolo, che egli difendeva strenuamente, si trasferì a Firenze: quivi collaborò all'Antologia del Vieusseux e pubblicò il Dizionario dei sinonimi. Soppresso nel 1834 il perio­dico, visse per qualche tempo in esilio a Parigi, e poi in Corsica, dove raccolse, i più caratteristici canti popolari del luogo. Approfittando di un'amnistia, tornò nel 1839 a Venezia, e nel 1848, sempre a Venezia, partecipò al governo insur­rezionale di Daniele Manin in qualità di ministro della pubblica istruzione. Alla , capitolazione della città nel 1849, riprese la via dell'esilio, prima a Corfù, dove fu colpito da una quasi completa cecità, poi a Torino, e, dopo l'unità d'Italia, a Firenze: in questi due soggiorni si dedicò prevalentemente all'attività gior­nalistica ed alla composizione del grande Dizionario della lingua italiana. Morì a Firenze nel 1874.

In Tommaseo coesistono, senza che l'una ignori l'altra, due distinte personalità: quella dell'artefice e quella dell'artista;

all'una fanno capo il co­stante interesse per i problemi linguistici e le infinite prove di metri e di stile

si deve all'altra se il mondo di affetti, di desideri insaziati, di speranze, perseguite sempre e non mai raggiunte, si concreta in una così attenta, a volte disperata indagine psicolo­gica del proprio animo, da costituire un caso, limite dell'individualismo ro­mantico.


Tale indagine si rivela in tutta la sua lucidità autobiografica nel Diario intimo, iniziato a diciannove anni e continuato a diversi intervalli fino al sog­giorno di Corfù: da esso traspare la singolarissima capacità introspettiva dello scrittore che, con una sincerità raramente atteggiata a posa, nulla nasconde della mutevole ed ombrosa impressionabilità del suo spirito, del continuo, e tormentoso suo oscillare tra la colpa ed il pentimento, della affannosa sua ricerca di una stabilità interiore ancorata alla fede.


Nel romanzo Fede e bellezza, che del Tommaseo è l'opera in prosa artisti­camente più importante e che si differenzia dal modello manzoniano per la componente degli affetti in luogo di quella storica, che lo caratterizza, il centro di indagine è costituito dalla reciproca confessione di due giovani, Maria e Giovanni, i quali, dopo un'esistenza inquieta e passionalmente trava­gliata, pensano di redimersi attraverso un sincero vincolo d'amore. In effetti, Giovanni, esule e scrittore dalla vita disordinata, e Maria, delusa affettivamente e fisicamente stanca, non sono che uno sdoppiamento della personalità stessa dell'autore, il quale si serve del gracile e diaristico schema delle loro vicende per riprodurre la inconciliabile presenza della terra e del cielo nel proprio spirito, la sconcertante alternanza di aspirazioni mistiche, di morbose cadute, di inquietanti rimorsi, che contraddistinsero la sua vita. La novità del sog­getto, l'acutezza dell'introspezione, l'originalità di talune pagine lirico-descrit­tive, collocano quest'opera in una posizione tutta particolare nel quadro della narrativa ottocentesca e anticipano opere di autori successivi come Fogazzaro.


Si ricorda infine di Tommaseo l'aspetto più interessante ed originale della sua attività di critico-teorico: il culto che egli ebbe per la poesia popolare, cioè per la poesia creata dal popolo, in piena aderenza, pressoché unico fra i nostri romantici, alla contrapposizione herderiana di questa alla «poesia d'arte »: da qui la raccolta di Canti popolari corsi, toscani, greci, illirici, accompagnati da note esplicative ed all'occorrenza da versioni.





