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LUIGI PIRANDELLO
IL FU MATTIA PASCAL
CAPITOLO I
Una delle poche cose, anzi
forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal.
E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de' miei amici o conoscenti
dimostrava d'aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche
consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e
gli rispondevo:
- Io mi chiamo Mattia Pascal.
- Grazie, caro. Questo lo so.
- E ti par poco?
Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa
volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè,
come prima, all'occorrenza:
- Io mi chiamo Mattia Pascal.
Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l'atroce cordoglio
d'un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt'a un tratto che sì,
niente, insomma: né padre, né madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene
indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei costumi, e de' vizii, e
della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un povero
innocente.
Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente
di questo. Potrei qui esporre, di fatti, in un albero genealogico, l'origine e
la discendenza della mia famiglia e dimostrare come qualmente non solo ho
conosciuto mio padre e mia madre, ma e gli antenati miei e le loro azioni, in
un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli.
E allora?
Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi
faccio a narrarlo.
Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topi che guardiano di
libri nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, nel 1803, volle lasciar
morendo al nostro Comune. È ben chiaro che questo Monsignore dovette conoscer
poco l'indole e le abitudini de' suoi concittadini; o forse sperò che il suo
lascito dovesse col tempo e con la comodità accendere nel loro animo l'amore
per lo studio. Finora, ne posso rendere testimonianza, non si è acceso: e
questo dico in lode de' miei concittadini: Del dono anzi il Comune si dimostrò
così poco grato al Boccamazza, che non volle neppure erigergli un mezzo busto
pur che fosse, e i libri lasciò per molti e molti anni accatastati in un vasto
e umido magazzino, donde poi li trasse, pensate voi in quale stato, per
allogarli nella chiesetta fuori mano di Santa Maria Liberale, non so per qual
ragione sconsacrata. Qua li affidò, senz'alcun discernimento, a titolo di
beneficio, e come sinecura, a qualche sfaccendato ben protetto il quale, per
due lire al giorno, stando a guardarli, o anche senza guardarli affatto, ne
avesse sopportato per alcune ore il tanfo della muffa e del vecchiume.
Tal sorte toccò anche a me; e fin dal primo giorno io concepii così misera
stima dei libri, sieno essi a stampa o manoscritti (come alcuni antichissimi
della nostra biblioteca), che ora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere,
se, come ho detto, non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poter
servire d'ammaestramento a qualche curioso lettore, che per avventura,
riducendosi finalmente a effetto l'antica speranza della buon'anima di
monsignor Boccamazza, capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo
mio manoscritto, con l'obbligo però che nessuno possa aprirlo se non
cinquant'anni dopo la mia terza, ultima e definitiva morte.
Giacché, per il momento (e Dio sa quanto me ne duole), io sono morto, sì, già
due volte, ma la prima per errore, e la seconda sentirete.
CAPITOLO II (premessa filosofica a mò di scusa)
Premessa seconda (filosofica) a mo' di scusa
L'idea o piuttosto, il
consiglio di scrivere mi è venuto dal mio reverendo amico don Eligio
Pellegrinotto, che al presente ha in custodia i libri della Boccamazza, e al
quale io affido il manoscritto appena sarà terminato, se mai sarà.
Lo scrivo qua, nella chiesetta sconsacrata, al lume che mi viene dalla lanterna
lassù, della cupola; qua, nell'abside riservata al bibliotecario e chiusa da
una bassa cancellata di legno a pilastrini, mentre don Eligio sbuffa sotto
l'incarico che si è eroicamente assunto di mettere un po' d'ordine in questa
vera babilonia di libri. Temo che non ne verrà mai a capo. Nessuno prima di lui
s'era curato di sapere, almeno all'ingrosso, dando di sfuggita un'occhiata ai
dorsi, che razza di libri quel Monsignore avesse donato al Comune: si riteneva
che tutti o quasi dovessero trattare di materie religiose. Ora il Pellegrinotto
ha scoperto, per maggior sua consolazione, una varietà grandissima di materie
nella biblioteca di Monsignore; e siccome i libri furon presi di qua e di là
nel magazzino e accozzati così come venivano sotto mano, la confusione è
indescrivibile. Si sono strette per la vicinanza fra questi libri amicizie
oltre ogni dire speciose: don Eligio Pellegrinotto mi ha detto, ad esempio, che
ha stentato non poco a staccare da un trattato molto licenzioso Dell'arte di
amar le donne libri tre di Anton Muzio Porro, dell'anno 1571, una Vita e
morte di Faustino Materucci, Benedettino di Polirone, che taluni chiamano beato,
biografia edita a Mantova nel 1625. Per l'umidità, le legature de' due volumi
si erano fraternamente appiccicate. Notare che nel libro secondo di quel
trattato licenzioso si discorre a lungo della vita e delle avventure monacali.
Molti libri curiosi e piacevolissimi don Eligio Pellegrinotto, arrampicato
tutto il giorno su una scala da lampionajo, ha pescato negli scaffali della
biblioteca, Ogni qual volta ne trova uno, lo lancia dall'alto, con garbo, sul
tavolone che sta in mezzo; la chiesetta ne rintrona; un nugolo di polvere si
leva, da cui due o tre ragni scappano via spaventati: io accorro dall'abside,
scavalcando la cancellata; do prima col libro stesso la caccia ai ragni su pe'l
tavolone polveroso; poi apro il libro e mi metto a leggiucchiarlo.
Così, a poco a poco, ho fatto il gusto a siffatte letture. Ora don Eligio mi
dice che il mio libro dovrebbe esser condotto sul modello di questi ch'egli va
scovando nella biblioteca, aver cioè il loro particolar sapore. Io scrollo le
spalle e gli rispondo che non è fatica per me. E poi altro mi trattiene.
Tutto sudato e impolverato, don Eligio scende dalla scala e viene a prendere
una boccata d'aria nell'orticello che ha trovato modo di far sorgere qui dietro
l'abside, riparato giro giro da stecchi e spuntoni.
- Eh, mio reverendo amico, - gli dico io, seduto sul murello, col mento
appoggiato al pomo del bastone, mentr'egli attende alle sue lattughe. - Non mi
par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In
considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo
ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico!
- Oh oh oh, che c'entra Copernico! - esclama don Eligio, levandosi su la vita,
col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia.
- C'entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava
- E dàlli! Ma se ha sempre girato!
- Non è vero. L'uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per
tanti, anche adesso non gira. L'ho detto l'altro giorno a un vecchio contadino,
e sapete come m'ha risposto? ch'era una buona scusa per gli ubriachi. Del
resto, anche voi scusate, non potete mettere in dubbio che Giosuè fermò il
Sole. Ma lasciamo star questo. Io dico che quando la Terra non girava, e
l'uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così
altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene
che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d'oziosi
particolari. Si legge o non si legge in Quintiliano, come voi m'avete
insegnato, che la storia doveva esser fatta per raccontare e non per provare?
- Non nego, - risponde don Eligio, - ma è vero altresì che non si sono mai
scritti libri così minuti, anzi minuziosi in tutti i più riposti particolari,
come dacché, a vostro dire, la Terra s'è messa a girare.
- E va bene! Il signor conte si levò per tempo, alle ore otto e mezzo
precise La signora contessa indossò un abito lilla con una ricca fioritura
di merletti alla gola Teresina si moriva di fame Lucrezia spasimava
d'amore Oh, santo Dio! e che volete che me n'importi? Siamo o non siamo
su un'invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino
di sabbia impazzito che gira e gita e gira, senza saper perché, senza pervenir
mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un
po' più di caldo, ora un po' più di freddo, e per farci morire - spesso con la
coscienza d'aver commesso una sequela di piccole sciocchezze - dopo cinquanta o
sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio ha rovinato l'umanità,
irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova
concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente
nell'Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni e che valore
dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari,
ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai le nostre. Avete
letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina,
stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un
piccolo moto d'impazienza, e ha sbuffato un po' di fuoco per una delle tante
sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la
stupidità degli uomini che non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta.
Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla
più?
Don Eligio Pellegrinotto mi fa però osservare che per quanti sforzi facciamo
nel crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni che la provvida
natura ci aveva create a fin di bene, non ci riusciamo. Per fortuna, l'uomo si
distrae facilmente.
Questo è vero. Il nostro Comune, in certe notti segnate nel calendario, non fa
accendere i lampioni, e spesso - se è nuvolo - ci lascia al bujo.
Il che vuol dire, in fondo, che noi anche oggi crediamo che la luna non stia
per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il sole di giorno, e le
stelle per offrirci un magnifico spettacolo. Sicuro. E dimentichiamo spesso e
volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a
vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci
di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo,
dovrebbero parerci miserie incalcolabili.
Ebbene, in grazia di questa distrazione provvidenziale, oltre che per la
stranezza del mio caso, io parlerò di me, ma quanto più brevemente mi sarà
possibile, dando cioè soltanto quelle notizie che stimerò necessarie.
Alcune di esse, certo, non mi faranno molto onore; ma io mi trovo ora in una
condizione così eccezionale, che posso considerarmi come già fuori della vita,
e dunque senza obblighi e senza scrupoli di sorta.
Cominciamo.
CAPITOLO III (LA CASA E LA TALPA)
Ho detto troppo presto, in
principio, che ho conosciuto mio padre. Non l'ho conosciuto. Avevo quattr'anni
e mezzo quand'egli morì. Andato con un suo trabaccolo in Corsica, per certi
negozii che vi faceva, non torno più, ucciso da una perniciosa, in tre giorni,
a trentotto anni. Lasciò tuttavia nell'agiatezza la moglie e i due figli:
Mattia (che sarei io, e fui) e Roberto, maggiore di me di due anni.
Qualche vecchio del paese si compiace ancora di dare a credere che la ricchezza
di mio padre (la quale pure non gli dovrebbe più dar ombra, passata com'è da un
pezzo in altre mani) avesse origini - diciamo così - misteriose.
Vogliono che se la fosse procacciata giocando a carte, a Marsiglia, col
capitano d'un vapore mercantile inglese, il quale, dopo aver perduto tutto il
denaro che aveva seco, e non doveva esser poco, si era anche giocato un grosso
carico di zolfo imbarcato nella lontana Sicilia per conto d'un negoziante di
Liverpool (sanno anche questo! e il nome?), d'un negoziante di Liverpool, che
aveva noleggiato il vapore; quindi, per disperazione, salpando, s'era annegato
in alto mare. Così il vapore era approdato a Liverpool, alleggerito anche del
peso del capitano. Fortuna che aveva per zavorra la malignità de' miei
compaesani.
Possedevamo terre e case. Sagace e avventuroso, mio padre non ebbe mai pe' suoi
commerci stabile sede: sempre in giro con quel suo trabaccolo, dove trovava meglio
e più opportunamente comprava e subito rivendeva mercanzie d'ogni genere; e
perché non fosse tentato a imprese troppo grandi e rischiose, investiva a mano
a mano i guadagni in terre e case, qui, nel proprio paesello, dove presto forse
contava di riposarsi negli agi faticosamente acquistati, contento e in pace tra
la moglie e i figliuoli.
Così acquistò prima la terra delle Due Riviere ricca di olivi e di
gelsi, poi il podere della Stìa anch'esso riccamente beneficato e con
una bella sorgiva d'acqua, che fu presa quindi per il molino; poi tutta la
poggiata dello Sperone ch'era il miglior vigneto della nostra contrada,
e infine San Rocchino, ove edificò una villa deliziosa. In paese, oltre
alla casa in cui abitavamo, acquistò due altre case e tutto quell'isolato, ora
ridotto e acconciato ad arsenale.
La sua morte quasi improvvisa fu la nostra rovina. Mia madre, inetta al governo
dell'eredità, dovette affidarlo a uno che, per aver ricevuto tanti beneficii da
mio padre fino a cangiar di stato, stimo dovesse sentir l'obbligo di almeno un
po' di gratitudine, la quale, oltre lo zelo e l'onestà, non gli sarebbe costata
sacrifizii d'alcuna sorta, poiché era lautamente remunerato,
Santa donna, mia madre! D'indole schiva e placidissima, aveva così scarsa
esperienza della vita e degli uomini! A sentirla parlare, pareva una bambina.
Parlava con accento nasale e rideva anche col naso, giacché ogni volta, come si
vergognasse di ridere, stringeva le labbra. Gracilissima di complessione, fu,
dopo la morte di mio padre, sempre malferma in salute; ma non si lagnò mai de'
suoi mali, né credo se ne infastidisse neppure con se stessa, accettandoli,
rassegnata, come una conseguenza naturale della sua sciagura. Forse si
aspettava di morire anch'essa, dal cordoglio, e doveva dunque ringraziare Iddio
che la teneva in vita, pur così tapina e tribolata, per il bene dei figliuoli.
Aveva per noi una tenerezza addirittura morbosa, piena di palpiti e di
sgomento: ci voleva sempre vicini, quasi temesse di perderci, e spesso mandava
in giro le serve per la vasta casa, appena qualcuno di noi si fosse un po'
allontanato.
Come una cieca, s'era abbandonata alla guida del marito; rimastane senza, si
sentì sperduta nel mondo. E non uscì più di casa, tranne le domeniche, di
mattina per tempo, per andare a messa nella prossima chiesa, accompagnata dalle
due vecchie serve, ch'ella trattava come parenti. Nella stessa casa, anzi, si
restrinse a vivere in tre camere soltanto, abbandonando le molte altre alle
scarse cure delle serve e alle nostre diavolerie.
Spirava, in quelle stanze, da tutti i mobili d'antica foggia, dalle tende
scolorite, quel tanfo speciale delle cose antiche, quasi il respiro d'un altro
tempo; e ricordo che più d'una volta io mi guardai attorno con una strana
costernazione che mi veniva dalla immobilità silenziosa di quei vecchi oggetti
da tanti anni lì senz'uso, senza vita.
Fra coloro che più spesso venivano a visitar la mamma era una sorella di mio
padre, zitellona bisbetica, con un pajo d'occhi da furetto, bruna e fiera. Si
chiamava Scolastica. Ma si tratteneva, ogni volta, pochissimo, perché tutt'a un
tratto, discorrendo, s'infuriava, e scappava via senza salutare nessuno. Io, da
ragazzo, ne avevo una gran paura. La guardavo con tanto d'occhi, specialmente
quando la vedevo scattare in piedi su le furie e le sentivo gridare, rivolta a
mia madre e pestando rabbiosamente un piede sul pavimento:
- Senti il vuoto? La talpa! la talpa!
Alludeva al Malagna, all'amministratore che ci scavava soppiatto la fossa sotto
i piedi.
Zia Scolastica (l'ho saputo dipoi) voleva a tutti i costi che mia madre
riprendesse marito. Di solito, le cognate non hanno di queste idee né dànno di
questi consigli. Ma ella aveva un sentimento aspro e dispettoso della
giustizia; e più per questo, certo, che per nostro amore, non sapeva tollerare
che quell'uomo ci rubasse così, a man salva. Ora, data l'assoluta inettitudine
e la cecità di mia madre, non ci vedeva altro rimedio, che un secondo marito. E
lo designava anche in persona d'un pover'uomo, che si chiamava Gerolamo Pomino.
Costui era vedovo, con un figliuolo, che vive tuttora e si chiama Gerolamo come
il padre: amicissimo mio, anzi più che amico, come dirò appresso. Fin da
ragazzo veniva col padre in casa nostra, ed era la disperazione mia e di mio
fratello Berto.
Il padre, da giovane, aveva aspirato lungamente alla mano di zia Scolastica,
che non aveva voluto saperne, come non aveva voluto saperne, del resto, di
alcun altro; e non già perché non si fosse sentita disposta ad amare, ma perché
il più lontano sospetto che l'uomo da lei amato avesse potuto anche col solo
pensiero tradirla, le avrebbe fatto commettere - diceva - un delitto. Tutti
finti, per lei, gli uomini, birbanti e traditori. Anche Pomino? No, ecco:
Pomino, no. Ma se n'era accorta troppo tardi. Di tutti gli uomini che avevano
chiesto la sua mano, e che poi si erano ammogliati, ella era riuscita a
scoprire qualche tradimento, e ne aveva ferocemente goduto. Solo di Pomino,
niente; anzi il pover'uomo era stato un martire della moglie.
E perché dunque, ora, non lo sposava lei ? Oh bella, perché era vedovo! era
appartenuto a un'altra donna, alla quale forse, qualche volta, avrebbe potuto
pensare. E poi perché via! si vedeva da cento miglia lontano, non ostante la
timidezza: era innamorato, era innamorato s'intende di chi, quel povero
signor Pomino!
Figurarsi se mia madre avrebbe mai acconsentito. Le sarebbe parso un vero e
proprio sacrilegio. Ma non credeva forse neppure, poverina, che zia Scolastica
dicesse sul serio; e rideva in quel suo modo particolare alle sfuriate della
cognata, alle esclamazioni del povero signor Pomino, che si trovava lì presente
a quelle discussioni, e al quale la zitellona scaraventava le lodi più
sperticate.
M'immagino quante volte egli avrà esclamato, dimenandosi su la seggiola, come
su un arnese di tortura:
- Oh santo nome di Dio benedetto!
Omino lindo, aggiustato, dagli occhietti ceruli mansueti, credo che
s'incipriasse e avesse anche la debolezza di passarsi un po' di rossetto,
appena appena, un velo, su le guance: certo si compiaceva d'aver conservato
fino alla sua età i capelli, che si pettinava con grandissima cura, a farfalla,
e si rassettava continuamente con le mani.
Io non so come sarebbero andati gli affari nostri, se mia madre, non certo per
sé ma in considerazione dell'avvenire dei suoi figliuoli, avesse seguìto il
consiglio di zia Scolastica e sposato il signor Pomino. È fuor di dubbio però
che peggio di come andarono, affidati al Malagna (la talpa!), non sarebbero
potuti andare.
Quando Berto e io fummo cresciuti, gran parte degli averi nostri, è vero, era
andata in fumo; ma avremmo potuto almeno salvare dalle grinfie di quel ladro il
resto che, se non più agiatamente, ci avrebbe certo permesso di vivere: senza
bisogni. Fummo due scioperati; non ci volemmo dar pensiero di nulla,
seguitando, da grandi, a vivere come nostra madre, da piccoli, ci aveva
abituati.
Non aveva voluto nemmeno mandarci a scuola. Un tal Pinzone fu il nostro ajo e
precettore. Il suo vero nome era Francesco, o Giovanni, Del Cinque; ma tutti lo
chiamavano Pinzone, ed egli ci s'era già tanto abituato che si chiamava Pinzone
da sé.
Era d'una magrezza che incuteva ribrezzo; altissimo di statura; e più alto, Dio
mio, sarebbe stato, se il busto, tutt'a un tratto quasi stanco di tallir
gracile in sù, non gli si fosse curvato sotto la nuca in una discreta gobbetta,
da cui il collo pareva uscisse penosamente, come quel d'un pollo spennato, con
un grosso nottolino protuberante, che gli andava sù e giù. Pinzone si sforzava
spesso di tener tra i denti le labbra, come per mordere, castigare e nascondere
un risolino tagliente, che gli era proprio; ma lo sforzo in parte era vano,
perché questo risolino, non potendo per le labbra così imprigionate, gli
scappava per gli occhi, più acuto e beffardo che mai.
Molte cose con quegli occhietti egli doveva vedere nella nostra casa, che né la
mamma né noi vedevamo. Non parlava, forse perché non stimava dover suo parlare,
o perché - com'io ritengo più probabile - ne godeva in segreto, velenosamente.
Noi facevamo di lui tutto quello che volevamo; egli ci lasciava fare; ma poi,
come se volesse stare in pace con la propria coscienza, quando meno ce lo
saremmo aspettato, ci tradiva.
Un giorno, per esempio, la mamma gli ordinò di condurci in chiesa; era prossima
la Pasqua, e dovevamo confessarci. Dopo la confessione, una breve visitina alla
moglie inferma del Malagna, e subito a casa. Figurarsi che divertimento! Ma,
appena in istrada, noi due proponemmo a Pinzone una scappatella: gli avremmo
pagato un buon litro di vino, purché lui, invece che in chiesa e dal Malagna,
ci avesse lasciato andare alla Stìa in cerca di nidi. Pinzone accettò
felicissimo, stropicciandosi le mani, con gli occhi sfavillanti. Bevve; andammo
nel podere; fece il matto con noi per circa tre ore, ajutandoci ad arrampicarci
su gli alberi, arrampicandocisi egli stesso. Ma alla sera, di ritorno a casa,
appena la mamma gli domandò se avevamo fatto la nostra confessione e la visita
al Malagna:
- Ecco, le dirò - rispose, con la faccia più tosta del mondo; e le narrò per
filo e per segno quanto avevamo fatto.
Non giovavano a nulla le vendette che di questi suoi tradimenti noi ci
prendevamo. Eppure ricordo che non eran da burla. Una sera, per esempio, io e
Berto, sapendo che egli soleva dormire, seduto su la cassapanca, nella saletta
d'ingresso, in attesa della cena, saltammo furtivamente dal letto, in cui ci
avevano messo per castigo prima dell'ora solita, riuscimmo a scovare una canna
di stagno, da serviziale, lunga due palmi, la riempimmo d'acqua saponata nella
vaschetta del bucato; e, così armati, andammo cautamente a lui, gli accostammo
la canna alle nari - e zifff! -. Lo vedemmo balzare fin sotto al
soffitto.
Quanto con un siffatto precettore dovessimo profittar nello studio, non sarà
difficile immaginare. La colpa però non era tutta di Pinzone; ché egli anzi,
pur di farci imparare qualche cosa, non badava a metodo né a disciplina, e
ricorreva a mille espedienti per fermare in qualche modo la nostra attenzione.
Spesso con me, ch'ero di natura molto impressionabile, ci riusciva. Ma egli
aveva una erudizione tutta sua particolare, curiosa e bislacca. Era, per
esempio, dottissimo in bisticci: conosceva la poesia fidenziana e la
maccaronica, la burchiellesca e la leporeambica, e citava allitterazioni e
annominazioni e versi correlativi e incatenati e retrogradi di tutti i poeti
perdigiorni, e non poche rime balzane componeva egli stesso.
Ricordo a San Rocchino, un giorno, ci fece ripetere alla collina
dirimpetto non so più quante volte questa sua Eco:
In cuor di donna quanto dura amore?
- (Ore).
Ed ella non mi amò quant'io l'amai?
- (Mai).
Or chi sei tu che sì ti lagni meco?
- (Eco)
E ci dava a sciogliere tutti
gli Enimmi in ottava rima di Giulio Cesare Croce, e quelli in sonetti
del Moneti e gli altri, pure in sonetti, d'un altro scioperatissimo che aveva
avuto il coraggio di nascondersi sotto il nome di Caton l'Uticense. Li aveva
trascritti con inchiostro tabaccoso in un vecchio cartolare dalle pagine
ingiallite.
- Udite, udite quest'altro dello Stigliani. Bello! Che sarà? Udite:
A un tempo stesso io mi
son una, e due,
E fo due ciò ch'era una primamente.
Una mi adopra con le cinque sue
Contra infiniti che in capo ha la gente.
Tutta son bocca dalla cinta in sue,
E più mordo sdentata che con dente.
Ho due bellichi a contrapposti siti,
Gli occhi ho ne' piedi, e spesso a gli occhi i diti.
Mi pare di vederlo ancora,
nell'atto di recitare, spirante delizia da tutto il volto, con gli occhi
semichiusi, facendo con le dita il chiocciolino.
Mia madre era convinta che al bisogno nostro potesse bastare ciò che Pinzone
c'insegnava; e credeva fors'anche, nel sentirci recitare gli enimmi del Croce o
dello Stigliani, che ne avessimo già di avanzo. Non così zia Scolastica, la
quale - non riuscendo ad appioppare a mia madre il suo prediletto Pomino -
s'era messa a perseguitar Berto e me. Ma noi, forti della protezione della
mamma, non le davamo retta, e lei si stizziva così fieramente che, se avesse
potuto senza farsi vedere o sentire, ci avrebbe certo picchiato fino a levarci
la pelle. Ricordo che una volta, scappando via al solito su le furie, s'imbatté
in me per una delle stanze abbandonate; m'afferrò per il mento, me lo strinse
forte forte con le dita, dicendomi: - Bellino! bellino! bellino! - e
accostandomi, man mano che diceva, sempre più il volto al volto, con gli occhi
negli occhi, finché poi emise una specie di grugnito e mi lasciò, ruggendo tra
i denti:
- Muso di cane!
Ce l'aveva specialmente con me, che pure attendevo agli strampalati
insegnamenti di Pinzone senza confronto più di Berto. Ma doveva esser la mia
faccia placida e stizzosa e quei grossi occhiali rotondi che mi avevano imposto
per raddrizzarmi un occhio, il quale, non so perché, tendeva a guardare per
conto suo, altrove.
Erano per me, quegli occhiali, un vero martirio. A un certo punto, li buttai
via e lasciai libero l'occhio di guardare dove gli piacesse meglio. Tanto, se
dritto, quest'occhio non m'avrebbe fatto bello. Ero pieno di salute, e mi
bastava.
A diciott'anni m'invase la faccia un barbone rossastro e ricciuto, a scàpito
del naso piuttosto piccolo, che si trovò come sperduto tra esso e la fronte
spaziosa e grave.
Forse, se fosse in facoltà dell'uomo la scelta d'un naso adatto alla propria
faccia, o se noi, vedendo un pover'uomo oppresso da un naso troppo grosso per
il suo viso smunto, potessimo dirgli: 'Questo naso sta bene a me, e me
lo piglio;' forse, dico, io avrei cambiato il mio volentieri, e così
anche gli occhi e tante altre parti della mia persona. Ma sapendo bene che non
si può, rassegnato alle mie fattezze, non me ne curavo più che tanto.
Berto, al contrario, bello di volto e di corpo (almeno paragonato con me), non
sapeva staccarsi dallo specchio e si lisciava e si accarezzava e sprecava
denari senza fine per le cravatte più nuove, per i profumi più squisiti e per
la biancheria e il vestiario. Per fargli dispetto, un giorno, io presi dal suo
guardaroba una marsina nuova fiammante, un panciotto elegantissimo di velluto
nero, il gibus, e me ne andai a caccia così parato.
Batta Malagna, intanto, se ne veniva a piangere presso mia madre le mal'annate
che lo costringevano a contrar debiti onerosissimi per provvedere alle nostre
spese eccessive e ai molti lavori di riparazione di cui avevano continuamente
bisogno le campagne.
- Abbiamo avuto un'altra bella bussata! - diceva ogni volta, entrando.
La nebbia aveva distrutto sul nascere le olive, a Due Riviere; oppure la
fillossera i vigneti dello Sperone. Bisognava piantare vitigni
americani, resistenti al male. E dunque, altri debiti. Poi il consiglio di
vendere lo Sperone, per liberarsi dagli strozzini, che lo assediavano. E
così prima fu venduto lo Sperone, poi Due Riviere, poi San
Rocchino. Restavano le case e il podere della Stia, col molino. Mia
madre s'aspettava ch'egli un giorno venisse a dire ch'era seccata la sorgiva.
Noi fummo, è vero, scioperati, e spendevamo senza misura; ma è anche vero che
un ladro più ladro di Batta Malagna non nascerà mai più su la faccia della
terra. È il meno che io possa dirgli, in considerazione della parentela che fui
costretto a contrarre con lui.
Egli ebbe l'arte di non farci mancare mai nulla, finché visse mia madre. Ma
quell'agiatezza, quella libertà fino al capriccio, di cui ci lasciava godere,
serviva a nascondere l'abisso che poi, morta mia madre, ingojò me solo; giacché
mio fratello ebbe la ventura di contrarre a tempo un matrimonio vantaggioso.
Il mio matrimonio, invece
- Bisognerà pure che ne parli, eh, don Eligio, del mio matrimonio?
Arrampicato là, su la sua scala da lampionajo, don Eligio Pellegrinotto mi
risponde:
- E come no? Sicuro. Pulitamente
- Ma che pulitamente! Voi sapete bene che
Don Eligio ride, e tutta la chiesetta sconsacrata con lui. Poi mi consiglia:
- S'io fossi in voi, signor Pascal, vorrei prima leggermi qualche novella del
Boccaccio o del Bandello. Per il tono, per il tono
Ce l'ha col tono, don Eligio. Auff! Io butto giù come vien viene.
Coraggio, dunque; avanti!
CAPITOLO IV (fu così)
Un giorno, a caccia, mi
fermai, stranamente impressionato, innanzi a un pagliajo nano e panciuto, che
aveva un pentolino in cima allo stollo.
- Ti conosco, - gli dicevo, - ti conosco
Poi, a un tratto, esclamai:
- To'! Batta Malagna.
Presi un tridente, ch'era lì per terra, e glielo infissi nel pancione con tanta
voluttà, che il pentolino in cima allo stollo per poco non cadde. Ed ecco Batta
Malagna, quando, sudato e sbuffante, portava il cappello su le ventitré.
Scivolava tutto: gli scivolavano nel lungo faccione di qua e di là, le
sopracciglia e gli occhi; gli scivolava il naso su i baffi melensi e sul pizzo;
gli scivolavano dall'attaccatura del collo le spalle; gli scivolava il pancione
languido, enorme, quasi fino a terra, perché, data l'imminenza di esso su le
gambette tozze, il sarto, per vestirgli quelle gambette, era costretto a
tagliargli quanto mai agiati i calzoni; cosicché, da lontano, pareva che
indossasse invece, bassa bassa, una veste, e che la pancia gli arrivasse fino a
terra.
Ora come, con una faccia e con un corpo così fatti, Malagna potesse esser tanto
ladro, io non so. Anche i ladri m'immagino, debbono avere una certa
impostatura, ch'egli mi pareva non avesse. Andava piano, con quella sua pancia
pendente, sempre con le mani dietro la schiena, e tirava fuori con tanta fatica
quella sua voce molle, miagolante! Mi piacerebbe sapere com'egli li ragionasse
con la sua propria coscienza i furti che di continuo perpetrava a nostro danno.
Non avendone, come ho detto, alcun bisogno, una ragione a se stesso, una scusa,
doveva pur darla. Forse, io dico, rubava per distrarsi in qualche modo,
pover'uomo.
Doveva essere infatti, entro di sé, tremendamente afflitto da una di quelle
mogli che si fanno rispettare.
Aveva commesso l'errore di scegliersi la moglie d'un paraggio superiore al suo,
ch'era molto basso. Or questa donna, sposata a un uomo di condizione pari alla
sua, non sarebbe stata forse così fastidiosa com'era con lui, a cui
naturalmente doveva dimostrare, a ogni minima occasione, ch'ella nasceva bene e
che a casa sua si faceva così e così. Ed ecco il Malagna, obbediente, far così
e così, come diceva lei - per parere un signore anche lui. - Ma gli costava
tanto! Sudava sempre, sudava.
Per giunta, la signora Guendalina poco dopo il matrimonio, si ammalò d'un male
di cui non poté più guarire, giacché, per guarirne, avrebbe dovuto fare un
sacrifizio superiore alle sue forze: privarsi nientemeno di certi pasticcini
coi tartufi, che le piacevano tanto, e di simili altre golerie, e anche, anzi
soprattutto, del vino. Non che ne bevesse molto; sfido! nasceva bene: ma non
avrebbe dovuto berne neppure un dito, ecco.
Io e Berto, giovinetti, eravamo qualche volta invitati a pranzo dal Malagna.
Era uno spasso sentirgli fare, coi dovuti riguardi, una predica alla moglie su
la continenza, mentre lui mangiava, divorava con tanta voluttà i cibi più
succulenti:
- Non ammetto, - diceva, - che per il momentaneo piacere che prova la gola al
passaggio d'un boccone, per esempio, come questo - (e giù il boccone) -
si debba poi star male un'intera giornata. Che sugo c'è? Io son certo che me ne
sentirei, dopo, profondamente avvilito. Rosina! - (chiamava la serva ) -
Dammene ancora un po'. Buona, questa salsa majonese!
- Majalese! - scattava allora la moglie inviperita. - Basta così!
Guarda, il Signore dovrebbe farti provare che cosa vuol dire star male di
stomaco. Impareresti ad aver considerazione per tua moglie.
- Come, Guendalina! Non ne ho? - esclamava Malagna, mentre si versava un po' di
vino.
La moglie, per tutta risposta, si levava da sedere, gli toglieva dalle mani il
bicchiere e andava a buttare il vino dalla finestra.
- E perché? - gemeva quello, restando.
E la moglie:
- Perché per me è veleno! Me ne vedi versare un dito nel bicchiere? Toglimelo,
e va' a buttarlo dalla finestra, come ho fatto io, capisci?
Malagna guardava, mortificato, sorridente, un po' Berto, un po' me, un po' la
finestra, un po' il bicchiere; poi diceva:
- Oh Dio, e che sei forse una bambina? Io, con la violenza? Ma no, cara: tu, da
te, con la ragione dovresti importelo il freno
- E come? - gridava la moglie. - Con la tentazione sotto gli occhi? vedendo te
che ne bevi tanto e te l'assapori e te lo guardi controlume, per farmi
dispetto? Va' là, ti dico! Se fossi un altro marito, per non farmi soffrire
Ebbene, Malagna arrivò fino a questo: non bevve più vino, per dare esempio di
continenza alla moglie, e per non farla soffrire.
Poi - rubava Eh sfido! Qualche cosa bisognava pur che facesse.
Se non che, poco dopo, venne a sapere che la signora Guendalina se lo beveva di
nascosto, lei, il vino. Come se, per non farle male, potesse bastare che il
marito non se ne accorgesse. E allora anche lui, Malagna, riprese a bere, ma
fuor di casa, per non mortificare la moglie.
Seguitò tuttavia a rubare, è vero. Ma io so ch'egli desiderava con tutto il
cuore dalla moglie un certo compenso alle afflizioni senza fine che gli
procurava; desiderava cioè che ella un bel giorno si fosse riso- luta a
mettergli al mondo un figliuolo. Ecco! Il furto allora avrebbe avuto uno scopo,
una scusa. Che non si fa per il bene dei figliuoli?
La moglie però deperiva di giorno in giorno, e Malagna non osava neppure di
esprimerle questo suo ardentissimo desiderio. Forse ella era anche sterile, di
natura. Bisognava aver tanti riguardi per quel suo male. Che se poi fosse morta
di parto, Dio liberi? E poi c'era anche il rischio che non portasse a
compimento il figliuolo.
Così si rassegnava.
Era sincero? Non lo dimostrò abbastanza alla morte della signora Guendalina. La
pianse, oh la pianse molto, e sempre la ricordò con una devozione così
rispettosa che, al posto di lei, non volle più mettere un'altra signora - che!
che! - e lo avrebbe potuto bene, ricco come già s'era fatto; ma prese la figlia
d'un fattore di campagna, sana, florida, robusta e allegra; e così unicamente
perché non potesse esser dubbio che ne avrebbe avuto la prole desiderata. Se si
affrettò un po' troppo, via bisogna pur considerare che non era più un
giovanotto e tempo da perdere non ne aveva.
Oliva, figlia di Pietro
Salvoni, nostro fattore a Due Riviere, io la conoscevo bene, da ragazza.
Per cagion sua, quante speranze non feci concepire alla mamma: ch'io stessi
cioè per metter senno e prender gusto alla campagna. Non capiva più nei panni,
dalla consolazione, poveretta! Ma un giorno la terribile zia Scolastica le aprì
gli occhi:
- E non vedi, sciocca, che va sempre a Due Riviere?
- Sì, per il raccolto delle olive.
- D'un'oliva, d'un'oliva, d'un'oliva sola, bietolona!
La mamma allora mi fece una ramanzina coi fiocchi: che mi guardassi bene dal
commettere il peccato mortale d'indurre in tentazione e di perdere per sempre
una povera ragazza, ecc., ecc.
Ma non c'era pericolo. Oliva era onesta, di una onestà incrollabile, perché
radicata nella coscienza del male che si sarebbe fatto, cedendo. Questa
coscienza appunto le toglieva tutte quelle insulse timidezze de' finti pudori,
e la rendeva ardita e sciolta.
Come rideva! Due ciriege, le labbra. E che denti!
Ma, da quelle labbra, neppure un bacio; dai denti, sì, qualche morso, per
castigo, quand'io la afferravo per le braccia e non volevo lasciarla se prima
non le allungavo un bacio almeno su i capelli.
Nient'altro.
Ora, così bella, così giovane e fresca, moglie di Batta Malagna Mah! Chi ha
il coraggio di voltar le spalle a certe fortune? Eppure Oliva sapeva bene come
il Malagna fosse diventato ricco! Me ne diceva tanto male, un giorno, poi, per
questa ricchezza appunto, lo sposò.
Passa intanto un anno dalle nozze; ne passano due; e niente figliuoli.
Malagna, entrato da tanto tempo nella convinzione che non ne aveva avuti dalla
prima moglie solo per la sterilità o per la infermità continua di questa, non
concepiva ora neppur lontanamente il sospetto che potesse dipender da lui. E
cominciò a mostrare il broncio a Oliva.
- Niente?
- Niente.
Aspettò ancora un anno, il terzo: invano. Allora prese a rimbrottarla
apertamente; e in fine, dopo un altro anno, ormai disperando per sempre, al
colmo dell'esasperazione, si mise a malmenarla senza alcun ritegno; gridandole
in faccia che con quella apparente floridezza ella lo aveva ingannato,
ingannato, ingannato; che soltanto per aver da lei un figliuolo egli l'aveva
innalzata fino a quel posto, già tenuto da una signora, da una vera signora,
alla cui memoria, se non fosse stato per questo, non avrebbe fatto mai un tale
affronto.
La povera Oliva non rispondeva, non sapeva che dire; veniva spesso a casa
nostra per sfogarsi con mia madre, che la confortava con buone parole a sperare
ancora, poiché infine era giovane, tanto giovane:
- Vent'anni?
- Ventidue
E dunque, via! S'era dato più d'un caso d'aver figliuoli anche dopo dieci,
anche dopo quindici anni dal giorno delle nozze.
- Quindici? Ma, e lui? Lui era già vecchio; e se
A Oliva era nato fin dal primo anno il sospetto che, via, tra lui e lei - come
dire? - la mancanza potesse più esser di lui che sua, non ostante che egli si
ostinasse a dir di no. Ma se ne poteva far la prova? Oliva, sposando, aveva
giurato a se stessa di mantenersi onesta, e non voleva, neanche per riacquistar
la pace, venir meno al giuramento.
Come le so io queste cose? Oh bella, come le so! Ho pur detto che ella
veniva a sfogarsi a casa nostra; ho detto che la conoscevo da ragazza; ora la
vedevo piangere per l'indegno modo d'agire e la stupida e provocante
presunzione di quel laido vecchiaccio, e debbo proprio dir tutto? Del resto,
fu no; e dunque basta.
Me ne consolai presto. Avevo allora, o credevo d'avere (ch'è lo stesso) tante
cose per il capo. Avevo anche quattrini, che - oltre al resto - forniscono pure
certe idee, le quali senza di essi non si avrebbero. Mi ajutava però
maledettamente a spenderli Gerolamo II Pomino, che non ne era mai provvisto
abbastanza, per la saggia parsimonia paterna.
Mino era come l'ombra nostra; a turno, mia e di Berto; e cangiava con
meravigliosa facoltà scimmiesca, secondo che praticava con Berto o con me.
Quando s'appiccicava a Berto, diventava subito un damerino; e il padre allora,
che aveva anche lui velleità d'eleganza, apriva un po' la bocca al sacchetto.
Ma con Berto ci durava poco. Nel vedersi imitato finanche nel modo di
camminare, mio fratello perdeva subito la pazienza, forse per paura del
ridicolo, e lo bistrattava fino a cavarselo di torno. Mino allora tornava ad
appiccicarsi a me; e il padre a stringer la bocca al sacchetto.
Io avevo con lui più pazienza, perché volentieri pigliavo a godermelo. Poi me
ne pentivo. Riconoscevo d'aver ecceduto per causa sua in qualche impresa, o
sforzato la mia natura o esagerato la dimostrazione de' miei sentimenti per il
gusto di stordirlo o di cacciarlo in qualche impiccio, di cui naturalmente
soffrivo anch'io le conseguenze.
Ora Mino, un giorno, a caccia, a proposito del Malagna, di cui gli avevo
raccontato le prodezze con la moglie, mi disse che aveva adocchiato una
ragazza, figlia d'una cugina del Malagna appunto, per la quale avrebbe commesso
volentieri qualche grossa bestialità. Ne era capace; tanto più che la ragazza
non pareva restìa; ma egli non aveva avuto modo finora neppur di parlarle.
- Non ne avrai avuto il coraggio, va' là! - dissi io ridendo.
Mino negò; ma arrossì troppo, negando.
- Ho parlato però con la serva, - s'affrettò a soggiungermi. - E n'ho saputo di
belle, sai? M'ha detto che il tuo Malanno lo han lì sempre per casa, e
che, così all'aria, le sembra che mediti qualche brutto tiro, d'accordo con la
cugina, che è una vecchia strega.
- Che tiro?
- Mah, dice che va lì a piangere la sua sciagura di non aver figliuoli. La
vecchia, dura, arcigna, gli risponde che gli sta bene. Pare che essa, alla
morte della prima moglie del Malagna, si fosse messo in capo di fargli sposare
la propria figliuola e si fosse adoperata in tutti i modi per riuscirvi; che
poi, disillusa, n'abbia detto di tutti i colori all'indirizzo di quel bestione,
nemico dei parenti, traditore del proprio sangue, ecc., ecc., e che se la sia
presa anche con la figliuola che non aveva saputo attirare a sé lo zio. Ora,
infine, che il vecchio si dimostra tanto pentito di non aver fatto lieta la
nipote, chi sa qual'altra perfida idea quella strega può aver concepito.
Mi turai gli orecchi con le mani, gridando a Mino:
- Sta' zitto!
Apparentemente, no; ma in fondo ero pur tanto ingenuo, in quel tempo. Tuttavia
- avendo notizia delle scene ch'erano avvenute e avvenivano in casa Malagna -
pensai che il sospetto di quella serva potesse in qualche modo esser fondato, e
volli tentare, per il bene d'Oliva, se mi fosse riuscito d'appurare qualche
cosa. Mi feci dare da Mino il recapito di quella strega. Mino mi si raccomandò
per la ragazza.
- Non dubitare, - gli risposi. - La lascio a te, che diamine!
E il giorno dopo, con la scusa d'una cambiale, di cui per combinazione quella
mattina stessa avevo saputo dalla mamma la scadenza in giornata, andai a scovar
Malagna in casa della vedova Pescatore.
Avevo corso apposta, e mi precipitai dentro tutto accaldato e in sudore.
- Malagna, la cambiale!
Se già non avessi saputo ch'egli non aveva la coscienza pulita, me ne sarei
accorto senza dubbio quel giorno vedendolo balzare in piedi pallido,
scontraffatto, balbettando:
- Che che cam, che cambiale?
- La cambiale così e così, che scade oggi Mi manda la mamma, che n'è tanto
impensierita!