Poesia e teatro


Di scarsa importanza artistica, in contrapposizione a quello tedesco, in­glese, francese (Goethe e Schiller, Shelley, Hugo e De Vigny), è il teatro romantico italiano, che vanta una sola opera di autentica poesia: 1'Adelchi di Manzoni. Alle profonde e sostanziali innovazioni di gusto e di temi d'oltr'alpe, corrispondono in Italia soltanto innovazioni esteriori (tecnica strutturale e scelta degli argomenti): teatro quindi di modesta levatura, nel quale conflui­scono l'esigenza fantastico-storica della novella in versi e del romanzo, non­ché la sentimentalità romantica propria di tutti gli altri generi letterari di questo periodo.

Venuta meno la passione politica, ben pochi lettori attraggono oggi le numerose tragedie di SILVIO PELLICO che pur avevano suscitato calorosi applausi fra i contemporanei: opere tutte di evocazione storica e di propa­ganda politica (Eufemio da Messina, Esther d'Engaddi, Iginia d'Asti), risul­tano fiacche di ispirazione e poeticamente poco valide. Non si salva neppure la più fortunata, ma anche la più languida fra esse, la Francesca da Rimini, alcuni versi della quale avevano fatto fremere di commozione gli spettatori del tempo.



La poesia ottocentesca, invece, è orientata verso due direzioni fondamentali:


il patetico

il patriottico


La prima direzione indulge spesso in un vagheggiamento e compiacimento di sentimenti languidi e rappresenta la parte più caduca e meno interessante, perché ristretta nei confini di una moda che ha ormai fatto il suo tempo.

La seconda, facendo proprio il canone della popolarità, esprime il dolore per la patria oppressa, l'ansia di libertà, la sofferenza degli umili: essa assolve all'importante compito di rinnovare la coscienza civile e morale degli Italiani, ed in questa sua opera di apostolato nazionale ci fa dimenticare il sentimentalismo, l'oratoria, la trasandatezza del linguaggio.


Ad entrambe, tuttavia, si deve la crea­zione di quelle che possiamo considerare forme nuove e proprie della letteratura romantica:

la romanza, in strofe di settenari ed ottonari, di intonazione popolare, ha per temi storie medievali di amore e d'arme, circondate da un alone di mistero;

la ballata, di derivazione spagnola e tedesca, ha in comune con la romanza i temi medievali , ma si compiace del lugubre e del tragico e accondiscende all'introduzione di fantasmi ee incantesimi, in aderenza alla vaga religiosità romantica che avvertiva la presenza di forze oscure nell'universo

la novella in versi, in ottave o sciolti, si contraddistingue per la natura umana dei soggetti (storie di amore e di morte) ed ha lo scopo di suscitare nel lettore un senso di commozione.


Vediamo ora i principali filoni della poesia romantica.










Poesia patetico-sentimentale e patriottica



La lirica patetico-sentimentale muove dal desiderio di rappresentare creature irrequiete e tormentate, ubbidisce al gusto romantico per la leggenda ed il mito popolare.

Tranne casi particolari, non è da attribuire altro valore che non sia quello documentario della particolare sensibilità di un dato momento storico.

Eleganza di stile, musicalità di accento, vivacità di immagini caratteriz­zano le Ballate del veneziano LUIGI CARRER (1801-1850), anche se lontane dalla potenza fantastica e dalla immediatezza di sentimento dei modelli tede­schi (Goethe, Schiller, Bürger): la più nota, fra tutte, è Il cavallo di Estrema­dura: vi è ripreso il motivo del cavaliere che, avendo domato un cavallo che seminava stragi, e non avendo ottenuto il premio promesso, cioè la mano di una principessa, riappare in chiesa nell'istante in cui questa sta per andare sposa ad un principe di sangue reale, la pone in arcioni, e scompare con lei.

Fra le composizioni di questo genere si segnala anche, per la penetrazione psicologica dei personaggi, Una serva, di NICCOLÒ TOMMASEO, che si accentra su uno dei temi cari al poeta: la lotta tra l'amore e la religione.



Se importante fu la funzione storica della poesia patriottica nel quadro delle lotte risorgimentali, la ricerca di una immediatezza espressiva che la tramutasse in efficace strumento di propaganda e la uniformità dei temi trat­tati (schiavitù politica d'Italia, odio verso lo straniero oppressore, nostalgico rimpianto dell'esule) ne costituirono dei limiti pressoché invalicabili, ai fini del conseguimento di concreti esiti artistici, di valore e significato non con­tingente.