Batta Malagna cadde a sedere, esalando in un ah interminabile tutto lo
spavento che per un istante lo aveva oppresso.
- Ma fatto! tutto fatto! Perbacco, che soprassalto L'ho rinnovata, eh?
a tre mesi, pagando i frutti, s'intende. Ti sei davvero fatta codesta corsa per
così poco?
E rise, rise, facendo sobbalzare il pancione; m'invitò a sedere; mi presentò
alle donne.
- Mattia Pascal. Marianna Dondi, vedova Pescatore, mia cugina. Romilda, mia
nipote.
Volle che, per rassettarmi dalla corsa, bevessi qualcosa.
- Romilda, se non ti dispiace
Come se fosse a casa sua.
Romilda si alzò, guardando la madre, per consigliarsi con gli occhi di lei, e
poco dopo, non ostanti le mie proteste, tornò con un piccolo vassojo su cui era
un bicchiere e una bottiglia di vermouth. Subito, a quella vista, la madre si
alzò indispettita, dicendo alla figlia:
- Ma no! ma no! Da' qua!
Le tolse il vassojo dalle mani e uscì per rientrare poco dopo con un altro
vassojo di lacca, nuovo fiammante, che reggeva una magnifica rosoliera: un elefante
inargentato, con una botte di vetro sul groppone, e tanti bicchierini appesi
tutt'intorno, che tintinnivano.
Avrei preferito il vermouth. Bevvi il rosolio. Ne bevvero anche il Malagna e la
madre. Romilda, no.
Mi trattenni poco, quella prima volta, per avere una scusa a tornare: dissi che
mi premeva di rassicurar la mamma intorno a quella cambiale, e che sarei venuto
di lì a qualche giorno a goder con più agio della compagnia delle signore.
Non mi parve, dall'aria con cui mi salutò, che Marianna Dondi, vedova
Pescatore, accogliesse con molto piacere l'annunzio d'una mia seconda visita:
mi porse appena la mano: gelida mano, secca, nodosa, gialliccia; e abbassò gli
occhi e strinse le labbra. Mi compensò la figlia con un simpatico sorriso che
prometteva cordiale accoglienza, e con uno sguardo, dolce e mesto a un tempo,
di quegli occhi che mi fecero fin dal primo vederla una così forte impressione:
occhi d'uno strano color verde, cupi, intensi, ombreggiati da lunghissime
ciglia; occhi notturni, tra due bande di capelli neri come l'ebano, ondulati,
che le scendevano su la fronte e su le tempie, quasi a far meglio risaltare la
viva bianchezza de la pelle.
La casa era modesta; ma già tra i vecchi mobili si notavano parecchi nuovi
venuti, pretensiosi e goffi nell'ostentazione della loro novità troppo
appariscente: due grandi lumi di majolica, per esempio, ancora intatti, dai
globi di vetro smerigliato, di strana foggia, su un'umilissima mensola dal
piano di marmo ingiallito, che reggeva uno specchio tetro in una cornice tonda,
qua e là scrostata, la quale pareva si aprisse nella stanza come uno sbadiglio
d'affamato. C'era poi, davanti al divanuccio sgangherato, un tavolinetto con le
quattro zampe dorate e il piano di porcellana dipinto di vivacissimi colori; poi
uno stipetto a muro, di lacca giapponese, ecc., ecc., e su questi oggetti nuovi
gli occhi di Malagna si fermavano con evidente compiacenza, come già su la
rosoliera recata in trionfo dalla cugina vedova Pescatore.
Le pareti della stanza eran quasi tutte tappezzate di vecchie e non brutte
stampe, di cui il Malagna volle farmi ammirare qualcuna, dicendomi ch'erano
opera di Francesco Antonio Pescatore, suo cugino, valentissimo incisore (morto
pazzo, a Torino, - aggiunse piano), del quale volle anche mostrarmi il
ritratto.
- Eseguito con le proprie mani, da sé, davanti allo specchio.
Ora io, guardando Romilda e poi la madre, avevo poc'anzi pensato:
'Somiglierà al padre!'. Adesso, di fronte al ritratto di questo, non
sapevo più che pensare.
Non voglio arrischiare supposizioni oltraggiose. Stimo, è vero, Marianna Dondi,
vedova Pescatore, capace di tutto; ma come immaginare un uomo, e per giunta
bello, capace d'essersi innamorato di lei? Tranne che non fosse stato un pazzo
più pazzo del marito.
Riferii a Mino le impressioni di quella prima visita. Gli parlai di Romilda con
tal calore d'ammirazione, ch'egli subito se ne accese, felicissimo che anche a
me fosse tanto piaciuta e d'aver la mia approvazione.
Io allora gli domandai che intenzioni avesse: la madre, sì, aveva tutta l'aria
d'essere una strega; ma la figliuola, ci avrei giurato, era onesta. Nessun
dubbio su le mire infami del Malagna; bisognava dunque, a ogni costo, al più
presto, salvare la ragazza.
- E come? - mi domandò Pomino, che pendeva affascinato dalle mie labbra.
- Come? Vedremo. Bisognerà prima di tutto accertarsi di tante cose; andare in
fondo; studiar bene. Capirai, non si può mica prendere una risoluzione così su
due piedi. Lascia fare a me: t'ajuterò. Codesta avventura mi piace.
- Eh ma - obbiettò allora Pomino, timidamente, cominciando a sentirsi
sulle spine nel vedermi così infatuato. - Tu diresti forse sposarla?
- Non dico nulla, io, per adesso. Hai paura, forse?
- No, perché?
- Perché ti vedo correre troppo. Piano piano, e rifletti. Se veniamo a
conoscere ch'ella è davvero come dovrebbe essere: buona, saggia, virtuosa
(bella è, non c'è dubbio, e ti piace, non è vero?) - oh! poniamo ora che
veramente ella sia esposta, per la nequizia della madre e di quell'altra
canaglia, a un pericolo gravissimo, a uno scempio, a un mercato infame:
proveresti ritegno innanzi a un atto meritorio, a un'opera santa, di
salvazione?
- Io no no! - fece Pomino. - Ma mio padre?
- S'opporrebbe? Per qual ragione? Per la dote, è vero? Non per altro! Perché ella,
sai? è figlia d'un artista, d'un valentissimo incisore, morto sì, morto
bene, insomma, a Torino Ma tuo padre è ricco, e non ha che te solo: ti può
dunque contentare, senza badare alla dote! Che se poi, con le buone, non riesci
a vincerlo, niente paura: un bel volo dal nido, e s'aggiusta ogni cosa. Pomino,
hai il cuore di stoppa?
Pomino rise, e io allora gli dimostrai quattro e quattr'otto che egli era nato
marito, come si nasce poeta. Gli descrissi a vivi colori, seducentissimi, la
felicità della vita coniugale con la sua Romilda; l'affetto, le cure, la
gratitudine ch'ella avrebbe avuto per lui, suo salvatore. E, per concludere:
- Tu ora, - gli dissi, - devi trovare il modo e la maniera di farti notare da
lei e di parlarle o di scriverle. Vedi, in questo momento, forse, una tua
lettera potrebbe essere per lei, assediata da quel ragno, un'àncora di
salvezza. Io intanto frequenterò la casa; starò a vedere; cercherò di cogliere
l'occasione di presentarti. Siamo intesi?
- Intesi.
Perché mostravo tanta smania di maritar Romilda? - Per niente. Ripeto: per il
gusto di stordire Pomino. Parlavo e parlavo, e tutte le difficoltà sparivano.
Ero impetuoso, e prendevo tutto alla leggera. Forse per questo, allora, le
donne mi amavano, non ostante quel mio occhio un po' sbalestrato e il mio corpo
da pezzo da catasta. Questa volta, però, - debbo dirlo - la mia foga proveniva
anche dal desiderio di sfondare la trista ragna ordita da quel laido vecchio, e
farlo restare con un palmo di naso; dal pensiero della povera Oliva; e anche -
perché no? - dalla speranza di fare un bene a quella ragazza che veramente mi
aveva fatto una grande impressione.
Che colpa ho io se Pomino eseguì con troppa timidezza le mie prescrizioni? che
colpa ho io se Romilda, invece d'innamorarsi di Pomino, s'innamorò di me, che
pur le parlavo sempre di lui? che colpa, infine, se la perfidia di Marianna
Dondi, vedova Pescatore, giunse fino a farmi credere ch'io con la mia arte, in
poco tempo, fossi riuscito a vincere la diffidenza di lei e a fare anche un
miracolo: quello di farla ridere più d'una volta, con le mie uscite balzane? Le
vidi a poco a poco ceder le armi; mi vidi accolto bene; pensai che, con un
giovanotto lì per casa, ricco (io mi credevo ancora ricco) e che dava non
dubbii segni di essere innamorato della figlia, ella avesse finalmente smesso
la sua iniqua idea, se pure le fosse mai passata per il capo. Ecco: ero giunto
finalmente a dubitarne!
Avrei dovuto, è vero, badare al fatto che non m'era più avvenuto d'incontrarmi
col Malagna in casa di lei, e che poteva non esser senza ragione ch'ella mi
ricevesse soltanto di mattina. Ma chi ci badava? Era, del resto, naturale,
poiché io ogni volta, per aver maggior libertà, proponevo gite in campagna, che
si fanno più volentieri di mattina. Mi ero poi innamorato anch'io di Romilda,
pur seguitando sempre a parlarle dell'amore di Pomino; innamorato come un matto
di quegli occhi belli, di quel nasino, di quella bocca, di tutto, finanche d'un
piccolo porro ch'ella aveva sulla nuca, ma finanche d'una cicatrice quasi
invisibile in una mano, che le baciavo e le baciavo e le baciavo per conto
di Pomino, perdutamente.
Eppure, forse, non sarebbe accaduto nulla di grave, se una mattina Romilda
(eravamo alla Stìa e avevamo lasciato la madre ad ammirare il molino),
tutt'a un tratto, smettendo lo scherzo troppo ormai prolungato sul suo timido
amante lontano, non avesse avuto un'improvvisa convulsione di pianto e non
m'avesse buttato le braccia al collo, scongiurandomi tutta tremante che avessi
pietà di lei; me la togliessi comunque, purché via lontano, lontano dalla sua
casa, lontano da quella sua madraccia, da tutti subito, subito, subito
Lontano? Come potevo così subito condurla via lontano?
Dopo, sì, per parecchi giorni, ancora ebbro di lei, cercai il modo, risoluto a
tutto, onestamente. E già cominciavo a predisporre mia madre alla notizia del
mio prossimo matrimonio, ormai inevitabile, per debito di coscienza, quando,
senza saper perché, mi vidi arrivare una lettera secca secca di Romilda, che mi
diceva di non occuparmi più di lei in alcun modo e di non recarmi mai più in
casa sua, considerando come finita per sempre la nostra relazione.
Ah sì? E come? Che era avvenuto?
Lo stesso giorno Oliva corse piangendo in casa nostra ad annunziare alla mamma
ch'ella era la donna più infelice di questo mondo, che la pace della sua casa
era per sempre distrutta. Il suo uomo era riuscito a far la prova che non
mancava per lui aver figliuoli; era venuto ad annunziarglielo, trionfante.
Ero presente a questa scena. Come abbia fatto a frenarmi lì per lì, non so. Mi
trattenne il rispetto per la mamma. Soffocato dall'ira, dalla nausea, scappai a
chiudermi in camera, e solo, con le mani tra i capelli, cominciai a domandarmi
come mai Romilda, dopo quanto era avvenuto fra noi, si fosse potuta prestare a
tanta ignominia! Ah, degna figlia della madre! Non il vecchio soltanto avevano
entrambe vilissimamente ingannato, ma anche me, anche me! E, come la madre,
anche lei dunque si era servita di me, vituperosamente, per il suo fine infame,
per la sua ladra voglia! E quella povera Oliva, intanto! Rovinata, rovinata
Prima di sera uscii, ancor tutto fremente, diretto alla casa d'Oliva. Avevo con
me, in tasca, la lettera di Romilda.
Oliva, in lagrime, raccoglieva le sue robe: voleva tornare dal suo babbo, a cui
finora, per prudenza, non aveva fatto neppure un cenno di quanto le era toccato
a soffrire.
- Ma, ormai, che sto più a farci? - mi disse. - È finita! Se si fosse almeno
messo con qualche altra, forse
- Ah tu sai dunque, - le domandai, - con chi s'è messo ?
Chinò più volte il capo, tra i singhiozzi, e si nascose la faccia tra le mani.
- Una ragazza! - esclamò poi, levando le braccia. E la madre! la madre! la
madre! D'accordo, capisci? La propria madre!
- Lo dici a me? - feci io. - Tieni: leggi.
E le porsi la lettera.
Oliva la guardò, come stordita; la prese e mi do mandò:
- Che vuol dire?
Sapeva leggere appena. Con lo sguardo mi chiese se fosse proprio necessario
ch'ella facesse quello sforzo, in quel momento.
- Leggi, - insistetti io.
E allora ella si asciugò gli occhi, spiegò il foglio e si mise a interpretar la
scrittura, pian piano, sillabando. Dopo le prime parole, corse con gli occhi
alla firma, e mi guardò, sgranando gli occhi:
- Tu?
- Da' qua, - le dissi, - te la leggo io, per intero.
Ma ella si strinse la carta contro il seno:
- No! - gridò. - Non te la do più! Questa ora mi serve!
- E a che potrebbe servirti? - le domandai, sorridendo amaramente. - Vorresti
mostrargliela? Ma in tutta codesta lettera non c'è una parola per cui tuo
marito potrebbe non credere più a ciò che egli invece è felicissimo di credere.
Te l'hanno accalappiato bene, va' là!
- Ah, è vero! è vero! - gemette Oliva. - Mi è venuto con le mani in faccia,
gridandomi che mi fossi guardata bene dal metter in dubbio l'onorabilità di sua
nipote!
- E dunque? - dissi io, ridendo acre. - Vedi? Tu non puoi più ottener nulla
negando. Te ne devi guardar bene! Devi anzi dirgli di sì, che è vero, verissimo
ch'egli può aver figliuoli comprendi?
Ora perché mai, circa un
mese dopo, Malagna picchiò, furibondo, la moglie, e, con la schiuma ancora alla
bocca, si precipitò in casa mia, gridando che esigeva subito una riparazione
perché io gli avevo disonorata, rovinata una nipote, una povera orfana?
Soggiunse che, per non fare uno scandalo, egli avrebbe voluto tacere. Per pietà
di quella poveretta, non avendo egli figliuoli, aveva anzi risoluto di tenersi
quella creatura, quando sarebbe nata, come sua. Ma ora che Dio finalmente gli
aveva voluto dare la consolazione d'aver un figliuolo legittimo, lui, dalla
propria moglie, non poteva, non poteva più, in coscienza, fare anche da
padre a quell'altro che sarebbe nato da sua nipote.
- Mattia provveda! Mattia ripari! - concluse, congestionato dal furore. - E
subito! Mi si obbedisca subito! E non mi si costringa a dire di più, o a fare
qualche sproposito!
Ragioniamo un po', arrivati a questo punto. Io n'ho viste di tutti i colori.
Passare anche per imbecille o per peggio, non sarebbe, in fondo, per me, un
gran guajo. Già - ripeto - son come fuori della vita, e non m'importa più di
nulla. Se dunque, arrivato a questo punto, voglio ragionare, è soltanto per la
logica.
Mi sembra evidente che Romilda non ha dovuto far nulla di male, almeno per
indurre in inganno lo zio. Altrimenti, perché Malagna avrebbe subito a suon di
busse rinfacciato alla moglie il tradimento e incolpato me presso mia madre
d'aver recato oltraggio alla nipote?
Romilda infatti sostiene che, poco dopo quella nostra gita alla Stìa,
sua madre, avendo ricevuto da lei la confessione dell'amore che ormai la legava
a me indissolubilmente, montata su tutte le furie, le aveva gridato in faccia
che mai e poi mai avrebbe acconsentito a farle sposare uno scioperato, già
quasi all'orlo del precipizio. Ora, poiché da sé, ella, aveva recato a se
stessa il peggior male che a una fanciulla possa capitare, non restava più a
lei, madre previdente, che di trarre da questo male il miglior partito. Quale
fosse, era facile intendere. Venuto, al- l'ora solita, il Malagna, ella andò
via, con una scusa, e la lasciò sola con lo zio. E allora, lei, Romilda,
piangendo - dice - a calde lagrime, si gittò ai piedi di lui, gli fece
intendere la sua sciagura e ciò che la madre avrebbe preteso da lei; lo pregò
d'interporsi, d'indurre la madre a più onesti consigli, poiché ella era già
d'un altro, a cui voleva serbarsi fedele.
Malagna s'intenerì - ma fino a un certo segno. Le disse che ella era ancor
minorenne, e perciò sotto la potestà della madre, la quale, volendo, avrebbe
potuto anche agire contro di me, giudiziariamente; che anche lui, in coscienza,
non avrebbe saputo approvare un matrimonio con un discolo della mia forza,
sciupone e senza cervello, e che non avrebbe potuto perciò consigliarlo alla
madre; le disse che al giusto e naturale sdegno materno bisognava che lei
sacrificasse pure qualche cosa, che sarebbe poi stata, del resto, la sua
fortuna; e concluse che egli non avrebbe potuto infine far altro che provvedere
- a patto però che si fosse serbato con tutti il massimo segreto - provvedere
al nascituro, fargli da padre, ecco, giacché egli non aveva figliuoli e ne
desiderava tanto e da tanto tempo uno.
Si può essere - domando io - più onesti di così?
Ecco qua: tutto quello che aveva rubato al padre egli lo avrebbe rimesso al
figliuolo nascituro.
Che colpa ha lui, se io, - poi, - ingrato e sconoscente, andai a guastargli le
uova nel paniere?
Due, no! eh, due, no, perbacco!
Gli parvero troppi, forse perché avendo già Roberto, com'ho detto, contratto un
matrimonio vantaggioso, stimò che non lo avesse danneggiato tanto, da dover
rendere anche per lui.
In conclusione, si vede che - capitato in mezzo a così brava gente - tutto il
male lo avevo fatto io. E dovevo dunque scontarlo.
Mi ricusai dapprima, sdegnosamente. Poi, per le preghiere di mia madre, che già
vedeva la rovina della nostra casa e sperava ch'io potessi in qualche modo
salvarmi, sposando la nipote di quel suo nemico, cedetti e sposai.
Mi pendeva, tremenda, sul capo l'ira di Marianna Dondi, vedova Pescatore.
CAPITOLO V (maturazione)
La strega non si sapeva dar
pace:
- Che hai concluso? - mi domandava. - Non t'era bastato, di', esserti
introdotto in casa mia come un ladro per insidiarmi la figliuola e rovinarmela?
Non t'era bastato?
- Eh no, cara suocera! - le rispondevo. - Perché, se mi fossi arrestato lì vi
avrei fatto un piacere, reso un servizio
- Lo senti? - strillava allora alla figlia. - Si vanta, osa vantarsi per giunta
della bella prodezza che è andato a commettere c quella - e qui una filza di
laide parole all'indirizzo di Oliva; poi, arrovesciando le mani su i fianchi,
appuntando le gomita davanti: - Ma che hai concluso? Non hai rovinato anche tuo
figlio, così? Ma già, a lui, che glien'importa? È suo anche quello, è suo
Non mancava mai di schizzare in fine questo veleno, sapendo la virtù ch'esso
aveva sull'animo di Romilda, gelosa di quel figlio che sarebbe nato a Oliva,
tra gli agi e in letizia; mentre il suo, nell'angustia, nell'incertezza del
domani, e fra tutta quella guerra. Le facevano crescere questa gelosia anche le
notizie che qualche buona donna, fingendo di non saper nulla, veniva a recarle
della zia Malagna, ch'era così contenta, così felice della grazia che Dio
finalmente aveva voluto concederle: ah, si era fatta un fiore; non era stata
mai così bella e prosperosa!
E lei, intanto, ecco: buttata lì su una poltrona, rivoltata da continue nausee;
pallida, disfatta, imbruttita, senza più un momento di bene, senza più voglia
neanche di parlare o d'aprir gli occhi.
Colpa mia anche questa? Pareva di sì. Non mi poteva più né vedere né sentire. E
fu peggio, quando per salvare il podere della Stìa, col molino, si
dovettero vendere le case, e la povera mamma fu costretta a entrar nell'inferno
di casa mia.
Già, quella vendita non giovò a nulla. Il Malagna, con quel figlio nascituro,
che lo abilitava ormai a non aver più né ritegno né scrupolo, fece l'ultima: si
mise d'accordo con gli strozzini, e comprò lui, senza figurare, le case, per
pochi bajocchi. I debiti che gravavano su la Stìa restarono così per la
maggior parte scoperti e il podere insieme col molino fu messo dai creditori
sotto amministrazione giudiziaria. E fummo liquidati.
Che fare ormai? Mi misi, ma quasi senza speranza, in cerca di un'occupazione
qual si fosse, per provvedere ai bisogni più urgenti della famiglia. Ero inetto
a tutto; e la fama che m'ero fatta con le mie imprese giovanili e con la mia
scioperataggine non invogliava certo nessuno a darmi da lavorare. Le scene poi,
a cui giornalmente mi toccava d'assistere e di prender parte in casa mia mi
toglievano quella calma che mi abbisognava per raccogliermi un po' a
considerare, ciò che avrei potuto e saputo fare.
Mi cagionava un vero e proprio ribrezzo il veder mia madre, lì in contatto con
la vedova Pescatore. La santa vecchietta mia, non più ignara, ma agli occhi
miei irresponsabile de' suoi torti, dipesi dal non aver saputo credere fino a
tanto alla nequizia degli uomini, se ne stava tutta ristretta in sé, con le
mani in grembo, gli occhi bassi, seduta in un cantuccio, ma come se non fosse
ben sicura di poterci stare, lì a quel posto; come se fosse sempre in attesa di
partire, di partire tra poco - se Dio voleva! E non dava fastidio neanche
all'aria. Sorrideva ogni tanto a Romilda, pietosamente; non osava più di
accostarsele; perché, una volta, pochi giorni dopo la sua entrata in casa
nostra, essendo accorsa a prestarle ajuto, era stata sgarbatamente allontanata
da quella strega.
- Faccio io, faccio io; so quel che debbo fare.
Per prudenza, avendo Romilda veramente bisogno d'ajuto in quel momento, m'ero
stato zitto; ma spiavo perché nessuno le mancasse di rispetto.
M'accorgevo intanto che questa guardia ch'io facevo a mia madre irritava
sordamente la strega e anche mia moglie, e temevo che, quand'io non fossi in
casa, esse, per sfogar la stizza e votarsi il cuore della bile, la
maltrattassero. Sapevo di certo che la mamma non mi avrebbe detto mai nulla. E
questo pensiero mi torturava. Quante, quante volte non le guardai gli occhi per
vedere se avesse pianto! Ella mi sorrideva, mi carezzava con lo sguardo, poi mi
domandava:
- Perché mi guardi così?
- Stai bene, mamma?
Mi faceva un atto appena appena con la mano e mi rispondeva:
- Bene; non vedi? Va' da tua moglie, va'; soffre, poverina.
Pensai di scrivere a Roberto, a Oneglia, per dirgli che si prendesse lui in
casa la mamma, non per togliermi un peso che avrei tanto volentieri sopportato
anche nelle ristrettezze in cui mi trovavo, ma per il bene di lei unicamente.
Berto mi rispose che non poteva; non poteva perché la sua condizione di fronte
alla famiglia della moglie e alla moglie stessa era penosissima, dopo il nostro
rovescio: egli viveva ormai su la dote della moglie, e non avrebbe dunque
potuto imporre a questa anche il peso della suocera. Del resto, la mamma -
diceva - si sarebbe forse trovata male allo stesso modo in casa sua, perché
anche egli conviveva con la madre della moglie, buona donna, sì, ma che poteva
diventar cattiva per le inevitabili gelosie e gli attriti che nascono tra
suocere. Era dunque meglio che la mamma rimanesse a casa mia; se non altro, non
si sarebbe così allontanata negli ultimi anni dal suo paese e non sarebbe stata
costretta a cangiar vita e abitudini. Si dichiarava infine dolentissimo di non
potere, per tutte le considerazioni esposte più sù, prestarmi un anche menomo
soccorso pecuniario, come con tutto il cuore avrebbe voluto.
Io nascosi questa lettera alla mamma. Forse se l'animo esasperato in quel
momento non mi avesse offuscato il giudizio, non me ne sarei tanto indignato;
avrei considerato, per esempio, secondo la natural disposizione del mio
spirito, che se un rosignolo dà via le penne della coda, può dire: mi resta il
dono del canto; ma se le fate dar via a un pavone, le penne della coda, che gli
resta? Rompere anche per poco l equilibrio che forse gli costava tanto studio,
l'equilibrio per cui poteva vivere pulitamente e fors'anche con una cert'aria
di dignità alle spalle della moglie, sarebbe stato per Berto sacrifizio enorme,
una perdita irreparabile. Oltre alla bella presenza, alle garbate maniere, a
quella sua impostatura d'elegante signore, non aveva più nulla, lui, da dare
alla moglie neppure un briciolo di cuore, che forse l'avrebbe compensata del
fastidio che avrebbe potuto recarle la povera mamma mia. Mah! Dio l'aveva fatto
così; gliene aveva dato pochino pochino, di cuore. Che poteva farci, povero
Berto?
Intanto le angustie crescevano; e io non trovavo da porvi riparo. Furon venduti
gli ori della mamma, cari ricordi. La vedova Pescatore, temendo che io e mia
madre fra poco dovessimo anche vivere sulla sua rendituccia dotale di quarantadue
lire mensili, diventava di giorno in giorno più cupa e di più fosche maniere.
Prevedevo da un momento all'altro un prorompimento del suo furore, contenuto
ormai da troppo tempo, forse per la presenza e per il contegno della mamma. Nel
vedermi aggirar per casa come una mosca senza capo, quella bufera di femmina mi
lanciava certe occhiatacce, lampi forieri di tempesta. Uscivo per levar la
corrente e impedire la scarica. Ma poi temevo per la mamma, e rincasavo.
Un giorno, però, non feci a tempo. La tempesta, mente, era scoppiata, e per un
futilissimo pretesto: per una visita delle due vecchie serve alla mamma.
Una di esse, non avendo potuto metter nulla da parte, perché aveva dovuto
mantenere una figlia rimasta vedova con tre bambini, s'era subito allogata
altrove a servire; ma l'altra, Margherita, sola al mondo, più fortunata, poteva
ora riposar la sua vecchiaja, col gruzzoletto raccolto in tanti anni di
servizio in casa nostra. Ora pare che con queste due buone donne, già fidate
compagne di tanti anni, la mamma si fosse pian piano rammaricata di quel suo
misero e amarissimo stato. Subito allora Margherita, la buona vecchierella che
già l'aveva sospettato e non osava dirglielo, le aveva profferto d'andar via
con lei, a casa sua: aveva due camerette pulite, con un terrazzino che guardava
il mare, pieno di fiori: sarebbero state insieme, in pace: oh, ella sarebbe
stata felice di poterla ancora servire, di poterle dimostrare ancora l'affetto
e la devozione che sentiva per lei.
Ma poteva accettar mia madre la profferta di quella povera vecchia? Donde l'ira
della vedova Pescatore.
Io la trovai, rincasando, con le pugna protese contro Margherita, la quale pur
le teneva testa coraggiosamente, mentre la mamma, spaventata, con le lagrime
agli occhi, tutta tremante, si teneva aggrappata con ambo le mani all'altra
vecchietta, come per ripararsi.
Veder mia madre in quell'atteggiamento e perdere il lume degli occhi fu
tutt'uno. Afferrai per un braccio la vedova Pescatore e la mandai a ruzzolar
lontano. Ella si rizzò in un lampo e mi venne incontro, per saltarmi addosso;
ma s'arrestò di fronte a me.
- Fuori! - mi gridò. - Tu e tua madre, via! Fuori di casa mia!
- Senti; - le dissi io allora, con la voce che mi tremava dal violento sforzo
che facevo su me stesso, per contenermi. - Senti: vattene via tu, or ora, con
le tue gambe, e non cimentarmi più. Vattene,; per il tuo bene! vattene!
Romilda, piangendo e gridando, si levò dalla poltrona e venne a buttarsi tra le
braccia della madre:
- No! Tu con me, mamma! Non mi lasciare, non mi lasciare qua sola!
Ma quella degna madre la respinse, furibonda:
- L'hai voluto? tientelo ora, codesto mal ladrone! Io vado sola!
Ma non se ne andò s'intende.
Due giorni dopo, mandata - suppongo - da Margherita, venne in gran furia, al
solito, zia Scolastica, per portarsi via con sé la mamma.
Questa scena merita di essere rappresentata.
La vedova Pescatore stava quella mattina, a fare il pane, sbracciata, con la
gonnella tirata sù e arrotolata intorno alla vita, per non sporcarsela. Si
voltò appena, vedendo entrare la zia e seguitò ad abburattare, come se nulla
fossa. La zia non ci fece caso; del resto, ella era entrata senza salutar
nessuno; diviata a mia madre, come se in quella casa non ci fosse altri che
lei.
- Subito, via vèstiti! Verrai con me. Mi fu sonata non so che campana. Eccomi
qua. Via, presto! il fagottino!.
Parlava a scatti. Il naso adunco, fiero, nella faccia bruna, itterica, le
fremeva, le si arricciava di tratto in tratto, e gli occhi le sfavillavano.
La vedova Pescatore, zitta.
Finito di abburattare; intrisa la farina e coagulatala in pasta, ora essa la
brandiva alta e la sbatteva forte apposta, su la madia: rispondeva così a quel
che diceva la zia. Questa, allora, rincarò la dose. E quella, sbattendo man
mano più forte 'Ma sì! - ma certo! - ma come no? - ma
sicuramente!' ; poi, come se non bastasse, andò a prendete il
mattarello; e se lo pose lì accanto, su la madia, come per dire: ci ho anche
questo.
Non l'avesse mai fatto!- Zia Scolastica scattò in piedi, si tolse furiosamente
lo scialletto che teneva su le spalle e lo lanciò a mia madre:
- Eccoti! lascia tutto. Via subito!
E andò a piantarsi di faccia alla vedova Pescatore. Questa, per non averla così
dinanzi a petto, si tirò un passo indietro, minacciosa, come volesse brandire
il matterello; e allora zia Scolastica, preso a due mani dalla madia il grosso
batuffolo della pasta, gliel'appiastrò sul capo, glielo tirò giù su la faccia
e, a pugni chiusi, là là, là, sul naso, sugli occhi, in bocca, dove coglieva
coglieva. Quindi afferrò per un braccio mia madre e se la trascinò via.
Quel che seguì fu per me solo. La vedova Pescatore, ruggendo dalla rabbia, si
strappò la pasta dalla faccia, dai capelli tutti appiastricciati, e venne a
buttarla in faccia a me, che ridevo, ridevo in una specie di convulsione;
m'afferrò la barba, mi sgraffiò tutto; poi, come impazzita, si buttò per terra
e cominciò a strapparsi le vesti addosso, a rotolarsi, a rotolarsi, frenetica,
sul pavimento; mia moglie intanto (sit venia verbo) receva di là, tra acutissime
strida, mentr'io:
- Le gambe! le gambe! - gridavo alla vedova Pescatore per terra. - Non mi
mostrate le gambe, per carità!
Posso dire che da allora ho
fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d'ogni mio tormento. Mi
vidi, in quell'istante, attore d'una tragedia che più buffa non si sarebbe
potuta immaginare: mia madre, scappata via, così, con quella matta; mia moglie,
di là, che lasciamola stare!; Marianna Pescatore lì per terra; e io, io che
non avevo più pane, quel che si dice pane, per il giorno appresso, io con la
barba tutta impastocchiata, il viso sgraffiato, grondante non sapevo ancora se
di sangue o di lagrime, per il troppo ridere. Andai ad accertarmene allo
specchio. Erano lagrime; ma ero anche sgraffiato bene. Ah quel mio occhio, in
quel momento, quanto mi piacque! Per disperato, mi s'era messo a guardare più
che mai altrove, altrove per conto suo. E scappai via, risoluto a non rientrare
in casa, se prima non avessi trovato comunque da mantenere, anche miseramente,
mia moglie e me.
Dal dispetto rabbioso che sentivo in quel momento per la sventatezza mia di
tanti anni, argomentavo però facilmente che la mia sciagura non poteva ispirare
a nessuno, non che compatimento, ma neppur considerazione. Me l'ero ben
meritata. Uno solo avrebbe potuto averne pietà: colui che aveva fatto man bassa
d'ogni nostro avere; ma figurarsi se Malagna poteva più sentir l'obbligo di
venirmi in soccorso dopo quanto era avvenuto tra me e lui.
Il soccorso, invece, mi venne da chi meno avrei potuto aspettarmelo.
Rimasto tutto quel giorno fuori di casa, verso sera, m'imbattei per
combinazione in Pomino, che, fingendo di non accorgersi di me, voleva tirar via
di lungo.
- Pomino!
Si volse, torbido in faccia, e si fermò con gli occhi bassi:
- Che vuoi?
- Pomino! - ripetei io più forte, scotendolo per una spalla e ridendo di quella
sua mutria. - Dici sul serio?
Oh, ingratitudine umana! Me ne voleva, per giunta, me ne voleva, Pomino, del
tradimento che, a suo credere, gli avevo fatto. Né mi riuscì di convincerlo che
il tradimento invece lo aveva fatto lui a me, e che avrebbe dovuto non solo
ringraziarmi, ma buttarsi anche a faccia per terra, a baciare dove io ponevo i
piedi.
Ero ancora com'ebbro di quella gajezza mala che si era impadronita di me da
quando m'ero guardato allo specchio.
Vedi questi sgraffii? - gli dissi, a un certo punto. - Lei me li ha fatti!
- Ro cioè, tua moglie?
- Sua madre!
E gli narrai come e perché. Sorrise, ma parcamente. Forse pensò che a lui non
li avrebbe fatti, quegli sgraffii, la vedova Pescatore: era in ben altra
condizione dalla mia, e aveva altra indole e altro cuore, lui.
Mi venne allora la tentazione di domandargli perché dunque, se veramente n'era
cosi addogliato, non l'aveva sposata lui, Romilda, a tempo, magari prendendo il
volo con la, com'io gli avevo consigliato, prima che, per la sua ridicola
timidezza o per la sua indecisione, fosse capitata a me la disgrazia
d'innamorarmene; e altro, ben altro avrei voluto dirgli, nell'orgasmo in cui mi
trovavo; ma mi trattenni. Gli domandai, invece, porgendogli la mano, con chi se
la facesse, di quei giorni.
- Con nessuno! - sospirò egli allora. - Con nessuno! Mi annojo, mi annojo
mortalmente!
Dall'esasperazione con cui proferì queste parole mi parve d'intendere a un
tratto la vera ragione per cui Pomino era così addogliato. Ecco qua: non tanto
Romilda egli forse rimpiangeva, quanto la compagnia che gli era venuta a
mancare; Berto non c'era più; con me non poteva più praticare, perché c'era
Romilda di mezzo, e che restava più dunque da fare al povero Pomino?
- Ammógliati, caro! - gli dissi. - Vedrai come si sta allegri!
Ma egli scosse il capo, seriamente, con gli occhi chiusi; alzò una mano:
- Mai! mai più!
- Bravo, Pomino: persèvera! Se desideri compagnia, sono a tua disposizione,
anche per tutta la notte, se vuoi.
E gli manifestai il proponimento che avevo fatto, uscendo di casa, e gli esposi
anche le disperate condizioni in cui mi trovavo. Pomino si commosse, da vero
amico, e mi profferse quel po' di denaro che aveva con sé. Lo ringraziai di
cuore, e gli dissi che quell'aiuto non m'avrebbe giovato a nulla: il giorno
appresso sarei stato da capo. Un collocamento fisso m'abbisognava.
Aspetta! - esclamò allora Pomino. - Sai che mio padre è ora al Municipio?
- No. Ma me l'immagino.
- Assessore comunale per la pubblica istruzione.
- Questo non me lo sarei immaginato.
- Jersera, a cena Aspetta! Conosci Romitelli?
- No.
- Come no! Quello che sta laggiù, alla biblioteca Boccamazza. È sordo, quasi
cieco, rimbecillito, e non si regge più sulle gambe. Jersera, a cena, mio padre
mi diceva che la biblioteca è ridotta in uno stato miserevole e che bisogna
provvedere con la massima sollecitudine. Ecco il posto per te!
- Bibliotecario? - esclamai. - Ma io
- Perché no? - disse Pomino. - Se l'ha fatto Romitelli
Questa ragione mi convinse.
Pomino mi consigliò di farne parlare a suo padre da zia Scolastica. Sarebbe
stato meglio.
Il giorno appresso, io mi recai a visitar la mamma e ne parlai a lei, poiché
zia Scolastica, da me, non volle farsi vedere. E così, quattro giorni dopo,
diventai bibliotecario. Settanta lira al mese. Più ricco della vedova
Pescatore! Potevo cantar vittoria.
Nei primi mesi fu un divertimento, con quel Romitelli, a cui non ci fu verso di
fare intendere che era stato giubilato dal Comune e che per ciò non doveva più
venire alla biblioteca. Ogni mattina, alla stess'ora, né un minuto prima né un
minuto dopo, me lo vedevo spuntare a quattro piedi (compresi i due bastoni, uno
per mano, che gli servivano meglio dei piedi). Appena arrivato, si toglieva dal
taschino del panciotto un vecchio cipollone di rame, e lo appendeva a muro con
tutta la formidabile catena; sedeva, coi due bastoni fra le gambe, traeva di
tasca la papalina, la tabacchiera e un pezzolone a dadi rossi e neri;
s'infrociava una grossa presa di tabacco, si puliva, poi apriva il cassetto del
tavolino e ne traeva un libraccio che apparteneva alla biblioteca: Dizionario
storico dei musicisti, artisti e amatori morti e viventi, stampato a
Venezia nel 1758.
- Signor Romitelli! - gli gridavo, vedendogli fare tutte queste operazioni,
tranquillissimamente, senza dare il minimo segno d'accorgersi di me.
Ma a chi dicevo? Non sentiva neanche le cannonate. Lo scotevo per un braccio,
ed egli allora si voltava, strizzava gli occhi, contraeva tutta la faccia per
sbirciarmi, poi mi mostrava i denti gialli, forse intendendo di sorridermi,
così; quindi abbassava il capo sul libro, come se volesse farsene guanciale; ma
che! leggeva a quel modo, a due centimetri di distanza, con un occhio solo;
leggeva forte:
- Birnbaum, Giovanni Abramo Birnbaum, Giovanni Abramo, fece stampare
Birnbaum, Giovanni Abramo, fece stampare a Lipsia, nel 1738 a Lipsia nel
1738 un opuscolo in-8s in-8s: Osservazioni imparziali su un passo
delicato del Musicista critico. Mitzler Mitzler inserì Mitzler inserì
questo scritto nel primo volume della sua Biblioteca musicale. Nel 1739
E seguitava così, ripetendo due o tre volte nomi e date, come per cacciarsele a
memoria. Perché leggesse cosi forte, non saprei. Ripeto, non sentiva neanche le
cannonate.
Io stavo a guardarlo, stupito. O che poteva importare a quell'uomo in quello
stato, a due passi ormai dalla tomba (morì difatti quattro mesi dopo la mia
nomina a bibliotecario), che poteva importargli che Birnbaum Giovanni Abramo
avesse fatto stampare a Lipsia nel 1738 un opuscolo in-8s? E non gli fosse
almeno costata tutto quello stento la lettura! Bisognava proprio riconoscere
che non potesse farne a meno di quelle date lì e di quelle notizie di musicisti
(lui, così sordo!) e artisti e amatori, morti e viventi fino al 1758. O credeva
forse che un bibliotecario, essendo la biblioteca fatta per leggervi, fosse
obbligato a legger lui, posto che non aveva veduto mai apparirvi anima viva; e
aveva preso quel libro, come avrebbe potuto prenderne un altro? Era tanto
imbecillito, che anche questa supposizione è possibile, e anzi molto più
probabile della prima.
Intanto, sul tavolone lì in mezzo, c'era uno strato di polvere alto per lo meno
un dito; tanto che io - per riparare in certo qual modo alla nera ingratitudine
de' miei concittadini - potei tracciarvi a grosse lettere questa iscrizione:
A |
Precipitavano poi, a quando
a quando, dagli scaffali due o tre libri, seguiti da certi topi grossi quanto
un coniglio.
Furono per me come la mela di Newton.
Ho trovato! - esclamai tutto contento. - Ecco l'occupazione per me, mentre
Romitelli legge il suo Birnbaum.
E, per cominciare, scrissi una elaboratissima istanza, d'ufficio, all'esimio
cavalier Gerolamo Pomino, assessore comunale per la pubblica istruzione,
affinché la biblioteca Boccamazza o di Santa Maria Liberale fosse con la
maggior sollecitudine provveduta di un pajo di gatti per lo meno, il cui
mantenimento non avrebbe importato quasi alcuna spesa al Comune, atteso che i
suddetti animali avrebbero avuto da nutrirsi in abbondanza col provento della
loro caccia. Soggiungevo che non sarebbe stato male provvedere altresì la
biblioteca d'una mezza dozzina di trappole e dell'esca necessaria, per non dire
cacio, parola volgare, che - da subalterno - non stimai conveniente
sottoporre agli occhi d'un assessore comunale per la pubblica istruzione.
Mi mandarono dapprima due gattini così miseri che si spaventarono subito di
quegli enormi topi, e - per non morir di fame - si ficcavano loro nelle
trappole, a mangiarsi il cacio. Li trovavo ogni mattina là, imprigionati,
magri, brutti, e così afflitti che pareva non avessero più né forza né volontà
di miagolare.
Reclamai, e vennero due bei gattoni lesti e serii, che senza perder tempo si
misero a fare il loro dovere. Anche le trappole servivano: e queste me li davan
vivi, i topi. Ora, una sera, indispettito che di quelle mie fatiche e di quelle
mie vittorie il Romitelli non si volesse minimamente dar per inteso, come se
lui avesse soltanto l'obbligo di leggere e i topi quello di mangiarsi i libri
della biblioteca, volli, prima d'andarmene, cacciarne due, vivi, entro il
cassetto del suo tavolino. Speravo di sconcertargli, almeno per la mattina
seguente, la consueta nojosissima lettura. Ma che! Come aprì il cassetto e si
sentì sgusciare sotto il naso quelle due bestie, si voltò verso me, che già non
mi potevo più reggere e davo in uno scoppio di risa, e mi domandò:
- Che è stato?
- Due topi, signor Romitelli!
- Ah, topi - fece lui tranquillamente.
Erano di casa; c'era avvezzo; e riprese, come se nulla fosse stato, la lettura
del suo libraccio.