Ne fu massimo rappresentante GIOVANNI BERCHET (1783-1851), della cui Lettera semiseria si è fatto cenno: costretto a esulare nel 1821 per l'attiva sua partecipazione nelle cospirazioni lombarde contro l'Austria, peregrinò in Inghilterra, Francia, Germania, rientrò in Italia nel 1847, e morì a Torino dopo essere stato eletto due volte al Parlamento subalpino. Aveva iniziato la sua attività letteraria con sermoni di tipo pariniano e con traduzioni dall'in­glese, dal francese e dal tedesco, ma fu soprattutto come poeta civile e patriot­tico che si acquistò larga fama presso i contemporanei.

La triste realtà storica italiana si traveste in forme e motivi popolari natura narrativo-drammatica in sei Romanze: Clarina piange ogni sera sotto i pioppi della Dora il fidanzato costretto ad andare in esilio dopo i moti del '21; il Romito del Cenisio, immaginosa personificazione del padre di Silvio Pellico, dissuade un viaggiatore nordico dallo scendere in Italia rivelando entro quali tradimenti e repressioni essa si dibatta; una italiana, spregia per aver sposato un tedesco, lamenta l'onta della propria scelta nel Rimorso; Matilde si ridesta atterrita da un sogno nel quale si è vista in indotta dal padre a sacrileghe nozze con un ufficiale austriaco; la madre Giulia trepida per il figlio esule e per un altro chiamato a servire l'aborrito oppressore; il Trovatore, cacciato esule per aver avuto l'ardire di sollevare lo sguardo sulla bella castellana, adombra la sorte di quanti avevano dovuto abbandonare in quegli anni l'Italia.

I ricordi dell'Italia vittoriosa sul Barbarossa (giuramento di Pontida, ba taglia di Legnano, pace di Costanza) si alternano a quelli di un'Italia schiava al presente ed avvilita, ne Le Fantasie, poemetto epico-lirico che ha per oggetto i cinque momenti      del sogno di un esule al tempo della dominazione austriaca nel Lombardo-Veneto: si nota in questa, che è la migliore composizione di Berchet, una più composta passionalità patriottica, una più nitida rappresentazione artistica, un tono più vigoroso e gagliardo, che richiama l'impetuosa ode All'armi! All'armi! scritta nel 1830 per i moti di Bologna di Modena.

Oltre a Berchet, ma pur degni di ricordo, sono altri poeti, esuli, al pari di lui, o cospiratori, o combattenti per la causa nazionale: ad alcune com­posizioni di essi toccò una popolarità che il tempo non ha ancora del tutto sopita. Del genovese GOFFREDO MAMELI (1827-1849), morto poco più che ventenne nella difesa della repubblica romana contro i Francesi, è l'inno Fratelli d'Italia che, musicato dal maestro Michele Novaro, ebbe l'onore di essere scelto quale inno nazionale dall'Italia repubblicana.

Fortunati furono due canti del marchigiano LUIGI MERCANTINI (1821-1878), La spigolatrice di Sapri e l'Inno di Garibaldi: nell'uno è celebrata, con sottile venatura romantica, la spedizione di Carlo Pisacane; nell'altro è accolta l'eco vibrante della gloriosa epopea garibaldina. Di ARNALDO FUSINATO  (1817­ -1889) è un altro canto fortunatissimo, L'ultima ora Di Venezia (" Passa una gondola/ nella città. / Ehi, della gondola/ qual novità?/ Il morbo infuria,/ il pan ci manca, / sul ponte sventola / bandiera bianca "). La maggior parte di queste composizioni appartiene tuttavia più alla storia civile che alla storia letteraria.