In un Trattato degli Arbori di Giovan Vittorio Soderini si legge che i
frutti maturano 'parte per caldezza e parte per freddezza; perciocché il
calore, come in tutti è manifesto, ottiene la forza del concuocere, ed è la
semplice cagione della maturezza'. Ignorava dunque Giovan Vittorio
Soderini che oltre al calore, i fruttivendoli hanno sperimentato un'altra cagione
della maturezza. Per portare la primizia al mercato e venderla più cara,
essi colgono i frutti, mele e pesche e pere, prima che sian venuti a quella
condizione che li rende sani e piacevoli, e li maturano loro a furia
d'ammaccature.
Ora così venne a maturazione l'anima mia, ancora acerba.
In poco tempo, divenni un altro da quel che ero prima. Morto il Romitelli mi
trovai qui solo, mangiato dalla noja, in questa chiesetta fuori mano, fra tutti
questi libri; tremendamente solo, e pur senza voglia di compagnia. Avrei potuto
trattenermici soltanto poche ore al giorno; ma per le strade del paese mi
vergognavo di farmi vedere, così ridotto in miseria; da casa mia rifuggivo come
da una prigione; e dunque, meglio qua, mi ripetevo. Ma che fare? La caccia ai
topi, sì; ma poteva bastarmi?
La prima volta che mi avvenne di trovarmi con un libro tra le mani, tolto così
a caso, senza saperlo, da uno degli scaffali' provai un brivido d'orrore. Mi
sarei io dunque ridotto come il Romitelli, a sentir l'obbligo di leggere, io
bibliotecario, per tutti quelli che non venivano alla biblioteca? E scaraventai
il libro a terra. Ma poi lo ripresi; e - sissignori - mi misi a leggere
anch'io, e anch'io con un occhio solo, perché quell'altro non voleva saperne.
Lessi così di tutto un po', disordinatamente; ma libri, in ispecie, di
filosofia. Pesano tanto: eppure, chi se ne ciba e se li mette in corpo, vive
tra le nuvole. Mi sconcertarono peggio il cervello, già di per sé balzano.
Quando la testa mi fumava, chiudevo la biblioteca e mi recavo per un
sentieruolo scosceso, a un lembo di spiaggia solitaria.
La vista del mare mi faceva cadere in uno sgomento attonito, che diveniva man
mano oppressione intollerabile. Sedevo su la spiaggia e m'impedivo di
guardarlo, abbassando il capo: ma ne sentivo per tutta la riviera il fragorìo,
mentre lentamente, lentamente, mi lasciavo scivolar di tra le dita la sabbia
densa e greve, mormorando:
- Così, sempre, fino alla morte, senz'alcun mutamento, mai
L'immobilità della condizione di quella mia esistenza mi suggeriva allora
pensieri sùbiti, strani, quasi lampi di follia. Balzavo in piedi, come per
scuotermela d'addosso, e mi mettevo a passeggiare lungo la riva; ma vedevo
allora il mare mandar senza requie, là, alla sponda, le sue stracche ondate
sonnolente; vedevo quelle sabbie lì abbandonate; gridavo con rabbia, scotendo
le pugna:
- Ma perché? ma perché?
E mi bagnavo i piedi.
Il mare allungava forse un po' più qualche ondata, per ammonirmi:
'Vedi, caro, che si guadagna a chieder certi perché? Ti bagni i piedi.
Torna alla tua biblioteca! L'acqua salata infradicia le scarpe; e quattrini da
buttar via non ne hai. Torna alla biblioteca, e lascia i libri di filosofia:
va', va' piuttosto a leggere anche tu che Birnbaum Giovanni Abramo fece
stampare a Lipsia nel 1738 un opuscolo in-8s: ne trarrai senza dubbio maggior
profitto.'
Ma un giorno finalmente vennero a dirmi che mia moglie era stata assalita dalle
doglie, e che corressi subito a casa. Scappai come un dàino: ma più per
sfuggire a me stesso, per non rimanere neanche un minuto a tu per tu con me, a
pensare che io stavo per avere un figliuolo, io, in quelle condizioni, un
figliuolo!
Appena arrivato alla porta di casa, mia suocera m'afferrò per le spalle e mi
fece girar su me stesso:
- Un medico! Scappa! Romilda muore!
Viene da restare, no? a una siffatta notizia a bruciapelo. E invece,
'Correte!'. Non mi sentivo più le gambe; non sapevo più da qual parte
pigliare; e mentre correvo, non so come, - Un medico! un medico! - andavo
dicendo; e la gente si fermava per via, e pretendeva che mi fermassi anch'io a
spiegare che cosa mi fosse accaduto; mi sentivo tirar per le maniche, mi vedevo
di fronte facce pallide, costernate; scansavo, scansavo tutti: - Un medico! un
medico!
E il medico intanto era la, già a casa mia. Quando trafelato, in uno stato
miserando, dopo aver girato tutte le farmacie, rincasai, disperato e furibondo,
la prima bambina era già nata; si stentava a far venir l'altra alla luce.
- Due!
Mi pare di vederle ancora, lì, nella cuna, l'una accanto all'altra: si
sgraffiavano fra loro con quelle manine cosi gracili eppur quasi artigliate da
un selvaggio istinto, che incuteva ribrezzo e pietà: misere, misere, misere,
più di quei due gattini che ritrovavo ogni mattina dentro le trappole; e
anch'esse non avevano forza di vagire come quelli di miagolare; e intanto,
ecco, si sgraffiavano!
Le scostai, e al primo contatto di quelle carnucce tènere e fredde, ebbi un
brivido nuovo, un tremor di tenerezza, ineffabile: - erano mie!
Una mi morì pochi giorni dopo; l'altra volle darmi il tempo, invece, di
affezionarmi a lei, con tutto l'ardore di un padre che, non avendo più altro,
faccia della propria creaturina lo scopo unico della sua vita; volle aver la
crudeltà di morirmi, quando aveva già quasi un anno, e s'era fatta tanto
bellina, tanto, con quei riccioli d'oro ch'io m'avvolgevo attorno le dita e le
baciavo senza saziarmene mai; mi chiamava papà, e io le rispondevo subito: -
Figlia -; e lei di nuovo: - Papà-; così, senza ragione, come si chiamano gli
uccelli tra loro.
Mi morì contemporaneamente alla mamma mia, nello stesso giorno e quasi alla
stess'ora. Non sapevo più come spartire le mie cure e la mia pena. Lasciavo la
piccina mia che riposava, e scappavo dalla mamma, che non si curava di sé,
della sua morte, e mi domandava di lei, della nipotina, struggendosi di non
poterla più rivedere, baciare per l'ultima volta. E durò nove giorni, questo
strazio! Ebbene, dopo nove giorni e nove notti di veglia assidua, senza chiuder
occhio neanche per un minuto debbo dirlo? - molti forse avrebbero ritegno a
confessarlo; ma è pure umano, umano, umano - io non sentii pena, no, sul
momento: rimasi un pezzo in una tetraggine attonita, spaventevole, e mi addormentai.
Sicuro. Dovetti prima dormire. Poi, sì, quando mi destai, il dolore m'assalì
rabbioso, feroce, per la figlietta mia, per la mamma mia, che non erano più
E fui quasi per impazzire. Un'intera notte vagai per il paese e per le
campagne; non so con che idee per la mente; so che, alla fine, mi ritrovai nel
podere della Stìa, presso alla gora del molino, e che un tal Filippo,
vecchio mugnajo, lì di guardia, mi prese con sé, mi fece sedere più là, sotto
gli alberi, e mi parlò a lungo, a lungo della mamma e anche di mio padre e de'
bei tempi lontani; e mi disse che non dovevo piangere e disperarmi cosi, perché
per attendere alla figlioletta mia, nel mondo di là, era accorsa la nonna, la
nonnina buona, che la avrebbe tenuta sulle ginocchia e le avrebbe parlato di me
sempre e non me la avrebbe lasciata mai sola, mai.
Tre giorni dopo Roberto, come se avesse voluto pagarmi le lagrime, mi mandò
cinquecento lire. Voleva che provvedessi a una degna sepoltura della mamma,
diceva. Ma ci aveva già pensato zia Scolastica.
Quelle cinquecento lire rimasero un pezzo tra le pagine di un libraccio della
biblioteca.
Poi servirono per me; e furono - come dirò - la cagione della mia prima
morte.
CAPITOLO VI (tac, tac, tac.)
Lei sola, là dentro, quella
pallottola d'avorio, correndo graziosa nella roulette, in senso inverso
al quadrante, pareva giocasse:
'Tac tac tac '.
Lei sola: - non certo quelli che la guardavano, sospesi nel supplizio che
cagionava loro il capriccio di essa, a cui - ecco - sotto, su i quadrati gialli
del tavoliere, tante mani avevano recato, come in offerta votiva, oro, oro e
oro, tante mani che tremavano adesso nell'attesa angosciosa, palpando
inconsciamente altro oro, quello della prossima posta, mentre gli occhi
supplici pareva dicessero: 'Dove a te piaccia, dove a te piaccia di
cadere, graziosa pallottola d'avorio, nostra dea crudele!'.
Ero capitato là, a Montecarlo, per caso.
Dopo una delle solite scene con mia suocera e mia moglie, che ora, oppresso e
fiaccato com'ero dalla doppia recente sciagura, mi cagionavano un disgusto
intollerabile; non sapendo più resistere alla noja, anzi allo schifo di vivere
a quel modo; miserabile, senza né probabilità né speranza di miglioramento,
senza più il conforto che mi veniva dalla mia dolce bambina, senza alcun compenso,
anche minimo, all'amarezza, allo squallore, all'orribile desolazione in cui ero
piombato; per una risoluzione quasi improvvisa, ero fuggito dal paese, a piedi,
con le cinquecento lire di Berto in tasca.
Avevo pensato, via facendo, di recarmi a Marsiglia, dalla stazione ferroviaria
del paese vicino, a cui m'ero diretto: giunto a Marsiglia, mi sarei imbarcato,
magari con un biglietto di terza classe, per l'America, così alla ventura.
Che avrebbe potuto capitarmi di peggio, alla fin fine, di ciò che avevo
sofferto e soffrivo a casa mia? Sarei andato incontro, sì, ad altre catene, ma
più gravi di quella che già stavo per strapparmi dal piede non mi sarebbero
certo sembrate. E poi avrei veduto altri paesi, altre genti, altra vita, e mi
sarei sottratto almeno all'oppressione che mi soffocava e mi schiacciava.
Se non che, giunto a Nizza, m'ero sentito cader l'animo. Gl'impeti miei
giovanili erano abbattuti da un pezzo: troppo ormai la noja mi aveva tarlato
dentro, e svigorito il cordoglio. L'avvilimento maggiore m'era venuto dalla
scarsezza del denaro con cui avrei dovuto avventurarmi nel bujo della sorte,
così lontano, incontro a una vita affatto ignota, e senz'alcuna preparazione.
Ora, sceso a Nizza, non ben risoluto ancora di ritornare a casa, girando per la
città, m'era avvenuto di fermarmi innanzi a una grande bottega su l'Avenue de
la Gare, che recava questa insegna a grosse lettere dorate:
DÉPÔT DE ROULETTES DE PRÉCISION
Ve n'erano esposte d'ogni
dimensione, con altri attrezzi del giuoco e varii opuscoli che avevano sulla
copertina il disegno della roulette;
Si sa che gl'infelici facilmente diventano superstiziosi, per quanto poi
deridano l'altrui credulità e le speranze che a loro stessi la superstizione
certe volte fa d'improvviso concepire e che non vengono mai a effetto,
s'intende.
Ricordo che io, dopo aver letto il titolo d'uno di quegli opuscoli: Méthode
pour gagner à la roulette, mi allontanai dalla bottega con un sorriso
sdegnoso e di commiserazione. Ma, fatti pochi passi, tornai in- dietro, e (per curiosità,
via, non per altro!) con quello stesso sorriso sdegnoso e di commiserazione su
le labbra, entrai nella bottega e comprai quell'opuscolo.
Non sapevo affatto di che si trattasse, in che consistesse il giuoco e come
fosse congegnato. Mi misi a leggere; ma ne compresi ben poco.
'Forse dipende,' pensai, 'perché non ne so molto, io, di
francese.'
Nessuno me l'aveva insegnato; avevo imparato da me qualche cosa, così,
leggiucchiando nella biblioteca; non ero poi per nulla sicuro della pronunzia e
temevo di far ridere, parlando.
Questo timore appunto mi rese dapprima perplesso se andare o no; ma poi pensai
che m'ero partito per avventurarmi fino in America, sprovvisto di tutto e senza
conoscere neppur di vista l'inglese e lo spagnuolo; dunque via, con quel po' di
francese di cui potevo disporre e con la guida di quell'opuscolo, fino a
Montecarlo, li a due passi, avrei potuto bene avventurarmi.
'Né mia suocera né mia moglie,' dicevo fra me, in treno, 'sanno
di questo po' di denaro, che mi resta in portafogli. Andrò a buttarlo lì, per
togliermi ogni tentazione. Spero che potrò conservare tanto da pagarmi il
ritorno a casa. E se no'
Avevo sentito dire che non difettavano alberi - solidi - nel giardino attorno
alla bisca. In fin de' conti, magari mi sarei appeso economicamente a qualcuno
di essi, con la cintola dei calzoni, e ci avrei fatto anche una bella figura.
Avrebbero detto:
'Chi sa quanto avrà perduto questo povero uomo!'
Mi aspettavo di meglio, dico la verità. L'ingresso, sì, non c'è male; si vede
che hanno avuto quasi l'intenzione d'innalzare un tempio alla Fortuna, con
quelle otto colonne di marmo. Un portone e due porte laterali. Su queste era
scritto Tirez: e fin qui ci arrivavo; arrivai anche al Poussez
del portone, che evidentemente voleva dire il contrario; spinsi ed entrai.
Pessimo gusto! E fa dispetto. Potrebbero almeno offrire a tutti coloro che
vanno a lasciar lì tanto denaro la soddisfazione di vedersi scorticati in un
luogo men sontuoso e più bello. Tutte le grandi città si compiacciono adesso di
avere un bel mattatojo per le povere bestie, le quali pure, prive come sono
d'ogni educazione, non possono goderne. E vero tuttavia che la maggior parte
della gente che va lì ha ben altra voglia che quella di badare al gusto della
decorazione di quelle cinque sale, come coloro che seggono su quei divani, giro
giro, non sono spesso in condizione di accorgersi della dubbia eleganza
dell'imbottitura.
Vi seggono, di solito, certi disgraziati, cui la passione del giuoco ha
sconvolto il cervello nel modo più singolare: stanno li a studiare il così
detto equilibrio delle probabilità, e meditano seriamente i colpi da tentare,
tutta un'architettura di giuoco, consultando appunti su le vicende de' numeri:
vogliono insomma estrarre la logica dal caso, come dire il sangue dalle pietre;
e son sicurissimi che, oggi o domani, vi riusciranno.
Ma non bisogna meravigliarsi di nulla.
- Ah, il 12! il 12! - mi diceva un signore di Lugano, pezzo d'omone, la cui
vista avrebbe suggerito le più consolanti riflessioni su le resistenti energie
della razza umana. - Il 12 è il re dei numeri; ed è il mio numero! Non mi
tradisce mai! Si diverte, sì, a farmi dispetti, magari spesso; ma poi, alla
fine, mi compensa, mi compensa sempre della mia fedeltà.
Era innamorato del numero 12, quell'omone lì, e non sapeva più parlare d'altro.
Mi raccontò che il giorno precedente quel suo numero non aveva voluto sortire
neppure una volta; ma lui non s'era dato per vinto: volta per volta, ostinato,
la sua posta sul 12; era rimasto su la breccia fino all'ultimo, fino all'ora in
cui i croupiers annunziano:
- Messieurs, aux trois dernier!
Ebbene, al primo di quei tre ultimi colpi, niente; niente neanche al secondo;
al terzo e ultimo, pàffete: il 12.
- M'ha parlato! - concluse, con gli occhi brillanti di gioja - M'ha parlato!
È vero che, avendo perduto tutta la giornata, non gli eran restati per
quell'ultima posta che pochi scudi; dimodoché, alla fine, non aveva potuto
rifarsi di nulla. Ma che gl'importava? Il numero 12 gli aveva parlato!
Sentendo questo discorso, mi vennero a mente quattro versi del povero Pinzone,
il cui cartolare de' bisticci col seguito delle sue rime balzane, rinvenuto
durante lo sgombero di casa, sta ora in biblioteca; e volli recitarli a quel
signore:
Ero già stanco di stare
alla bada |
E quel signore allora si
prese la testa con tutt'e due le mani e contrasse dolorosamente, a lungo, tutta
la faccia. Lo guardai, prima sorpreso, poi costernato.
- Che ha?
- Niente. Rido, - mi rispose.
Rideva così! Gli faceva tanto male, tanto male la testa, che non poteva
soffrire lo scotimento del riso.
Andate a innamorarvi del numero 12!
Prima di tentare la sorte -
benché senz'alcuna illusione - volli stare un pezzo a osservare, per rendermi
conto del modo con cui procedeva il giuoco.
Non mi parve affatto complicato, come il mio opuscolo m'aveva lasciato
immaginare.
In mezzo al tavoliere, sul tappeto verde numerato, era incassata la roulette.
Tutt'intorno, i giocatori, uomini e donne, vecchi e giovani, d'ogni paese e
d'ogni condizione, parte seduti, parte in piedi, s'affrettavano nervosamente a
disporre mucchi e mucchietti di luigi e di scudi e biglietti di banca, su i
numeri gialli dei quadrati; quelli che non riuscivano ad accostarsi, o non
volevano, dicevano al croupier i numeri e i colori su cui intendevano di
giocare, e il croupier, subito, col rastrello disponeva le loro poste
secondo l'indicazione, con meravigliosa destrezza; si faceva silenzio, un
silenzio strano, angoscioso, quasi vibrante di frenate violenze, rotto di
tratto in tratto dalla voce monotona sonnolenta dei croupiers:
- Messieurs, faites vos jeux
Mentre di là, presso altri tavolieri, altre voci ugualmente monotone dicevano:
Le jeu est fait! Rien ne va plus!
Alla fine, il croupier lanciava la pallottola sulla roulette
' tac tac '.
E tutti gli occhi si volgevano a lei con varia espressione: d'ansia, di sfida,
d'angoscia, di terrore. Qualcuno fra quelli rimasti in piedi, dietro coloro che
avevano avuto la fortuna di trovare una seggiola, si sospingeva per intravedere
ancora la propria posta, prima che i rastrelli dei croupiers si
allungassero ad arraffarla.
La boule, alla fine, cadeva sul quadrante, e il croupier ripeteva
con la solita voce la formula d'uso e annunziava il numero sortito e il colore.
Arrischiai la prima posta di pochi scudi sul tavoliere di sinistra nella prima
sala, così, a casaccio, sul venticinque; e stetti anch'io a guardare la perfida
pallottola, ma sorridendo, per una specie di vellicazione interna, curiosa, al
ventre.
Cade la boule sul quadrante, e:
- Vingtcinq! - annunzia il croupier. - Rouge, impair et passe!
Avevo vinto! Allungavo la mano sul mio mucchietto multiplicato, quanto un
signore, altissimo di statura, da le spalle poderose troppo in sù, che
reggevano una piccola testa con gli occhiali d'oro sul naso rincagnato, la
fronte sfuggente, i capelli lunghi e lisci su la nuca, tra biondi e grigi, come
il pizzo e i baffi, me la scostò senza tante cerimonie e si prese lui il mio
denaro.
Nel mio povero e timidissimo francese, volli fargli notare che aveva sbagliato
- oh, certo involontariamente!
Era un tedesco, e parlava il francese peggio di me, ma con un coraggio da
leone: mi si scagliò addosso, sostenendo che lo sbaglio invece era mio, e che
il denaro era suo.
Mi guardai attorno, stupito: nessuno fiatava, neppure il mio vicino che pur mi
aveva veduto posare quei pochi scudi sul venticinque. Guardai i croupiers:
immobili, impassibili, come statue. 'Ah sì?' dissi tra me e,
quietamente, mi tirai su la mano gli altri scudi che avevo posato sul tavolino
innanzi a me, e me la filai.
'Ecco un metodo, pour gagner à la roulette,' pensai, 'che
non è contemplato nel mio opuscolo. E chi sa che non sia l'unico, in
fondo!'
Ma la fortuna, non so per quali suoi fini segreti, volle darmi una solenne e
memorabile smentita.
Appressatomi a un altro tavoliere, dove si giocava forte, stetti prima un buon
pezzo a squadrar la gente che vi stava attorno: erano per la maggior parte
signori in marsina; c'eran parecchie signore; più d'una mi parve equivoca; la
vista d'un certo ometto biondo biondo, dagli occhi grossi, ceruli, venati di
sangue e contornati da lunghe ciglia quasi bianche, non m'affidò molto, in
prima; era in marsina anche lui, ma si vedeva che non era solito di portarla:
volli vederlo alla prova: puntò forte: perdette; non si scompose: ripuntò anche
forte, al colpo seguente: via! non sarebbe andato appresso ai miei
quattrinucci. Benché, di prima colta, avessi avuto quella scottatura, mi
vergognai del mio sospetto. C'era tanta gente là che buttava a manate oro e
argento, come fossero rena, senza alcun timore, e dovevo temere io per la mia
miseriola?
Notai, fra gli altri, un giovinetto, pallido come di cera, con un grosso
monocolo all'occhio sinistro il quale affettava un'aria di sonnolenta
indifferenza; sedeva scompostamente; tirava fuori dalla tasca dei calzoni i
suoi luigi; li posava a casaccio su un numero qualunque e, senza guardare,
pinzandosi i peli dei baffetti nascenti aspettava che la boule cadesse;
domandava allora al suo vicino se aveva perduto.
Lo vidi perdere sempre.
Quel suo vicino era un signore magro, elegantissimo, su i quarant'anni; ma
aveva il collo troppo lungo e gracile, ed era quasi senza mento, con un pajo
d'occhietti neri, vivaci, e bei capelli corvini, abbondanti, rialzati sul capo.
Godeva, evidentemente, nel risponder di sì al giovinetto. Egli, qualche volta,
vinceva.
Mi posi accanto a un grosso signore, dalla carnagione così bruna, che le
occhiaje e le palpebre gli apparivano come affumicate; aveva i capelli grigi,
ferruginei, e il pizzo ancor quasi tutto nero e ricciuto; spirava forza e
salute; eppure, come se la corsa della pallottola d'avorio gli promovesse
l'asma, egli si metteva ogni volta ad arrangolare, forte, irresistibilmente. La
gente si voltava a guardarlo; ma raramente egli se n'accorgeva: smetteva allora
per un istante, si guardava attorno, con un sorriso nervoso, e tornava ad
arrangolare, non potendo farne a meno, finché la boule non cadeva sul quadrante.
A poco a poco, guardando, la febbre del giuoco prese anche me. I primi colpi mi
andarono male. Poi cominciai a sentirmi come in uno stato d'ebbrezza estrosa
curiosissima: agivo quasi automaticamente, per improvvise, incoscienti
ispirazioni; puntavo, ogni volta, dopo gli altri, all'ultimo, là! e subito
acquistavo la coscienza, la certezza che avrei vinto; e vincevo. Puntavo
dapprima poco; poi, man mano, di più, di più, senza contare. Quella specie di
lucida ebbrezza cresceva intanto in me, né s'intorbidava per qualche colpo
fallito, perché mi pareva d'averlo quasi preveduto; anzi, qualche volta, dicevo
tra me: 'Ecco, questo lo perderò; debbo perderlo'. Ero come
elettrizzato. A un certo punto, ebbi l'ispirazione di arrischiar tutto, là e
addio; e vinsi. Gli orecchi mi ronzavano; ero tutto in sudore, e gelato. Mi
parve che uno dei croupiers come sorpreso di quella mia tenace fortuna,
mi osservasse. Nell'esagitazione in cui mi trovavo, sentii nello sguardo di
quell'uomo come una sfida, e arrischiai tutto di nuovo, quel che avevo di mio e
quel che avevo vinto, senza pensarci due volte: la mano mi andò su lo stesso
numero di prima, il 35; fui per ritrarla; ma no, lì, lì di nuovo, come se
qualcuno me l'avesse comandato.
Chiusi gli occhi, dovevo essere pallidissimo. Si fece un gran silenzio, e mi
parve che si facesse per me solo, come se tutti fossero sospesi nell'ansia mia
terribile. La boule girò, girò un'eternità, con una lentezza che
esasperava di punto in punto l'insostenibile tortura. Alfine cadde.
M'aspettavo che il croupier, con la solita voce (mi parve lontanissima),
dovesse annunziare:
- Trentecinq, noir, impair et passe!
Presi il denaro e dovetti allontanarmi, come un ubriaco. Caddi a sedere sul
divano, sfinito; appoggiai il capo alla spalliera, per un bisogno improvviso,
irresistibile, di dormire, di ristorarmi con un po' di sonno. E già quasi vi
cedevo, quando mi sentii addosso un peso, un peso materiale, che subito mi fece
riscuotere. Quanto avevo vinto? Aprii gli occhi, ma dovetti richiuderli immediatamente:
mi girava la testa. Il caldo, là dentro, era soffocante. Come! Era già sera?
Avevo intraveduto i lumi accesi. E quanto tempo avevo dunque giocato? Mi alzai
pian piano; uscii.
Fuori, nell'atrio, era
ancora giorno. La freschezza dell'aria mi rinfrancò.
Parecchia gente passeggiava lì: alcuni meditabondi, solitarii; altri, a due, a
tre, chiacchierando e fumando.
Io osservavo tutti. Nuovo del luogo, ancora impacciato, avrei voluto parere
anch'io almeno un poco come di casa: e studiavo quelli che mi parevano più
disinvolti; se non che, quando meno me l'aspettavo, qualcuno di questi, ecco,
impallidiva, fissava gli occhi, ammutoliva, poi buttava via la sigaretta, e,
tra le risa dei compagni, scappava via; rientrava nella sala da giuoco. Perché
ridevano i compagni? Sorridevo anch'io, istintivamente, guardando come uno
scemo.
- A toi, mon chéri! - sentii dirmi, piano, da una voce femminile, un po'
rauca.
Mi voltai; e vidi una di quelle donne che già sedevano con me attorno al
tavoliere, porgermi, sorridendo, una rosa. Un'altra ne teneva per sé: le aveva
comperate or ora al banco di fiori, là, nel vestibolo.
Avevo dunque l'aria così goffa e da allocco?
M'assalì una stizza violenta; rifiutai, senza ringraziare, e feci per scostarmi
da lei; ma ella mi prese, ridendo, per un braccio, e - affettando con me,
innanzi a gli altri, un tratto confidenziale - mi parlò piano, affrettatamente.
Mi parve di comprendere che mi proponesse di giocare con lei, avendo assistito
poc'anzi ai miei colpi fortunati: ella, secondo le mie indicazioni, avrebbe
puntato per me e per lei.
Mi scrollai tutto: sdegnosamente, e la piantai lì in asso.
Poco dopo, rientrando nella sala da giuoco, la vidi che conversava con un
signore bassotto, bruno, barbuto, con gli occhi un po' loschi, spagnuolo
all'aspetto. Gli aveva dato la rosa poc'anzi offerta a me. A una certa mossa
d'entrambi, m'accorsi che parlavano di me; e mi misi in guardia.
Entrai in un'altra sala; m'accostai al primo tavoliere, ma senza intenzione di
giocare; ed ecco, ivi a poco, quel signore, senza più la donna, accostarsi
anche lui al tavoliere, ma facendo le viste di non accorgersi di me.
Mi posi allora a guardarlo risolutamente, per fargli intendere che m'ero bene
accorto di tutto, e che con me, dunque, l'avrebbe sbagliata.
Ma non aveva affatto l'apparenza d'un mariuolo, costui. Lo vidi giocare, e
forte: perdette tre colpi consecutivi: batteva ripetutamente le pàlpebre, forse
per lo sforzo che gli costava la volontà di nascondere il turbamento. Al terzo
colpo fallito, mi guardò e sorrise.
Lo lasciai lì, e ritornai nell'altra sala, al tavoliere dove dianzi avevo
vinto.
I croupiers s'erano dati il cambio. La donna era lì al posto di prima.
Mi tenni addietro, per non farmi scorgere, e vidi ch'ella giocava modestamente,
e non tutte le partite. Mi feci innanzi; ella mi scorse: stava per giocare e si
trattenne, aspettando evidentemente che giocassi io, per puntare dov'io
puntavo. Ma aspettò invano. Quando il croupier disse: - Le jeu est
fait! Rien ne va plus! - la guardai, ed ella alzò un dito per minacciarmi
scherzosamente. Per parecchi giri non giocai; poi, eccitatomi di nuovo alla
vista degli altri giocatori, e sentendo che si raccendeva in me l'estro di
prima, non badai più a lei e mi rimisi a giocare.
Per qual misterioso suggerimento seguivo così infallibilmente la variabilità
imprevedibile nei numeri e nei colori? Era solo prodigiosa divinazione
nell'incoscienza, la mia? E come si spiegano allora certe ostinazioni pazze,
addirittura pazze, il cui ricordo mi desta i brividi ancora, considerando ch'io
cimentavo tutto, tutto, la vita fors'anche, in quei colpi ch'eran vere e
proprie sfide alla sorte? No, no: io ebbi proprio il sentimento di una forza
quasi diabolica in me, in quei momenti, per cui domavo, affascinavo la fortuna,
legavo al mio il suo capriccio. E non era soltanto in me questa convinzione;
s'era anche propagata negli altri, rapidamente; e ormai quasi tutti seguivano
il mio giuoco rischiosissimo. Non so per quante volte passò il rosso, su cui mi
ostinavo a puntare: puntavo su lo zero, e sortiva lo zero. Finanche quel
giovinetto, che tirava i luigi dalla tasca dei calzoni, s'era scosso e
infervorato; quel grosso signore bruno arrangolava più che mai. L'agitazione
cresceva di momento in momento attorno al tavoliere; eran fremiti d'impazienza,
scatti di brevi gesti nervosi, un furor contenuto a stento, angoscioso e
terribile. Gli stessi croupiers avevano perduto la loro rigida
impassibilità.
A un tratto, di fronte a una puntata formidabile, ebbi come una vertigine.
Sentii gravarmi addosso una responsabilità tremenda. Ero poco men che digiuno
dalla mattina, e vibravo tutto, tremavo dalla lunga violenta emozione. Non
potei più resistervi e, dopo quel colpo, mi ritrassi, vacillante. Sentii
afferrarmi per un braccio. Concitatissimo, con gli occhi che gli schizzavano
fiamme, quello spagnoletto barbuto e atticciato voleva a ogni costo trattenermi
- Ecco: erano le undici e un quarto; i croupiers invitavano ai tre
ultimi colpi: avremmo fatto saltare la banca!
Mi parlava in un italiano bastardo, comicissimo; poiché io, che non connettevo
già più, mi ostinavo a rispondergli nella mia lingua:
- No, no, basta! non ne posso più. Mi lasci andare, caro signore.
Mi lasciò andare; ma mi venne appresso. Salì con me nel treno di ritorno a
Nizza, e volle assolutamente che cenassi con lui e prendessi poi alloggio nel
suo stesso albergo.
Non mi dispiacque molto dapprima l'ammirazione quasi timorosa che quell'uomo
pareva felicissimo di tributarmi, come a un taumaturgo. La vanità umana non
ricusa talvolta di farsi piedistallo anche di certa stima che offende e
l'incenso acre e pestifero di certi indegni e meschini turiboli. Ero come un
generale che avesse vinto un'asprissima e disperata battaglia, ma per caso,
senza saper come. Già cominciavo a sentirlo, a rientrare in me, e man mano
cresceva il fastidio che mi recava la compagnia di quell'uomo.
Tuttavia, per quanto facessi, appena sceso a Nizza, non mi riuscì di
liberarmene: dovetti andar con lui a cena. E allora egli mi confessò che me
l'aveva mandata lui, là, nell'atrio del casino, quella donnetta allegra, alla
quale da tre giorni egli appiccicava le ali per farla volare, almeno terra
terra; ali di biglietti di banca; dava cioè qualche centinajo di lire per farle
tentar la sorte. La donnetta aveva dovuto vincer bene, quella sera, seguendo il
mio giuoco, giacché, all'uscita, non s'era più fatta vedere.
- Che podo far? La póvara avrà trovato de meglio. Sono viechio, ió. E agradecio
Dio, ántes, che me la son levada de sobre!
Mi disse che era a Nizza da una settimana e che ogni mattina s'era recato a
Montecarlo, dove aveva avuto sempre, fino a quella sera, una disdetta
incredibile. Voleva sapere com'io facessi a vincere. Dovevo certo aver capito
il giuoco o possedere qualche regola infallibile.
Mi misi a ridere e gli risposi che fino alla mattina di quello stesso giorno
non avevo visto neppure dipinta una roulette, e che non solo non sapevo
affatto come ci si giocasse, ma non sospettavo nemmen lontanamente che avrei
giocato e vinto a quel modo. Ne ero stordito e abbagliato più di lui.
Non si convinse. Tanto vero che, girando abilmente il discorso (credeva senza
dubbio d'aver da fare con una birba matricolata) e parlando con meravigliosa
disinvoltura in quella sua lingua mezzo spagnuola e mezzo Dio sa che cosa,
venne a farmi la stessa proposta a cui aveva tentato di tirarmi, nella
mattinata, col gancio di quella donnetta allegra.
- Ma no, scusi! - esclamai io, cercando tuttavia d'attenuare con un sorriso il
risentimento. - Può ella sul serio ostinarsi a credere che per quel giuoco là
ci possano esser regole o si possa aver qualche segreto? Ci vuol fortuna! ne ho
avuta oggi; potrò non averne domani, o potrò anche averla di nuovo; spero di
sì!
- Ma porqué lei, - mi domandò, - non ha voluto occi aproveciarse de la sua
forturna?
- Io, aprove
- Sì, come puedo decir? avantaciarse, voilà!
- Ma secondo i miei mezzi, caro signore!
- Bien! - disse lui. - Podo ió por lei. Lei, la fortuna, ió metaró el dinero.
- E allora forse perderemo! - conclusi io, sorridendo. - No, no Guardi! Se
lei mi crede davvero così fortunato, - sarò tale al giuoco; in tutto il resto,
no di certo - facciamo così: senza patti fra noi e senza alcuna responsabilità
da parte mia, che non voglio averne, lei punti il suo molto dov'io il mio poco,
come ha fatto oggi; e, se andrà bene
Non mi lasciò finire: scoppiò in una risata strana, che voleva parer maliziosa,
e disse:
- Eh no, segnore mio! no! Occi, sì, l'ho fatto: no lo fado domani seguramente!
Si lei punta forte con migo, bien! si no, no lo fado seguramente! Gracie tante!
Lo guardai, sforzandomi di comprendere che cosa volesse dire: c'era senza
dubbio in quel suo riso e in quelle sue parole un sospetto ingiurioso per me.
Mi turbai, e gli domandai una spiegazione.
Smise di ridere; ma gli rimase sul volto come l'impronta svanente di quel riso.
- Digo che no, che no lo fado, - ripeté. - No digo altro!
Battei forte una mano su la tavola e, con voce alterata, incalzai:
- Nient'affatto! Bisogna invece che dica, spieghi che cosa ha inteso di
significare con le sue parole e col suo riso imbecille! Io non comprendo!
Lo vidi, man mano che parlavo, impallidire e quasi rimpiccolirsi; evidentemente
stava per chiedermi scusa. Mi alzai, sdegnato, dando una spallata.
- Bah! Io disprezzo lei e il suo sospetto, che non arrivo neanche a immaginare!
Pagai il mio conto e uscii.
Ho conosciuto un uomo
venerando e degno anche, per le singolarissime doti dell'intelligenza, d'essere
grandemente ammirato: non lo era, né poco né molto, per un pajo di calzoncini,
io credo, chiari, a quadretti, troppo aderenti alle gambe misere, ch'egli si
ostinava a portare. Gli abiti che indossiamo, il loro taglio, il loro colore,
possono far pensare di noi le più strane cose.
Ma io sentivo ora un dispetto tanto maggiore, in quanto mi pareva di non esser
vestito male. Non ero in marsina, è vero, ma avevo un abito nero, da lutto,
decentissimo. E poi, se - vestito di questi stessi panni - quel tedescaccio in
prima aveva potuto prendermi per un babbeo, tanto che s'era arraffato come
niente il mio denaro; come mai adesso costui mi prendeva per un mariuolo?
'Sarà forse per questo barbone,' pensavo, andando, 'o per questi
capelli troppo corti'
Cercavo intanto un albergo qualunque, per chiudermi a vedere quanto avevo
vinto. Mi pareva d'esser pieno di denari: ne avevo un po' da per tutto, nelle
tasche della giacca e dei calzoni e in quelle del panciotto; oro, argento,
biglietti di banca; dovevano esser molti, molti!
Sentii sonare le due. Le vie erano deserte. Passò una vettura vuota; vi montai.
Con niente avevo fatto circa undicimila lire! Non ne vedevo da un pezzo, e mi
parvero in prima una gran somma. Ma poi, pensando alla mia vita d'un tempo,
provai un grande avvilimento per me stesso. Eh che! Due anni di biblioteca, col
contorno di tutte le altre sciagure, m'avevan dunque immiserito a tal segno il
cuore?
Presi a mordermi col mio nuovo veleno, guardando il denaro lì sul letto:
'Va', uomo virtuoso, mansueto bibliotecario, va', ritorna a casa a placare
con questo tesoro la vedova Pescatore. Ella crederà che tu l'abbia rubato e
acquisterà subito per te una grandissima stima. O va' piuttosto in America,
come avevi prima deliberato, se questo non ti par premio degno alla tua grossa
fatica. Ora potresti, così munito. Undicimila lire! Che ricchezza!'
Raccolsi il denaro; lo buttai nel cassetto del comodino, e mi coricai. Ma non
potei prender sonno. Che dovevo fare, insomma? Ritornare a Montecarlo, a
restituir quella vincita straordinaria? o contentarmi di essa e godermela
modestamente? ma come? avevo forse più animo e modo di godere, con quella
famiglia che mi ero formata? Avrei vestito un po' meno poveramente mia moglie,
che non solo non si curava più di piacermi, ma pareva facesse anzi di tutto per
riuscirmi incresciosa, rimanendo spettinata tutto il giorno, senza busto, in
ciabatte, e con le vesti che le cascavano da tutte le parti. Riteneva forse
che, per un marito come me, non valesse più la pena di farsi bella? Del resto,
dopo il grave rischio corso nel parto, non s'era più ben rimessa in salute.
Quanto all'animo, di giorno in giorno s'era fatta più aspra, non solo contro
me, ma contro tutti. E questo rancore e la mancanza d'un affetto vivo e vero
s'eran messi come a nutrire in lei un'accidiosa pigrizia. Non s'era neppure
affezionata alla bambina, la cui nascita insieme con quell'altra, morta di
pochi giorni, era stata per lei una sconfitta di fronte al bel figlio maschio
d'Oliva, nato circa un mese dopo, florido e senza stento, dopo una gravidanza
felice. Tutti quei disgusti poi e quegli attriti che sorgono, quando il
bisogno, come un gattaccio ispido e nero s'accovaccia su la cenere d'un
focolare spento, avevano reso ormai odiosa a entrambi la convivenza. Con
undicimila lire avrei potuto rimetter la pace in casa e far rinascere l'amore
già iniquamente ucciso in sul nascere dalla vedova Pescatore? Follie! E dunque?
Partire per l'America? Ma perché sarei andato a cercar tanto lontano la
Fortuna, quand'essa pareva proprio che avesse voluto fermarmi qua, a Nizza,
senza ch'io ci pensassi, davanti a quella bottega d'attrezzi di giuoco? Ora
bisognava ch'io mi mostrassi degno di lei, dei suoi favori, se veramente, come
sembrava, essa voleva accordarmeli. Via, via! O tutto o niente. In fin de'
conti, sarei ritornato come ero prima. Che cosa erano mai undicimila lire?
Così il giorno dopo tornai a Montecarlo. Ci tornai per dodici giorni di fila.
Non ebbi più né modo né tempo di stupirmi allora del favore, più favoloso che
straordinario, della fortuna: ero fuori di me, matto addirittura; non ne provo
stupore neanche adesso, sapendo pur troppo che tiro essa m'apparecchiava,
favorendomi in quella maniera e in quella misura. In nove giorni arrivai a
metter sù una somma veramente enorme giocando alla disperata: dopo il nono
giorno cominciai a perdere, e fu un precipizio. L'estro prodigioso, come se non
avesse più trovato alimento nella mia già esausta energia nervosa, venne a
mancarmi. Non seppi, o meglio, non potei arrestarmi a tempo. Mi arrestai, mi
riscossi, non per mia virtù, ma per la violenza d'uno spettacolo orrendo, non
infrequente, pare, in quel luogo.
Entravo nelle sale da giuoco, la mattina del dodicesimo giorno, quando quel
signore di Lugano, innamorato del numero 12, mi raggiunse, sconvolto e ansante,
per annunziarmi, più col cenno che con le parole, che uno s'era poc'anzi ucciso
là, nel giardino. Pensai subito che fosse quel mio spagnuolo, e ne provai
rimorso. Ero sicuro ch'egli m'aveva ajutato a vincere. Nel primo giorno, dopo
quella nostra lite, non aveva voluto puntare dov'io puntavo, e aveva perduto
sempre; nei giorni seguenti, vedendomi vincere con tanta persistenza, aveva
tentato di fare il mio giuoco; ma non avevo voluto più io, allora: come guidato
per mano dalla stessa Fortuna, presente e invisibile, mi ero messo a girare da
un tavoliere all'altro. Da due giorni non lo avevo più veduto, proprio dacché
m'ero messo a perdere, e forse perché lui non mi aveva più dato la caccia.
Ero certissimo, accorrendo al luogo indicatomi, di trovarlo lì, steso per
terra, morto. Ma vi trovai invece quel giovinetto pallido che affettava un'aria
di sonnolenta indifferenza, tirando fuori i luigi dalla tasca dei calzoni per
puntarli senza nemmeno guardare.
Pareva più piccolo, lì in mezzo al viale: stava composto, coi piedi uniti, come
se si fosse messo a giacere prima, per non farsi male, cadendo; un braccio era
aderente al corpo; l'altro, un po' sospeso, con la mano raggrinchiata e un
dito, l'indice, ancora nell'atto di tirare. Era presso a questa mano la
rivoltella; più là, il cappello. Mi parve dapprima che la palla gli fosse
uscita dall'occhio sinistro, donde tanto sangue, ora rappreso, gli era colato
su la faccia. Ma no: quel sangue era schizzato di lì, come un po' dalle narici
e dagli orecchi; altro, in gran copia, n'era poi sgorgato dal forellino alla
tempia destra, su la rena gialla del viale, tutto raggrumato. Una dozzina di
vespe vi ronzavano attorno; qualcuna andava a posarsi anche lì, vorace, su
l'occhio. Fra tanti che guardavano, nessuno aveva pensato a cacciarle via.