Poesia satirica e poesia realistica dialettale



Alla poesia civile si ricollegano anche gli Scherzi di GIUSEPPE GIUSTI (1809-1850): a fare le spese della sua mordace ironia è il vecchio mondo provinciale della Toscana, chiuso nel suo egoismo, nelle sue superstizioni, nelle sue consuetudini di compor­tamento; allorché lo sguardo si rivolge al di là dei confini della propria terra, il verso si fa più arguto e festevole, più colorito e popo­lare, e la sua satira spazia nella realtà quotidiana, senza peraltro giungere, e ciò lo differenzia dai poeti realisti del secolo, in particolare Porta e Belli, alla creazione di personaggi dalla vita autonoma. I suoi componimenti più noti, che prendono di mira ora i tiranni ora le innumerevoli schiere dei profittatori e degli adulatori, ora la nobiltà arro­gante, ora borghesia scroccona, e che, avversando in tutti i modi l'odiata op­pressione austriaca, accolgono la profonda ansia di libertà e di rinnovamento sociale che serpeggiava ovunque, furono cari alle generazioni del primo risor­gimento ed a quelle immediatamente successive.

Di indole bonaria, Giusti rifugge da pose drammatiche: in campo morale vagheggia un comune ideale di sobrietà, di onestà, di tolleranza; in campo letterario, avversa ogni eccesso innovatore o conservatore; in campo politica, a parte la strenua opposizione all'Austria, si abbandona ad un gene­rico patriottismo, che non gli impedisce di lanciare frizzi contro neoguelfi, neoghibellini, repubblicani e monarchici.

La frequenza, inoltre, del fine moralistico e didascalico    avvicina il verso del Giusti alla prosa, tanto che egli stesso, prima ancora dei critici, aveva adoperato per sé la formula « poesia prosaica ».

Il meglio della sua arte è da ricercarsi nella capacità singolarissima di vivacizzare un ritratto, di fissare un dialogo, di cogliere un gesto, m una linea­rità e schematicità di disegno che, avvivato dalla trovata arguta, dal vocabolo schiettamente toscano, dalla allusione piccante o dal tono caricaturale, finisce per creare tutta una serie di scenette e monologhi indimenticabili.

A parte i caratteri generali, riconducibili ad una « medietas » di buon senso che non deve essere confusa con il solito compromesso, la poesia giustiana si muove su due tematiche:


  1. la caricatura di un solo vizio, pur nella varietà che esso comporta
  2. la rappresentazione della società fiorentina, sulla quale agisce un penetrante e critico spirito di osservazione.

Alla prima risalgono, se si vuol ricorrere ad una qualche esemplificazione, Il brindisi di Girella contro quanti si affidano, in un rivol­gimento politico, ad una dozzina di coccarde di vario colore; La chiocciola contro gli uomini della mediocrità, o, per meglio dire, delle "pantofole"; Il re Travicello, contro l'impotenza ed il mugugno dei sudditi incapaci di qualsiasi decisione.

Alla seconda, maggiormente oggi apprezzata per le implicazioni di natura sociale che indirettamente essa presenta, da ascrivere Il ballo, caricatura della folla composita ed equivoca che si raduna nella vecchie sale di un palazzo fiorentino;         La vestizione, ironica e pungente satira contro la compra-vendita di titoli nobiliari; La scrittura, umoristica descrizione del contratto di matrimonio tra un nobile povero e a figlia di un ricco usuraio; Il Gingillino, aspra censura di una burocrazia arrivista e corrotta.




Poesia realistica dialettale


La tendenza poetica che raggiunge i più felici e fecondi esiti artistici l'età romantica fu quella realistica: essa è rappresentata soprattutto dall'opera di Porta e Belli alla cui fortuna letteraria nocque, per decenni, la scarsa valutazione riservata dagli ambienti accademici alle forme dialettali, ma la cui interpretazione artistica della vita nella sua effettiva realtà di sentimenti e di interessi, soprattutto fra i ceti più umili, ha ottenuto, in epoca relativamente recente, così larghi consensi da essere considerata, dopo quella di Manzoni, tra le più alte del secolo.


Esistenza modesta e priva di avvenimenti eccezionali, quella di CARLO PORTA iniziati gli studi a Monza e poi nel seminario di Milano a sedici anni fu inviato ad Augusta, in Germania, perché si avviasse alla mercatura, ma avendo preferito al commercio le compagnie goliardiche e le lunghe soste in birreria, fu richiamato dal padre in patria, ed intraprese, nella città natale, la vita di impiegato alle finanze, prima, e poi, dopo due anni di soggiorno a Venezia, al debito pubblico.

Amico di Manzoni e Berchet aderì ai princìpi della Rivoluzione francese, ma fu insofferente delle e sopraffazioni perpetrate dal governo napoleonico in Italia; dopo il Congresso di Vienna, pur mantenendosi lontano da pericolose avventure non nascose la sua ostilità alla nuova dominazione austriaca. Aderì coscientemente al Romanticismo, perché in esso ritrovò non pochi punti in comune con il scomodo di considerare l'arte: ripudio di ogni forma convenzionale, piena aderenza al linguaggio alla vita di ogni giorno. Pertanto si inserisce idealmente nella tradizione lombarda degli scrittori del Caffè, del Parini, e di tutti quegli scrittori e poeti per i quali la letteratura non dove ridursi ad un vano gioco di tecnicismo verbale.

Che cosa fosse per lui la realtà da trasporre in poesia, lo si può dedurre da alcuni versi di El romanticismo, versi che, in lingua italiana, suonano così: "il gran busillis della poesia consiste nell'arte di piacere, e quest'arte sta tutta bella magia di rimuovere, di rimescolare, come si vuole, tutte le passioni che abbiamo nascoste nel cuore". Si deve a questo canone fondamentale della sua poetica, se la sua satira, pur presentandoci il quadro storico e documen­tato di una Milano sconvolta dalla Rivoluzione francese od oppressa dalla reazione austriaca, trascende i confini del tempo.

I personaggi portiani, delineati tutti con forte incisività, appartengono e tre classi di cui si componeva la società d'allora: il clero i nobili, il popolo che egli osserva con l'atteggiamento di chi, animato da un solido fondo mo­rale, coglie i lati comici del loro comportamento, penetra nelle zone più nascoste del loro cuore e i ritrae con una spregiudicatezza rappresentativa che solo di rado si tramuta in invettiva o protesta. Soprattutto quando si tratta di umili e diseredati, Porta rivive gli umanissimi casi con un commosso e fraterno senso di pena. A questi personaggi colti dal vero, che frequentemente impartiscono lezioni di vita narrando in prima persona la storia delle loro offese e delle loro umiliazio­ni, si addice pienamente la parlata dialettale.

Le composizioni ispirate dalla polemica anticlericale (El viagg de fraa Condutt, On miracol, La guerra di pret) sono di derivazione illuministica e volterriana, ed irridono all'ignoranza od alla sorditez­za di questo o quel religioso.

Fra quelle che hanno per oggetto la nobiltà ipocrita e retriva si segna­per l'esemplarità dello sdegno contro un superato ordine politico­é, la Preghiera e La nomina del cappellan, entrambe quadretti di costume: nell'una, dopo una caduta davanti alla chiesa di San Celso fra i motteggi della ragazzaglia presente, donna Fabia Fabron de Fabrian entra nel tempio e ringrazia Dio di averla fatta nascere nobile, poi, per senso di compatimento, dfa istribuire una ostentata elemosina a quanti l'avevan prima derisa; nell'altra, la marchesa Paola Travasa si lascia guidar dal fiuto della sua cagnetta nella scelta del nuovo cappellano di casa.