Trassi dalla tasca un fazzoletto e lo stesi su quel misero volto orribilmente
sfigurato. Nessuno me ne seppe grado: avevo tolto il meglio dello spettacolo.
Scappai via; ritornai a Nizza per partirne quel giorno stesso.
Avevo con me circa ottantaduemila lire.
Tutto potevo immaginare, tranne che, nella sera di quello stesso giorno,
dovesse accadere anche a me qualcosa di simile.
CAPITOLO VII (cambio treno)
Pensavo:
'Riscatterò la Stìa, e mi ritirerò là, in campagna, a fare il mugnajo. Si
sta meglio vicini alla terra; e - sotto - fors'anche meglio.
'Ogni mestiere, in fondo, ha qualche sua consolazione. Ne ha finanche
quello del becchino. Il mugnajo può consolarsi col frastuono delle macine e con
lo spolvero che vola per aria e lo veste di farina.
'Son sicuro che, per ora, non si rompe nemmeno un sacco, là, nel molino.
Ma appena lo riavrò io:
'- Signor Mattia, la nottola del palo! Signor Mattia, s'è rotta la
bronzina! Signor Mattia, i denti del lubecchio!
'Come quando c'era la buon'anima della mamma, e Malagna amministrava.
'E mentr'io attenderò al molino, il fattore mi ruberà i frutti della
campagna; e se mi porrò invece a badare a questa, il mugnajo mi ruberà la
molenda. E di qua il mugnajo e di là il fattore faranno l'altalena, e io nel
mezzo a godere.
'Sarebbe forse meglio che cavassi dalla veneranda cassapanca di mia suocera
uno dei vecchi abiti di Francesco Antonio Pescatore, che la vedova custodisce
con la canfora e col pepe come sante reliquie, e ne vestissi Marianna Dondi e
mandassi lei a fare il mugnajo e a star sopra al fattore.
'L'aria di campagna farebbe certamente bene a mia moglie. Forse a qualche
albero cadranno le foglie, vedendola; gli uccelletti ammutoliranno; speriamo
che non secchi la sorgiva. E io rimarrò bibliotecario, solo soletto, a Santa
Maria Liberale.'
Così pensavo, e il treno intanto correva. Non potevo chiudere gli occhi, ché
subito m'appariva con terribile precisione il cadavere di quel giovinetto, là,
nel viale, piccolo e composto sotto i grandi alberi immobili nella fresca
mattina. Dovevo perciò consolarmi così, con un altro incubo, non tanto sanguinoso,
almeno materialmente: quello di mia suocera e di mia moglie. E godevo nel
rappresentarmi la scena dell'arrivo, dopo quei tredici giorni di scomparsa
misteriosa.
Ero certo (mi pareva di vederle!), che avrebbero affettato entrambe, al mio
entrare, la più sdegnosa indifferenza. Appena un'occhiata, come per dire:
'To', qua di nuovo? Non t'eri rotto l'osso del collo?'
Zitte loro, zitto io.
Ma poco dopo, senza dubbio, la vedova Pescatore avrebbe cominciato a sputar
bile, rifacendosi dall'impiego che forse avevo perduto.
M'ero infatti portata via la chiave della biblioteca: alla notizia del mia
sparizione, avevano dovuto certo scassinare la porta, per ordine della
questura: e, non trovandomi là entro, morto, né avendosi d'altra parte tracce o
notizie di me, quelli del Municipio avevano forse aspettato, tre, quattro,
cinque giorni, una settimana, il mio ritorno; poi avevano dato a qualche altro
sfaccendato il mio posto.
Dunque, che stavo a far lì, seduto? M'ero buttato di nuovo, da me, in mezzo a
una strada? Ci stéssi! Due povere donne non potevano aver l'obbligo di
mantenere un fannullone, un pezzaccio da galera, che scappava via così, chi sa
per quali altre prodezze, ecc., ecc.
Io, zitto.
Man mano, la bile di Marianna Dondi cresceva, per quel mio silenzio dispettoso,
cresceva, ribolliva, scoppiava: - e io, ancora lì, zitto!
A un certo punto, avrei cavato dalla tasca in petto il portafogli e mi sarei
messo a contare sul tavolino i miei biglietti da mille: là, là, là e là
Spalancamento d'occhi e di bocca di Marianna Dondi e anche di mia moglie.
Poi:
'- Dove li hai rubati?
'- settantasette, settantotto, settantanove, ottanta, ottantuno;
cinquecento, seicento, settecento; dieci, venti, venticinque; ottantunmila
settecento venticinque lire, e quaranta centesimi in tasca.'
Quietamente avrei raccolti i biglietti, li avrei rimessi nel portafogli, e mi
sarei alzato.
'- Non mi volete più in casa? Ebbene, tante grazie! Me ne vado, e salute a
voi.'
Ridevo, così pensando.
I miei compagni di viaggio mi osservavano e sorridevano anch'essi, sotto sotto.
Allora, per assumere un contegno più serio, mi mettevo a pensare a' miei
creditori, fra cui avrei dovuto dividere quei biglietti di banca. Nasconderli,
non potevo. E poi, a che m'avrebbero servito, nascosti?
Godermeli, certo quei cani non me li avrebbero lasciati godere. Per rifarsi lì,
col molino della Stìa e coi frutti del podere, dovendo pagare anche
l'amministrazione, che si mangiava poi tutto a due palmenti (a due palmenti era
anche il molino), chi sa quant'anni ancora avrebbero dovuto aspettare. Ora,
forse, con un'offerta in contanti, me li sarei levati d'addosso a buon patto. E
facevo il conto:
'Tanto a quella mosca canina del Recchioni; tanto, a Filippo Brìsigo, e mi
piacerebbe che gli servissero per pagarsi il funerale: non caverebbe più sangue
ai poverelli!; tanto a Cichin Lunaro, il torinese; tanto, alla vedova
Lippani Chi altro c'è ? Ih! hai voglia! Il Della Piana, Bossi e
Margottini Ecco tutta la mia vincita!'
Avevo vinto per loro a Montecarlo, in fin dei conti! Che rabbia per que' due
giorni di perdita ! Sarei stato ricco di nuovo ricco!
Mettevo ora certi sospironi, che facevano voltare più dei sorrisi di prima i
miei compagni di viaggio. Ma io non trovavo requie. Era imminente la sera:
l'aria pareva di cenere; e l'uggia del viaggio era insopportabile.
Alla prima stazione italiana comprai un giornale con la speranza che mi facesse
addormentare. Lo spiegai, e al lume del lampadino elettrico, mi misi a leggere.
Ebbi così la consolazione di sapere che il castello di Valençay, messo
all'incanto per la seconda volta, era stato aggiudicato al signor conte De
Castellane per la somma di due milioni e trecentomila franchi. La tenuta
attorno al castello era di duemila ottocento ettari: la più vasta di Francia.
'Press'a poco, come la Stìa'
Lessi che l'imperatore di Germania aveva ricevuto a Potsdam, a mezzodì,
l'ambasciata marocchina, e che al ricevimento aveva assistito il segretario di
Stato, barone de Richtofen. La missione, presentata poi all'imperatrice, era
stata trattenuta a colazione, e chi sa come aveva divorato!
Anche lo Zar e la Zarina di Russia avevano ricevuto a Peterhof una speciale
missione tibetana, che aveva presentato alle LL. MM. i doni del Lama.
'I doni del Lama?' domandai a me stesso, chiudendo gli occhi,
cogitabondo. 'Che saranno?'
Papaveri: perché mi addormentai. Ma papaveri di scarsa virtù: mi ridestai,
infatti, presto, a un urto del treno che si fermava a un'altra stazione.
Guardai l'orologio: eran le otto e un quarto. Fra un'oretta, dunque, sarei
arrivato.
Avevo il giornale ancora in mano e lo voltai per cercare in seconda pagina
qualche dono migliore di quelli del Lama. Gli occhi mi andarono su un
suicidio
così, in grassetto.
Pensai subito che potesse esser quello di Montecarlo, e m'affrettai a leggere.
Ma mi arrestai sorpreso al primo rigo, stampato di minutissimo carattere:
'Ci telegrafano da Miragno'.
'Miragno? Chi si sarà suicidato nel mio paese?'
Lessi: 'Jeri, sabato 28, è stato rinvenuto nella gora d'un mulino un
cadavere in istato d'avanzata putrefazione '.
A un tratto, la vista mi s'annebbiò, sembrandomi di scorgere nel rigo seguente
il nome del mio podere; e, siccome stentavo a leggere, con un occhio solo,
quella stampa minuscola, m'alzai in piedi, per essere più vicino al lume.
' putrefazione. Il molino è sito in un podere detto della Stìa, a
circa due chilometri dalla nostra città. Accorsa sopra luogo l'autorità
giudiziaria con altra gente, il cadavere fu estratto dalla gora per le
constatazioni di legge e piantonato. Più tardi esso fu riconosciuto per quello
del nostro '
Il cuore mi balzò in gola e guardai, spiritato, i miei compagni di viaggio che
dormivano tutti.
'Accorsa sopra luogo estratto dalla gora e piantonato fu
riconosciuto per quello del nostro bibliotecario'
'Io?'
'Accorsa sopra luogo più tardi per quello del nostro
bibliotecario Mattia Pascal, scomparso da parecchi giorni. Causa del suicidio:
dissesti finanziarii.'
'Io? Scomparso riconosciuto Mattia Pascal'
Rilessi con piglio feroce e col cuore in tumulto non so più quante volte quelle
poche righe. Nel primo impeto, tutte le mie energie vitali insorsero
violentemente per protestare: come se quella notizia, così irritante nella sua
impassibile laconicità, potesse anche per me esser vera. Ma, se non per me, era
pur vera per gli altri; e la certezza che questi altri avevano fin da jeri
della mia morte era su me come una insopportabile sopraffazione, permanente,
schiacciante Guardai di nuovo i miei compagni di viaggio e, quasi anch'essi,
lì, sotto gli occhi miei, riposassero in quella certezza, ebbi la tentazione di
scuoterli da quei loro scomodi e penosi atteggiamenti, scuoterli, svegliarli,
per gridar loro che non era vero.
'Possibile?'
E rilessi ancora una volta la notizia sbalorditoja.
Non potevo più stare alle mosse. Avrei voluto che il treno s'arrestasse, avrei
voluto che corresse a precipizio: quel suo andar monotono, da automa duro,
sordo e greve, mi faceva crescere di punto in punto l'orgasmo. Aprivo e
chiudevo le mani continuamente, affondandomi le unghie nelle palme; spiegazzavo
il giornale; lo rimettevo in sesto per rilegger la notizia che già sapevo a
memoria, parola per parola.
'Riconosciuto! Ma è possibile che m'abbiano riconosciuto? In
istato d'avanzata putrefazione puàh!'
Mi vidi per un momento, lì nell'acqua verdastra della gora, fradicio, gonfio,
orribile, galleggiante Nel raccapriccio istintivo, incrociai le braccia sul
petto e con le mani mi palpai, mi strinsi:
'Io, no; io, no Chi sarà stato? mi somigliava, certo Avrà forse
avuto la barba anche lui, come la mia la mia stessa corporatura E m'han
riconosciuto! Scomparso da parecchi giorni Eh già! Ma io vorrei
sapere, vorrei sapere chi si è affrettato così a riconoscermi. Possibile che
quel disgraziato là fosse tanto simile a me? vestito come me? tal quale? Ma
sarà stata lei, forse, lei, Marianna Dondi, la vedova Pescatore: oh! m'ha
pescato subito, m'ha riconosciuto subito! Non le sarà parso vero, figuriamoci!
- È lui, è lui! mio genero! ah, povero Mattia! ah, povero figliuolo mio!
- E si sarà messa a piangere fors'anche; si sarà pure inginocchiata accanto al
cadavere di quel poveretto, che non ha potuto tirarle un calcio e gridarle: -
Ma lèvati di qua: non ti conosco -.'
Fremevo. Finalmente il treno s'arrestò a un'altra stazione. Aprii lo sportello
e mi precipitai giù, con l'idea confusa di fare qualche cosa, subito: un
telegramma d'urgenza per smentire quella notizia.
Il salto che spiccai dal vagone mi salvò: come se mi avesse scosso dal cervello
quella stupida fissazione, intravidi in un baleno ma sì! la mia liberazione
la libertà una vita nuova!
Avevo con me ottantaduemila lire, e non avrei più dovuto darle a nessuno! Ero
morto, ero morto: non avevo più debiti, non avevo più moglie, non avevo più
suocera: nessuno! libero! libero! libero! Che cercavo di più?
Pensando così, dovevo esser rimasto in un atteggiamento stranissimo, là su la
banchina di quella stazione. Avevo lasciato aperto lo sportello del vagone. Mi
vidi attorno parecchia gente, che mi gridava non so che cosa; uno, infine, mi
scosse e mi spinse, gridandomi più forte:
- Il treno riparte!
- Ma lo lasci, lo lasci ripartire, caro signore! - gli gridai io, a mia volta.
- Cambio treno!
Mi aveva ora assalito un dubbio: il dubbio se quella notizia fosse già stata
smentita; se già si fosse riconosciuto l'errore, a Miragno; se fossero saltati
fuori i parenti del vero morto a correggere la falsa identificazione.
Prima di rallegrarmi così, dovevo bene accertarmi, aver notizie precise e
particolareggiate. Ma come procurarmele?
Mi cercai nelle tasche il giornale. Lo avevo lasciato in treno. Mi voltai a
guardare il binario deserto, che si snodava lucido per un tratto nella notte
silenziosa, e mi sentii come smarrito, nel vuoto, in quella misera stazionuccia
di passaggio. Un dubbio più forte mi assalì, allora: che io avessi sognato?
Ma no:
'Ci telegrafano da Miragno. Jeri, sabato 28'
Ecco: potevo ripetere a memoria, parola per parola, il telegramma. Non c'era
dubbio! Tuttavia, sì, era troppo poco; non poteva bastarmi.
Guardai la stazione; lessi il nome: ALENGA.
Avrei trovato in quel paese altri giornali? Mi sovvenne che era domenica. A
Miragno, dunque, quella mattina, era uscito Il Foglietto, l'unico
giornale che vi si stampasse. A tutti i costi dovevo procurarmene una copia. Lì
avrei trovato tutte le notizie particolareggiate che m'abbisognavano. Ma come
sperare di trovare ad Alenga Il Foglietto? Ebbene: avrei telegrafato
sotto un falso nome alla redazione del giornale. Conoscevo il direttore, Miro
Colzi, Lodoletta come tutti lo chiamavano a Miragno, da quando,
giovinetto, aveva pubblicato con questo titolo gentile il suo primo e ultimo
volume di versi.
Per Lodoletta però non sarebbe stato un avvenimento quella richiesta di copie
del suo giornale da Alenga? Certo la notizia più 'interessante' di
quella settimana, e perciò il pezzo più forte di quel numero, doveva
essere il mio suicidio. E non mi sarei dunque esposto al rischio che la
richiesta insolita facesse nascere in lui qualche sospetto?
'Ma che!' pensai poi. 'A Lodoletta non può venire in mente ch'io
non mi sia affogato davvero. Cercherà la ragione della richiesta in qualche
altro pezzo forte del suo numero d'oggi. Da tempo combatte strenuamente
contro il Municipio per la conduttura dell'acqua e per l'impianto del gas.
Crederà piuttosto che sia per questa sua 'campagna'.'
Entrai nella stazione.
Per fortuna, il vetturino dell'unico legnetto, quello de la posta, stava ancora
lì a chiacchierare con gl'impiegati ferroviarii: il paesello era a circa tre
quarti d'ora di carrozza dalla stazione, e la via era tutta in salita.
Montai su quel decrepito calessino sgangherato, senza fanali; e via nel buio.
Avevo da pensare a tante cose; pure, di tratto in tratto, la violenta
impressione ricevuta alla lettura di quella notizia che mi riguardava così da
vicino mi si ridestava in quella nera, ignota solitudine, e mi sentivo, allora,
per un attimo, nel vuoto, come poc'anzi alla vista del binario deserto; mi
sentivo paurosamente sciolto dalla vita, superstite di me stesso, sperduto, in
attesa di vivere oltre la morte, senza intravedere ancora in qual modo.
Domandai, per distrarmi, al vetturino, se ci fosse ad Alenga un'agenzia
giornalistica:
- Come dice? Nossignore!
- Non si vendono giornali ad Alenga?
- Ah! sissignore. Li vende il farmacista, Grottanelli.
- C'è un albergo?
- C'è la locanda del Palmentino.
Era smontato da cassetta per alleggerire un po' la vecchia rozza che soffiava
con le froge a terra. Lo discernevo appena. A un certo punto accese la pipa e
lo vidi, allora, come a sbalzi, e pensai: 'Se egli sapesse chi
porta'.
Ma ritorsi subito a me stesso la domanda:
'Chi porta? Non lo so più nemmeno io. Chi sono io ora? Bisogna che ci
pensi. Un nome, almeno, un nome, bisogna che me lo dia subito, per firmare il
telegramma e per non trovarmi poi imbarazzato se, alla locanda, me lo
domandano. Basterà che pensi soltanto al nome, per adesso. Vediamo un po'! Come
mi chiamo?'
Non avrei mai supposto che dovesse costarmi tanto stento e destarmi tanta
smania la scelta di un nome e di un cognome. Il cognome specialmente! Accozzavo
sillabe, cosi, senza pensare: venivano fuori certi cognomi, come: Strozzani,
Parbetta, Martoni, Bartusi, che m'irritavano peggio i nervi. Non vi trovavo
alcuna proprietà, alcun senso. Come se, in fondo, i cognomi dovessero averne
Eh, via! uno qualunque Martoni, per esempio, perché no? Carlo Martoni Uh,
ecco fatto! Ma, poco dopo, davo una spallata: 'Sì! Carlo
Martello'. E la smania ricominciava.
Giunsi al paese, senza averne fissato alcuno. Fortunatamente, là, dal
farmacista, ch'era anche ufficiale telegrafico e postale, droghiere, cartolajo,
giornalajo, bestia e non so che altro, non ce ne fu bisogno. Comprai una copia
dei pochi giornali che gli arrivavano: giornali di Genova: Il Caffaro e Il
Secolo XIX; gli domandai poi se potevo avere Il Foglietto di
Miragno.
Aveva una faccia da civetta, questo Grottanelli con un pajo d'occhi tondi
tondi, come di vetro, su cui abbassava, di tratto in tratto, quasi con pena
certe pàlpebre cartilaginose.
- Il Foglietto? Non lo conosco.
- È un giornaluccio di provincia, settimanale, _ gli spiegai. - Vorrei averlo.
Il numero d'oggi, s'intende.
- Il Foglietto? Non lo dieci - badava a ripetere.
- E va bene! Non importa che lei non lo conosca io le pago le spese per un
vaglia telegrafico alla redazione. Ne vorrei avere dieci venti copie, domani o
al più presto. Si può?
Non rispondeva: con gli occhi fissi, senza sguardo, ripeteva ancora: - Il
Foglietto? Non lo conosco -. Finalmente si risolse a fare il vaglia
telegrafico sotto la mia dettatura, indicando per il recapito la sua farmacia.
E il giorno appresso, dopo una notte insonne, sconvolta da un tempestoso
mareggiamento di pensieri, là nella Locanda del Palmentino, ricevetti quindici
copie del Foglietto.
Nei due giornali di Genova che, appena rimasto solo, m'ero affrettato a
leggere, non avevo trovato alcun cenno. Mi tremavano le mani nello spiegare Il
Foglietto. In prima pagina, nulla. Cercai nelle due interne, e subito mi
saltò a gli occhi un segno di lutto in capo alla terza pagina e, sotto, a
grosse lettere, il mio nome. Così:
MATTIA PASCAL
Non si avevano notizie di
lui da alquanti giorni: giorni di tremenda costernazione e d'inenarrabile
angoscia per la desolata famiglia; costernazione e angoscia condivise dalla
miglior parte della nostra cittadinanza, che lo amava e lo stimava per la bontà
dell'animo, per la giovialità del carattere e per quella natural modestia, che
gli aveva permesso, insieme con le altre doti, di sopportare senza avvilimento
e con rassegnazione gli avversi fati, onde dalla spensierata agiatezza si era
in questi ultimi tempi ridotto in umile stato.
Quando, dopo il primo giorno dell'inesplicabile assenza, la famiglia
impressionata si recò alla Biblioteca Boccamazza, dove egli, zelantissimo del
suo ufficio, si tratteneva quasi tutto il giorno ad arricchire con dotte
letture la sua vivace intelligenza, trovò chiusa la porta; subito, innanti a
questa porta chiusa, sorse nero e trepidante il sospetto, sospetto tosto fugato
dalla lusinga che durò parecchi dì, man mano però raffievolendosi, ch'egli si
fosse allontanato dal paese per qualche sua segreta ragione.
Ma ahimè! La verità doveva purtroppo esser quella
La perdita recente della madre adoratissima e, a un tempo, dell'unica
figlioletta, dopo la perdita degli aviti beni, aveva profondamente sconvolto
l'animo del povero amico nostro. Tanto che, circa tre mesi addietro, già una
prima volta, di notte tempo, egli aveva tentato di pôr fine a' suoi miseri
giorni, là, nella gora appunto di quel molino, che gli ricordava i passati
splendori della sua casa ed il suo tempo felice.
Nessun maggior
dolore |
Con le lacrime agli occhi
e singhiozzando cel narrava, innanzi al grondante e disfatto cadavere, un
vecchio mugnajo, fedele e devoto alla famiglia degli antichi padroni. Era
calata la notte, lugubre; una lucerna rossa era stata deposta lì per terra,
presso al cadavere vigilato da due Reali Carabinieri e il vecchio Filippo Brina
(lo segnaliamo all'ammirazione dei buoni) parlava e lagrimava con noi. Egli era
riuscito in quella triste notte a impedire che l'infelice riducesse ad effetto
il violento proposito; ma non si trovò più là Filippo Brina pronto ad
impedirlo, questa seconda volta. E Mattia Pascal giacque, forse tutta una notte
e metà del giorno appresso, nella gora di quel molino.
Non tentiamo nemmeno di descrivere la straziante scena che seguì sul luogo,
quando l'altro ieri, in sul far della sera, la vedova sconsolata si trovò
innanzi alla miseranda spoglia irriconoscibile del diletto compagno, che era
andato a raggiungere la figlioletta sua.
Tutto il paese ha preso parte al cordoglio di lei e ha voluto dimostrarlo
accompagnando all'estrema dimora il cadavere, a cui rivolse brevi e commosse
parole d'addio il nostro assessore comunale cav. Pomino.
Noi inviamo alla povera famiglia immersa in tanto lutto, al fratello Roberto
lontano da Miragno, le nostre più sentite condoglianze, e col cuore lacerato
diciamo per l'ultima volta al nostro buon Mattia: - Vale, diletto amico, vale!
Anche senza queste due
iniziali avrei riconosciuto Lodoletta come autore della necrologia.
Ma debbo innanzi tutto confessare che la vista del mio nome stampato lì, sotto
quella striscia nera, per quanto me l'aspettassi, non solo non mi rallegrò
affatto, ma mi accelerò talmente i battiti del cuore, che, dopo alcune righe,
dovetti interrompere la lettura. La 'tremenda costernazione e
l'inenarrabile angoscia' della mia famiglia non mi fecero ridere, né
l'amore e la stima dei miei concittadini per le mie belle virtù, né il mio zelo
per l'ufficio. Il ricordo di quella mia tristissima notte alla Stìa,
dopo la morte della mamma e della mia piccina, ch'era stato come una prova, e
forse la più forte, del mio suicidio, mi sorprese dapprima, quale una
impreveduta e sinistra partecipazione del caso; poi mi cagionò rimorso e
avvilimento.
Eh, no! non mi ero ucciso, io, per la morte della mamma e della figlietta mia,
per quanto forse, quella notte, ne avessi avuto l'idea! Me n'ero fuggito, è
vero, disperatamente; ma, ecco, ritornavo ora da una casa di giuoco, dove la
Fortuna nel modo più strano mi aveva arriso e continuava ad arridermi, e un
altro, invece, s'era ucciso per me, un altro, un forestiere certo, cui io
rubavo il compianto dei parenti lontani e degli amici, e condannavo - oh
suprema irrisione! - a subir quello che non gli apparteneva falso compianto, e
finanche l'elogio funebre dell'incipriato cavalier Pomino!
Questa fu la prima impressione alla lettura di quella mia necrologia sul Foglietto.
Ma poi pensai che quel pover'uomo era morto non certo per causa mia, e che io,
facendomi vivo non avrei potuto far rivivere anche lui; pensai che
approfittandomi della sua morte, io non solo non frodavo affatto i suoi
parenti, ma anzi venivo a render loro un bene: per essi, infatti, il morto ero
io non lui, ed essi potevano crederlo scomparso e sperare ancora, sperare di
vederlo un giorno o l'altro ricomparire.
Restavano mia moglie e mia suocera. Dovevo proprio credere alla loro pena per
la mia morte, a tutta quella 'inenarrabile angoscia', a quel
'cordoglio straziante' del funebre pezzo forte di Lodoletta?
Bastava, perbacco, aprir pian piano un occhio a quel povero morto, per
accorgersi che non ero io; e anche ammesso che gli occhi fossero rimasti in fondo
alla gora, via! una moglie, che veramente non voglia, non può scambiare così
facilmente un altro uomo per il proprio marito.
Si erano affrettate a riconoscermi in quel morto? La vedova Pescatore sperava
ora che Malagna, commosso e forse non esente di rimorso per quel mio barbaro
suicidio, venisse in ajuto della povera vedova? Ebbene: contente loro,
contentissimo io!
'Morto? affogato? Una croce, e non se ne parli più!'
Mi levai, stirai le braccia e trassi un lunghissimo respiro di sollievo.
CAPITOLO VIII (Adriano Meis)
Subito, non tanto per
ingannare gli altri, che avevano voluto ingannarsi da sé, con una leggerezza
non deplorabile forse nel caso mio, ma certamente non degna d'encomio, quanto
per obbedire alla Fortuna e soddisfare a un mio proprio bisogno, mi posi a far
di me un altr'uomo.
Poco o nulla avevo da lodarmi di quel disgraziato che per forza avevano voluto
far finire miseramente nella gora d'un molino. Dopo tante sciocchezze commesse,
egli non meritava forse sorte migliore.
Ora mi sarebbe piaciuto che, non solo esteriormente, ma anche nell'intimo, non
rimanesse più in me alcuna traccia di lui.
Ero solo ormai, e più solo di com'ero non avrei potuto essere su la terra,
sciolto nel presente d'ogni legame e d'ogni obbligo, libero, nuovo e assolutamente
padrone di me, senza più il fardello del mio passato, e con l'avvenire dinanzi,
che avrei potuto foggiarmi a piacer mio.
Ah, un pajo d'ali! Come mi sentivo leggero!
Il sentimento che le passate vicende mi avevano dato della vita non doveva aver
più per me, ormai, ragion d'essere. Io dovevo acquistare un nuovo sentimento
della vita, senza avvalermi neppur minimamente della sciagurata esperienza del
fu Mattia Pascal.
Stava a me: potevo e dovevo esser l'artefice del mio nuovo destino, nella
misura che la Fortuna aveva voluto concedermi.
'E innanzi tutto,' dicevo a me stesso, 'avrò cura di questa mia
libertà: me la condurrò a spasso per vie piane e sempre nuove, né le farò mai
portare alcuna veste gravosa. Chiuderò gli occhi e passerò oltre appena lo
spettacolo della vita in qualche punto mi si presenterà sgradevole. Procurerò
di farmela più tosto con le cose che si sogliono chiamare inanimate, e andrò in
cerca di belle vedute, di ameni luoghi tranquilli. Mi darò a poco a poco una
nuova educazione; mi trasformerò con amoroso e paziente studio, sicché, alla
fine, io possa dire non solo di aver vissuto due vite, ma d'essere stato due
uomini.'
Già ad Alenga, per cominciare, ero entrato, poche ore prima di partire, da un
barbiere, per farmi accorciar la barba: avrei voluto levarmela tutta, li
stesso, insieme coi baffi; ma il timore di far nascere qualche sospetto in quel
paesello mi aveva trattenuto.
Il barbiere era anche sartore, vecchio, con le reni quasi ingommate dalla lunga
abitudine di star curvo, sempre in una stessa positura, e portava gli occhiali
su la punta del naso. Più che barbiere doveva esser sartore. Calò come un
flagello di Dio su quella barbaccia che non m'apparteneva più, armato di certi
forbicioni da maestro di lana, che avevan bisogno d'esser sorretti in punta con
l'altra mano. Non m'arrischiai neppure a fiatare: chiusi gli occhi, e non li
riaprii, se non quando mi sentii scuotere pian piano.
Il brav'uomo, tutto sudato, mi porgeva uno specchietto perché gli sapessi dire
se era stato bravo.
Mi parve troppo!
- No, grazie, - mi schermii. - Lo riponga. Non vorrei fargli paura.
Sbarrò tanto d'occhi, e:
- A chi? - domandò.
- Ma a codesto specchietto. Bellino! Dev'essere antico
Era tondo, col manico d'osso intarsiato: chi sa che storia aveva e donde e come
era capitato lì, in quella sarto-barbieria. Ma infine, per non dar dispiacere
al padrone, che seguitava a guardarmi stupito, me lo posi sotto gli occhi.
Se era stato bravo!
Intravidi da quel primo scempio qual mostro fra breve sarebbe scappato fuori
dalla necessaria e radicale; alterazione dei connotati di Mattia Pascal! Ed
ecco una nuova ragione d'odio per lui! Il mento piccolissimo, puntato e
rientrato, ch'egli aveva nascosto per tanti e tanti anni sotto quel barbone, mi
parve un tradimento. Ora avrei dovuto portarlo scoperto, quel cosino ridicolo!
E che naso mi aveva lasciato in eredità! E quell'occhio!
'Ah, quest'occhio,' pensai, 'così in estasi da un lato, rimarrà
sempre suo nella mia nuova faccia! Io non potrò far altro che nasconderlo alla
meglio dietro un pajo d'occhiali colorati, che coopereranno, figuriamoci, a
rendermi più amabile l'aspetto. Mi farò crescere i capelli e, con questa bella
fronte spaziosa, con gli occhiali e tutto raso, sembrerò un filosofo tedesco.
Finanziera e cappellaccio a larghe tese.'
Non c'era via di mezzo: filosofo dovevo essere per forza con quella razza
d'aspetto. Ebbene, pazienza: mi sarei armato d'una discreta filosofia
sorridente per passare in mezzo a questa povera umanità, la quale, per quanto
avessi in animo di sforzarmi, mi pareva difficile che non dovesse più parermi
un po' ridicola e meschina.
Il nome mi fu quasi offerto in treno, partito da poche ore da Alenga per
Torino.
Viaggiavo con due signori che discutevano animatamente d'iconografia cristiana,
in cui si dimostravano entrambi molto eruditi, per un ignorante come me.
Uno, il più giovane, dalla faccia pallida, oppressa da una folta e ruvida barba
nera, pareva provasse una grande e particolar soddisfazione nell'enunciar la
notizia ch'egli diceva antichissima, sostenuta da Giustino Martire, da
Tertulliano e da non so chi altri, secondo la quale Cristo sarebbe stato
bruttissimo.
Parlava con un vocione cavernoso, che contrastava stranamente con la sua aria
da ispirato.
- Ma si, ma si, bruttissimo! bruttissimo! Ma anche Cirillo d'Alessandria!
Sicuro, Cirillo d'Alessandria arriva finanche ad affermare che Cristo fu il più
brutto degli uomini.
L'altro, ch'era un vecchietto magro magro, tranquillo nel suo ascetico
squallore, ma pur con una piega a gli angoli della bocca che tradiva la sottile
ironia, seduto quasi su la schiena, col collo lungo proteso come sotto un
giogo, sosteneva invece che non c'era da fidarsi delle più antiche
testimonianze.
- Perché la Chiesa, nei primi secoli, tutta volta a consustanziarsi la dottrina
e lo spirito del suo ispiratore, si dava poco pensiero, ecco, poco pensiero
delle sembianze corporee di lui.
A un certo punto vennero a parlare della Veronica e di due statue della città
di Paneade, credute immagini di Cristo e della emorroissa.
- Ma sì! - scattò il giovane barbuto. - Ma se non c'è più dubbio ormai! Quelle
due statue rappresentano l'imperatore Adriano con la città inginocchiata ai
piedi.
Il vecchietto seguitava a sostener pacificamente la sua opinione, che doveva
esser contraria, perché quell'altro, incrollabile, guardando me, s'ostinava a
ripetere :
- Adriano!
- Beroníke, in greco. Da Beroníke poi: Veronica
- Adriano! (a me).
- Oppure, Veronica, vera icon: storpiatura probabilissima
- Adriano! (a me).
- Perché la Beroníke degli Atti di Pilato
- Adriano!
Ripeté così Adriano! non so più quante volte, sempre con gli occhi
rivolti a me.
Quando scesero entrambi a una stazione e mi lasciarono solo nello
scompartimento, m'affacciai al finestrino, per seguirli con gli occhi: discutevano
ancora, allontanandosi.
A un certo punto però il vecchietto perdette la pazienza e prese la corsa.
- Chi lo dice? - gli domandò forte il giovane, fermo, con aria di sfida.
Quegli allora si voltò per gridargli:
- Camillo De Meis!
Mi parve che anche lui gridasse a me quel nome, a me che stavo intanto a
ripetere meccanicamente: - Adriano -. Buttai subito via quel de
e ritenni il Meis.
'Adriano Meis! Si Adriano Meis: suona bene'
Mi parve anche che questo nome quadrasse bene alla faccia sbarbata e con gli
occhiali, ai capelli lunghi, al cappellaccio alla finanziera che avrei dovuto
portare.
'Adriano Meis. Benone! M'hanno battezzato.'
Recisa di netto ogni memoria
in me della vita precedente, fermato l'animo alla deliberazione di ricominciare
da quel punto una nuova vita, io era invaso e sollevato come da una fresca
letizia infantile; mi sentivo come rifatta vergine e trasparente la coscienza,
e lo spirito vigile e pronto a trar profitto di tutto per la costruzione del
mio nuovo io. Intanto l'anima mi tumultuava nella gioja di quella nuova
libertà. Non avevo mai veduto così uomini e cose; l'aria tra essi e me s'era
d'un tratto quasi snebbiata; e mi si presentavan facili e lievi le nuove
relazioni che dovevano stabilirsi tra noi, poiché ben poco ormai io avrei avuto
bisogno di chieder loro per il mio intimo compiacimento. Oh levità deliziosa
dell'anima; serena, ineffabile ebbrezza! La Fortuna mi aveva sciolto di ogni
intrico, all'improvviso, mi aveva sceverato dalla vita comune, reso spettatore
estraneo della briga in cui gli altri si dibattevano ancora, e mi ammoniva
dentro:
'Vedrai, vedrai com'essa t'apparirà curiosa, ora, a guardarla cosi da
fuori! Ecco là uno che si guasta il fegato e fa arrabbiare un povero vecchietto
per sostener che Cristo fu il più brutto degli uomini'
Sorridevo. Mi veniva di sorridere così di tutto e a ogni cosa: a gli alberi
della campagna, per esempio, che mi correvano incontro con stranissimi
atteggiamenti nella loro fuga illusoria; a le ville sparse qua e là, dove mi
piaceva d'immaginar coloni con le gote gonfie per sbuffare contro la nebbia
nemica degli olivi o con le braccia levate a pugni chiusi contro il cielo che
non voleva mandar acqua: e sorridevo agli uccelletti che si sbandavano,
spaventati da quel coso nero che correva per la campagna, fragoroso;
all'ondeggiar dei fili telegrafici, per cui passavano certe notizie ai
giornali, come quella da Miragno del mio suicidio nel molino della Stìa;
alle povere mogli dei cantonieri che presentavan la bandieruola arrotolata, gravide
e col cappello del marito in capo.
Se non che, a un certo punto, mi cadde lo sguardo su l'anellino di fede che mi
stringeva ancora l'anulare della mano sinistra. Ne ricevetti una scossa
violentissima: strizzai gli occhi e mi strinsi la mano con l'altra mano,
tentando di strapparmi quel cerchietto d'oro, così, di nascosto, per non
vederlo più. Pensai ch'esso si apriva e che, internamente, vi erano incisi due
nomi: Mattia-Romilda, e la data del matrimonio. Che dovevo farne?
Aprii gli occhi e rimasi un pezzo accigliato, a contemplarlo nella palma della
mano.
Tutto, attorno, mi s'era rifatto nero.
Ecco ancora un resto della catena che mi legava al passato! Piccolo anello,
lieve per sé, eppur così pesante! Ma la catena era già spezzata, e dunque via
anche quell'ultimo anello!
Feci per buttarlo dal finestrino, ma mi trattenni. Favorito così
eccezionalmente dal caso, io non potevo più fidarmi di esso; tutto ormai dovevo
creder possibile, finanche questo: che un anellino buttato nell'aperta
campagna, trovato per combinazione da un contadino, passando di mano in mano,
con quei due nomi incisi internamente e la data, facesse scoprir la verità, che
l'annegato della Stìa cioè non era il bibliotecario Mattia Pascal.
'No, no,' pensai, 'in luogo più sicuro Ma dove?'
Il treno, in quella, si fermò a un'altra stazione. Guardai, e subito mi sorse
un pensiero, per la cui attuazione. provai dapprima un certo ritegno. Lo dico,
perché mi serva di scusa presso coloro che amano il bel gesto, gente poco
riflessiva, alla quale piace di non ricordarsi che l'umanità è pure oppressa da
certi bisogni, a cui purtroppo deve obbedire anche chi sia compreso da un
profondo cordoglio. Cesare, Napoleone e, per quanto possa parere indegno, anche
la donna più bella Basta. Da una parte c'era scritto Uomini e
dall'altra Donne; e lì intombai il mio anellino di fede.
Quindi, non tanto per distrarmi, quanto per cercar di dare una certa
consistenza a quella mia nuova vita campata nel vuoto, mi misi a pensare ad
Adriano Meis, a immaginargli un passato, a domandarmi chi fu mio padre, dov'ero
nato, ecc. - posatamente sforzandomi di vedere e di fissar bene tutto, nelle
più minute particolarità.
Ero figlio unico: su questo mi pareva che non ci fosse da discutere.
'Più unico di così Eppure no! Chi sa quanti sono come me, nella mia
stessa condizione, fratelli miei. Si lascia il cappello e la giacca, con una
lettera in tasca, sul parapetto d'un ponte, su un fiume; e poi, invece di
buttarsi giù, si va via tranquillamente, in America o altrove. Si pesca dopo
alcuni giorni un cadavere irriconoscibile: sarà quello de la lettera lasciata
sul parapetto del ponte. E non se ne parla più! E vero che io non ci ho messo
la mia volontà: né lettera, né giacca, né cappello Ma son pure come loro,
con questo di più: che posso godermi senza alcun rimorso la mia libertà. Han
voluto regalarmela, e dunque'
Dunque diciamo figlio unico. Nato - sarebbe prudente non precisare alcun
luogo di nascita. Come si fa? Non si può nascer mica su le nuvole, levatrice la
luna, quantunque in biblioteca abbia letto che gli antichi, fra tanti altri
mestieri, le facessero esercitare anche questo, e le donne incinte la
chiamassero in soccorso col nome di Lucina.
Su le nuvole, no; ma su un piroscafo, sì, per esempio, si può nascere. Ecco,
benone! nato in viaggio. I miei genitori viaggiavano per farmi nascere su un
piroscafo. Via, via, sul serio! Una ragione plausibile per mettere in viaggio
una donna incinta, prossima a partorire O che fossero andati in America i
miei genitori? Perché no? Ci vanno tanti Anche Mattia Pascal, poveretto,
voleva andarci. E allora queste ottantadue mila lire diciamo che le guadagnò
mio padre, là in America? Ma che! Con ottantadue mila lire in tasca, avrebbe
aspettato prima, che la moglie mettesse al mondo il figliuolo, comodamente, in
terraferma. E poi, baje! Ottantadue mila lire un emigrato non le guadagna più
cosi facilmente in America. Mio padre - a proposito, come si chiamava?
Paolo. Sì: Paolo Meis. Mio padre, Paolo Meis, s'era illuso, come tanti altri.
Aveva stentato tre, quattr'anni; poi, avvilito, aveva scritto da Buenos-Aires
una lettera al nonno
Ah, un nonno, un nonno io volevo proprio averlo conosciuto, un caro vecchietto,
per esempio, come quello ch'era sceso testé dal treno, studioso d'iconografia
cristiana.
Misteriosi capricci della fantasia! Per quale inesplicabile bisogno e donde mi
veniva d'immaginare in quel momento mio padre, quel Paolo Meis, come uno
scavezzacollo? Ecco, sì, egli aveva dato tanti dispiaceri al nonno: aveva
sposato contro la volontà di lui e se n'era scappato in America. Doveva forse
sostenere anche lui che Cristo era bruttissimo. E brutto davvero e sdegnato
l'aveva veduto là, in America, se con la moglie lì lì per partorire, appena
ricevuto il soccorso dal nonno, se n'era venuto via.
Ma perché proprio in viaggio dovevo esser nato io? Non sarebbe stato meglio
nascere addirittura in America, nell'Argentina, pochi mesi prima del ritorno in
patria de' miei genitori? Ma si! Anzi il nonno s'era intenerito per il nipotino
innocente; per me, unicamente per me aveva perdonato il figliuolo. Così io,
piccino piccino, avevo traversato l'Oceano, e forse in terza classe, e durante
il viaggio avevo preso una bronchite e per miracolo non ero morto. Benone! Me
lo diceva sempre il nonno. Io però non dovevo rimpiangere come comunemente si
suol fare, di non esser morto, allora di pochi mesi. No: perché, in fondo, che
dolori avevo sofferto io, in vita mia? Uno solo, per dire la verità: quello de
la morte del povero nonno, col quale ero cresciuto. Mio padre, Paolo Meis,
scapato e insofferente di giogo, era fuggito via di nuovo in America, dopo
alcuni mesi, lasciando la moglie e me col nonno; e là era morto di febbre
gialla. A tre anni, io ero rimasto orfano anche di madre, e senza memoria perciò
de' miei genitori; solo con queste scarse notizie di loro. Ma c'era di più! Non
sapevo neppure con precisione il mio luogo di nascita. Nell'Argentina, va bene!
Ma dove? Il nonno lo ignorava, perché mio padre non gliel'aveva mai detto o
perché se n'era dimenticato, e io non potevo certamente ricordarmelo.
Riassumendo:
a) figlio unico di Paolo Meis; - b) nato in America
nell'Argentina, senz'altra designazione; - c) venuto in Italia di pochi
mesi (bronchite); - d) senza memoria né quasi notizia dei genitori; - e)
cresciuto col nonno.
Dove? Un po' da per tutto. Prima a Nizza. Memorie confuse: Piazza Massena,
la Promenade, Avenue de la Gare Poi, a Torino.
Ecco, ci andavo adesso, e mi proponevo tante cose: mi proponevo di scegliere
una via e una casa, dove il nonno mi aveva lasciato fino all'età di dieci anni
affidato alle cure di una famiglia che avrei immaginato lì sul posto, perché
avesse tutti i caratteri del luogo; mi proponevo di vivere, o meglio
d'inseguire con la fantasia, lì, su la realtà, la vita d'Adriano Meis piccino.
Questo inseguimento, questa costruzione fantastica d'una vita non realmente
vissuta, ma colta man mano negli altri e nei luoghi e fatta e sentita mia, mi
procurò una gioja strana e nuova, non priva d'una certa mestizia, nei primi tempi
del mio vagabondaggio. Me ne feci un'occupazione. Vivevo non nel presente
soltanto, ma anche per il mio passato cioè per gli anni che Adriano Meis non
aveva vissuti.
Nulla o ben poco ritenni di quel che avevo prima fantasticato. Nulla s'inventa,
è vero, che non abbia una qualche radice, più o men profonda, nella realtà; e
anche le cose più strane possono esser vere, anzi nessuna fantasia arriva a
concepire certe follie, certe inverosimili avventure che si scatenano e
scoppiano dal seno tumultuoso della vita; ma pure, come e quanto appare diversa
dalle invenzioni che noi possiamo trarne la realtà viva e spirante! Di quante
cose sostanziali, minutissime, inimmaginabili ha bisogno la nostra invenzione
per ridiventare quella stessa realtà da cui fu tratta, di quante fila che la
riallaccino nel complicatissimo intrico della vita, fila che noi abbiamo recise
per farla diventare una cosa a sé!
Or che cos'ero io, se non un uomo inventato? Una invenzione ambulante che
voleva e, del resto, doveva forzatamente stare per sé, pur calata nella realtà.
Assistendo alla vita degli altri e osservandola minuziosamente, ne vedevo
gl'infiniti legami e, al tempo stesso, vedevo le tante mie fila spezzate.
Potevo io rannodarle, ora, queste fila con la realtà? Chi sa dove mi avrebbero
trascinato; sarebbero forse diventate subito redini di cavalli scappati, che
avrebbero condotto a precipizio la povera biga della mia necessaria invenzione.
No. Io dovevo rannodar queste fila soltanto con la fantasia.
E seguivo per le vie e nei giardini i ragazzetti dai cinque ai dieci anni, e
studiavo le loro mosse, i loro giuochi, e raccoglievo le loro espressioni, per
comporne a poco a poco l'infanzia di Adriano Meis. Vi riuscii così bene, che
essa alla fine assunse nella mia mente una consistenza quasi reale.
Non volli immaginarmi una nuova mamma. Mi sarebbe parso di profanar la memoria
viva e dolorosa della mia mamma vera. Ma un nonno, sì, il nonno del mio primo
fantasticare, volli crearmelo.
Oh, di quanti nonnini veri, di quanti vecchietti inseguiti e studiati un po' a
Torino, un po' a Milano, un po' a Venezia, un po' a Firenze, si compose quel
nonnino mio! Toglievo a uno qua la tabacchiera d'osso e il pezzolone a dadi
rossi e neri, a un altro là il bastoncino, a un terzo gli occhiali e la barba a
collana, a un quarto il modo di camminare e di soffiarsi il naso, a un quinto
il modo di parlare e di ridere; e ne venne fuori un vecchietto fino un po'
bizzoso, amante delle arti, un nonnino spregiudicato, che non mi volle far
seguire un corso regolare di studii, preferendo d'istruirmi lui, con la viva
conversazione e conducendomi con sé, di città in città, per musei e gallerie.
Visitando Milano, Padova, Venezia, Ravenna, Firenze, Perugia, lo ebbi sempre
con me, come un'ombra, quel mio nonnino fantasticato, che più d'una volta mi
parlò anche per bocca d'un vecchio cicerone.
Ma io volevo vivere anche per me, nel presente. M'assaliva di tratto in tratto
l'idea di quella mia libertà sconfinata, unica, e provavo una felicità
improvvisa, così forte, che quasi mi ci smarrivo in un beato stupore; me la
sentivo entrar nel petto con un respiro lunghissimo e largo, che mi sollevava
tutto lo spirito. Solo! solo! solo! padrone di me! senza dover dar conto di
nulla a nessuno! Ecco, potevo andare dove mi piaceva: a Venezia? a Venezia! a
Firenze? a Firenze!; e quella mia felicità mi seguiva dovunque. Ah, ricordo un
tramonto, a Torino, nei primi mesi di quella mia nuova vita, sul Lungo Po,
presso al ponte che ritiene per una pescaja l'impeto delle acque che vi fremono
irose: l'aria era d'una trasparenza meravigliosa; tutte le cose in ombra
parevano smaltate in quella limpidezza; e io, guardando, mi sentii così ebro
della mia libertà, che temetti quasi d'impazzire, di non potervi resistere a
lungo.
Avevo già effettuato da capo a piedi la mia trasformazione esteriore: tutto
sbarbato, con un pajo di occhiali azzurri chiari e coi capelli lunghi,
scomposti artisticamente: parevo proprio un altro! Mi fermavo qualche volta a
conversar con me stesso innanzi a uno specchio e mi mettevo a ridere.
'Adriano Meis! Uomo felice! Peccato che debba esser conciato così Ma,
via' che te n'importa? Va benone! Se non fosse per quest'occhio di lui
di quell'imbecille, non saresti poi, alla fin fine, tanto brutto, nella
stranezza un po' spavalda della tua figura. Fai un po' ridere le donne, ecco.
Ma la colpa, in fondo, non è tua. Se quell'altro non avesse portato i capelli
così corti, tu non saresti ora obbligato a portarli così lunghi: e non certo
per tuo gusto, lo so, vai ora sbarbato come un prete. Pazienza! Quando le donne
ridono ridi anche tu: è il meglio che possa fare.'
Vivevo, per altro, con me e di me, quasi esclusivamente. Scambiavo appena
qualche parola con gli albergatori, coi camerieri, coi vicini di tavola, ma non
mai per voglia d'attaccar discorso. Dal ritegno anzi che ne provavo, mi accorsi
ch'io non avevo affatto il gusto della menzogna. Del resto, anche gli altri
mostravan poca voglia di parlare con me: forse a causa del mio aspetto, mi
prendevano per uno straniero. Ricordo che, visitando Venezia, non ci fu verso
di levar dal capo a un vecchio gondoliere ch'io fossi tedesco, austriaco. Ero
nato, sì, nell'Argentina ma da genitori italiani. La mia vera, diciamo così
'estraneità' era ben altra e la conoscevo io solo: non ero più niente
io; nessuno stato civile mi registrava, tranne quello di Miragno, ma come
morto, con l'altro nome.
Non me n'affliggevo; tuttavia per austriaco, no, per austriaco non mi piaceva
di passare. Non avevo avuto mai occasione di fissar la mente su la parola
'patria'. Avevo da pensare a ben altro, un tempo! Ora, nell'ozio
cominciavo a prender l'abitudine di riflettere su tante cose che non avrei mai
creduto potessero anche per poco interessarmi. Veramente, ci cascavo senza
volerlo, e spesso mi avveniva di scrollar le spalle, seccato. Ma di qualche
cosa bisognava pure che mi occupassi, quando mi sentivo stanco di girare, di
vedere. Per sottrarmi alle riflessioni fastidiose e inutili, mi mettevo
talvolta a riempire interi fogli di carta della mia nuova firma, provandomi a
scrivere con altra grafia, tenendo la penna diversamente di come la tenevo
prima. A un certo punto però stracciavo la carta e buttavo via la penna. Io
potevo benissimo essere anche analfabeta! A chi dovevo scrivere? Non ricevevo
né potevo più ricever lettere da nessuno.
Questo pensiero, come tanti altri del resto, mi faceva dare un tuffo nel
passato. Rivedevo allora la casa, Ia biblioteca, le vie di Miragno, la
spiaggia; e mi domandavo: 'Sarà ancora vestita di nero Romilda? Forse sì
per gli occhi del mondo. Che farà?'. E me la immaginavo, come tante volte
e tante l'avevo veduta là per casa; e m'immaginavo anche la vedova Pescatore,
che imprecava certo alla mia memoria.
'Nessuna delle due,' pensavo, 'si sarà recata neppure una volta
a visitar nel cimitero quel pover'uomo, che pure è morto così barbaramente. Chi
sa dove mi hanno seppellito! Forse la zia Scolastica non avrà voluto fare per
me la spesa che fece per la mamma; Roberto, tanto meno; avrà detto: - Chi
gliel'ha fatto fare? Poteva vivere infine con due lire al giorno, bibliotecario
-. Giacerò come un cane, nel campo dei poveri Via, via, non ci pensiamo! Me
ne dispiace per quel pover'uomo, il quale forse avrà avuto parenti più umani
de' miei che lo avrebbero trattato meglio. - Ma, del resto, anche a lui, ormai,
che glien'importa? S'è levato il pensiero!'
Seguitai ancora per qualche tempo a viaggiare. Volli spingermi oltre l'Italia;
visitai le belle contrade del Reno, fino a Colonia, seguendo il fiume a bordo
d'un piroscafo; mi trattenni nelle città principali: a Mannheim, a Worms, a
Magonza, a Bingen, a Coblenza Avrei voluto andar più sù di Colonia, più sù
della Germania, almeno in Norvegia; ma poi pensai che io dovevo imporre un
certo freno alla mia libertà. Il denaro che avevo meco doveva servirmi per
tutta la vita, e non era molto. Avrei potuto vivere ancora una trentina d'anni;
e così fuori d'ogni legge, senza alcun documento tra le mani che comprovasse,
non dico altro, la mia esistenza reale, ero nell'impossibilità di procacciarmi
un qualche impiego; se non volevo dunque ridurmi a mal partito, bisognava che
mi restringessi a vivere con poco. Fatti i conti, non avrei dovuto spendere più
di duecento lire al mese: pochine; ma già per ben due anni avevo anche vissuto
con meno, e non io solo. Mi sarei dunque adattato.
In fondo, ero già un po' stanco di quell'andar girovagando sempre solo e muto.
Istintivamente cominciavo a sentir il bisogno di un po' di compagnia. Me ne
accorsi in una triste giornata di novembre, a Milano, tornato da poco dal mio
giretto in Germania.
Faceva freddo, ed era imminente la pioggia, con la sera. Sotto un fanale scorsi
un vecchio cerinajo, a cui la cassetta, che teneva dinanzi con una cinta a
tracolla, impediva di ravvolgersi bene in un logoro mantelletto che aveva su le
spalle. Gli pendeva dalle pugna strette sul mento un cordoncino, fino ai piedi.
Mi chinai a guardare e gli scoprii tra le scarpacce rotte un cucciolotto
minuscolo, di pochi giorni, che tremava tutto di freddo e gemeva continuamente,
lì rincantucciato. Povera bestiolina! Domandai al vecchio se la vendesse. Mi
rispose di sì e che me l'avrebbe venduta anche per poco, benché valesse molto:
ah, si sarebbe fatto un bel cane, un gran cane, quella bestiola:
- Venticinque lire
Seguitò a tremare il povero cucciolo, senza inorgoglirsi punto di quella stima:
sapeva di certo che il padrone con quel prezzo non aveva affatto stimato i suoi
futuri meriti, ma la imbecillità che aveva creduto di leggermi in faccia.
Io intanto, avevo avuto il tempo di riflettere che, comprando quel cane, mi
sarei fatto sì, un amico fedele e discreto, il quale per amarmi e tenermi in
pregio non mi avrebbe mai domandato chi fossi veramente e donde venissi e se le
mie carte fossero in regola; ma avrei dovuto anche mettermi a pagare una tassa:
io che non ne pagavo più! Mi parve come una prima compromissione della mia
libertà, un lieve intacco ch'io stessi per farle.
- Venticinque lire? Ti saluto! - dissi al vecchio cerinajo.
Mi calcai il cappellaccio su gli occhi e, sotto la pioggerella fina fina che
già il cielo cominciava a mandare, m'allontanai, considerando però, per la
prima volta, che era bella, sì, senza dubbio, quella mia libertà così
sconfinata, ma anche un tantino tiranna, ecco, se non mi consentiva neppure di
comperarmi un cagnolino.
CAPITOLO IX (un po' di nebbia)
Subito, non tanto per
ingannare gli altri, che avevano voluto ingannarsi da sé, con una leggerezza
non deplorabile forse nel caso mio, ma certamente non degna d'encomio, quanto
per obbedire alla Fortuna e soddisfare a un mio proprio bisogno, mi posi a far
di me un altr'uomo.
Poco o nulla avevo da lodarmi di quel disgraziato che per forza avevano voluto
far finire miseramente nella gora d'un molino. Dopo tante sciocchezze commesse,
egli non meritava forse sorte migliore.
Ora mi sarebbe piaciuto che, non solo esteriormente, ma anche nell'intimo, non
rimanesse più in me alcuna traccia di lui.
Ero solo ormai, e più solo di com'ero non avrei potuto essere su la terra,
sciolto nel presente d'ogni legame e d'ogni obbligo, libero, nuovo e
assolutamente padrone di me, senza più il fardello del mio passato, e con
l'avvenire dinanzi, che avrei potuto foggiarmi a piacer mio.
Ah, un pajo d'ali! Come mi sentivo leggero!
Il sentimento che le passate vicende mi avevano dato della vita non doveva aver
più per me, ormai, ragion d'essere. Io dovevo acquistare un nuovo sentimento
della vita, senza avvalermi neppur minimamente della sciagurata esperienza del
fu Mattia Pascal.
Stava a me: potevo e dovevo esser l'artefice del mio nuovo destino, nella misura
che la Fortuna aveva voluto concedermi.
'E innanzi tutto,' dicevo a me stesso, 'avrò cura di questa mia
libertà: me la condurrò a spasso per vie piane e sempre nuove, né le farò mai
portare alcuna veste gravosa. Chiuderò gli occhi e passerò oltre appena lo
spettacolo della vita in qualche punto mi si presenterà sgradevole. Procurerò
di farmela più tosto con le cose che si sogliono chiamare inanimate, e andrò in
cerca di belle vedute, di ameni luoghi tranquilli. Mi darò a poco a poco una
nuova educazione; mi trasformerò con amoroso e paziente studio, sicché, alla
fine, io possa dire non solo di aver vissuto due vite, ma d'essere stato due
uomini.'
Già ad Alenga, per cominciare, ero entrato, poche ore prima di partire, da un
barbiere, per farmi accorciar la barba: avrei voluto levarmela tutta, li
stesso, insieme coi baffi; ma il timore di far nascere qualche sospetto in quel
paesello mi aveva trattenuto.
Il barbiere era anche sartore, vecchio, con le reni quasi ingommate dalla lunga
abitudine di star curvo, sempre in una stessa positura, e portava gli occhiali
su la punta del naso. Più che barbiere doveva esser sartore. Calò come un
flagello di Dio su quella barbaccia che non m'apparteneva più, armato di certi
forbicioni da maestro di lana, che avevan bisogno d'esser sorretti in punta con
l'altra mano. Non m'arrischiai neppure a fiatare: chiusi gli occhi, e non li
riaprii, se non quando mi sentii scuotere pian piano.
Il brav'uomo, tutto sudato, mi porgeva uno specchietto perché gli sapessi dire
se era stato bravo.
Mi parve troppo!
- No, grazie, - mi schermii. - Lo riponga. Non vorrei fargli paura.
Sbarrò tanto d'occhi, e:
- A chi? - domandò.
- Ma a codesto specchietto. Bellino! Dev'essere antico
Era tondo, col manico d'osso intarsiato: chi sa che storia aveva e donde e come
era capitato lì, in quella sarto-barbieria. Ma infine, per non dar dispiacere
al padrone, che seguitava a guardarmi stupito, me lo posi sotto gli occhi.
Se era stato bravo!
Intravidi da quel primo scempio qual mostro fra breve sarebbe scappato fuori
dalla necessaria e radicale; alterazione dei connotati di Mattia Pascal! Ed
ecco una nuova ragione d'odio per lui! Il mento piccolissimo, puntato e
rientrato, ch'egli aveva nascosto per tanti e tanti anni sotto quel barbone, mi
parve un tradimento. Ora avrei dovuto portarlo scoperto, quel cosino ridicolo!
E che naso mi aveva lasciato in eredità! E quell'occhio!
'Ah, quest'occhio,' pensai, 'così in estasi da un lato, rimarrà
sempre suo nella mia nuova faccia! Io non potrò far altro che nasconderlo alla
meglio dietro un pajo d'occhiali colorati, che coopereranno, figuriamoci, a
rendermi più amabile l'aspetto. Mi farò crescere i capelli e, con questa bella
fronte spaziosa, con gli occhiali e tutto raso, sembrerò un filosofo tedesco.
Finanziera e cappellaccio a larghe tese.'
Non c'era via di mezzo: filosofo dovevo essere per forza con quella razza
d'aspetto. Ebbene, pazienza: mi sarei armato d'una discreta filosofia
sorridente per passare in mezzo a questa povera umanità, la quale, per quanto
avessi in animo di sforzarmi, mi pareva difficile che non dovesse più parermi
un po' ridicola e meschina.
Il nome mi fu quasi offerto in treno, partito da poche ore da Alenga per
Torino.
Viaggiavo con due signori che discutevano animatamente d'iconografia cristiana,
in cui si dimostravano entrambi molto eruditi, per un ignorante come me.
Uno, il più giovane, dalla faccia pallida, oppressa da una folta e ruvida barba
nera, pareva provasse una grande e particolar soddisfazione nell'enunciar la
notizia ch'egli diceva antichissima, sostenuta da Giustino Martire, da
Tertulliano e da non so chi altri, secondo la quale Cristo sarebbe stato
bruttissimo.
Parlava con un vocione cavernoso, che contrastava stranamente con la sua aria
da ispirato.
- Ma si, ma si, bruttissimo! bruttissimo! Ma anche Cirillo d'Alessandria!
Sicuro, Cirillo d'Alessandria arriva finanche ad affermare che Cristo fu il più
brutto degli uomini.
L'altro, ch'era un vecchietto magro magro, tranquillo nel suo ascetico
squallore, ma pur con una piega a gli angoli della bocca che tradiva la sottile
ironia, seduto quasi su la schiena, col collo lungo proteso come sotto un
giogo, sosteneva invece che non c'era da fidarsi delle più antiche
testimonianze.
- Perché la Chiesa, nei primi secoli, tutta volta a consustanziarsi la dottrina
e lo spirito del suo ispiratore, si dava poco pensiero, ecco, poco pensiero
delle sembianze corporee di lui.
A un certo punto vennero a parlare della Veronica e di due statue della città
di Paneade, credute immagini di Cristo e della emorroissa.
- Ma sì! - scattò il giovane barbuto. - Ma se non c'è più dubbio ormai! Quelle
due statue rappresentano l'imperatore Adriano con la città inginocchiata ai
piedi.
Il vecchietto seguitava a sostener pacificamente la sua opinione, che doveva
esser contraria, perché quell'altro, incrollabile, guardando me, s'ostinava a
ripetere :
- Adriano!
- Beroníke, in greco. Da Beroníke poi: Veronica
- Adriano! (a me).
- Oppure, Veronica, vera icon: storpiatura probabilissima
- Adriano! (a me).
- Perché la Beroníke degli Atti di Pilato
- Adriano!
Ripeté così Adriano! non so più quante volte, sempre con gli occhi
rivolti a me.
Quando scesero entrambi a una stazione e mi lasciarono solo nello
scompartimento, m'affacciai al finestrino, per seguirli con gli occhi:
discutevano ancora, allontanandosi.
A un certo punto però il vecchietto perdette la pazienza e prese la corsa.
- Chi lo dice? - gli domandò forte il giovane, fermo, con aria di sfida.
Quegli allora si voltò per gridargli:
- Camillo De Meis!
Mi parve che anche lui gridasse a me quel nome, a me che stavo intanto a
ripetere meccanicamente: - Adriano -. Buttai subito via quel de
e ritenni il Meis.
'Adriano Meis! Si Adriano Meis: suona bene'
Mi parve anche che questo nome quadrasse bene alla faccia sbarbata e con gli
occhiali, ai capelli lunghi, al cappellaccio alla finanziera che avrei dovuto
portare.
'Adriano Meis. Benone! M'hanno battezzato.'
Recisa di netto ogni memoria
in me della vita precedente, fermato l'animo alla deliberazione di ricominciare
da quel punto una nuova vita, io era invaso e sollevato come da una fresca
letizia infantile; mi sentivo come rifatta vergine e trasparente la coscienza,
e lo spirito vigile e pronto a trar profitto di tutto per la costruzione del
mio nuovo io. Intanto l'anima mi tumultuava nella gioja di quella nuova
libertà. Non avevo mai veduto così uomini e cose; l'aria tra essi e me s'era
d'un tratto quasi snebbiata; e mi si presentavan facili e lievi le nuove
relazioni che dovevano stabilirsi tra noi, poiché ben poco ormai io avrei avuto
bisogno di chieder loro per il mio intimo compiacimento. Oh levità deliziosa
dell'anima; serena, ineffabile ebbrezza! La Fortuna mi aveva sciolto di ogni
intrico, all'improvviso, mi aveva sceverato dalla vita comune, reso spettatore
estraneo della briga in cui gli altri si dibattevano ancora, e mi ammoniva
dentro:
'Vedrai, vedrai com'essa t'apparirà curiosa, ora, a guardarla cosi da
fuori! Ecco là uno che si guasta il fegato e fa arrabbiare un povero vecchietto
per sostener che Cristo fu il più brutto degli uomini'
Sorridevo. Mi veniva di sorridere così di tutto e a ogni cosa: a gli alberi
della campagna, per esempio, che mi correvano incontro con stranissimi
atteggiamenti nella loro fuga illusoria; a le ville sparse qua e là, dove mi
piaceva d'immaginar coloni con le gote gonfie per sbuffare contro la nebbia
nemica degli olivi o con le braccia levate a pugni chiusi contro il cielo che
non voleva mandar acqua: e sorridevo agli uccelletti che si sbandavano,
spaventati da quel coso nero che correva per la campagna, fragoroso;
all'ondeggiar dei fili telegrafici, per cui passavano certe notizie ai
giornali, come quella da Miragno del mio suicidio nel molino della Stìa;
alle povere mogli dei cantonieri che presentavan la bandieruola arrotolata,
gravide e col cappello del marito in capo.
Se non che, a un certo punto, mi cadde lo sguardo su l'anellino di fede che mi
stringeva ancora l'anulare della mano sinistra. Ne ricevetti una scossa
violentissima: strizzai gli occhi e mi strinsi la mano con l'altra mano,
tentando di strapparmi quel cerchietto d'oro, così, di nascosto, per non
vederlo più. Pensai ch'esso si apriva e che, internamente, vi erano incisi due
nomi: Mattia-Romilda, e la data del matrimonio. Che dovevo farne?
Aprii gli occhi e rimasi un pezzo accigliato, a contemplarlo nella palma della
mano.
Tutto, attorno, mi s'era rifatto nero.
Ecco ancora un resto della catena che mi legava al passato! Piccolo anello,
lieve per sé, eppur così pesante! Ma la catena era già spezzata, e dunque via
anche quell'ultimo anello!
Feci per buttarlo dal finestrino, ma mi trattenni. Favorito così
eccezionalmente dal caso, io non potevo più fidarmi di esso; tutto ormai dovevo
creder possibile, finanche questo: che un anellino buttato nell'aperta campagna,
trovato per combinazione da un contadino, passando di mano in mano, con quei
due nomi incisi internamente e la data, facesse scoprir la verità, che
l'annegato della Stìa cioè non era il bibliotecario Mattia Pascal.
'No, no,' pensai, 'in luogo più sicuro Ma dove?'
Il treno, in quella, si fermò a un'altra stazione. Guardai, e subito mi sorse
un pensiero, per la cui attuazione. provai dapprima un certo ritegno. Lo dico,
perché mi serva di scusa presso coloro che amano il bel gesto, gente poco
riflessiva, alla quale piace di non ricordarsi che l'umanità è pure oppressa da
certi bisogni, a cui purtroppo deve obbedire anche chi sia compreso da un
profondo cordoglio. Cesare, Napoleone e, per quanto possa parere indegno, anche
la donna più bella Basta. Da una parte c'era scritto Uomini e
dall'altra Donne; e lì intombai il mio anellino di fede.
Quindi, non tanto per distrarmi, quanto per cercar di dare una certa
consistenza a quella mia nuova vita campata nel vuoto, mi misi a pensare ad
Adriano Meis, a immaginargli un passato, a domandarmi chi fu mio padre, dov'ero
nato, ecc. - posatamente sforzandomi di vedere e di fissar bene tutto, nelle
più minute particolarità.
Ero figlio unico: su questo mi pareva che non ci fosse da discutere.
'Più unico di così Eppure no! Chi sa quanti sono come me, nella mia
stessa condizione, fratelli miei. Si lascia il cappello e la giacca, con una
lettera in tasca, sul parapetto d'un ponte, su un fiume; e poi, invece di
buttarsi giù, si va via tranquillamente, in America o altrove. Si pesca dopo
alcuni giorni un cadavere irriconoscibile: sarà quello de la lettera lasciata
sul parapetto del ponte. E non se ne parla più! E vero che io non ci ho messo
la mia volontà: né lettera, né giacca, né cappello Ma son pure come loro,
con questo di più: che posso godermi senza alcun rimorso la mia libertà. Han
voluto regalarmela, e dunque'
Dunque diciamo figlio unico. Nato - sarebbe prudente non precisare alcun
luogo di nascita. Come si fa? Non si può nascer mica su le nuvole, levatrice la
luna, quantunque in biblioteca abbia letto che gli antichi, fra tanti altri
mestieri, le facessero esercitare anche questo, e le donne incinte la
chiamassero in soccorso col nome di Lucina.
Su le nuvole, no; ma su un piroscafo, sì, per esempio, si può nascere. Ecco,
benone! nato in viaggio. I miei genitori viaggiavano per farmi nascere su un
piroscafo. Via, via, sul serio! Una ragione plausibile per mettere in viaggio
una donna incinta, prossima a partorire O che fossero andati in America i
miei genitori? Perché no? Ci vanno tanti Anche Mattia Pascal, poveretto,
voleva andarci. E allora queste ottantadue mila lire diciamo che le guadagnò
mio padre, là in America? Ma che! Con ottantadue mila lire in tasca, avrebbe
aspettato prima, che la moglie mettesse al mondo il figliuolo, comodamente, in
terraferma. E poi, baje! Ottantadue mila lire un emigrato non le guadagna più
cosi facilmente in America. Mio padre - a proposito, come si chiamava?
Paolo. Sì: Paolo Meis. Mio padre, Paolo Meis, s'era illuso, come tanti altri.
Aveva stentato tre, quattr'anni; poi, avvilito, aveva scritto da Buenos-Aires
una lettera al nonno
Ah, un nonno, un nonno io volevo proprio averlo conosciuto, un caro vecchietto,
per esempio, come quello ch'era sceso testé dal treno, studioso d'iconografia
cristiana.
Misteriosi capricci della fantasia! Per quale inesplicabile bisogno e donde mi
veniva d'immaginare in quel momento mio padre, quel Paolo Meis, come uno
scavezzacollo? Ecco, sì, egli aveva dato tanti dispiaceri al nonno: aveva
sposato contro la volontà di lui e se n'era scappato in America. Doveva forse
sostenere anche lui che Cristo era bruttissimo. E brutto davvero e sdegnato
l'aveva veduto là, in America, se con la moglie lì lì per partorire, appena
ricevuto il soccorso dal nonno, se n'era venuto via.
Ma perché proprio in viaggio dovevo esser nato io? Non sarebbe stato meglio
nascere addirittura in America, nell'Argentina, pochi mesi prima del ritorno in
patria de' miei genitori? Ma si! Anzi il nonno s'era intenerito per il nipotino
innocente; per me, unicamente per me aveva perdonato il figliuolo. Così io,
piccino piccino, avevo traversato l'Oceano, e forse in terza classe, e durante
il viaggio avevo preso una bronchite e per miracolo non ero morto. Benone! Me
lo diceva sempre il nonno. Io però non dovevo rimpiangere come comunemente si
suol fare, di non esser morto, allora di pochi mesi. No: perché, in fondo, che
dolori avevo sofferto io, in vita mia? Uno solo, per dire la verità: quello de
la morte del povero nonno, col quale ero cresciuto. Mio padre, Paolo Meis,
scapato e insofferente di giogo, era fuggito via di nuovo in America, dopo
alcuni mesi, lasciando la moglie e me col nonno; e là era morto di febbre
gialla. A tre anni, io ero rimasto orfano anche di madre, e senza memoria
perciò de' miei genitori; solo con queste scarse notizie di loro. Ma c'era di
più! Non sapevo neppure con precisione il mio luogo di nascita. Nell'Argentina,
va bene! Ma dove? Il nonno lo ignorava, perché mio padre non gliel'aveva mai
detto o perché se n'era dimenticato, e io non potevo certamente ricordarmelo.
Riassumendo:
a) figlio unico di Paolo Meis; - b) nato in America
nell'Argentina, senz'altra designazione; - c) venuto in Italia di pochi
mesi (bronchite); - d) senza memoria né quasi notizia dei genitori; - e)
cresciuto col nonno.
Dove? Un po' da per tutto. Prima a Nizza. Memorie confuse: Piazza Massena,
la Promenade, Avenue de la Gare Poi, a Torino.
Ecco, ci andavo adesso, e mi proponevo tante cose: mi proponevo di scegliere
una via e una casa, dove il nonno mi aveva lasciato fino all'età di dieci anni
affidato alle cure di una famiglia che avrei immaginato lì sul posto, perché
avesse tutti i caratteri del luogo; mi proponevo di vivere, o meglio
d'inseguire con la fantasia, lì, su la realtà, la vita d'Adriano Meis piccino.
Questo inseguimento, questa costruzione fantastica d'una vita non realmente
vissuta, ma colta man mano negli altri e nei luoghi e fatta e sentita mia, mi
procurò una gioja strana e nuova, non priva d'una certa mestizia, nei primi
tempi del mio vagabondaggio. Me ne feci un'occupazione. Vivevo non nel presente
soltanto, ma anche per il mio passato cioè per gli anni che Adriano Meis non
aveva vissuti.
Nulla o ben poco ritenni di quel che avevo prima fantasticato. Nulla s'inventa,
è vero, che non abbia una qualche radice, più o men profonda, nella realtà; e
anche le cose più strane possono esser vere, anzi nessuna fantasia arriva a
concepire certe follie, certe inverosimili avventure che si scatenano e
scoppiano dal seno tumultuoso della vita; ma pure, come e quanto appare diversa
dalle invenzioni che noi possiamo trarne la realtà viva e spirante! Di quante
cose sostanziali, minutissime, inimmaginabili ha bisogno la nostra invenzione
per ridiventare quella stessa realtà da cui fu tratta, di quante fila che la
riallaccino nel complicatissimo intrico della vita, fila che noi abbiamo recise
per farla diventare una cosa a sé!
Or che cos'ero io, se non un uomo inventato? Una invenzione ambulante che
voleva e, del resto, doveva forzatamente stare per sé, pur calata nella realtà.
Assistendo alla vita degli altri e osservandola minuziosamente, ne vedevo
gl'infiniti legami e, al tempo stesso, vedevo le tante mie fila spezzate.
Potevo io rannodarle, ora, queste fila con la realtà? Chi sa dove mi avrebbero
trascinato; sarebbero forse diventate subito redini di cavalli scappati, che
avrebbero condotto a precipizio la povera biga della mia necessaria invenzione.
No. Io dovevo rannodar queste fila soltanto con la fantasia.
E seguivo per le vie e nei giardini i ragazzetti dai cinque ai dieci anni, e
studiavo le loro mosse, i loro giuochi, e raccoglievo le loro espressioni, per
comporne a poco a poco l'infanzia di Adriano Meis. Vi riuscii così bene, che
essa alla fine assunse nella mia mente una consistenza quasi reale.
Non volli immaginarmi una nuova mamma. Mi sarebbe parso di profanar la memoria
viva e dolorosa della mia mamma vera. Ma un nonno, sì, il nonno del mio primo
fantasticare, volli crearmelo.
Oh, di quanti nonnini veri, di quanti vecchietti inseguiti e studiati un po' a
Torino, un po' a Milano, un po' a Venezia, un po' a Firenze, si compose quel
nonnino mio! Toglievo a uno qua la tabacchiera d'osso e il pezzolone a dadi
rossi e neri, a un altro là il bastoncino, a un terzo gli occhiali e la barba a
collana, a un quarto il modo di camminare e di soffiarsi il naso, a un quinto
il modo di parlare e di ridere; e ne venne fuori un vecchietto fino un po'
bizzoso, amante delle arti, un nonnino spregiudicato, che non mi volle far
seguire un corso regolare di studii, preferendo d'istruirmi lui, con la viva
conversazione e conducendomi con sé, di città in città, per musei e gallerie.
Visitando Milano, Padova, Venezia, Ravenna, Firenze, Perugia, lo ebbi sempre
con me, come un'ombra, quel mio nonnino fantasticato, che più d'una volta mi
parlò anche per bocca d'un vecchio cicerone.
Ma io volevo vivere anche per me, nel presente. M'assaliva di tratto in tratto
l'idea di quella mia libertà sconfinata, unica, e provavo una felicità
improvvisa, così forte, che quasi mi ci smarrivo in un beato stupore; me la
sentivo entrar nel petto con un respiro lunghissimo e largo, che mi sollevava
tutto lo spirito. Solo! solo! solo! padrone di me! senza dover dar conto di
nulla a nessuno! Ecco, potevo andare dove mi piaceva: a Venezia? a Venezia! a
Firenze? a Firenze!; e quella mia felicità mi seguiva dovunque. Ah, ricordo un
tramonto, a Torino, nei primi mesi di quella mia nuova vita, sul Lungo Po,
presso al ponte che ritiene per una pescaja l'impeto delle acque che vi fremono
irose: l'aria era d'una trasparenza meravigliosa; tutte le cose in ombra
parevano smaltate in quella limpidezza; e io, guardando, mi sentii così ebro
della mia libertà, che temetti quasi d'impazzire, di non potervi resistere a
lungo.
Avevo già effettuato da capo a piedi la mia trasformazione esteriore: tutto
sbarbato, con un pajo di occhiali azzurri chiari e coi capelli lunghi,
scomposti artisticamente: parevo proprio un altro! Mi fermavo qualche volta a
conversar con me stesso innanzi a uno specchio e mi mettevo a ridere.
'Adriano Meis! Uomo felice! Peccato che debba esser conciato così Ma,
via' che te n'importa? Va benone! Se non fosse per quest'occhio di lui
di quell'imbecille, non saresti poi, alla fin fine, tanto brutto, nella
stranezza un po' spavalda della tua figura. Fai un po' ridere le donne, ecco.
Ma la colpa, in fondo, non è tua. Se quell'altro non avesse portato i capelli
così corti, tu non saresti ora obbligato a portarli così lunghi: e non certo
per tuo gusto, lo so, vai ora sbarbato come un prete. Pazienza! Quando le donne
ridono ridi anche tu: è il meglio che possa fare.'
Vivevo, per altro, con me e di me, quasi esclusivamente. Scambiavo appena
qualche parola con gli albergatori, coi camerieri, coi vicini di tavola, ma non
mai per voglia d'attaccar discorso. Dal ritegno anzi che ne provavo, mi accorsi
ch'io non avevo affatto il gusto della menzogna. Del resto, anche gli altri
mostravan poca voglia di parlare con me: forse a causa del mio aspetto, mi
prendevano per uno straniero. Ricordo che, visitando Venezia, non ci fu verso
di levar dal capo a un vecchio gondoliere ch'io fossi tedesco, austriaco. Ero
nato, sì, nell'Argentina ma da genitori italiani. La mia vera, diciamo così
'estraneità' era ben altra e la conoscevo io solo: non ero più niente
io; nessuno stato civile mi registrava, tranne quello di Miragno, ma come
morto, con l'altro nome.
Non me n'affliggevo; tuttavia per austriaco, no, per austriaco non mi piaceva
di passare. Non avevo avuto mai occasione di fissar la mente su la parola
'patria'. Avevo da pensare a ben altro, un tempo! Ora, nell'ozio
cominciavo a prender l'abitudine di riflettere su tante cose che non avrei mai
creduto potessero anche per poco interessarmi. Veramente, ci cascavo senza
volerlo, e spesso mi avveniva di scrollar le spalle, seccato. Ma di qualche
cosa bisognava pure che mi occupassi, quando mi sentivo stanco di girare, di
vedere. Per sottrarmi alle riflessioni fastidiose e inutili, mi mettevo
talvolta a riempire interi fogli di carta della mia nuova firma, provandomi a
scrivere con altra grafia, tenendo la penna diversamente di come la tenevo
prima. A un certo punto però stracciavo la carta e buttavo via la penna. Io
potevo benissimo essere anche analfabeta! A chi dovevo scrivere? Non ricevevo
né potevo più ricever lettere da nessuno.
Questo pensiero, come tanti altri del resto, mi faceva dare un tuffo nel
passato. Rivedevo allora la casa, Ia biblioteca, le vie di Miragno, la
spiaggia; e mi domandavo: 'Sarà ancora vestita di nero Romilda? Forse sì
per gli occhi del mondo. Che farà?'. E me la immaginavo, come tante volte
e tante l'avevo veduta là per casa; e m'immaginavo anche la vedova Pescatore,
che imprecava certo alla mia memoria.
'Nessuna delle due,' pensavo, 'si sarà recata neppure una volta
a visitar nel cimitero quel pover'uomo, che pure è morto così barbaramente. Chi
sa dove mi hanno seppellito! Forse la zia Scolastica non avrà voluto fare per
me la spesa che fece per la mamma; Roberto, tanto meno; avrà detto: - Chi
gliel'ha fatto fare? Poteva vivere infine con due lire al giorno, bibliotecario
-. Giacerò come un cane, nel campo dei poveri Via, via, non ci pensiamo! Me
ne dispiace per quel pover'uomo, il quale forse avrà avuto parenti più umani
de' miei che lo avrebbero trattato meglio. - Ma, del resto, anche a lui, ormai,
che glien'importa? S'è levato il pensiero!'
Seguitai ancora per qualche tempo a viaggiare. Volli spingermi oltre l'Italia;
visitai le belle contrade del Reno, fino a Colonia, seguendo il fiume a bordo
d'un piroscafo; mi trattenni nelle città principali: a Mannheim, a Worms, a
Magonza, a Bingen, a Coblenza Avrei voluto andar più sù di Colonia, più sù
della Germania, almeno in Norvegia; ma poi pensai che io dovevo imporre un
certo freno alla mia libertà. Il denaro che avevo meco doveva servirmi per
tutta la vita, e non era molto. Avrei potuto vivere ancora una trentina d'anni;
e così fuori d'ogni legge, senza alcun documento tra le mani che comprovasse,
non dico altro, la mia esistenza reale, ero nell'impossibilità di procacciarmi
un qualche impiego; se non volevo dunque ridurmi a mal partito, bisognava che
mi restringessi a vivere con poco. Fatti i conti, non avrei dovuto spendere più
di duecento lire al mese: pochine; ma già per ben due anni avevo anche vissuto
con meno, e non io solo. Mi sarei dunque adattato.
In fondo, ero già un po' stanco di quell'andar girovagando sempre solo e muto.
Istintivamente cominciavo a sentir il bisogno di un po' di compagnia. Me ne
accorsi in una triste giornata di novembre, a Milano, tornato da poco dal mio
giretto in Germania.
Faceva freddo, ed era imminente la pioggia, con la sera. Sotto un fanale scorsi
un vecchio cerinajo, a cui la cassetta, che teneva dinanzi con una cinta a
tracolla, impediva di ravvolgersi bene in un logoro mantelletto che aveva su le
spalle. Gli pendeva dalle pugna strette sul mento un cordoncino, fino ai piedi.
Mi chinai a guardare e gli scoprii tra le scarpacce rotte un cucciolotto
minuscolo, di pochi giorni, che tremava tutto di freddo e gemeva continuamente,
lì rincantucciato. Povera bestiolina! Domandai al vecchio se la vendesse. Mi
rispose di sì e che me l'avrebbe venduta anche per poco, benché valesse molto:
ah, si sarebbe fatto un bel cane, un gran cane, quella bestiola:
- Venticinque lire
Seguitò a tremare il povero cucciolo, senza inorgoglirsi punto di quella stima:
sapeva di certo che il padrone con quel prezzo non aveva affatto stimato i suoi
futuri meriti, ma la imbecillità che aveva creduto di leggermi in faccia.
Io intanto, avevo avuto il tempo di riflettere che, comprando quel cane, mi
sarei fatto sì, un amico fedele e discreto, il quale per amarmi e tenermi in
pregio non mi avrebbe mai domandato chi fossi veramente e donde venissi e se le
mie carte fossero in regola; ma avrei dovuto anche mettermi a pagare una tassa:
io che non ne pagavo più! Mi parve come una prima compromissione della mia
libertà, un lieve intacco ch'io stessi per farle.
- Venticinque lire? Ti saluto! - dissi al vecchio cerinajo.
Mi calcai il cappellaccio su gli occhi e, sotto la pioggerella fina fina che
già il cielo cominciava a mandare, m'allontanai, considerando però, per la
prima volta, che era bella, sì, senza dubbio, quella mia libertà così
sconfinata, ma anche un tantino tiranna, ecco, se non mi consentiva neppure di
comperarmi un cagnolino.
CAPITOLO X (Acquasantiera e portacenere)
Pochi giorni dopo ero a
Roma, per prendervi dimora.
Perché a Roma e non altrove? La ragione vera la vedo adesso, dopo tutto quello
che m'è occorso, ma non la dirò per non guastare il mio racconto con riflessioni
che, a questo punto, sarebbero inopportune. Scelsi allora Roma, prima di tutto
perché mi piacque sopra ogni altra città, e poi perché mi parve più adatta a
ospitar con indifferenza, tra tanti forestieri, un forestiere come me.
La scelta della casa, cioè d'una cameretta decente in qualche via tranquilla,
presso una famiglia discreta, mi costò molta fatica. Finalmente la trovai in
via Ripetta, alla vista del fiume. A dir vero, la prima impressione che
ricevetti della famiglia che doveva ospitarmi fu poco favorevole; tanto che,
tornato all'albergo, rimasi a lungo perplesso se non mi convenisse di cercare
ancora.
Su la porta, al quarto piano, c'erano due targhette: PALEARI di qua, PAPIANO
di là; sotto a questa, un biglietto da visita, fissato con due bullette di
rame, nel quale si leggeva: Silvia Caporale.
Venne ad aprirmi un vecchio su i sessant'anni (Paleari? Papiano?), in mutande
di tela, coi piedi scalzi entro un pajo di ciabatte rocciose, nudo il torso
roseo, ciccioso, senza un pelo, le mani insaponate e con un fervido turbante di
spuma in capo.