Tr autentici capolavori emergono tra quelle dedicate al ceto più umile, a quel popolo che Porta osserva nella sua realtà di miseria, nella sua immobili di speranze deluse e di indifferente passività: la Ninetta del Verzee, il Lament del Marchion de gamb avert, i Desgrazi di Giovannin Bongee, cui fecero seguit le Olter desgrazi de Giovannin Bongee. La Ninetta è una prostituta che, rimasta orfana, viene accolta ed allevata da una comare, si innamora del figli di questa, e finisce in miseria tradita e derubata dal suo Pepp. Il Marchion è uno sciancato suonatore di "armandolin" in una sala da ballo: ivi incontra una bella ragazza, se ne innamora, la sposa ma la sua vita diventa un inferno sino al giorno in cui la disgraziata se ne va rubandogli il poco denaro e lasciandogli un figlio di pochi mesi, e forse neppure suo. Il Giovannin un popolano borioso e smargiasso, ma vile di fronte ai soprusi di un soldato francese, che gli insidia la moglie, e di un lampionaio, che la pizzica vistosamente nel loggione della Scala: le sue rimostranze, essendo questi un impiegato regio, lo fanno finire, per colmo di sventura, in prigione.


Nella Prefazione ai suoi Sonetti, oltre duemila, GIOACCHINO GIUSEPPE BELLI dichiara espressamente di aver voluto innalzare un mo­numento alla plebe romana, cioè un ritratto oggettivo ed impassibile del­l'indole, degli usi, delle pratiche, delle credenze, delle superstizioni di un particolare ceto della sua città, in una lingua « non italiana e neppure romana, ma romanesca »: la sua attività letteraria fu quindi condizionata da limiti di contenuto («il popolo è questo e io lo ricopio ») e da limiti di forma (asso­luta fedeltà all'idioma del popolo, « senza ornamenti, senza alterazione veruna »).

Fervido ammiratore di Porta, ma di estrazione piccolo borghese, si differenzia dal poeta milanese per una visione pessimistica della vita che raggiunge toni amari e disperati, visione che muove della istintiva rivolta contro il fasto esteriore della religione ridotta a pura celebrazione di riti, contro l'anacronismo di inveterate consuetudini, contro i soprusi e le ingiustizie di una gerarchia sociale statica e per così dire cristallizzata, contro gli schemi ed i modi convenzionali della cultura romana nella prima metà del secolo e non illuminata da alcuna fiduciosa prospettiva di un futuro rin­novamento.

Ne risulta una specie di sdoppiamento dell'uomo e dell'artista; sia l'uno che l'altro aderiscono con calore e con non celata comprensione alla esistenza monotona e priva di speranza della plebe romana, ma l'uomo non giunge quasi mai a rivelarsi in tutta sincerità, perché mai diment­ico della sua condizione di pubblico impiegato e di letterato ufficiale, così che la plebe da lui descritta si trasforma, non infrequentemente, in una sem­plice materia di studio e di osservazione, sia pure tra il divertito ed il curioso; l'artista, preoccupato della oggettività e della impassibilità della rappresen­tazione, non di rado, pur accogliendo le suggestioni di linguaggio e di sen­timento del soggetto preso in esame, riduce le une e le altre ad un impegna­tissimo ed estremamente abile tecnicismo.

Manca cioè alla poesia di Belli la cordialità e la serenità della poesia di Porta; il meglio di essa è da ricercarsi in quei componimenti, drammatici e tragici ad un tempo, dove la sua rivolta porta in sé il valore di una condanna implacabile, la fantasia si sbizzarrisce a delineare una ricchissima galleria di figure indimenticabili, o la Roma pon­tificia del tempo rivive nei suoi umili e squallidi interni, nei suoi solenni ed assolati paesaggi, nella sua campagna silenziosa e deserta.

Tipica espressione del pessimismo belliano è Er caffettiere filosofo in cui , nei toni pittoreschi della filosofia popolare, ritroviamo un'amara visione della vita (quasi si potrebbe dire leopardiana): i chicchi di caffè sono ridotti in polvere dal macinino, così gli uomini, in balìa di un destino inesorabile, finiscono tutti, chi prima e chi dopo, per essere ingoiati dalle fauci della morte.