- Oh scusi! - esclamò. - Credevo che fosse la serva Abbia pazienza mi trova
cosi Adriana! Terenzio! E subito, via! Vedi che c'è qua un signore.. Abbia
pazienza un momentino; favorisca Che cosa desidera?
- S'affitta qua una camera mobiliata?
- Sissignore. Ecco mia figlia: parlerà con lei. Sù, Adriana, la camera!
Apparve, tutta confusa, una signorinetta piccola piccola, bionda, pallida,
dagli occhi ceruli, dolci e mesti, come tutto il volto. Adriana, come me!
'Oh, guarda un po'!' pensai. 'Neanche a farlo apposta!
- Ma Terenzio dov'è? - domandò l'uomo dal turbante di spuma.
- Oh Dio, papà, sai bene che è a Napoli, da jeri. Ritìrati! Se ti vedessi -
gli rispose la signorinetta mortificata, con una vocina tenera che, pur nella
lieve irritazione, esprimeva la mitezza dell'indole.
Quegli si ritirò, ripetendo: - Ah già! ah già! -, strascicando le
ciabatte e seguitando a insaponarsi il capo calvo e anche il grigio barbone.
Non potei fare a meno di sorridere, ma benevolmente, per non mortificare di più
la figliuola. Ella socchiuse gli occhi, come per non vedere il mio sorriso.
Mi parve dapprima una ragazzetta; poi, osservando bene l'espressione del volto,
m'accorsi ch'era già donna e che doveva perciò portare, se vogliamo, quella
veste da camera che la rendeva un po' goffa, non adattandosi al corpo e alle
fattezze di lei così piccolina. Vestiva di mezzo lutto.
Parlando pianissimo e sfuggendo di guardarmi (chi sa che impressione le feci in
prima!), m'introdusse, attraverso un corridojo bujo, nella camera che dovevo
prendere in affitto. Aperto l'uscio, mi sentii allargare il petto, all'aria,
alla luce che entravano per due ampie finestre prospicienti il fiume. Si vedeva
in fondo in fondo Monte Mario, Ponte Margherita e tutto il nuovo quartiere dei
Prati fino a Castel Sant'Angelo; si dominava il vecchio ponte di Ripetta e il
nuovo che vi si costruiva accanto; più là il ponte Umberto e tutte le vecchie
case di Tordinona che seguivan la voluta ampia del fiume; in fondo, da
quest'altra parte, si scorgevano le verdi alture del Gianicolo, col fontanone
di San Pietro in Montorio e la statua equestre di Garibaldi.
In grazia di quella spaziosa veduta presi in affitto la camera, che era per
altro addobbata con graziosa semplicità, di tappezzeria chiara, bianca e
celeste.
- Questo terrazzino qui accanto, - volle dirmi la ragazzetta in veste da
camera, - appartiene pure a noi, almeno per ora. Lo butteranno giù, dicono,
perché fa aggetto.
- Fa che cosa?
- Aggetto: non si dice così? Ma ci vorrà tempo prima che sia finito il
Lungotevere.
Sentendola parlare piano, con tanta serietà, vestita a quel modo, sorrisi e
dissi:
- Ah sì?
Se ne offese. Chinò gli occhi e si strinse un po' il labbro tra i denti. Per
farle piacere, allora, le parlai anch'io con gravità:
- E scusi, signorina: non ci sono bambini, è vero, in casa?
Scosse il capo senza aprir bocca. Forse nella mia domanda sentì ancora un sapor
d'ironia, ch'io però non avevo voluto metterci. Avevo detto bambini e
non bambine. Mi affrettai a riparare un'altra volta.
- E dica, signorina: loro non affittano altre camere, è vero?
- Questa è la migliore, - mi rispose, senza guardarmi. - Se non le accomoda
- No no Domandavo per sapere se
- Ne affittiamo un'altra, - disse allora ella, alzando gli occhi con aria
d'indifferenza forzata. - Di là, posta sul davanti su la via. E occupata da
una signorina che sta con noi ormai da due anni: dà lezioni di pianoforte
non in casa.
Accennò, così dicendo, un sorriso lieve lieve, e mesto. Aggiunse:
- Siamo io, il babbo e mio cognato
- Paleari?
- No: Paleari è il babbo; mio cognato si chiama Terenzio Papiano. Deve però
andar via, col fratello che per ora sta anche lui qua con noi. Mia sorella è
morta da sei mesi.
Per cangiar discorso, le domandai che pigione avrei dovuto pagare; ci
accordammo subito; le domandai anche se bisognava lasciare una caparra.
- Faccia lei, - mi rispose. - Se vuole piuttosto lasciare il nome
Mi tastai in petto, sorridendo nervosamente, e dissi:
- Non ho non ho neppure un biglietto da visita Mi chiamo Adriano, sì,
appunto: ho sentito che si chiama Adriana anche lei, signorina. Forse le farà
dispiacere
- Ma no! Perché? - fece lei, notando evidentemente il mio curioso imbarazzo e
ridendo questa volta come una vera bambina.
Risi anch'io e soggiunsi:
- E allora, se non le dispiace, mi chiamo Adriano Meis: ecco fatto! Potrei
alloggiare qua stasera stessa? O tornerò meglio domattina
Ella mi rispose: - Come vuole, - ma io me ne andai con l'impressione che le
avrei fatto un gran piacere se non fossi più tornato. Avevo osato nientemeno di
non tenere nella debita considerazione quella sua veste da camera.
Potei vedere però e toccar con mano, pochi giorni dopo, che la povera fanciulla
doveva proprio portarla, quella veste da camera, di cui ben volentieri, forse,
avrebbe fatto a meno. Tutto il peso della casa era su le sue spalle, e guaj se
non ci fosse stata lei!
Il padre, Anselmo Paleari, quel vecchio che mi era venuto innanzi con un
turbante di spuma in capo, aveva pure così, come di spuma, il cervello. Lo
stesso giorno che entrai in casa sua, mi si presentò, non tanto - disse - per
rifarmi le scuse del modo poco decente in cui mi era apparso la prima volta,
quanto per il piacere di far la mia conoscenza, avendo io l'aspetto d'uno
studioso o d'un artista, forse:
- Sbaglio?
- Sbaglia. Artista per niente ! studioso così così Mi piace leggere
qualche libro.
- Oh, ne ha di buoni! - fece lui, guardando i dorsi di quei pochi che avevo già
disposti sul palchetto della scrivania. - Poi, qualche altro giorno, le
mostrerò i miei, eh? Ne ho di buoni anch'io. Mah!
E scrollò le spalle e rimase lì, astratto, con gli occhi invagati,
evidentemente senza ricordarsi più di nulla, né dov'era né con chi era; ripeté
altre due volte: - Mah! Mah!, - con gli angoli della bocca contratti
in giù, e mi voltò le spalle per andarsene, senza salutarmi.
Ne provai, lì per lì, una certa meraviglia; ma poi, quando egli nella sua
camera mi mostrò i libri, come aveva promesso, non solo quella piccola
distrazione di mente mi spiegai, ma anche tant'altre cose. Quei libri recavano
titoli di questo genere: La Mort et l'au-delà - L'homme et ses corps - Les
sept principes de l'homme - Karma - La clef de la Théosophie - A B C de la
Théosophie - La doctrine secrète - Le Plan Astral - ecc., ecc.
Era ascritto alla scuola teosofica il signor Anselmo Paleari.
Lo avevano messo a riposo, da caposezione in non so qual Ministero, prima del
tempo, e lo avevano rovinato, non solo finanziariamente, ma anche perché libero
e padrone del suo tempo, egli si era adesso sprofondato tutto ne' suoi
fantastici studii e nelle sue nuvolose meditazioni, astraendosi più che mai
dalla vita materiale. Per lo meno mezza la sua pensione doveva andarsene
nell'acquisto di quei libri. Già se n'era fatta una piccola biblioteca. La
dottrina teosofica però non doveva soddisfarlo interamente. Certo il tarlo
della critica lo rodeva, perché, accanto a quei libri di teosofia, aveva anche
una ricca collezione di saggi e di studii filosofici antichi e moderni e libri
d'indagine scientifica. In questi ultimi tempi si era dato anche a gli
esperimenti spiritici.
Aveva scoperto nella signorina Silvia Caporale, maestra di pianoforte, sua
inquilina, straordinarie facoltà medianiche, non ancora bene sviluppate, per
dire la verità, ma che si sarebbero senza dubbio sviluppate, col tempo e con
l'esercizio, fino a rivelarsi superiori a quelle di tutti i medium più
celebrati.
Io, per conto mio, posso attestare di non aver mai veduto in urla faccia volgarmente
brutta, da maschera carnevalesca, un pajo d'occhi più dolenti di quelli della
signorina Silvia Caporale. Eran nerissimi, intensi, ovati, e davan
l'impressione che dovessero aver dietro un contrappeso di piombo, come quelli
delle bambole automatiche. La signorina Silvia Caporale aveva più di
quarant'anni e anche un bel pajo di baffi, sotto il naso a pallottola sempre
acceso.
Seppi di poi che questa povera donna era arrabbiata d'amore, e beveva; si
sapeva brutta, ormai vecchia e, per disperazione, beveva. Certe sere si
riduceva in casa in uno stato veramente deplorevole: col cappellino a
sghimbescio, la pallottola del naso rossa come una carota e gli occhi
semichiusi, più dolenti che mai.
Si buttava sul letto, e subito tutto il vino bevuto le riveniva fuori
trasformato in un infinito torrente di lagrime. Toccava allora alla povera
piccola mammina in veste da camera vegliarla, confortarla fino a tarda notte:
ne aveva pietà, pietà che vinceva la nausea: la sapeva sola al mondo e
infelicissima, con quella rabbia in corpo che le faceva odiar la vita, a cui
già due volte aveva attentato; la induceva pian piano a prometterle che sarebbe
stata buona che non l'avrebbe fatto più; e sissignori, il giorno appresso se la
vedeva comparire tutta infronzolata e con certe mossette da scimmia,
trasformata di punto in bianco in bambina ingenua e capricciosa.
Le poche lire che le avveniva di guadagnare di tanto in tanto facendo provar le
canzonette a qualche attrice esordiente di caffè-concerto, se n'andavano così o
per bere o per infronzolarsi, ed ella non pagava né l'affitto della camera né
quel po' che le davano da mangiare là in famiglia. Ma non si poteva mandar via.
Come avrebbe fatto il signor Anselmo Paleari per i suoi esperimenti spiritici?
C'era in fondo, però, un'altra ragione. La signorina Caporale, due anni avanti,
alla morte della madre, aveva smesso casa e, venendo a viver lì dai Paleari,
aveva affidato circa sei mila lire, ricavate dalla vendita dei mobili, a
Terenzio Papiano, per un negozio che questi le aveva proposto, sicurissimo e
lucroso: le sei mila lire erano sparite.
Quando ella stessa, la signorina Caporale, lagrimando, mi fece questa
confessione, io potei scusare in qualche modo il signor Anselmo Paleari, il
quale per quella sua follia soltanto m'era parso dapprima che tenesse una donna
di tal risma a contatto della propria figliuola.
È vero che per la piccola Adriana, che si dimostrava così istintivamente buona
e anzi troppo savia, non v'era forse da temere: ella infatti più che d'altro si
sentiva offesa nell'anima da quelle pratiche misteriose del padre, da
quell'evocazione di spiriti per mezzo della signorina Caporale.
Era religiosa la piccola Adriana. Me ne accorsi fin dai primi giorni per via di
un'acquasantiera di vetro azzurro appesa a muro sopra il tavolino da notte,
accanto al mio letto. M'ero coricato con la sigaretta in bocca, ancora accesa,
e m'ero messo a leggere uno di quei libri del Paleari; distratto, avevo poi
posato il mozzicone spento in quell'acquasantiera. Il giorno dopo, essa non c'era
più. Sul tavolino da notte, invece, c'era un portacenere. Volli domandarle se
la avesse tolta lei dal muro; ed ella, arrossendo leggermente, mi rispose:
- Scusi tanto, m'è parso che le bisognasse piuttosto un portacenere.
- Ma c'era acqua benedetta nell'acquasantiera?
- C'era. Abbiamo qui dirimpetto la chiesa di San Rocco
E se n'andò. Mi voleva dunque santo quella minuscola mammina, se al fonte di
San Rocco aveva attinto l'acqua benedetta anche per la mia acquasantiera? Per
la mia e per la sua, certamente. Il padre non doveva usarne. E
nell'acquasantiera della signorina Caporale, seppure ne aveva, vin santo,
piuttosto.
Ogni minimo che - sospeso
come già da un pezzo mi sentivo in un vuoto strano - mi faceva ora cadere in
lunghe riflessioni. Questo dell'acquasantiera m'indusse a pensare che, fin da
ragazzo, io non avevo più atteso a pratiche religiose, né ero più entrato in
alcuna chiesa per pregare, andato via Pinzone che mi vi conduceva insieme con
Berto, per ordine della mamma. Non avevo mai sentito alcun bisogno di domandare
a me stesso se avessi veramente una fede. E Mattia Pascal era morto di mala
morte senza conforti religiosi.
Improvvisamente, mi vidi in una condizione assai speciosa. Per tutti quelli che
mi conoscevano, io mi ero tolto - bene o male - il pensiero più fastidioso e
più affliggente che si possa avere, vivendo: quello della morte. Chi sa quanti,
a Miragno, dicevano:
- Beato lui, alla fine! Comunque sia, ha risolto il problema.
E non avevo risolto nulla, io, intanto. Mi trovavo ora coi libri d'Anselmo
Paleari tra le mani, e questi libri m'insegnavano che i morti, quelli veri, si
trovavano nella mia identica condizione, nei 'gusci' del Kamaloka,
specialmente i suicidi, che il signor Leadbeater, autore del Plan Astral
(premier degré du monde invisible, d'après la théosophie), raffigura come
eccitati da ogni sorta d'appetiti umani, a cui non possono soddisfare,
sprovvisti come sono del corpo carnale, ch'essi però ignorano d'aver perduto.
'Oh, guarda un po',' pensavo, 'ch'io quasi quasi potrei credere
che mi sia davvero affogato nel molino della Stìa e che intanto mi
illuda di vivere ancora.'
Si sa che certe specie di pazzia sono contagiose. Quella del Paleari, per
quanto in prima mi ribellassi, alla fine mi s'attaccò. Non che credessi veramente
di esser morto: non sarebbe stato un gran male, giacché il forte è morire, e,
appena morti, non credo che si possa avere il tristo desiderio di ritornare in
vita. Mi accorsi tutt'a un tratto che dovevo proprio morire ancora: ecco il
male! Chi se ne ricordava più? Dopo il mio suicidio alla Stìa, io
naturalmente non avevo veduto più altro, innanzi a me, che la vita. Ed ecco
qua, ora: il signor Anselmo Paleari mi metteva innanzi di continuo l'ombra
della morte.
Non sapeva più parlar d'altro, questo benedett'uomo! Ne parlava però con tanto
fervore e gli scappavan fuori di tratto in tratto, nella foga del discorso,
certe immagini e certe espressioni così singolari, che, ascoltandolo, mi
passava subito la voglia di cavarmelo d'attorno e d'andarmene ad abitare
altrove. Del resto, la dottrina e la fede del signor Paleari, tuttoché mi
sembrassero talvolta puerili, erano in fondo confortanti; e, poiché purtroppo
mi s'era affacciata l'idea che, un giorno o l'altro, io dovevo pur morire sul
serio, non mi dispiaceva di sentirne parlare a quel modo.
- C'è logica? - mi domandò egli un giorno, dopo avermi letto un passo di un
libro del Finot, pieno d'una filosofia così sentimentalmente macabra, che
pareva il sogno d'un becchino morfinomane, su la vita nientemeno dei vermi nati
dalla decomposizione del corpo umano. - C'è logica? Materia, sì materia:
ammettiamo che tutto sia materia. Ma c'è forma e forma, modo e modo, qualità e
qualità: c'è il sasso e l'etere imponderabile, perdio! Nel mio stesso corpo,
c'è l'unghia, il dente, il pelo, e c'è perbacco il finissimo tessuto oculare.
Ora, sissignore, chi vi dice di no? quella che chiamiamo anima sarà materia
anch'essa; ma vorrete ammettermi che non sarà materia come l'unghia, come il
dente, come il pelo: sarà materia come l'etere, o che so io. L'etere, sì,
l'ammettete come ipotesi, e l'anima no? C'è logica? Materia, sissignore. Segua
il mio ragionamento, e veda un po' dove arrivo, concedendo tutto. Veniamo alla
Natura. Noi consideriamo adesso l'uomo come l'erede di una serie innumerevole
di generazioni, è vero? come il prodotto di una elaborazione ben lenta della
Natura. Lei, caro signor Meis, ritiene che sia una bestia anch'esso,
crudelissima bestia e, nel suo insieme, ben poco pregevole? Concedo anche
questo, e dico: sta bene, l'uomo rappresenta nella scala degli esseri un
gradino non molto elevato; dal verme all'uomo poniamo otto, poniamo sette,
poniamo cinque gradini. Ma, perdiana!, la Natura ha faticato migliaja, migliaja
e migliaja di secoli per salire questi cinque gradini, dal verme all'uomo; s'è
dovuta evolvere, è vero? questa materia per raggiungere come forma e come
sostanza questo quinto gradino, per diventare questa bestia che ruba, questa
bestia che uccide, questa bestia bugiarda, ma che pure è capace di scrivere la Divina
Commedia, signor Meis, e di sacrificarsi come ha fatto sua madre e mia
madre; e tutt'a un tratto, pàffete, torna zero? C'è logica? Ma diventerà verme
il mio naso, il mio piede, non l'anima mia, per bacco! materia anch'essa,
sissignore, chi vi dice di no? ma non come il mio naso o come il mio piede. C'è
logica?
- Scusi, signor Paleari, - gli obbiettai io, - un grand'uomo passeggia, cade,
batte la testa, diventa scemo. Dov'è l'anima?
Il signor Anselmo restò un tratto a guardare, come se improvvisamente gli fosse
caduto un macigno innanzi ai piedi.
- Dov'è l'anima?
- Sì, lei o io, io che non sono un grand'uomo, ma che pure via, ragiono:
passeggio, cado, batto la testa, divento scemo. Dov'è l'anima?
Il Paleari giunse le mani e, con espressione di benigno compatimento, mi
rispose:
- Ma, santo Dio, perché vuol cadere e batter la testa, caro signor Meis?
- Per un'ipotesi
- Ma nossignore: passeggi pure tranquillamente. Prendiamo i vecchi che, senza
bisogno di cadere e batter la testa, possono naturalmente diventare scemi.
Ebbene, che vuol dire? Lei vorrebbe provare con questo che, fiaccandosi il
corpo, si raffievolisce anche l'anima, per dimostrar così che l'estinzione
dell'uno importi l'estinzione dell'altra? Ma scusi! Immagini un po' il caso
contrario: di corpi estremamente estenuati in cui pur brilla potentissima la
luce dell'anima: Giacomo Leopardi! e tanti vecchi come per esempio Sua Santità
Leone XIII! E dunque? Ma immagini un pianoforte e un sonatore: a un certo
punto, sonando, il pianoforte si scorda; un tasto non batte più; due, tre corde
si spezzano; ebbene, sfido! con uno strumento così ridotto, il sonatore, per
forza, pur essendo bravissimo, dovrà sonar male. E se il pianoforte poi tace,
non esiste più neanche il sonatore?
- Il cervello sarebbe il pianoforte; il sonatore l'anima?
- Vecchio paragone, signor Meis! Ora se il cervello si guasta, per forza
l'anima s'appalesa scema, o matta, o che so io. Vuol dire che, se il sonatore
avrà rotto, non per disgrazia, ma per inavvertenza o per volontà lo strumento,
pagherà: chi rompe paga: si paga tutto, si paga. Ma questa è un'altra
questione. Scusi, non vorrà dir nulla per lei che tutta l'umanità, tutta,
dacché se ne ha notizia, ha sempre avuto l'aspirazione a un'altra vita, di là?
È un fatto, questo, un fatto, una prova reale.
- Dicono: l'istinto della conservazione
- Ma nossignore, perché me n'infischio io, sa? di questa vile pellaccia che mi
ricopre! Mi pesa, la sopporto perché so che devo sopportarla; ma se mi provano,
perdiana, che - dopo averla sopportata per altri cinque o sei o dieci anni - io
non avrò pagato lo scotto in qualche modo, e che tutto finirà lì ma io la butto
via oggi stesso, in questo stesso momento: e dov'è allora l'istinto della
conservazione? Mi conservo unicamente perché sento che non può finire cosi! Ma
altro è l'uomo singolo, dicono, altro è l'umanità. L'individuo finisce, la
specie continua la sua evoluzione. Bel modo di ragionare, codesto! Ma guardi un
po'! Come se l'umanità non fossi io, non fosse lei e, a uno a uno, tutti. E non
abbiamo ciascuno lo stesso sentimento, che sarebbe cioè la cosa più assurda e
più atroce, se tutto dovesse consister qui, in questo miserabile soffio che è
la nostra vita terrena: cinquanta, sessant'anni di noja, di miserie, di
fatiche: perché? per niente! per l'umanità? Ma se l'umanità anch'essa un giorno
dovrà finire? Pensi un po': e tutta questa vita, tutto questo progresso, tutta
questa evoluzione perché sarebbero stati? Per niente? E il niente, il puro
niente, dicono intanto che non esiste Guarigione dell'astro, è vero? come ha
detto lei l'altro giorno. Va bene: guarigione; ma bisogna vedere in che senso.
Il male della scienza, guardi, signor Meis, è tutto qui: che vuole occuparsi
della vita soltanto.
- Eh, - sospirai io, sorridendo, - poiché dobbiamo vivere
- Ma dobbiamo anche morire! - ribatté il Paleari.
- Capisco; perché però pensarci tanto?
- Perché? ma perché non possiamo comprendere la vita, se in qualche modo non ci
spieghiamo la morte! Il criterio direttivo delle nostre azioni, il filo per
uscir da questo labirinto, il lume insomma, signor Meis, il lume deve venirci
di là, dalla morte.
- Col bujo che ci fa?
- Bujo? Bujo per lei! Provi ad accendervi una lampadina di fede, con l'olio
puro dell'anima. Se questa lampadina manca, noi ci aggiriamo qua, nella vita,
come tanti ciechi, con tutta la luce elettrica che abbiamo inventato! Sta bene,
benissimo, per la vita, la lampadina elettrica; ma noi, caro signor Meis,
abbiamo anche bisogno di quell'altra che ci faccia un po' di luce per la morte.
Guardi, io provo anche, certe sere, ad accendere un certo lanternino col vetro
rosso; bisogna ingegnarsi in tutti i modi, tentar comunque di vedere. Per ora,
mio genero Terenzio è a Napoli. Tornerà fra qualche mese, e allora la inviterò
ad assistere a qualche nostra modesta sedutina, se vuole. E chi sa che quel
lanternino Basta, non voglio dirle altro.
Come si vede, non era molto piacevole la compagnia di Anselmo Paleari. Ma,
pensandoci bene potevo io senza rischio, o meglio, senza vedermi costretto a mentire,
aspirare a qualche altra compagnia men lontana dalla vita? Mi ricordavo ancora
del cavalier Tito Lenzi. Il signor Paleari invece non si curava di saper nulla
di me, pago dell'attenzione ch'io prestavo a' suoi discorsi. Quasi ogni
mattina, dopo la consueta abluzione di tutto il corpo, mi accompagnava nelle
mie passeggiate; andavamo o sul Gianicolo o su l'Aventino o su Monte Mario,
talvolta sino a Ponte Nomentano, sempre parlando della morte.
'Ed ecco che bel guadagno ho fatto io,' pensavo, 'a non esser
morto davvero!'
Tentavo qualche volta di trarlo a parlar d'altro; ma pareva che il signor
Paleari non avesse occhi per lo spettacolo della vita intorno; camminava quasi
sempre col cappello in mano; a un certo punto, lo alzava come per salutar
qualche ombra ed esclamava:
- Sciocchezze!
Una sola volta mi rivolse, all'improvviso, una domanda particolare:
- Perché sta a Roma lei, signor Meis?
Mi strinsi ne le spalle e gli risposi:
- Perché mi piace di starci
- Eppure è una città triste, - osservò egli, scotendo il capo. - Molti si
meravigliano che nessuna impresa vi riesca, che nessuna idea viva vi
attecchisca. Ma questi tali si meravigliano perché non vogliono riconoscere che
Roma è morta.
- Morta anche Roma? - esclamai, costernato.
- Da gran tempo, signor Meis! Ed è vano, creda, ogni sforzo per farla rivivere.
Chiusa nel sogno del suo maestoso passato, non ne vuol più sapere di questa
vita meschina che si ostina a formicolarle intorno. Quando una città ha avuto
una vita come quella di Roma, con caratteri cosi spiccati e particolari, non
può diventare una città moderna, cioè una città come un'altra. Roma giace là,
col suo gran cuore frantumato, a le spalle del Campidoglio. Son forse di Roma
queste nuove case? Guardi, signor Meis. Mia figlia Adriana mi ha detto
dell'acquasantiera, che stava in camera sua, si ricorda? Adriana gliela tolse
dalla camera, quell'acquasantiera; ma, l'altro giorno, le cadde di mano e si
ruppe: ne rimase soltanto la conchetta, e questa, ora, è in camera mia, su la
mia scrivania, adibita all'uso che lei per primo, distrattamente, ne aveva
fatto. Ebbene, signor Meis, il destino di Roma è l'identico. I papi ne avevano
fatto - a modo loro, s'intende - un'acquasantiera; noi italiani ne abbiamo
fatto, a modo nostro, un portacenere. D'ogni paese siamo venuti qua a scuotervi
la cenere del nostro sigaro, che è poi il simbolo della frivolezza di questa
miserrima vita nostra e dell'amaro e velenoso piacere che essa ci dà.
CAPITOLO XI (di sera, guardando il fiume)
Man mano che la familiarità
cresceva per la considerazione e la benevolenza che mi dimostrava il padron di
casa, cresceva anche per me la difficoltà del trattare, il segreto impaccio che
già avevo provato e che spesso ora diventava acuto come un rimorso, nel vedermi
lì, intruso in quella famiglia, con un nome falso, coi lineamenti alterati, con
una esistenza fittizia e quasi inconsistente. E mi proponevo di trarmi in
disparte quanto più mi fosse possibile, ricordando di continuo a me stesso che
non dovevo accostarmi troppo alla vita altrui, che dovevo sfuggire ogni
intimità e contentarmi di vivere così fuor fuori.
- Libero! - dicevo ancora; ma già cominciavo a penetrare il senso e a misurare
i confini di questa mia libertà.
Ecco: essa, per esempio, voleva dire starmene lì, di sera, affacciato a una
finestra, a guardare il fiume che fluiva nero e silente tra gli argini nuovi e
sotto i ponti che vi riflettevano i lumi dei loro fanali, tremolanti come
serpentelli di fuoco; seguire con la fantasia il corso di quelle acque, dalla
remota fonte apennina, via per tante campagne, ora attraverso la città, poi per
la campagna di nuovo, fino alla foce; fingermi col pensiero il mare tenebroso e
palpitante in cui quelle acque, dopo tanta corsa, andavano a perdersi, e aprire
di tratto in tratto la bocca a uno sbadiglio.
- Libertà libertà - mormoravo. - Ma pure, non sarebbe lo stesso anche
altrove?
Vedevo qualche sera nel terrazzino lì accanto la mammina di casa in veste da
camera, intenta a innaffiare i vasi di fiori. 'Ecco la vita!'
pensavo. E seguivo con gli occhi la dolce fanciulla in quella sua cura gentile,
aspettando di punto in punto che ella levasse lo sguardo verso la mia finestra.
Ma invano. Sapeva che stavo lì; ma, quand'era sola, fingeva di non
accorgersene. Perché? effetto di timidezza soltanto, quel ritegno, o forse me
ne voleva ancora, in segreto, la cara mammina, della poca considerazione ch'io
crudelmente mi ostinavo a dimostrarle?
Ecco, ella ora, posato l'annaffiatojo, si appoggiava al parapetto del
terrazzino e si metteva a guardare il fiume anche lei, forse per darmi a vedere
che non si curava né punto né poco di me, poiché aveva per proprio conto
pensieri ben gravi da meditare, in quell'atteggiamento, e bisogno di
solitudine.
Sorridevo tra me, così pensando; ma poi, vedendola andar via dal terrazzino,
riflettevo che quel mio giudizio poteva anche essere errato, frutto del
dispetto istintivo che ciascuno prova nel vedersi non curato; e: 'Perché,
del resto,' mi domandavo, 'dovrebbe ella curarsi di me, rivolgermi,
senza bisogno, la parola? Io qui rappresento la disgrazia della sua vita, la
follia di suo padre; rappresento forse un'umiliazione per lei. Forse ella
rimpiange ancora il tempo che suo padre era in servizio e non aveva bisogno
d'affittar camere e d'avere estranei per casa. E poi un estraneo come me! Io le
faccio forse paura, povera bambina, con quest'occhio e con questi
occhiali'.
Il rumore di qualche vettura sul prossimo ponte di legno mi scoteva da quelle
riflessioni; sbuffavo, mi ritraevo dalla finestra; guardavo il letto, guardavo
i libri, restavo un po' perplesso tra questi e quello, scrollavo infine le
spalle, davo di piglio al cappellaccio e uscivo, sperando di liberarmi, fuori,
da quella noja smaniosa.
Andavo, secondo l'ispirazione del momento, o nelle vie più popolate o in luoghi
solitarii. Ricordo, una notte, in piazza San Pietro, l'impressione di sogno,
d'un sogno quasi lontano, ch'io m'ebbi da quel mondo secolare, racchiuso lì tra
le braccia del portico maestoso, nel silenzio che pareva accresciuto dal
continuo fragore delle due fontane. M'accostai a una di esse, e allora
quell'acqua soltanto mi sembrò viva, lì, e tutto il resto quasi spettrale e
profondamente malinconico nella silenziosa, immota solennità.
Ritornando per via Borgo Nuovo, m'imbattei a un certo punto in un ubriaco, il
quale, passandomi accanto e vedendomi cogitabondo, si chinò, sporse un po' il
capo, a guardarmi in volto da sotto in sù, e mi disse, scotendomi leggermente
il braccio:
- Allegro!
Mi fermai di botto, sorpreso, a squadrarlo da capo a piedi.
- Allegro! - ripeté, accompagnando l'esortazione con un gesto della mano che
significava: 'Che fai? che pensi? non ti curar di nulla!'.
E s'allontanò, cempennante, reggendosi con una mano al muro.
A quell'ora, per quella via deserta, lì vicino al gran tempio e coi pensieri
ancora in mente, ch'esso mi aveva suscitati, l'apparizione di questo ubriaco e
il suo strano consiglio amorevole e filosoficamente pietoso, m'intronarono:
restai non so per quanto tempo a seguir con gli occhi quell'uomo, poi sentii
quel mio sbalordimento rompersi, quasi, in una folle risata.
'Allegro! Si, caro. Ma io non posso andare in una taverna come te, a
cercar l'allegria, che tu mi consigli, in fondo a un bicchiere. Non ce la
saprei trovare io lì, purtroppo! Ne so trovarla altrove! Io vado al caffè, mio
caro, tra gente per bene, che fuma e ciarla di politica. Allegri tutti, anzi
felici, noi potremmo essere a un sol patto, secondo un avvocatino imperialista
che frequenta il mio caffè: a patto d'esser governati da un buon re assoluto. Tu
non le sai, povero ubriaco filosofo, queste cose; non ti passano neppure per la
mente. Ma la causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai
qual è? La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della
maggioranza. Perché, quando il potere è in mano d'uno solo, quest'uno sa
d'esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano
soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più
odiosa: la tirannia mascherata da libertà. Ma sicuramente! Oh perché credi che
soffra io? Io soffro appunto per questa tirannia mascherata da libertà
Torniamo a casa!'
Ma quella era la notte degl'incontri.
Passando, poco dopo, per Tordinona quasi al bujo, intesi un forte grido, tra
altri soffocati, in uno dei vicoli che sbucano in questa via. Improvvisamente
mi vidi precipitare innanzi un groviglio di rissanti. Eran quattro miserabili,
armati di nodosi bastoni, addosso a una donna da trivio.
Accenno a quest'avventura, non per farmi bello d'un atto di coraggio, ma per
dire anzi della paura che provai per le conseguenze di esso. Erano quattro quei
mascalzoni, ma avevo anch'io un buon bastone ferrato. E vero che due di essi mi
s'avventarono contro anche coi coltelli. Mi difesi alla meglio, facendo il
mulinello e saltando a tempo in qua e in là per non farmi prendere in mezzo;
riuscii alla fine ad appoggiar sul capo al più accanito un colpo bene
assestato, col pomo di ferro: lo vidi vacillare, poi prender la corsa; gli
altri tre allora, forse temendo che qualcuno stesse ormai per accorrere agli
strilli della donna, lo seguirono. Non so come, mi trovai ferito alla fronte.
Gridai alla donna, che non smetteva ancora di chiamare ajuto, che si stesse
zitta; ma ella, vedendomi con la faccia rigata di sangue, non seppe frenarsi e,
piangendo, tutta scarmigliata, voleva soccorrermi, fasciarmi col fazzoletto di
seta che portava sul seno, stracciato nella rissa.
- No, no, grazie, - le dissi, schermendomi con ribrezzo. - Basta Non è
nulla! Va', va' subito Non ti far vedere.
E mi recai alla fontanella, che è sotto la rampa del ponte lì vicino, per
bagnarmi la fronte. Ma, mentr'ero lì, ecco due guardie affannate, che vollero
sapere che cosa fosse accaduto. Subito, la donna, che era di Napoli, prese a
narrare il 'guajo che aveva passato' con me, profondendo le frasi più
affettuose e ammirative del suo repertorio dialettale al mio indirizzo. Ci
volle del bello e del buono, per liberarmi di quei due zelanti questurini, che
volevano assolutamente condurmi con loro, perché denunziassi il fatto. Bravo!
Non ci sarebbe mancato altro! Aver da fare con la questura, adesso! comparire
il giorno dopo nella cronaca dei giornali come un quasi eroe, io che me ne
dovevo star zitto, in ombra, ignorato da tutti
Eroe, ecco, eroe non potevo più essere davvero. Se non a patto di morirci Ma
se ero già morto!
- E vedovo lei, scusi,
signor Meis?
Questa domanda mi fu rivolta a bruciapelo, una sera, dalla signorina Caporale
nel terrazzino, dove ella si trovava con Adriana e dove mi avevano invitato a
passare un po' di tempo in loro compagnia.
Restai male, lì per lì; risposi:
- Io no; perché?
- Perché lei col pollice si stropiccia sempre l'anulare, come chi voglia far
girare un anello attorno al dito. Cosi E vero, Adriana?
Ma guarda un po' fin dove vanno a cacciarsi gli occhi delle donne, o meglio, di
certe donne, poiché Adriana dichiarò di non essersene mai accorta.
- Non ci avrai fatto attenzione! - esclamò la Caporale.
Dovetti riconoscere che, per quanto neanche io vi avessi fatto mai attenzione,
poteva darsi che avessi quel vezzo.
- Ho tenuto difatti, - mi vidi costretto ad aggiungere, - per molto tempo, qui,
un anellino, che poi ho dovuto far tagliare da un orefice, perché mi serrava
troppo il dito e mi faceva male.
- Povero anellino! - gemette allora, storcignandosi, la quarantenne, in vena
quella sera di lezii infantili. - Tanto stretto le stava? Non voleva uscirle
più dal dito? Sarà stato forse il ricordo d'un
- Silvia! - la interruppe la piccola Adriana, in tono di rimprovero.
- Che male c'è? - riprese quella. - Volevo dire d'un primo amore Sù, ci dica
qualche cosa, signor Meis. Possibile, che lei non debba parlar mai?
- Ecco, - dissi io, - pensavo alla conseguenza che lei ha tratto dal mio vezzo
di stropicciarmi il dito. Conseguenza arbitraria, cara signorina. Perché i
vedovi, ch'io mi sappia, non sogliono levarsi l'anellino di fede. Pesa, se mai,
la moglie, non l'anellino, quando la moglie non c'è più. Anzi, come ai veterani
piace fregiarsi delle loro medaglie, così al vedovo, credo, portar l'anellino.
- Eh sì! - esclamò la Caporale. - Lei storna abilmente il discorso.
- Come! Se voglio anzi approfondirlo!
- Che approfondire! Non approfondisco mai nulla, io. Ho avuto questa
impressione, e basta.
- Che fossi vedovo?
- Sissignore. Non pare anche a te, Adriana, che ne abbia l'aria, il signor
Meis?
Adriana si provò ad alzar gli occhi su me, ma li riabbassò subito, non sapendo
- timida com'era - sostenere lo sguardo altrui; sorrise lievemente del suo
solito sorriso dolce e mesto, e disse:
- Che vuoi che sappia io dell'aria dei vedovi? Sei curiosa!
Un pensiero, un'immagine
dovette balenarle in quel punto alla mente; si turbò, e si volse a guardare il
fiume sottostante. Certo quell'altra comprese, perché sospirò e si volse anche
lei a guardare il fiume.
Un quarto, invisibile, era venuto evidentemente a cacciarsi tra noi. Compresi
alla fine anch'io, guardando la veste da camera di mezzo lutto di Adriana, e
argomentai che Terenzio Papiano, il cognato che si trovava ancora a Napoli, non
doveva aver l'aria del vedovo compunto, e che, per conseguenza, quest'aria,
secondo la signorina Caporale, la avevo io.
Confesso che provai gusto che quella conversazione finisse così male. Il dolore
cagionato ad Adriana col ricordo della sorella morta e di Papiano vedovo, era
infatti per la Caporale il castigo della sua indiscrezione.
Se non che, volendo esser giusti, questa che pareva a me indiscrezione, non era
in fondo naturale curiosità scusabilissima, in quanto che per forza doveva
nascere da quella specie di silenzio strano che era attorno alla mia persona? E
giacché la solitudine mi riusciva ormai insopportabile e non sapevo resistere
alla tentazione d'accostarmi a gli altri, bisognava pure che alle domande di
questi altri, i quali avevano bene il diritto di sapere con chi avessero da
fare, io soddisfacessi, rassegnato, nel miglior modo possibile, cioè mentendo,
inventando: non c'era via di mezzo! La colpa non era degli altri, era mia;
adesso l'avrei aggravata, è vero, con la menzogna; ma se non volevo, se ci soffrivo,
dovevo andar via, riprendere il mio vagabondaggio chiuso e solitario.
Notavo che Adriana stessa, la quale non mi rivolgeva mai alcuna domanda men che
discreta, stava pure tutta orecchi ad ascoltare ciò che rispondevo a quelle
della Caporale, che, per dir la verità, andavano spesso un po' troppo oltre i
limiti della curiosità naturale e scusabile.
Una sera, per esempio, lì nel terrazzino, ove ora solitamente ci riunivamo
quand'io tornavo da cena, mi domandò, ridendo e schermendosi da Adriana che le gridava
eccitatissima: - No, Silvia, te lo proibisco! Non t'arrischiare! - mi domandò:
- Scusi, signor Meis, Adriana vuol sapere perché lei non si fa crescere almeno
i baffi
- Non è vero! - gridò Adriana. - Non ci creda, signor Meis! E stata lei, invece
Io
Scoppiò in lagrime, improvvisamente, la cara mammina. Subito la Caporale cercò
di confortarla, dicendole:
- Ma no, via! che c'entra! che c'è di male?
Adriana la respinse con un gomito:
- C'è di male che tu hai mentito, e mi fai rabbia! Parlavamo degli attori di
teatro che sono tutti così, e allora tu hai detto: 'Come il signor
Meis! Chi sa perché non si fa crescere almeno i baffi?', e io ho
ripetuto: 'Già, chi sa perché'.
- Ebbene, - riprese la Caporale, - chi dice 'Chi sa perché',
vuol dire che vuol saperlo!
- Ma l'hai detto prima tu! - protestò Adriana, al colmo della stizza.
- Posso rispondere? - domandai io per rimetter la calma.
- No, scusi, signor Meis: buona sera! - disse Adriana, e si alzò per andar via
Ma la Caporale la trattenne per un braccio:
- Eh via, come sei sciocchina! Si fa per ridere Il signor Adriano è tanto
buono, che ci compatisce. Non è vero, signor Adriano? Glielo dica lei per
che non si fa crescere almeno i baffi.
Questa volta Adriana rise, con gli occhi ancora lagrimosi.
- Perché c'è sotto un mistero, - risposi io allora alterando burlescamente la
voce. - Sono congiurato!
- Non ci crediamo! - esclamò la Caporale con lo stesso tono; ma poi soggiunse:
- Però, senta: che è un sornione non si può mettere in dubbio. Che cosa è
andato a fare, per esempio, oggi dopopranzo alla Posta?
- Io alla Posta?
- Sissignore. Lo nega? L'ho visto con gli occhi miei. Verso le quattro
Passavo per piazza San Silvestro
- Si sarà ingannata, signorina: non ero io.
- Già, già, - fece la Caporale, incredula. - Corrispondenza segreta Perché,
è vero, Adriana?, non riceve mai lettere in casa questo signore. Me l'ha detto
la donna di servizio, badiamo!
Adriana s'agitò, seccata, su la seggiola.
- Non le dia retta, - mi disse, rivolgendomi un rapido sguardo dolente e quasi
carezzevole.
- Né in casa, né ferme in posta! - risposi io. - E vero purtroppo! Nessuno mi
scrive, signorina, per la semplice ragione che non ho più nessuno che mi possa
scrivere.
- Nemmeno un amico? Possibile? Nessuno?
- Nessuno. Siamo io e l'ombra mia, su la terra. Me la son portata a spasso,
quest'ombra, di qua e di là continuamente, e non mi son mai fermato tanto,
finora, in un luogo, da potervi contrarre un'amicizia duratura.
- Beato lei, - esclamò la Caporale, sospirando, - che ha potuto viaggiare tutta
la vita! Ci parli almeno de' suoi viaggi, via, se non vuol parlarci d'altro.
A poco a poco, superati gli scogli delle prime domande imbarazzanti,
scansandone alcuni coi remi della menzogna, che mi servivan da leva e da
puntello, aggrappandomi, quasi con tutte e due le mani, a quelli che mi
stringevano più da presso, per girarli pian piano, prudentemente, la barchetta
della mia finzione poté alla fine filare al largo e issar la vela della
fantasia.
E ora io, dopo un anno e più di forzato silenzio, provavo un gran piacere a
parlare, a parlare, ogni sera, lì nel terrazzino, di quel che avevo veduto,
delle osservazioni fatte, degli incidenti che mi erano occorsi qua e là.
Meravigliavo io stesso d'avere accolto, viaggiando, tante impressioni, che il
silenzio aveva quasi sepolte in me, e che ora, parlando, risuscitavano, mi
balzavan vive dalle labbra. Quest'intima meraviglia coloriva straordinariamente
la mia narrazione; dal piacere poi che le due donne, ascoltando, dimostravano
di provarne, mi nasceva a mano a mano il rimpianto d'un bene che non avevo
allora realmente goduto; e anche di questo rimpianto s'insaporava ora la mia
narrazione.
Dopo alcune sere, l'atteggiamento, il tratto della signorina Caporale erano
radicalmente mutati a mio riguardo. Gli occhi dolenti le si appesantirono d'un
languore così intenso, che richiamavan più che mai l'immagine del contrappeso
di piombo interno, e più che mai buffo apparve il contrasto fra essi e la
faccia da maschera carnevalesca. Non c'era dubbio: s'era innamorata di me la
signorina Caporale!
Dalla sorpresa ridicolissima che ne provai, m'accorsi intanto che io, in tutte
quelle sere, non avevo parlato affatto per lei, ma per quell'altra che se n'era
stata sempre taciturna ad ascoltare. Evidentemente però quest'altra aveva anche
sentito ch'io parlavo per lei sola, giacché subito tra noi si stabilì come una
tacita intesa di pigliarci a godere insieme il comico e impreveduto effetto de'
miei discorsi sulle sensibilissime corde sentimentali della quarantenne maestra
di pianoforte.
Ma, con questa scoperta,
nessun pensiero men che puro entrò in me per Adriana: quella sua candida bontà
soffusa di mestizia non poteva ispirarne; provavo però tanta letizia di quella
prima confidenza quale e quanta la delicata timidezza poteva consentirgliene.
Era un fuggevole sguardo, come il lampo d una grazia dolcissima; era un sorriso
di commiserazione per la ridicola lusinga di quella povera donna; era qualche
benevolo richiamo ch'ella mi accennava con gli occhi e con un lieve movimento
del capo, se io eccedevo un po', per il nostro spasso segreto, nel dar filo di
speranza all'aquilone di colei che or si librava nei cieli della beatitudine,
ora svariava per qualche mia stratta improvvisa e violenta.
- Lei non deve aver molto cuore, - mi disse una volta la Caporale, - se è vero
ciò che dice e che io non credo, d'esser passato finora incolume per la vita.
- Incolume? come?
- Sì, intendo senza contrarre passioni
- Ah, mai, signorina, mai!
- Non ci ha voluto dire, intanto, donde le fosse venuto quell'anellino che si
fece tagliare da un orefice perché le serrava troppo il dito
- E mi faceva male! Non gliel'ho detto? Ma si! Era un ricordo del nonno,
signorina.
- Bugia!
- Come vuol lei; ma guardi, io posso finanche dirle che il nonno m'aveva
regalato quell'anellino a Firenze, uscendo dalla Galleria degli Uffizi, e sa
perché? perché io, che avevo allora dodici anni, avevo scambiato un Perugino
per un Raffaello. Proprio così. In premio di questo sbaglio m'ebbi l'anellino,
comprato in una delle bacheche a Ponte Vecchio. Il nonno infatti riteneva
fermamente, non so per quali sue ragioni, che quel quadro del Perugino dovesse
invece essere attribuito a Raffaello. Ecco spiegato il mistero! Capirà che tra
la mano d'un giovinetto di dodici anni e questa manaccia mia, ci corre. Vede?
Ora son tutto così, come questa manaccia che non comporta anellini graziosi. Il
cuore forse ce l'avrei; ma io sono anche giusto, signorina; mi guardo allo
specchio, con questo bel pajo d'occhiali, che pure sono in parte pietosi, e mi
sento cader le braccia: 'Come puoi tu pretendere, mio caro Adriano,'
dico a me stesso, 'che qualche donna s'innamori di te?'.
- Oh che idee! - esclamò la Caporale. - Ma lei crede d'esser giusto, dicendo
così? È ingiustissimo, invece, verso noi donne. Perché la donna, caro signor
Meis, lo sappia, è più generosa dell'uomo, e non bada come questo alla bellezza
esteriore soltanto.
- Diciamo allora che la donna è anche più coraggiosa dell'uomo, signorina.
Perché riconosco che, oltre alla generosità, ci vorrebbe una buona dose di
coraggio per amar veramente un uomo come me.
- Ma vada via! Già lei prova gusto a dirsi e anche a farsi più brutto che non
sia.
- Questo è vero. E sa perché? Per non ispirare compassione a nessuno. Se
cercassi, veda, d'acconciarmi in qualche modo, farei dire: 'Guarda un po'
quel pover'uomo: si lusinga d'apparir meno brutto con quel pajo di
baffi!'. Invece, così, no. Sono brutto? E là: brutto bene, di cuore, senza
misericordia. Che ne dice?
La signorina Caporale trasse un profondo sospiro.
- Dico che ha torto, - poi rispose. - Se provasse invece a farsi crescere un
po' la barba, per esempio, s'accorgerebbe subito di non essere quel mostro che
lei dice.
- E quest'occhio qui? - le domandai.
- Oh Dio, poiché lei ne parla con tanta disinvoltura, - fece la Caporale, -
avrei voluto dirglielo da parecchi giorni: perché non s'assoggetta, scusi, a
una operazione ormai facilissima? Potrebbe, volendo, liberarsi in poco tempo
anche di questo lieve difetto.
- Vede, signorina? - conclusi io. - Sarà che la donna è più generosa dell'uomo;
ma le faccio notare che a poco a poco lei mi ha consigliato di combinarmi
un'altra faccia.
Perché avevo tanto insistito su questo discorso? Volevo proprio che la maestra
Caporale mi spiattellasse lì, in presenza d'Adriana, ch'ella mi avrebbe amato,
anzi mi amava, anche così, tutto raso, e con quell'occhio sbalestrato? No.
Avevo tanto parlato e avevo rivolto tutte quelle domande particolareggiate alla
Caporale, perché m'ero accorto del piacere forse incosciente che provava
Adriana alle risposte vittoriose che quella mi dava.
Compresi così, che, non ostante quel mio strambo aspetto, ella avrebbe
potuto amarmi. Non lo dissi neanche a me stesso; ma, da quella sera in poi,
mi sembrò più soffice il letto ch'io occupavo in quella casa, più gentili tutti
gli oggetti che mi circondavano, più lieve l'aria che respiravo, più azzurro il
cielo, più splendido il sole. Volli credere che questo mutamento dipendesse
ancora perché Mattia Pascal era finito lì, nel molino della Stìa, e
perché io, Adriano Meis, dopo avere errato un pezzo sperduto in quella nuova
libertà illimitata, avevo finalmente acquistato l'equilibrio, raggiunto
l'ideale che m'ero prefisso, di far di me un altr'uomo, per vivere un'altra vita,
che ora, ecco, sentivo, sentivo piena in me.
E il mio spirito ridiventò ilare, come nella prima giovinezza; perdette il
veleno dell'esperienza. Finanche il signor Anselmo Paleari non mi sembrò più
tanto nojoso: l'ombra, la nebbia, il fumo della sua filosofia erano svaniti al
sole di quella mia nuova gioja. Povero signor Anselmo! delle due cose, a cui si
doveva, secondo lui, pensare su la terra, egli non s'accorgeva che pensava
ormai a una sola: ma forse, via! aveva anche pensato a vivere a' suoi bei dì! Era
più degna di compassione la maestra Caporale, a cui neanche il vino riusciva a
dar l'allegria di quell'indimenticabile ubriaco di Via Borgo Nuovo: voleva
vivere, lei, poveretta, e stimava ingenerosi gli uomini che badano soltanto
alla bellezza esteriore. Dunque, intimamente, nell'anima, ci sentiva bella,
lei? Oh chi sa di quali e quanti sacrifizii sarebbe stata capace veramente, se
avesse trovato un uomo 'generoso'! Forse non avrebbe più bevuto
neppure un dito di vino.
'Se noi riconosciamo,' pensavo, 'che errare è dell'uomo, non è
crudeltà sovrumana la giustizia?'
E mi proposi di non esser più crudele verso la povera signorina Caporale. Me lo
proposi; ma, ahimè, fui crudele senza volerlo; e anzi tanto più, quanto meno
volli essere. La mia affabilità fu nuova esca al suo facile fuoco. E intanto
avveniva questo: che, alle mie parole, la povera donna impallidiva, mentre
Adriana arrossiva. Non sapevo bene ciò che dicessi, ma sentivo che ogni parola,
il suono, l'espressione di essa non spingeva mai tanto oltre il turbamento di
colei a cui veramente era diretta, da rompere la segreta armonia, che già - non
so come - s'era tra noi stabilita.
Le anime hanno un loro particolar modo d'intendersi, d'entrare in intimità,
fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel
commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali. Han
bisogni lor proprii e loro proprie aspirazioni le anime, di cui il corpo non si
dà per inteso, quando veda l'impossibilità di soddisfarli e di tradurle in
atto. E ogni qualvolta due che comunichino fra loro così, con le anime
soltanto, si trovano soli in qualche luogo, provano un turbamento angoscioso e
quasi una repulsione violenta d'ogni minimo contatto materiale, una sofferenza
che li allontana, e che cessa subito, non appena un terzo intervenga. Allora,
passata l'angoscia, le due anime sollevate si ricercano e tornano a sorridersi
da lontano.
Quante volte non ne feci l'esperienza con Adriana! Ma l'impaccio ch'ella
provava era allora per me effetto del natural ritegno e della timidezza della
sua indole, e il mio credevo derivasse dal rimorso che la finzione mi
cagionava, la finzione del mio essere, continua, a cui ero obbligato, di fronte
al candore e alla ingenuità di quella dolce e mite creatura.
La vedevo ormai con altri occhi. Ma non s'era ella veramente trasformata da un
mese in qua? Non s'accendevano ora d'una più viva luce interiore i suoi sguardi
fuggitivi? e i suoi sorrisi non accusavano ora men penoso lo sforzo che le
costava quel suo fare da savia mammina, il quale a me da prima era apparso come
un'ostentazione?
Sì, forse anch'ella istintivamente obbediva al bisogno mio stesso, al bisogno
di farsi l'illusione d'una nuova vita, senza voler sapere né quale né come. Un
desiderio vago, come un'aura dell'anima, aveva schiuso pian piano per lei, come
per me, una finestra nell'avvenire, donde un raggio dal tepore inebriante
veniva a noi, che non sapevamo intanto appressarci a quella finestra né per
richiuderla né per vedere che cosa ci fosse di là.
Risentiva gli effetti di questa nostra pura soavissima ebrezza la povera
signorina Caporale.
- Oh sa, signorina, - diss'io a questa una sera, - che quasi quasi ho deciso di
seguire il suo consiglio?
- Quale? - mi domandò ella.
- Di farmi operare da un oculista.
La Caporale batté le mani, tutta contenta.
- Ah! Benissimo! Il dottor Ambrosini! Chiami l'Ambrosini: è il più bravo: fece
l'operazione della cateratta alla povera mamma mia. Vedi? vedi, Adriana, che lo
specchio ha parlato? Che ti dicevo io?
Adriana sorrise, e sorrisi anch'io.
- Non lo specchio, signorina - dissi però. - S'è fatto sentire il bisogno. Da
un po' di tempo a questa parte, l'occhio mi fa male: non mi ha servito mai
bene; tuttavia non vorrei perderlo.
Non era vero: aveva ragione lei, la signorina Caporale: lo specchio, lo
specchio aveva parlato e mi aveva detto che se un'operazione relativamente
lieve poteva farmi sparire dal volto quello sconcio connotato così particolare
di Mattia Pascal, Adriano Meis avrebbe potuto anche fare a meno degli occhiali
azzurri, concedersi un pajo di baffi e accordarsi insomma, alla meglio,
corporalmente, con le proprie mutate condizioni di spirito.
Pochi giorni dopo, una scena
notturna, a cui assistetti, nascosto dietro la persiana d'una delle mie
finestre, venne a frastornarmi all'improvviso.
La scena si svolse nel terrazzino lì accanto, dove mi ero trattenuto fin verso
le dieci, in compagnia delle due donne. Ritiratomi in camera, m'ero messo a
leggere, distratto, uno dei libri prediletti del signor Anselmo, su la Rincarnazione.
Mi parve, a un certo punto, di sentir parlare nel terrazzino: tesi l'orecchio
per accertarmi se vi fosse Adriana. No. Due vi parlavan basso, concitatamente:
sentivo una voce maschile, che non era quella del Paleari. Ma di uomini in casa
non c'eravamo altri che lui e io. Incuriosito, m'appressai alla finestra per
guardar dalle spie della persiana. Nel bujo mi parve discernere la signorina
Caporale. Ma chi era quell'uomo con cui essa parlava? Che fosse arrivato da
Napoli, improvvisamente, Terenzio Papiano?
Da una parola proferita un po' più forte dalla Caporale compresi che parlavano
di me. M'accostai di più alla persiana e tesi maggiormente l'orecchio.
Quell'uomo si mostrava irritato delle notizie che certo la maestra di
pianoforte gli aveva dato di me; ed ecco, ora essa cercava d'attenuar
l'impressione che quelle notizie avevan prodotto nell'animo di colui.
- Ricco? - domandò egli, a un certo punto.
E la Caporale:
- Non so. Pare! Certo campa sul suo, senza far nulla
- Sempre per casa?
- Ma no! E poi domani lo vedrai
Disse proprio così: vedrai. Dunque gli dava del tu; dunque il Papiano
(non c'era più dubbio) era l'amante della signorina Caporale E come mai,
allora, in tutti quei giorni, s'era ella dimostrata così condiscendente con me?
La mia curiosità diventò più che mai viva; ma, quasi a farmelo apposta, quei
due si misero a parlare pianissimo. Non potendo più con gli orecchi, cercai
d'ajutarmi con gli occhi. Ed ecco, vidi che la Caporale posava una mano su la
spalla di Papiano. Questi, poco dopo, la respinse sgarbatamente.
- Ma come potevo io impedirlo? - disse quella, alzando un po' la voce con
intensa esasperazione. - Chi sono io? che rappresento io in questa casa?
- Chiamami Adriana! - le ordinò quegli allora, imperioso.
Sentendo proferire il nome di Adriana con quel tono, strinsi le pugna e sentii
frizzarmi il sangue per le vene.
- Dorme, - disse la Caporale.
E colui, fosco, minaccioso :
- Va' a svegliarla! subito!
Non so come mi trattenni dallo spalancar di furia la persiana.
Lo sforzo che feci per impormi quel freno, mi richiamò intanto in me stesso per
un momento. Le medesime parole, che aveva or ora proferite con tanta
esasperazione quella povera donna, mi vennero alle labbra: 'Chi sono io?
che rappresento io in questa casa?'.
Mi ritrassi dalla finestra. Subito però mi sovvenne la scusa che io ero pure in
ballo lì: parlavano di me, quei due, e quell'uomo voleva ancora parlarne con
Adriana: dovevo sapere, conoscere i sentimenti di colui a mio riguardo.
La facilità però con cui accolsi questa scusa per la indelicatezza che
commettevo spiando e origliando così nascosto, mi fece sentire, intravedere
ch'io ponevo innanzi il mio proprio interesse per impedirmi di assumer
coscienza di quello ben più vivo che un'altra mi destava in quel momento.
Tornai a guardare attraverso le stecche della persiana.
La Caporale non era più nel terrazzino. L'altro, rimasto solo, s'era messo a
guardare il fiume appoggiato con tutti e due i gomiti sul parapetto e la testa
tra le mani.
In preda a un'ansia smaniosa, attesi, curvo, stringendomi forte con le mani i
ginocchi, che Adriana si facesse al terrazzino. La lunga attesa non mi stancò
affatto, anzi mi sollevò man mano, mi procurò una viva e crescente
soddisfazione: supposi che Adriana, di là, non volesse arrendersi alla
prepotenza di quel villano. Forse la Caporale la pregava a mani giunte. Ed
ecco, intanto, colui, là nel terrazzino, si rodeva dal dispetto. Sperai, a un
certo punto, che la maestra venisse a dire che Adriana non aveva voluto
levarsi. Ma no: eccola!
Papiano le andò subito incontro.
- Lei vada a letto! - intimò alla signorina Caporale. - Mi lasci parlare con
mia cognata.
Quella ubbidì, e allora Papiano fece per chiudere le imposte tra la sala da
pranzo e il terrazzino.
- Nient'affatto! - disse Adriana, tendendo un braccio contro l'imposta.
- Ma io ho da parlarti! - inveì il cognato, con fosca maniera, sforzandosi di
parlar basso.
- Parla così! Che vuoi dirmi? - riprese Adriana. - Avresti potuto aspettare
fino a domani.
- No! ora! - ribatté quegli, afferrandole un braccio e attirandola a sé.
- Insomma! - gridò Adriana, svincolandosi fieramente.
Non mi potei più reggere: aprii la persiana.
- Oh! signor Meis! - chiamò ella subito. - Vuol venire un po' qua, se non le
dispiace?
- Eccomi, signorina! - m'affrettai a rispondere.
Il cuore mi balzò in petto dalla gioja, dalla riconoscenza: d'un salto, fui nel
corridojo: ma lì, presso l'uscio della mia camera, trovai quasi asserpolato su
un baule un giovane smilzo, biondissimo, dal volto lungo lungo, diafano, che
apriva a malapena un pajo d'occhi azzurri, languidi, attoniti: m'arrestai un
momento, sorpreso, a guardarlo; pensai che fosse il fratello di Papiano; corsi
al terrazzino.
- Le presento, signor Meis, - disse Adriana, - mio cognato Terenzio Papiano,
arrivato or ora da Napoli.
- Felicissimo! Fortunatissimo! - esclamò quegli, scoprendosi, strisciando una
riverenza, e stringendomi calorosamente la mano. - Mi dispiace ch'io sia stato
tutto questo tempo assente da Roma; ma son sicuro che la mia cognatina avrà saputo
provvedere a tutto, è vero? Se le mancasse qualche cosa, dica, dica tutto, sa!
Se le bisognasse, per esempio, una scrivania più ampia o qualche altro
oggetto, dica senza cerimonie A noi piace accontentare gli ospiti che ci
onorano.
- Grazie, grazie, - dissi io. - Non mi manca proprio nulla. Grazie.
- Ma dovere, che c'entra! E si avvalga pure di me, sa, in tutte le sue
opportunità, per quel poco che posso valere Adriana, figliuola mia, tu
dormivi: ritorna pure a letto, se vuoi
- Eh, tanto, - fece Adriana, sorridendo mestamente, - ora che mi son levata
E s'appressò al parapetto, a guardare il fiume.
Sentii ch'ella non voleva lasciarmi solo con colui. Di che temeva? Rimase lì,
assorta, mentre l'altro, col cappello ancora in mano, mi parlava di Napoli,
dove aveva dovuto trattenersi più tempo che non avesse preveduto, per copiare
un gran numero di documenti dell'archivio privato dell'eccellentissima duchessa
donna Teresa Ravaschieri Fieschi: Mamma Duchessa, come tutti la
chiamavano, Mamma Carità, com'egli avrebbe voluto chiamarla: documenti
di straordinario valore, che avrebbero recato nuova luce su la fine del regno
delle due Sicilie e segnatamente su la figura di Gaetano Filangieri, principe
di Satriano, che il marchese Giglio, don Ignazio Giglio d'Auletta, di cui egli,
Papiano, era segretario, intendeva illustrare in una biografia minuta e
sincera. Sincera almeno quanto la devozione e la fedeltà ai Borboni avrebbero
al signor marchese consentito.
Non la finì più. Godeva certo della propria loquela, dava alla voce, parlando,
inflessioni da provetto filodrammatico, e qua appoggiava una risatina e là un
gesto espressivo. Ero rimasto intronato, come un ceppo d'incudine, e approvavo
di tanto in tanto col capo e di tanto in tanto volgevo uno sguardo ad Adriana,
che se ne stava ancora a guardare il fiume.
- Eh, purtroppo! - baritoneggiò, a mo' di conclusione, Papiano. - Borbonico e
clericale, il marchese Giglio d'Auletta! E io, io che (devo guardarmi dal
dirlo sottovoce, anche qui, in casa mia) io che ogni mattina, prima d'andar
via, saluto con la mano la statua di Garibaldi sul Gianicolo (ha veduto? di qua
si scorge benissimo), io che griderei ogni momento: 'Viva il XX
settembre!', io debbo fargli da segretario! Degnissimo uomo, badiamo! ma
borbonico e clericale. Sissignore Pane! Le giuro che tante volte mi viene da
sputarci sopra, perdoni! Mi resta qua in gola, m'affoga Ma che posso farci?
Pane! pane!
Scrollò due volte le spalle, alzò le braccia e si percosse le anche.
- Sù, sù, Adrianuccia! - poi disse, accorrendo a lei e prendendole, lievemente,
con ambo le mani la vita : - A letto! E tardi. Il signore avrà sonno.
Innanzi all'uscio della mia camera Adriana mi strinse forte la mano, come
finora non aveva mai fatto. Rimasto solo, io tenni a lungo il pugno stretto,
come per serbar la pressione della mano di lei. Tutta quella notte rimasi a
pensare, dibattendomi tra continue smanie. La cerimoniosa ipocrisia, la
servilità insinuante e loquace, il malanimo di quell'uomo mi avrebbero
certamente reso intollerabile la permanenza in quella casa, su cui egli - non
c'era dubbio - voleva tiranneggiare, approfittando della dabbenaggine del
suocero. Chi sa a quali arti sarebbe ricorso! Già me n'aveva dato un saggio,
cangiando di punto in bianco, al mio apparire. Ma perché vedeva così di
malocchio ch'io alloggiassi in quella casa? perché non ero io per lui un
inquilino come un altro? Che gli aveva detto di me la Caporale? poteva egli sul
serio esser geloso di costei? o era geloso di un'altra? Quel suo fare arrogante
e sospettoso; l'aver cacciato via la Caporale per restar solo con Adriana, alla
quale aveva preso a parlare con tanta violenza; la ribellione di Adriana; il
non aver ella permesso ch'egli chiudesse le imposte; il turbamento ond'era
presa ogni qualvolta s'accennava al cognato assente, tutto, tutto ribadiva in
me il sospetto odioso ch'egli avesse qualche mira su lei.
Ebbene e perché me n'arrovellavo tanto? Non potevo alla fin fine andar via da
quella casa, se colui anche per poco m'infastidiva? Che mi tratteneva? Niente.
Ma con tenerissimo compiacimento ricordavo che ella dal terrazzino m'aveva
chiamato, come per esser protetta da me, e che infine m'aveva stretto forte
forte la mano
Avevo lasciato aperta la gelosia, aperti gli scuri. A un certo punto, la luna,
declinando, si mostrò nel vano della mia finestra, proprio come se volesse
spiarmi, sorprendermi ancora sveglio a letto, per dirmi:
'Ho capito, caro, ho capito! E tu, no? davvero?'
CAPITOLO XII (l'occhio e Papiano)
CAPITOLO XIII (il lanternino)
Quaranta giorni al bujo.
Riuscita, oh, riuscita benissimo l'operazione. Solo che l'occhio mi sarebbe
forse rimasto un pochino pochino più grosso dell'altro. Pazienza! E intanto,
sì, al bujo quaranta giorni, in camera mia.
Potei sperimentare che l'uomo, quando soffre, si fa una particolare idea del
bene e del male, e cioè del bene che gli altri dovrebbero fargli e a cui egli
pretende, come se dalle proprie sofferenze gli derivasse un diritto al
compenso; e del male che egli può fare a gli altri, come se parimenti dalle
proprie sofferenze vi fosse abilitato. E se gli altri non gli fanno il bene
quasi per dovere, egli li accusa e di tutto il male ch'egli fa quasi per
diritto, facilmente si scusa.
Dopo alcuni giorni di quella prigionia cieca, il desiderio, il bisogno d'esser
confortato in qualche modo crebbe fino all'esasperazione. Sapevo, si, di
trovarmi in una casa estranea; e che perciò dovevo anzi ringraziare i miei
ospiti delle cure delicatissime che avevano per me. Ma non mi bastavano più,
quelle cure; m'irritavano anzi, come se mi fossero usate per dispetto. Sicuro!
Perché indovinavo da chi mi venivano. Adriana mi dimostrava per mezzo di esse,
ch'ella era col pensiero quasi tutto il giorno Lì con me, in camera mia; e
grazie della consolazione! Che mi valeva, se io intanto, col mio, la inseguivo
di qua e di là per casa, tutto il giorno, smaniando? Lei sola poteva
confortarmi: doveva; lei che più degli altri era in grado d'intendere come e
quanto dovesse pesarmi la noja, rodermi il desiderio di vederla o di sentirmela
almeno vicina.
E la smania e la noja erano accresciute anche dalla rabbia che mi aveva
suscitato la notizia della subitanea partenza da Roma del Pantogada. Mi sarei
forse rintanato lì per quaranta giorni al bujo, se avessi saputo ch'egli doveva
andar via cosi presto?
Per consolarmi, il signor Anselmo Paleari mi volle dimostrare con un lungo
ragionamento che il bujo era immaginario.
- Immaginario? Questo? - gli gridai.
- Abbia pazienza mi spiego.
E mi svolse (fors'anche perché fossi preparato a gli esperimenti spiritici, che
si sarebbero fatti questa volta in camera mia, per procurarmi un divertimento)
mi svolse, dico, una sua concezione filosofica, speciosissima, che si potrebbe
forse chiamare lanterninosofia.
Di tratto in tratto, il brav'uomo s'interrompeva per domandarmi:
- Dorme, signor Meis?
E io ero tentato di rispondergli:
- Sì, grazie, dormo, signor Anselmo.
Ma poiché l'intenzione in fondo era buona, di tenermi cioè compagnia, gli
rispondevo che mi divertivo invece moltissimo e lo pregavo anzi di seguitare.
E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi
non siamo come l'albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole,
l'aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch'esso non sia: cose
amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo
privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne
risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno
sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna.
E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un
lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa
vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino
che projetta tutt'intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal
quale è l'ombra nera, l'ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non
fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto
ch'esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la
notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo
noi piuttosto alla mercé dell'Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme
della nostra ragione?
- Dorme, signor Meis?
- Segua, segua pure, signor Anselmo: non dormo. Mi par quasi di vederlo,
codesto suo lanternino.
- Ah, bene Ma poiché lei ha l'occhio offeso, non ci addentriamo troppo nella
filosofia, eh? e cerchiamo piuttosto d'inseguire per ispasso le lucciole
sperdute, che sarebbero i nostri lanternini, nel bujo della sorte umana. Io
direi innanzi tutto che son di tanti colori; che ne dice lei? secondo il vetro
che ci fornisce l'illusione, gran mercantessa, gran mercantessa di vetri
colorati. A me sembra però, signor Meis, che in certe età della storia, come in
certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio
d'un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini
un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono
i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io E non
le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana? Di color
violetto, color deprimente, quello della Virtù cristiana. Il lume d'una idea
comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si
scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma
dell'idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in
tutti i periodi che son detti di transizione. Non sono poi rare nella storia
certe fiere ventate che spengono d'un tratto tutti quei lanternoni. Che
piacere! Nell'improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle
singole lanternine: chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira;
nessuna più trova la via: si urtano, s'aggregano per un momento in dieci, in
venti; ma non possono mettersi d'accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran
confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la bocca
del formicajo, otturata per ispasso da un bambino crudele. Mi pare, signor
Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran bujo e gran
confusione! Tutti i lanternoni, spenti. A chi dobbiamo rivolgerci? Indietro,
forse? Alle lucernette superstiti, a quelle che i grandi morti lasciarono
accese su le loro tombe? Ricordo una bella poesia di Niccolò Tommaseo:
La piccola mia lampa |
Ma come, signor Meis, se
alla lampa nostra manca l'olio sacro che alimentava quella del Poeta? Molti
ancora vanno nelle chiese per provvedere dell'alimento necessario le loro
lanternucce. Sono, per lo più, poveri vecchi, povere donne, a cui mentì la
vita, e che vanno innanzi, nel bujo dell'esistenza, con quel loro sentimento
acceso come una lampadina votiva, cui con trepida cura riparano dal gelido
soffio degli ultimi disinganni, ché duri almeno accesa fin là, fino all'orlo
fatale, al quale s'affrettano, tenendo gli occhi intenti alla fiamma e pensando
di continuo: 'Dio mi vede!' per non udire i clamori della vita
intorno, che suonano ai loro orecchi come tante bestemmie. 'Dio mi
vede' perché lo vedono loro, non solamente in sé, ma in tutto, anche
nella loro miseria, nelle loro sofferenze, che avranno un premio, alla fine. Il
fioco, ma placido lume di queste lanternucce desta certo invidia angosciosa in
molti di noi; a certi altri, invece, che si credono armati, come tanti Giove,
del fulmine domato dalla scienza, e, in luogo di quelle lanternucce, recano in
trionfo le lampadine elettriche, ispira una sdegnosa commiserazione. Ma domando
io ora, signor Meis: E se tutto questo bujo, quest'enorme mistero, nel quale
indarno i filosofi dapprima specularono, e che ora, pur rinunziando
all'indagine di esso, la scienza non esclude, non fosse in fondo che un inganno
come un altro, un inganno della nostra mente, una fantasia che non si colora?
Se noi finalmente ci persuadessimo che tutto questo mistero non esiste fuori di
noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del
sentimento che noi abbiamo della vita, del lanternino cioè, di cui le ho finora
parlato? Se la morte, insomma, che ci fa tanta paura, non esistesse e fosse
soltanto, non l'estinzione della vita, ma il soffio che spegne in noi questo
lanternino, lo sciagurato sentimento che noi abbiamo di essa, penoso, pauroso,
perché limitato, definito da questo cerchio d'ombra fittizia, oltre il breve
àmbito dello scarso lume, che noi, povere lucciole sperdute, ci projettiamo
attorno, e in cui la vita nostra rimane come imprigionata, come esclusa per
alcun tempo dalla vita universale, eterna, nella quale ci sembra che dovremo un
giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre vi rimarremo, ma senza più
questo sentimento d'esilio che ci angoscia? Il limite è illusorio, è relativo
al poco lume nostro, della nostra individualità: nella realtà della natura non
esiste. Noi, - non so se questo possa farle piacere - noi abbiamo sempre
vissuto e sempre vivremo con l'universo; anche ora, in questa forma nostra,
partecipiamo a tutte le manifestazioni dell'universo, ma non lo sappiamo, non
lo vediamo, perché purtroppo questo maledetto lumicino piagnucoloso ci fa
vedere soltanto quel poco a cui esso arriva; e ce lo facesse vedere almeno
com'esso è in realtà! Ma nossignore: ce lo colora a modo suo, e ci fa vedere
certe cose, che noi dobbiamo veramente lamentare, perbacco, che forse in
un'altra forma d'esistenza non avremo più una bocca per poterne fare le matte
risate. Risate, signor Meis, di tutte le vane, stupide afflizioni che esso ci
ha procurate, di tutte le ombre, di tutti i fantasmi ambiziosi e strani che ci
fece sorgere innanzi e intorno, della paura che c'ispirò!
Oh perché dunque il signor Anselmo Paleari, pur dicendo, e con ragione, tanto
male del lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso, ne voleva accendere
ora un altro col vetro rosso, là in camera mia, pe' suoi esperimenti spiritici?
Non era già di troppo quell'uno?
Volli domandarglielo.
- Correttivo! - mi rispose. - Un lanternino contro l'altro! Del resto a un
certo punto questo si spegne, sa!
- E le sembra che sia il miglior mezzo, codesto, per vedere qualche cosa? -
m'arrischiai a osservare.
- Ma la così detta luce, scusi, - ribatté pronto il signor Anselmo, - può
servire per farci vedere ingannevolmente qua, nella così detta vita; per farci
vedere di là da questa, non serve affatto, creda, anzi nuoce. Sono stupide
pretensioni di certi scienziati di cuor meschino e di più meschino intelletto,
i quali vogliono credere per loro comodità che con questi esperimenti si faccia
oltraggio alla scienza o alla natura. Ma nossignore! Noi vogliamo scoprire
altre leggi, altre forse, altra vita nella natura, sempre nella natura,
perbacco! oltre la scarsissima esperienza normale; noi vogliamo sforzare
l'angusta comprensione, che i nostri sensi limitati ce ne dànno abitualmente. Ora,
scusi, non pretendono gli scienziati per i primi ambiente e condizioni adatti
per la buona riuscita dei loro esperimenti? Si può fare a meno della camera
oscura nella fotografia? E dunque? Ci sono poi tanti mezzi di controllo!
Il signor Anselmo però, come potei vedere poche sere dopo, non ne usava alcuno.
Ma erano esperimenti in famiglia! Poteva mai sospettare che la signorina
Caporale e Papiano si prendessero il gusto d'ingannarlo? e perché, poi? che
gusto? Egli era più che convinto e non aveva affatto bisogno di quegli
esperimenti per rafforzar la sua fede. Come uomo dabbenissimo che era, non
arrivava a supporre che potessero ingannarlo per altro fine. Quanto alla
meschinità affliggente e puerile dei resultati, la teosofia s'incaricava di
dargliene una spiegazione plausibilissima. Gli esseri superiori del Piano
Mentale, o di più sù, non potevano discendere a comunicare con noi per
mezzo di un medium bisognava dunque contentarsi delle manifestazioni
grossolane di anime di trapassati inferiori, del Piano Astrale, cioè del
più prossimo al nostro: ecco.
E chi poteva dirgli di no?
Io sapevo che Adriana s'era
sempre ricusata d'assistere a questi esperimenti. Dacché me ne stavo tappato in
camera, al bujo, ella non era entrata se non raramente, e non mai sola, a
domandarmi come stessi. Ogni volta quella domanda pareva ed era infatti rivolta
per pura convenienza. Lo sapeva, lo sapeva bene come stavo! Mi pareva finanche
di sentire un certo sapor d'ironia birichina nella voce di lei, perché già ella
ignorava per qual ragione mi fossi così d'un tratto risoluto ad assoggettarmi
all'operazione, e doveva perciò ritenere ch'io soffrissi per vanità, per farmi
cioè più bello o meno brutto, con l'occhio accomodato secondo il consiglio
della Caporale.
- Sto benone, signorina! - le rispondevo. - Non vedo niente
- Eh, ma vedrà, vedrà meglio poi, - diceva allora Papiano.
Approfittandomi del bujo, alzavo un pugno, come per scaraventarglielo in faccia.
Ma lo faceva apposta certamente, perch'io perdessi quel po' di pazienza che mi
restava ancora. Non era possibile ch'egli non s'accorgesse del fastidio che mi
recava: glielo dimostravo in tutti i modi, sbadigliando, sbuffando; eppure,
eccolo là: seguitava a entrare in camera mia quasi ogni sera (ah lui, sì) e vi
si tratteneva per ore intere, chiacchierando senza fine. In quel bujo, la sua
voce mi toglieva quasi il respiro, mi faceva torcere su la sedia, come su un
aculeo, artigliar le dita: avrei voluto strozzarlo in certi momenti. Lo
indovinava? lo sentiva? Proprio in quei momenti, ecco, la sua voce diventava
più molle, quasi carezzevole.
Noi abbiamo bisogno d'incolpar sempre qualcuno dei nostri danni e delle nostre
sciagure. Papiano, in fondo, faceva tutto per spingermi ad andar via da quella
casa; e di questo, se la voce della ragione avesse potuto parlare in me, in
quei giorni, io avrei dovuto ringraziarlo con tutto il cuore. Ma come potevo
ascoltarla, questa benedetta voce della ragione, se essa mi parlava appunto per
la bocca di lui, di Papiano, il quale per me aveva torto, torto evidente, torto
sfacciato? Non voleva egli mandarmi via, infatti, per frodare il Paleari e
rovinare Adriana? Questo soltanto io potevo allora comprendere da tutti que' suoi
discorsi. Oh possibile che la voce della ragione dovesse proprio scegliere la
bocca di Papiano per farsi udire da me? Ma forse ero io che, per trovarmi una
scusa, la mettevo in bocca a lui, perché mi paresse ingiusta, io che mi sentivo
già preso nei lacci della vita e smaniavo, non per il bujo propriamente, né per
il fastidio che Papiano, parlando, mi cagionava.
Di che mi parlava? Di Pepita Pantogada, sera per sera.
Benché io vivessi modestissimamente, s'era fitto in capo che fossi molto ricco.
E ora, per deviare il mio pensiero da Adriana, forse vagheggiava l'idea di
farmi innamorare di quella nipote del marchese Giglio d'Auletta, e me la
descriveva come una fanciulla saggia e fiera, piena d'ingegno e di volontà,
recisa nei modi, franca e vivace; bella, poi; uh, tanto bella! bruna, esile e
formosa a un tempo; tutta fuoco, con un pajo d'occhi fulminanti e una bocca che
strappava i baci. Non diceva nulla della dote: - Vistosissima! - tutta la
sostanza del marchese d'Auletta, nientemeno. Il quale, senza dubbio, sarebbe
stato felicissimo di darle presto marito, non solo per liberarsi del Pantogada
che lo vessava, ma anche perché non andavano tanto d'accordo nonno e nipote: il
marchese era debole di carattere, tutto chiuso in quel suo mondo morto; Pepita
invece, forte, vibrante di vita.
Non comprendeva che più egli elogiava questa Pepita, più cresceva in me
l'antipatia per lei, prima ancora di conoscerla? La avrei conosciuta - diceva -
fra qualche sera, perché egli la avrebbe indotta a intervenire alle prossime sedute
spiritiche. Anche il marchese Giglio d'Auletta avrei conosciuto, che lo
desiderava tanto per tutto ciò che egli, Papiano, gli aveva detto di me. Ma il
marchese non usciva più di casa, e poi non avrebbe mai preso parte a una seduta
spiritica, per le sue idee religiose.
- E come? - domandai. - Lui, no; e intanto permette che vi prenda parte la
nipote?
- Ma perché sa in quali mani l'affida! - esclamò alteramente Papiano.
Non volli saper altro. Perché Adriana si ricusava d'assistere a quegli
esperimenti? Pe' suoi scrupoli religiosi. Ora, se la nipote del marchese Giglio
avrebbe preso parte a quelle sedute, col consenso del nonno clericale, non
avrebbe potuto anch'ella parteciparvi? Forte di questo argomento, io cercai di
persuaderla, la vigilia della prima seduta.
Era entrata in camera mia col padre, il quale udita la mia proposta:
- Ma siamo sempre lì, signor Meis! - sospirò. - La religione, di fronte a
questo problema, drizza orecchie d'asino e adombra, come la scienza. Eppure i
nostri esperimenti, l'ho già detto e spiegato tante volte a mia figlia, non
sono affatto contrarii né all'una né all'altra. Anzi, per la religione
segnatamente sono una prova delle verità che essa sostiene.
- E se io avessi paura? - obbiettò Adriana.
- Di che? - ribatté il padre. - Della prova?
- O del bujo? - aggiunsi io. - Siamo tutti qua, con lei, signorina! Vorrà
mancare lei sola?
- Ma io - rispose, impacciata, Adriana, - io non ci credo, ecco non posso
crederci, e che so!
Non poté aggiunger altro. Dal tono della voce, dall'imbarazzo, io però compresi
che non soltanto la religione vietava ad Adriana d'assistere a quegli
esperimenti. La paura messa avanti da lei per iscusa poteva avere altre cause,
che il signor Anselmo non sospettava. O le doleva forse d'assistere allo spettacolo
miserevole del padre puerilmente ingannato da Papiano e dalla signorina
Caporale?
Non ebbi animo d'insistere più oltre.
Ma ella, come se mi avesse letto in cuore il dispiacere che il suo rifiuto mi
cagionava, si lasciò sfuggire nel bujo un: - Del resto - ch'io colsi
subito a volo:
- Ah brava! L'avremo dunque con noi?
- Per domani sera soltanto, - concesse ella, sorridendo.
Il giorno appresso, sul tardi, Papiano venne a preparare la camera:
v'introdusse un tavolino rettangolare, d'abete, senza cassetto, senza vernice,
dozzinale; sgombrò un angolo della stanza; vi appese a una funicella un
lenzuolo; poi recò una chitarra, un collaretto da cane con molti sonaglioli, e
altri oggetti. Questi preparativi furono fatti al lume del famoso lanternino dal
vetro rosso. Preparando, non smise - s'intende! - un solo istante di parlare.
- Il lenzuolo serve, sa! serve non saprei, da da accumulatore, diciamo,
di questa forza misteriosa: lei lo vedrà agitarsi, signor Meis, gonfiarsi come
una vela, rischiararsi a volte d'un lume strano, quasi direi siderale.
Sissignore! Non siamo ancora riusciti a ottenere 'materializzazioni',
ma luci sì: ne vedrà, se la signorina Silvia questa sera si troverà in buone
disposizioni. Comunica con lo spirito di Un suo antico compagno d'Accademia,
morto, Dio ne scampi, di tisi, a diciott'anni. Era di non so, di Basilea, mi
pare: ma stabilito a Roma da un pezzo, con la famiglia. Un genio, sa, per la
musica: reciso dalla morte crudele prima che avesse potuto dare i suoi frutti. Così
almeno dice la signorina Caporale. Anche prima che ella sapesse d'aver questa
facoltà medianica, comunicava con lo spirito di Max. Sissignore: si chiamava
così, Max aspetti, Max Oliz, se non sbaglio. Sissignore! Invasata da questo
spirito, improvvisava sul pianoforte, fino a cader per terra, svenuta, in certi
momenti. Una sera si raccolse perfino gente, giù in istrada, che poi la
applaudì
- E la signorina Caporale ne ebbe quasi paura, - aggiunsi io, placidamente.
- Ah, lo sa? - fece Papiano, restando.
- Me l'ha detto lei stessa. Sicché dunque applaudirono la musica di Max sonata
con le mani della signorina Caporale?
- Già, già! Peccato che non abbiamo in casa un pianoforte. Dobbiamo contentarci
di qualche motivetto, di qualche spunto, accennato su la chitarra. Max
s'arrabbia, sa! fino a strappar le corde, certe volte Ma sentirà stasera. Mi
pare che sia tutto in ordine, ormai.
- E dica un po', signor Terenzio. Per curiosità, - volli domandargli, prima che
andasse via, - lei ci crede? ci crede proprio?
- Ecco, - mi rispose subito, come se avesse preveduto la domanda. - Per dire la
verità, non riesco a vederci chiaro.
- Eh sfido!
- Ah, ma non perché gli esperimenti si facciano al bujo, badiamo! I fenomeni,
le manifestazioni sono reali, non c'è che dire: innegabili. Noi non possiamo
mica diffidare di noi stessi
- E perché no? Anzi!
- Come? Non capisco!
- C'inganniamo così facilmente! Massime quando ci piaccia di credere in qualche
cosa
- Ma a me, no, sa: non piace! - protestò Papiano. - Mio suocero, che è molto
addentro in questi studii, ci crede. Io, fra l'altro, veda, non ho neanche il
tempo di pensarci se pure ne avessi voglia. Ho tanto da fare, tanto, con
quei maledetti Borboni del marchese che mi tengono lì a chiodo! Perdo qui
qualche serata. Dal canto mio, son d'avviso, che noi, finché per grazia di Dio
siamo vivi, non potremo saper nulla della morte; e dunque, non le pare inutile
pensarci? Ingegnamoci di vivere alla meglio, piuttosto, santo Dio! Ecco come io
la penso, signor Meis. A rivederla, eh? Ora scappo a prendere in via dei
Pontefici la signorina Pantogada.