La felicità di immaginazione dell'anima popolare è colta in La creazione der monno e in Er giorno del Giudizio, nei quali par di avvertire un precorrimento i certa poesia surreale moderna, precorrimento ancor più evidente in La morte co la coda.

L'evidenza rappresentativa ed il realismo belliano raggiungono però i più apprezzabili esiti artistici quando lo sguardo del poeta si appunta sugli infelici, sulle vittime di una primitività di sentimento che sfocia nelle vendette o nei duelli rusticani (Chi cerca trova), sulla quotidianità della pena e del dolore, su una miseria materiale ritratta nei suoi più crudi aspetti: nascono allora i sonetti migliori ed i più accorati, quali La famija poverella, La vecchierella ammalata, La bbona famija, La povera madre, La povera moje.





Il Secondo Romanticismo: Prati e Aleardi


Venuta meno la tensione patriottica dopo il '48 per il fallito tentativo di tradurre in realtà l'aspirazione all'indipendenza politica, si accentua il dis­sidio romantico reale e ideale, tra l'esigenza di aderire alla realtà e l'esigenza di evadere dalla vita quotidiana per rifugiarsi nel mondo suggestivo di un vago sentimentalismo.

Sotto l'influsso dei poeti romantici stranieri, influsso mai avvertito m modo così forte, prende decisamente il sopravvento questa seconda esigenza, e mentre in Francia, conclusosi il lirico esperimento di Baudelaire si consolida la nuovissima poesia di Rim­baud, Verlaine ,Mallarmé, nella penisola si indulge al sentimentalismo che sfocia nella torbida sensibilità di quello che viene definito secondo Romanticismo. Il poeta si considera inter­prete e quasi sacerdote del cuore: nella impari lotta dell'individuo contro il fato o la società si atteggia ieraticamente a consolatore, accoglie nei suoi versi la voluttà del pianto che scaturisce dalla tragica ed insopprimibile realtà della vita. Esasperando l'analisi dei moti affettivi del­l'animo, ingigantendone la realtà « interiore », si illude di aver scoperto una nuova ed originale fonte di ispirazione, e invece dà vita a quel tipico romanticismo negativo, o manierismo tardo romantico, contro cui si scaglieranno gli « scapigliati » e i classicisti.

Le voci più interessanti di questa seconda generazione di poeti romantici furono Giovanni Prati ed Aleardo Aleardi.



GIOVANNI PRATI (1814-1884), nativo di Campo Maggiore nelle Giudicar acceso sostenitore della Casa sabauda e della corrente unitaria, esordì, ve tisettenne, con una famosa novella in versi, Edmengarda, ispirata alle reali vicende adulterine di una sorella di Daniele Manin; proseguì con una raccolta di Canti, in cui sono raggruppate quattro diverse raccolte pubblicate nel spazio di undici anni (Canti lirici, Canti per il popolo, Nuovi Canti, Canti politici): sono poesie caratterizzate da una ricca emotività e da una felici immaginativa che, unita alla musicalità del verso, furono all'origine della grande fortuna conseguita presso i contemporanei; tentò lo studio della « malattia morale » del secolo, cioè la carenza di volontà, in un poemetto in versi Armando; espresse compiutamente il su desiderio di dissolversi nella vita delle cose in Incantesimo (della raccolta Iside), una tra le più limpide sue creazioni: la maga Azzarellina, venuta di lontano, dall'India, ha toccato con la sua magica verga la fronte de poeta e l'ha trasformato in un essere minuto, tale da poter avvertire la vita dei fiori, delle formiche, delle chiocciole dei fili d'erba: in questa pagina di sogno, in questa fantasia oscillante tra l'irreale ed il reale, in questo ancor vago sentimento panico, è da cercare la no più schietta e spontanea di Prati, il quale, a giudizio di più d'un critico, fu il poeta più adatto ad impersonare, pur in modo approssimativo e sfocato, i motivi cari alla sensibilità romantica, e nel quale è dato ritrovare il maggior numero di germi destinati a fruttificare nell'avvenire.


ALEARDO ALEARDI (1812-1878), nativo di Verona e condiscepolo di Prati nei suoi studi di giurisprudenza a Padova, due volte carcerato per le sue idee patriottiche e poi professore di estetica all'Accademia di belle arti a Firenze,, si distingue da tutti gli altri scrittori del secondo Romanticismo per una maggiore vastità di orizzonti e per una più vigilata elaborazione stilistica. Con le due Lettere a Maria, l'idillio Raffaello e la Foscarina, la novella in versi Arnalda di Roca, le molte liriche amorose, che ci presentano un poeta estre­mamente sensibile ad ogni forma di languore (alcuni suoi motivi estetizzanti. sembrano anticipare il Decadentismo), incontrò grande favore presso il pubblico femminile, particolarmente suscettibile alle tenerezze affettive.

Ma sono gli ambiziosi affreschi storico-paesaggistici di Monte Circello e de Le città marinare e commercianti a rivelarci il migliore Aleardi, che si commuove di­nanzi allo spettacolo della natura, che liricamente coglie il rapido svanire delle cose e la tristezza della sofferenza umana. Nono­stante la frammentarietà episodica e la decoratività manieristica di molti brani, è possibile scorgervi una qualche anticipazione della lirica posteriore, da quella carducciana, evocatrice della storia, a quella dannunziana delle Città del silenzio.





Selezione Antologica


Sonetti di Belli

Er caffettiere fisolofo


L'ommini de sto monno sò l'istesso
Che vaghi de caffè ner macinino:
C'uno prima, uno doppo, e un'antro appresso,
Tutti quanti però vanno a un distino.

Spesso muteno sito, e caccia spesso
Er vago grosso er vago piccinino,
E ss'incarzeno tutti in zu l'ingresso
Der ferro che li sfraggne in porverino.

E l'ommini accusì viveno ar monno
Misticati pe mano de la sorte
Che sse li gira tutti in tonno in tonno;

E movennose oggnuno, o ppiano, o fforte,
Senza capillo mai caleno a fonno
Pe cascà ne la gola de la morte.

Versione in italiano

Gli uomini di questo mondo sono come
I grani di caffè nel macinino:
Prima uno, uno dopo, un'altro dietro,
Tutti vanno però verso il medesimo destino.

Spesso cambiano luogo, e spesso
Il grano grande scaccia il grano piccolo,
E si incalzano tutti sull'ingresso
Del ferro che li sfrange in polvere.

E gli uomini così vivono al mondo
Mescolati per mano della sorte,
Che li fa girare tutti in tondo.

E muovendosi ognuno lento o veloce,
Senza mai rendersi conto calano sul fondo
Per cadere nella gola della morte.



Er giorno der giudizio


Gli uomini di questo mondo sono come
I grani di caffè nel macinino:
Prima uno, uno dopo, un'altro dietro,
Tutti vanno però verso il medesimo destino.

Spesso cambiano luogo, e spesso
Il grano grande scaccia il grano piccolo,
E si incalzano tutti sull'ingresso
Del ferro che li sfrange in polvere.

E gli uomini così vivono al mondo
Mescolati per mano della sorte,
Che li fa girare tutti in tondo.

E muovendosi ognuno lento o veloce,
Senza mai rendersi conto calano sul fondo
Per cadere nella gola della morte.


Versione in italiano

Quattro grandi angeli con le trombe in bocca
Si disporranno uno per angolo
A suonare: poi con tanto di vocione
Cominceranno col dire: 'Sotto a chi tocca'.

Allora verrà su una moltitudine
Di scheletri dalla terra, a carponi,
Per riprendere sembianze umane
Come pulcini attorno alla chioccia.

E questa chioccia sarà Dio benedetto,
Il quale ne farà due parti, bianca, e nera:
Una per andare in cantina, una sul tetto.[cioè all'Inferno o in Paradiso]

In ultimo uscirà una schiera
D'angeli, e come se si andasse a letto,
Smorzeranno le luci, e buona sera.




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