Ritornò dopo circa mezz'ora, molto contrariato: insieme con la Pantogada e la
governante era venuto un certo pittore spagnuolo, che mi fu presentato a denti
stretti come amico di casa Giglio. Si chiamava Manuel Bernaldez e parlava
correttamente l'italiano; non ci fu verso però di fargli pronunciare l'esse del
mio cognome: pareva che ogni volta, nell'atto di proferirla, avesse paura che
la lingua gliene restasse ferita.
- Adriano Mei, - diceva, come se tutt'a un tratto fossimo diventati
amiconi.
- Adriano Tui, - mi veniva quasi di rispondergli.
Entrarono le donne: Pepita, la governante, la signorina Caporale, Adriana.
- Anche tu? Che novità? - le disse Papiano con mal garbo.
Non se l'aspettava quest'altro tiro. Io intanto, dal modo con cui era stato
accolto il Bernaldez, avevo capito che il marchese Giglio non doveva saper
nulla dell'intervento di lui alla seduta, e che doveva esserci sotto qualche
intrighetto con la Pepita.
Ma il gran Terenzio non rinunziò al suo disegno. Disponendo intorno al tavolino
la catena medianica, si fece sedere accanto Adriana e pose accanto a me la
Pantogada.
Non ero contento? No. E Pepita neppure. Parlando tal quale come il padre, ella
si ribellò subito:
- Gracie tanto, así no puede ser! Ió voglio estar entre el segnor Paleari e
la mia gobernante, caro segnor Terencio!
La semioscurità rossastra permetteva appena di discernere i contorni; cosicché
non potei vedere fino a qual punto rispondesse al vero il ritratto che della
signorina Pantogada m'aveva abbozzato Papiano; il tratto però, la voce e quella
sùbita ribellione s'accordavano perfettamente all'idea che m'ero fatta di lei,
dopo quella descrizione.
Certo, rifiutando cosi sdegnosamente il posto che Papiano le aveva assegnato
accanto a me, la signorina Pantogada m'offendeva; ma io non solo non me n'ebbi
a male, ma anzi me ne rallegrai.
- Giustissimo! - esclamò Papiano. - E allora, si può far così: accanto al
signor Meis segga la signora Candida; poi prenda posto lei, signorina. Mio
suocero rimanga dov'è: e noi altri tre pure così, come stiamo. Va bene?
E no! non andava bene neanche così: né per me, né per la signorina Caporale, né
per Adriana e né - come si vide poco dopo - per la Pepita, la quale stette molto
meglio in una nuova catena disposta proprio dal genialissimo spirito di Max.
Per il momento, io mi vidi accanto quasi un fantasima di donna, con una specie
di collinetta in capo (era cappello? era cuffia? parrucca? che diavolo era?).
Di sotto quel carico enorme uscivan di tratto in tratto certi sospiri terminati
da un breve gemito. Nessuno aveva pensato a presentarmi a quella signora
Candida : ora, per far la catena, dovevamo tenerci per mano; e lei sospirava.
Non le pareva ben fatto, ecco. Dio, che mano fredda!
Con l'altra mano tenevo la sinistra della signorina Caporale seduta a capo del
tavolino, con le spalle contro il lenzuolo appeso all'angolo; Papiano le teneva
la destra. Accanto ad Adriana, dall'altra parte, sedeva il pittore; il signor
Anselmo stava all'altro capo del tavolino, dirimpetto alla Caporale.
Papiano disse:
- Bisognerebbe spiegare innanzi tutto al signor Meis e alla signorina Pantogada
il linguaggio come si chiama?
- Tiptologico, - suggerì il signor Anselmo.
- Prego, anche a me, - si rinzelò la signora Candida, agitandosi su la
seggiola.
- Giustissimo! Anche alla signora Candida, si sa!
- Ecco, - prese a spiegare il signor Anselmo. - Due colpi vogliono dir sì
- Colpi? - interruppe Pepita. - Che colpi?
- Colpi, - rispose Papiano, - o battuti sul tavolino o su le seggiole o altrove
o anche fatti percepire per via di toccamenti.
- Ah no-no-no-no-nó!! - esclamò allora quella a precipizio, balzando in
piedi. - Ió non ne amo, tocamenti. De chi?
- Ma dello spirito di Max, signorina, - le spiegò Papiano. - Gliel'ho
accennato, venendo: non fanno mica male, si rassicuri.
- Tittologichi, - aggiunse con aria di commiserazione, da donna
superiore, la signora Candida.
- E dunque, - riprese il signor Anselmo, - due colpi, sì; tre colpi, no;
quattro, bujo cinque, parlate; sei, luce. Basterà così. E
ora concentriamoci, signori miei.
Si fece silenzio. Ci concentrammo.
CAPITOLO XIV (le prodezze di Max)
Apprensione? No. Neanche per
ombra. Ma una viva curiosità mi teneva e anche un certo timore che Papiano
stésse per fare una pessima figura. Avrei dovuto goderne; e, invece, no. Chi
non prova pena, o piuttosto, un frigido avvilimento nell'assistere a una
commedia mal rappresentata da comici inesperti?
'Tra due sta,' pensavo: 'o egli è molto abile, o l'ostinazione
di tenersi accanto Adriana non gli fa veder bene dove si mette, lasciando il
Bernaldez e Pepita, me e Adriana disillusi e perciò in grado d'accorgerci senza
alcun gusto, senz'alcun compenso, della sua frode. Meglio di tutti se
n'accorgerà Adriana che gli sta più vicina; ma lei già sospetta la frode e vi è
preparata. Non potendo starmi accanto, forse in questo momento ella domanda a
se stessa perché rimanga lì ad assistere a una farsa per lei non solamente
insulsa, ma anche indegna e sacrilega. E Ia stessa domanda certo, dal canto
loro, si rivolgono il Bernaldez e Pepita. Come mai Papiano non se ne rende
conto, or che s'è visto fallire il colpo d'allogarmi accanto la Pantogada? Si
fida dunque tanto della propria abilità? Stiamo a vedere.'
Facendo queste riflessioni, io non pensavo affatto alla signorina Caporale. A
un tratto, questa si mise a parlare, come in un leggero dormiveglia.
- La catena, - disse, - la catena va mutata
- Abbiamo già Max? - domandò premurosamente quel buon uomo del signor Anselmo.
La risposta della Caporale si fece attendere un bel po'.
- Sì, - poi disse penosamente, quasi con affanno. - Ma siamo in troppi, questa
sera
- È vero sì! - scattò Papiano. - Mi sembra però, che così stiamo benone.
- Zitto! - ammonì il Paleari. - Sentiamo che dice Max.
- La catena, - riprese la Caporale, - non gli par bene equilibrata. Qua, da
questo lato (e sollevò la mia mano), ci sono due donne accanto. Il signor
Anselmo farebbe bene a prendere il posto della signorina Pantogada, e
viceversa.
- Subito! - esclamò il signor Anselmo, alzandosi. - Ecco, signorina, segga qua!
E Pepita, questa volta, non si ribellò. Era accanto al pittore.
- Poi, - soggiunse la Caporale, - la signora Candida
Papiano la interruppe:
- Al posto d'Adriana, è vero? Ci avevo pensato. Va benone!
Io strinsi forte, forte, forte, la mano di Adriana fino a farle male, appena
ella venne a prender posto accanto a me. Contemporaneamente la signorina
Caporale mi stringeva l'altra mano, come per domandarmi: 'È contento
così?'. 'Ma sì, contentone!' le risposi io con
un'altra stretta, che significava anche: 'E ora fate pure, fate pure quel
che vi piace !'.
- Silenzio ! - intimò a questo punto il signor Anselmo.
E chi aveva fiatato? Chi? Il tavolino! Quattro colpi: - Bujo!
Giuro di non averli sentiti.
Se non che, appena spento il lanternino, avvenne tal cosa che scompigliò d'un
tratto tutte le mie supposizioni. La signorina Caporale cacciò uno strillo
acutissimo, che ci fece sobbalzar tutti quanti dalle seggiole.
- Luce! luce!
Che era avvenuto?
Un pugno! La signorina Caporale aveva ricevuto un pugno su la bocca,
formidabile: le sanguinavano le gengive.
Pepita e la signora Candida scattarono in piedi, spaventate. Anche Papiano
s'alzò per riaccendere il lanternino. Subito Adriana ritrasse dalla mia mano la
sua. Il Bernaldez col faccione rosso, perché teneva tra le dita un fiammifero,
sorrideva, tra sorpreso e incredulo, mentre il signor Anselmo, costernatissimo,
badava a ripetere:
- Un pugno! E come si spiega?
Me lo domandavo anch'io, turbato. Un pugno? Dunque quel cambiamento di posti
non era concertato avanti tra i due. Un pugno? Dunque la signorina Caporale
s'era ribellata a Papiano. E ora?
Ora, scostando la seggiola e premendosi un fazzoletto su la bocca, la Caporale
protestava di non voler più saperne. E Pepita Pantogada strillava:
- Gracie, segnori! gracie! Aquí se dano cachetes!
- Ma no! ma no! - esclamò il Paleari. - Signori miei, questo è un fatto nuovo,
stranissimo! Bisogna chiederne spiegazione.
- A Max? - domandai io.
- A Max, già! Che lei, cara Silvia, abbia male interpretato i suggerimenti di
lui nella disposizione della catena?
- E probabile! è probabile! - esclamò il Bernaldez, ridendo.
- Lei, signor Meis, che ne pensa? - mi domandò il Paleari, a cui il Bernaldez
non andava proprio a genio.
- Eh, di sicuro, questo pare, - dissi io.
Ma la Caporale negò recisamente col capo.
- E allora? - riprese il signor Anselmo. - Come si spiega? Max violento! E
quando mai? Che ne dici tu, Terenzio?
Non diceva nulla, Terenzio, protetto dalla semioscurità: alzò le spalle, e
basta.
- Via - diss'io allora alla Caporale. - Vogliamo contentare il signor Anselmo,
signorina? Domandiamo a Max una spiegazione: che se poi egli si dimostrerà di
nuovo spirito di poco spirito, lasceremo andare. Dico bene, signor Papiano?
- Benissimo! - rispose questi. - Domandiamo, domandiamo pure. Io ci sto.
- Ma non ci sto io, così! - rimbeccò la Caporale, rivolta proprio a lui.
- Lo dice a me? - fece Papiano. - Ma se lei vuol lasciare andare
- Sì, sarebbe meglio, - arrischiò timidamente Adriana.
Ma subito il signor Anselmo le diede su la voce:
- Ecco la paurosa! Son puerilità, perbacco! Scusi, lo dico anche a lei, Silvia!
Lei conosce bene lo spirito che le è familiare, e sa che questa è la prima
volta che Sarebbe un peccato, via! perché - spiacevole quanto si voglia
quest'incidente - i fenomeni accennavano questa sera a manifestarsi con
insolita energia.
- Troppa! - esclamò il Bernaldez, sghignazzando e promovendo il riso degli
altri.
- E io, - aggiunsi, - non vorrei buscarmi un pugno su quest'occhio qui
- Ni tampoco ió! - aggiunse Pepita.
- A sedere! - ordinò allora Papiano, risolutamente. - Seguiamo il consiglio del
signor Meis. Proviamoci a domandare una spiegazione. Se i fenomeni si rivelano
di nuovo con troppa violenza, smetteremo. A sedere!
E soffiò sul lanternino.
Io cercai al bujo la mano di Adriana, ch'era fredda e tremante. Per rispettare
il suo timore, non gliela strinsi in prima; pian piano, gradatamente, gliela
premetti, come per infonderle calore, e, col calore, la fiducia che tutto
adesso sarebbe proceduto tranquillamente. Non poteva esser dubbio, infatti, che
Papiano, forse pentito della violenza a cui s'era lasciato andare, aveva
cangiato avviso. A ogni modo avremmo certo avuto un momento di tregua; poi
forse, io e Adriana, in quel bujo, saremmo stati il bersaglio di Max.
'Ebbene,' dissi tra me, 'se il giuoco diventerà troppo pesante,
lo faremo durar poco. Non permetterò che Adriana sia tormentata.'
Intanto il signor Anselmo s'era messo a parlare con Max, proprio come si parla
a qualcuno vero e reale, lì presente.
- Ci sei?
Due colpi, lievi, sul tavolino. C'era!
- E come va, Max, - domandò il Paleari, in tono d'amorevole rimprovero, - che
tu, tanto buono tanto gentile, hai trattato così malamente la signorina Silvia?
Ce lo vuoi dire?
Questa volta il tavolino si agitò dapprima un poco, quindi tre colpi secchi e
sodi risonarono nel mezzo di esso. Tre colpi: dunque, no: non ce lo
voleva dire.
- Non insistiamo! - si rimise il signor Anselmo. - Tu sei forse ancora un po'
alterato, eh, Max? Lo sento, ti conosco ti conosco Vorresti dirci almeno
se la catena così disposta ti accontenta?
Non aveva il Paleari finito di far questa domanda, ch'io sentii picchiarmi
rapidamente due volte su la fronte, quasi con la punta di un dito.
- Sì! - esclamai subito, denunciando il fenomeno; e strinsi la mano d'Adriana.
Debbo confessare che quel 'toccamento' inatteso mi fece pure, lì per
lì, una strana impressione. Ero sicuro che, se avessi levato a tempo la mano
avrei ghermito quella di Papiano, e tuttavia La delicata leggerezza del
tocco e la precisione erano state, a ogni modo, meravigliose. Poi, ripeto, non
me l'aspettavo. Ma perché intanto Papiano aveva scelto me per manifestar la sua
remissione? Aveva voluto con quel segno tranquillarmi, o era esso all'incontro
una sfida e significava: 'Adesso vedrai se son contento'?
- Bravo, Max! - esclamò il signor Anselmo.
E io, tra me:
'(Bravo, sì! Che fitta di scapaccioni ti darei!)'
- Ora, se non ti dispiace - riprese il padron di casa, - vorresti darci un
segno del tuo buon animo verso di noi?
Cinque colpi sul tavolino intimarono: - Parlate!
- Che significa? - domandò la signora Candida, impaurita.
- Che bisogna parlare, - spiegò Papiano, tranquillamente.
E Pepita :
- A chi?
- Ma a chi vuol lei, signorina! Parli col suo vicino, per esempio.
- Forte?
- Sì, - disse il signor Anselmo. - Questo vuol dire, signor Meis, che Max ci
prepara intanto qualche bella manifestazione. Forse una luce chi sa!
Parliamo, parliamo
E che dire? Io già parlavo da un pezzo con la mano d'Adriana, e non pensavo,
ahimè, non pensavo più a nulla! Tenevo a quella manina un lungo discorso
intenso, stringente, e pur carezzevole, che essa ascoltava tremante e
abbandonata; già! l'avevo costretta a cedermi le dita, a intrecciarle con le
mie. Un'ardente ebbrezza mi aveva preso, che godeva dello spasimo che le
costava lo sforzo di reprimer la sua foga smaniosa per esprimersi invece con le
maniere d'una dolce tenereza, come voleva il candore di quella timida anima
soave.
Ora, in tempo che le nostre mani facevano questo discorso fitto fitto, io
cominciai ad avvertire come uno strofinio alla traversa, tra le due gambe
posteriori della seggiola; e mi turbai. Papiano non poteva col piede arrivare
fin là; e, quand'anche, la traversa fra le gambe anteriori gliel'avrebbe
impedito. Che si fosse alzato dal tavolino e fosse venuto dietro alla mia
seggiola? Ma, in questo caso, la signora Candida, se non era proprio scema,
avrebbe dovuto avvertirlo. Prima di comunicare a gli altri il fenomeno, avrei
voluto in qualche modo spiegarmelo; ma poi pensai che, avendo ottenuto ciò che
mi premeva, ora, quasi per obbligo, mi conveniva secondar la frode, senz'altro
indugio, per non irritare maggiormente Papiano. E avviai a dire quel che sentivo.
- Davvero? - esclamò Papiano, dal suo posto, con una meraviglia che mi parve
sincera.
Né minor meraviglia dimostrò la signorina Caporale.
Sentii rizzarmi i capelli su la fronte. Dunque, quel fenomeno era vero?
- Strofinìo? - domandò ansiosamente il signor Anselmo. - Come sarebbe? come
sarebbe?
- Ma sì! - confermai, quasi stizzito. - E séguita! Come se ci fosse qua dietro
un cagnolino ecco!
Un alto scoppio di risa accolse questa mia spiegazione.
- Ma è Minerva! è Minerva! - gridò Pepita Pantogada.
- Chi è Minerva? - domandai, mortificato.
- Ma la mia cagnetta! - riprese quella, ridendo ancora. - La viechia mia,
segnore, che se grata asì soto tute le sedie. Con permisso! con permisso!
Il Bernaldez accese un altro fiammifero, e Pepita s'alzò per prendere quella
cagnetta, che si chiamava Minerva, e accucciarsela in grembo.
- Ora mi spiego, - disse contrariato il signor Anselmo, - ora mi spiego la
irritazione di Max. C'è poca serietà, questa sera, ecco!
Per il signor Anselmo,
forse, sì: ma - a dir vero - non ce ne fu molta di più per noi nelle sere
successive, rispetto allo spiritismo, s'intende.
Chi poté più badare alle prodezze di Max nel buio? Il tavolino scricchiolava,
si moveva, parlava con picchi sodi o lievi; altri picchi s'udivano su le
cartelle delle nostre seggiole e, or qua or là, su i mobili della camera, e
raspamenti, strascichii e altri rumori; strane luci fosforiche, come fuochi
fatui, si accendevano nell'aria per un tratto, vagolando, e anche il lenzuolo
si rischiarava e si gonfiava come una vela; e un tavolinetto porta-sigari si
fece parecchie passeggiatine per la camera e una volta finanche balzò sul
tavolino intorno al quale sedevamo in catena; e la chitarra come se avesse
messo le ali, volò dal cassettone su cui era posata e venne a strimpellar su
noi Mi parve però che Max manifestasse meglio le sue eminenti facoltà
musicali coi sonaglioli d'un collaretto da cane che a un certo punto fu messo
al collo della signorina Caporale; il che parve al signor Anselmo uno scherzo
affettuoso e graziosissimo di Max; ma la signorina Caporale non lo gradì molto.
Era entrato evidentemente in iscena, protetto dal bujo, Scipione, il fratello
di Papiano, con istruzioni particolarissime. Costui era davvero epilettico, ma
non così idiota come il fratello Terenzio e lui stesso volevano dare a
intendere. Con la lunga abitudine dell'oscurità, doveva aver fatto l'occhio a
vederci al bujo. In verità, non potrei dire fino a che punto egli si
dimostrasse destro in quelle frodi congegnate avanti col fratello e con la
Caporale; per noi, cioè per me e per Adriana, per Pepita e il Bernaldez, poteva
far quello che gli piaceva e tutto andava bene, comunque lo facesse: lì, egli
non doveva contentare che il signor Anselmo e la signora Candida; e pareva vi
riuscisse a meraviglia. E vero bensì, che né l'uno né l'altra erano di
difficile contentatura. Oh, il signor Anselmo gongolava di gioja; pareva in
certi momenti un ragazzetto al teatrino delle marionette; e a certe sue
esclamazioni puerili io soffrivo, non solo per l'avvilimento che mi cagionava
il vedere un uomo, non certamente sciocco, dimostrarsi tale fino
all'inverosimile; ma anche perché Adriana mi faceva comprendere che provava
rimorso a godere così, a scapito della serietà del padre, approfittandosi della
ridicola dabbenaggine di lui.
Questo solo turbava di tratto in tratto la nostra gioja. Eppure, conoscendo
Papiano, avrebbe dovuto nascermi il sospetto che, se egli si rassegnava a
lasciarmi accanto Adriana e, contrariamente a' miei timori, non ci faceva mai
disturbare dallo spirito di Max, anzi pareva che ci favorisse e ci proteggesse,
doveva aver fatto qualche altra pensata. Ma era tale in quei momenti la gioja
che mi procurava la libertà indisturbata nel bujo, che questo sospetto non mi
s'affacciò affatto.
- No! - strillò a un certo punto la signorina Pantogada.
E subito il signor Anselmo:
- Dica, dica, signorina! che è stato? che ha sentito?
Anche il Bernaldez la spinse a dire, premurosamente; e allora Pepita:
- Aquí, su un lado, una careccia
- Con la mano? - domandò il Paleari. - Delicata, è vero? Fredda, furtiva e
delicata Oh, Max, se vuole, sa esser gentile con le donne! Vediamo un po',
Max, potresti rifar la carezza alla signorina?
- Aquí está! aquí está! - si mise a gridare subito Pepita ridendo.
- Che vuol dire? - domando il signor Anselmo.
- Rifà, rifà m'acareccia!
- E un bacio, Max? - propose allora il Paleari.
- No! - strillò Pepita, di nuovo.
Ma un bel bacione sonoro le fu scoccato su la guancia.
Quasi involontariamente io mi recai allora la mano di Adriana alla bocca; poi,
non contento, mi chinai a cercar la bocca di lei, e così il primo bacio, bacio
lungo e muto, fu scambiato fra noi.
Che seguì? ci volle un pezzo, prima ch'io smarrito di confusione e di vergogna,
potessi riavermi in quell'improvviso disordine. S'erano accorti di quel nostro
bacio? Gridavano. Uno, due fiammiferi, accesi; poi anche la candela, quella
stessa che stava entro il lanternino dal vetro rosso. E tutti in piedi! Perché?
Perché? Un gran colpo, un colpo formidabile, come vibrato da un pugno di
gigante invisibile, tonò sul tavolino, così, in piena luce. Allibimmo tutti e,
più di ogni altro, Papiano e la signorina Caporale.
- Scipione! Scipione! - chiamò Terenzio.
L'epilettico era caduto per terra e rantolava stranamente.
- A sedere! - gridò il signor Anselmo. - E caduto in trance anche lui!
Ecco, ecco, il tavolino si muove, si solleva, si solleva La levitazione!
Bravo, Max! Evviva!
E davvero il tavolino, senza che nessuno lo toccasse, si levò alto più d'un
palmo dal suolo e poi ricadde pesantemente.
La Caporale, livida, tremante, atterrita, venne a nascondere la faccia sul mio
petto. La signorina Pantogada e la governante scapparono via dalla camera,
mentre il Paleari gridava irritatissimo:
- No, qua, perbacco! Non rompete la catena! Ora viene il meglio! Max! Max!
- Ma che Max! - esclamò Papiano, scrollandosi alla fine dal terrore che lo
teneva inchiodato e accorrendo al fratello per scuoterlo e richiamarlo in sé.
Il ricordo del bacio fu per il momento soffocato in me dallo stupore per quella
rivelazione veramente strana e inesplicabile, a cui avevo assistito. Se, come
sosteneva il Paleari, la forza misteriosa che aveva agito in quel momento, alla
luce, sotto gli occhi miei, proveniva da uno spirito invisibile, evidentemente,
questo spirito non era quello di Max: bastava guardar Papiano e la signorina
Caporale per convincersene. Quel Max, lo avevano inventato loro. Chi dunque
aveva agito? chi aveva avventato sul tavolino quel pugno formidabile?
Tante cose lette nei libri del Paleari mi balzarono in tumulto alla mente; e,
con un brivido, pensai a quello sconosciuto che s'era annegato nella gora del
molino alla Stìa, a cui io avevo tolto il compianto de' suoi e degli
estranei.
'Se fosse lui!' dissi tra me. 'Se fosse venuto a trovarmi, qua,
per vendicarsi, svelando ogni cosa'
Il Paleari intanto, che - solo - non aveva provato né meraviglia né sgomento,
non riusciva ancora a capacitarsi come un fenomeno così semplice e comune,
quale la levitazione del tavolino, ci avesse tanto impressionato, dopo quel po'
po' di meraviglie a cui avevamo precedentemente assistito. Per lui contava ben
poco che il fenomeno si fosse manifestato alla luce. Piuttosto non sapeva
spiegarsi come mai Scipione si trovasse là, in camera mia, mentr'egli lo
credeva a letto.
- Mi fa specie, - diceva - perché di solito questo poveretto non si cura di
nulla. Ma si vede che queste nostre sedute misteriose gli han destato una certa
curiosità: sarà venuto a spiare, sarà entrato furtivamente, e allora
pàffete, acchiappato! Perché è innegabile, sa, signor Meis, che i fenomeni
straordinarii della medianità traggono in gran parte origine dalla nevrosi
epilettica, catalettica e isterica. Max prende da tutti, sottrae anche a noi
buona parte d'energia nervosa, e se ne vale per la produzione dei fenomeni. È
accertato! Non si sente anche lei, difatti, come se le avessero sottratto
qualche cosa?
- Ancora no, per dire la verità.
Quasi fino all'alba mi rivoltai sul letto, fantasticando di quell'infelice,
sepolto nel cimitero di Miragno, sotto il mio nome. Chi era? Donde veniva?
Perché si era ucciso? Forse voleva che quella sua triste fine si sapesse: era
stata forse riparazione, espiazione e io me n'ero approfittato! Più d'una
volta, al bujo - lo confesso - gelai di paura. Quel pugno, lì, sul tavolino, in
camera mia, non lo avevo udito io solo. Lo aveva scagliato lui? E non era egli
ancor lì, nel silenzio, presente e invisibile, accanto a me? Stavo in orecchi,
se m'avvenisse di cogliere qualche rumore nella camera. Poi m'addormentai e
feci sogni paurosi.
Il giorno appresso aprii le finestre alla luce.
CAPITOLO XV (io e l'ombra mia)
Mi è avvenuto più volte,
svegliandomi nel cuor della notte (la notte, in questo caso, non dimostra
veramente d'aver cuore), mi è avvenuto di provare al bujo, nel silenzio, una
strana meraviglia, uno strano impaccio al ricordo di qualche cosa fatta durante
il giorno, alla luce, senz'abbadarci; e ho domandato allora a me stesso se, a
determinar le nostre azioni, non concorrano anche i colori, la vista delle cose
circostanti, il vario frastuono della vita. Ma sì, senza dubbio; e chi sa
quant'altre cose! Non viviamo noi, secondo il signor Anselmo, in relazione con
l'universo? Ora sta a vedere quante sciocchezze questo maledetto universo ci fa
commettere, di cui poi chiamiamo responsabile la misera coscienza nostra,
tirata da forze esterne, abbagliata da una luce che è fuor di lei. E,
all'incontro, quante deliberazioni prese, quanti disegni architettati, quanti
espedienti macchinati durante la notte non appajono poi vani e non crollano e
non sfumano alla luce del giorno? Com'altro è il giorno, altro la notte, così
forse una cosa siamo noi di giorno, altra di notte: miserabilissima cosa,
ahimè, così di notte come di giorno.
So che, aprendo dopo quaranta giorni le finestre della mia camera, io non
provai alcuna gioja nel riveder la luce. Il ricordo di ciò che avevo fatto in
quei giorni al bujo me la offuscò orribilmente. Tutte le ragioni e le scuse e
le persuasioni che in quel bujo avevano avuto il loro peso e il loro valore,
non ne ebbero più alcuno, appena spalancate le finestre, o ne ebbero un altro
al tutto opposto. E invano quel povero me che per tanto tempo se n'era stato
con le finestre chiuse e aveva fatto di tutto per alleviarsi la noja smaniosa
della prigionia, ora - timido come un cane bastonato - andava appresso a
quell'altro me che aveva aperte le finestre e si destava alla luce del giorno,
accigliato, severo, impetuoso; invano cercava di stornarlo dai foschi pensieri,
inducendolo a compiacersi piuttosto, dinanzi allo specchio, del buon esito
dell'operazione e della barba ricresciuta e anche del pallore che in qualche
modo m'ingentiliva l'aspetto.
'Imbecille, che hai fatto? che hai fatto?'
Che avevo fatto? Niente, siamo giusti! Avevo fatto all'amore. Al bujo - era
colpa mia? - non avevo veduto più ostacoli, e avevo perduto il ritegno che
m'ero imposto. Papiano voleva togliermi Adriana; la signorina Caporale me
l'aveva data, me l'aveva fatta sedere accanto, e s'era buscato un pugno sulla
bocca, poverina; io soffrivo, e - naturalmente - per quelle sofferenze credevo
com'ogni altro sciagurato (leggi uomo) d'aver diritto a un compenso, e - poiché
l'avevo allato - me l'ero preso; lì si facevano gli esperimenti della morte, e
Adriana, accanto a me, era la vita, la vita che aspetta un bacio per schiudersi
alla gioja; ora Manuel Bernaldez aveva baciato al bujo la sua Pepita, e allora
anch'io
- Ah!
Mi buttai su la poltrona, con le mani su la faccia. Mi sentivo fremere le
labbra al ricordo di quel bacio. Adriana! Adriana! Che speranze le avevo acceso
in cuore con quel bacio? Mia sposa, è vero? Aperte le finestre, festa per
tutti!
Rimasi, non so per quanto tempo, li su quella poltrona, a pensare, ora con gli
occhi sbarrati, ora restringendomi tutto in me, rabbiosamente, come per
schermirmi da un fitto spasimo interno. Vedevo finalmente: vedevo in tutta la
sua crudezza la frode della mia illusione: che cos'era in fondo ciò che m'era
sembrata la più grande delle fortune, nella prima ebbrezza della mia
liberazione.
Avevo già sperimentato come la mia libertà, che a principio m'era parsa senza
limiti, ne avesse purtroppo nella scarsezza del mio denaro; poi m'ero anche
accorto ch'essa più propriamente avrebbe potuto chiamarsi solitudine e noja, e
che mi condannava a una terribile pena: quella della compagnia di me stesso; mi
ero allora accostato agli altri; ma il proponimento di guardarmi bene dal
riallacciare, foss'anche debolissimamente, le fila recise, a che era valso?
Ecco: s'erano riallacciate da sé, quelle fila; e la vita, per quanto io, già in
guardia, mi fossi opposto, la vita mi aveva trascinato, con la sua foga
irresistibile: la vita che non era più per me. Ah, ora me n'accorgevo
veramente, ora che non potevo più con vani pretesti, con infingimenti quasi
puerili, con pietose, meschinissime scuse impedirmi di assumer coscienza del
mio sentimento per Adriana, attenuare il valore delle mie intenzioni, delle mie
parole, de' miei atti. Troppe cose, senza parlare, le avevo detto, stringendole
la mano, inducendola a intrecciar con le mie le sue dita; e un bacio, un bacio
infine aveva suggellato il nostro amore. Ora, come risponder coi fatti alla
promessa? Potevo far mia Adriana? Ma nella gora del molino, là alla Stìa,
ci avevano buttato me quelle due buone donne, Romilda e la vedova Pescatore, -
non ci s'eran mica buttate loro! E libera dunque era rimasta lei, mia moglie;
non io, che m'ero acconciato a fare il morto, lusingandomi di poter diventare
un altro uomo, vivere un'altra vita. Un altr'uomo, sì ma a patto di non far
nulla. E che uomo dunque? Un'ombra d'uomo! E che vita? Finché m'ero contentato
di star chiuso in me e di veder vivere gli altri, sì, avevo potuto bene o male
salvar l'illusione ch'io stessi vivendo un'altra vita; ma ora che a questa
m'ero accostato fino a cogliere un bacio da due care labbra, ecco, mi toccava a
ritrarmene inorridito, come se avessi baciato Adriana con le labbra d'un morto,
d'un morto che non poteva rivivere per lei! Labbra mercenarie, sì, avrei potuto
baciarne; ma che sapor di vita in quelle labbra? Oh, se Adriana, conoscendo il
mio strano caso Lei? No no che! neanche a pensarci! Lei, così pura,
così timida Ma se pur l'amore fosse stato in lei più forte di tutto, più
forte d'ogni riguardo sociale ah povera Adriana, e come avrei potuto io
chiuderla con me nel vuoto della mia sorte, farla compagna d'un uomo che non
poteva in alcun modo dichiararsi e provarsi vivo? Che fare? che fare?
Due colpi all'uscio mi fecero balzar dalla poltrona. Era lei, Adriana
Per quanto con uno sforzo violento cercassi di arrestare in me il tumulto dei
sentimenti, non potei impedire che non le apparissi almeno turbato. Turbata era
anche lei, ma dal pudore, che non le consentiva di mostrarsi lieta, come
avrebbe voluto, di rivedermi finalmente guarito, alla luce, e contento No?
Perché no? Alzò appena gli occhi a guardarmi; arrossì; mi porse una busta:
- Ecco, per lei
- Una lettera?
- Non credo. Sarà la nota del dottor Ambrosini. Il servo vuol sapere se c'è
risposta.
Le tremava la voce. Sorrise.
- Subito, - diss'io; ma un'improvvisa tenerezza mi prese,- comprendendo ch'ella
era venuta con la scusa di quella nota per aver da me una parola che la
raffermasse nelle sue speranze; un'angosciosa, profonda pietà mi vinse, pietà
di lei e di me, pietà crudele, che mi spingeva irresistibilmente a carezzarla,
a carezzare in lei il mio dolore, il quale soltanto in lei, che pur ne era la
causa, poteva trovar conforto. E pur sapendo che mi sarei compromesso ancor
più, non seppi resistere: le porsi ambo le mani. Ella, fiduciosa, ma col volto
in fiamme, alzò pian piano sue e le pose sulle mie. Mi attirai allora la sua
testina bionda sul petto e le passai una mano su i capelli.
- Povera Adriana!
- Perché? - mi domandò, sotto la carezza. - Non siamo contenti?
- Sì
- E allora perché povera?
Ebbi in quel momento un impeto di ribellione, fui tentato di svelarle tutto, di
risponderle: 'Perché? senti io ti amo, e non posso, non debbo amarti! Se
tu vuoi però'. Ma dàlli! Che poteva volere quella mite creatura? Mi
premetti forte sul petto la sua testina, e sentii che sarei stato molto più
crudele se dalla gioja suprema a cui ella, ignara, si sentiva in quel punto
inalzata dall'amore, io l'avessi fatta precipitare nell'abisso della
disperazione ch'era in me.
- Perché, - dissi, lasciandola, - perché so tante cose, per cui lei non può
esser contenta
Ebbe come uno smarrimento penosissimo, nel vedersi, cosi d'un tratto, sciolta
dalle mie braccia. Si aspettava forse, dopo quelle carezze, che io le dessi del
tu? Mi guardò e, notando la mia agitazione, domandò esitante:
- Cose che sa lei per sé, o qui di casa mia?
Le risposi col gesto: 'Qui, qui' per togliermi la tentazione che di
punto in punto mi vinceva, di parlare, di aprirmi con lei.
L'avessi fatto! Cagionandole subito quell'unico, forte dolore, gliene avrei
risparmiato altri, e io non mi sarei cacciato in nuovi e più aspri garbugli. Ma
troppo recente era allora la mia triste scoperta, avevo ancor bisogno
d'approfondirla bene, e l'amore e la pietà mi toglievano il coraggio d'infrangere
così d'un tratto le speranze di lei e la mia vita stessa, cioè quell'ombra
d'illusione che di essa, finché tacevo, poteva ancora restarmi. Sentivo poi
quanto odiosa sarebbe stata la dichiarazione che avrei dovuto farle, che io,
cioè, avevo moglie ancora. Sì! sì! Svelandole che non ero Adriano Meis io
tornavo ad essere Mattia Pascal, MORTO E ANCORA AMMOGLIATO! Come si
possono dire siffatte cose? Era il colmo, questo, della persecuzione che una
moglie possa esercitare sul proprio marito: liberarsene lei, riconoscendolo
morto nel cadavere d'un povero annegato, e pesare ancora, dopo la morte. su
lui, addosso a lui, così. Io avrei potuto ribellarmi è vero, dichiararmi vivo,
allora Ma chi, al posto mio, non si sarebbe regolato come me? Tutti, tutti,
come me, in quel punto, nei panni miei, avrebbero stimato certo una fortuna
potersi liberare in un modo così inatteso, insperato, insperabile, della
moglie, della suocera, dei debiti, d'un'egra e misera esistenza come quella
mia. Potevo mai pensare, allora, che neanche morto mi sarei liberato della
moglie? lei, sì, di me, e io no di lei? e che la vita che m'ero veduta dinanzi
libera libera libera, non fosse in fondo che una illusione, la quale non poteva
ridursi in realtà, se non superficialissimamente, e più schiava che mai,
schiava delle finzioni, delle menzogne che con tanto disgusto m'ero veduto
costretto a usare, schiava del timore d'essere scoperto, pur senza aver
commesso alcun delitto?
Adriana riconobbe che non aveva in casa, veramente, di che esser contenta; ma
ora E con gli occhi e con un mesto sorriso mi domandò se mai per me potesse
rappresentare un ostacolo ciò che per lei era cagione di dolore. 'No, è
vero?' chiedeva quello sguardo e quel mesto sorriso.
- Oh, ma paghiamo il dottor Ambrosini! - esclamai, fingendo di ricordarmi
improvvisamente della nota e del servo che attendeva di là. Lacerai la busta e,
senza por tempo in mezzo, sforzandomi d'assumere un tono scherzoso: - Seicento
lire! dissi. - Guardi un po', Adriana: la Natura fa una delle sue solite
stramberie; per tanti anni mi condanna a portare un occhio, diciamo così,
disobbediente; io soffro dolori e prigionia per correggere lo sbaglio di lei, e
ora per giunta mi tocca a pagare. Le sembra giusto?
Adriana sorrise con pena.
- Forse, - disse, - il dottor Ambrosini non sarebbe contento se lei gli
rispondesse di rivolgersi alla Natura per il pagamento. Credo che si aspetti
anche d'esser ringraziato, perché l'occhio
- Le par che stia bene?
Ella si sforzò a guardarmi, e disse piano, riabbassando subito gli occhi:
- Sì Pare un altro
- Io o l'occhio?
- Lei.
- Forse con questa barbaccia
- No Perché? Le sta bene
Me lo sarei cavato con un dito, quell'occhio! Che m'importava più d'averlo a
posto?
- Eppure, - dissi, - forse esso, per conto suo, era più contento prima. Ora mi
dà un certo fastidio Basta. Passerà!
Mi recai allo stipetto a muro, in cui tenevo il denaro. Allora Adriana accennò
di volersene andare; io stupido, la trattenni; ma, già, come potevo prevedere?
In tutti gl'impicci miei, grandi e piccini, sono stato, come s'è visto,
soccorso sempre dalla fortuna. Ora ecco com'essa, anche questa volta, mi venne
in ajuto.
Facendo per aprire lo stipetto, notai che la chiave non girava entro la
serratura: spinsi appena appena e, subito, lo sportellino cedette: era aperto!
- Come! - esclamai. - Possibile ch'io l'abbia lasciato così?
Notando il mio improvviso turbamento, Adriana era diventata pallidissima. La
guardai, e:
- Ma qui guardi, signorina, qui qualcuno ha dovuto metter le mani!
C'era dentro lo stipetto un gran disordine: i miei biglietti di banca erano
stati tratti dalla busta di cuojo, in cui li tenevo custoditi, ed erano lì sul
palchetto sparpagliati. Adriana si nascose il volto con le mani, inorridita. Io
raccolsi febbrilmente quei biglietti e mi diedi a contarli.
- Possibile? - esclamai, dopo aver contato, passandomi le mani tremanti su la
fronte ghiaccia di sudore.
Adriana fu per mancare, ma si sorresse a un tavolinetto lì presso e domandò con
una voce che non mi parve più la sua :
- Hanno rubato?
- Aspetti aspetti Com'è possibile? - dissi io.
E mi rimisi a contare, sforzando rabbiosamente le dita e la carta, come se, a
furia di stropicciare, potessero da quei biglietti venir fuori gli altri che
mancavano.
- Quanto? - mi domandò ella, scontraffatta dall'orrore, dal ribrezzo, appena
ebbi finito di contare.
- Dodici dodici mila lire - balbettai. - Erano sessantacinque sono
cinquantatré! Conti lei
Se non avessi fatto a tempo a sorreggerla, la povera Adriana sarebbe caduta per
terra, come sotto una mazzata. Tuttavia, con uno sforzo supremo, ella poté
riaversi ancora una volta, e singhiozzando, convulsa, cercò di sciogliersi da
me che volevo adagiarla su la poltrona e fece per spingersi verso l'uscio:
- Chiamo il babbo! chiamo il babbo!
- No! - le gridai, trattenendola e costringendola a sedere. - Non si agiti
così, per carità! Lei mi fa più male Io non voglio, non voglio! Che c'entra
lei? Per carità, si calmi. Mi lasci prima accertare, perché sì, lo stipetto
era aperto, ma io non posso, non voglio credere ancora a un furto così
ingente Stia buona, via!
E daccapo, per un ultimo scrupolo, tornai a contare i biglietti; pur sapendo di
certo che tutto il mio denaro stava lì, in quello stipetto, mi diedi a rovistare
da per tutto, anche dove non era in alcun modo possibile ch'io avessi lasciato
una tal somma, tranne che non fossi stato colto da un momento di pazzia. E per
indurmi a quella ricerca che m'appariva a mano a mano sempre più sciocca e
vana, mi sforzavo di credere inverosimile l'audacia del ladro. Ma Adriana,
quasi farneticando, con le mani sul volto, con la voce rotta dai singhiozzi:
- E inutile! è inutile! - gemeva. - Ladro ladro anche ladro! Tutto
congegnato avanti Ho sentito, nel bujo m'è nato il sospetto ma non
volli credere ch'egli potesse arrivare fino a tanto
Papiano, sì: il ladro non poteva esser altri che lui; lui, per mezzo del
fratello, durante quelle sedute spiritiche
- Ma come mai, - gemette ella, angosciata, - come mai teneva lei tanto denaro,
cosi, in casa?
Mi voltai a guardarla, inebetito. Che risponderle? Potevo dirle che per forza,
nella condizione mia dovevo tener con me il denaro? potevo dirle che mi era
interdetto d'investirlo in qualche modo, d'affidarlo a qualcuno? che non avrei
potuto neanche lasciarlo in deposito in qualche banca, giacché, se poi per caso
fosse sorta qualche difficoltà non improbabile per ritirarlo, non avrei più
avuto modo di far riconoscere il mio diritto su esso?
E, per non apparire stupito, fui crudele:
- Potevo mai supporre? - dissi.
Adriana si coprì di nuovo il volto con le mani, gemendo, straziata:
- Dio! Dio! Dio!
Lo sgomento che avrebbe dovuto assalire il ladro nel commettere il furto,
invase me, invece, al pensiero di ciò che sarebbe avvenuto. Papiano non poteva
certo supporre ch'io incolpassi di quel furto il pittore spagnuolo o il signor
Anselmo, la signorina Caporale o la serva di casa o lo spirito di Max: doveva
esser certo che avrei incolpato lui, lui e il fratello: eppure, ecco, ci s'era
messo, quasi sfidandomi.
E io? che potevo far io? Denunziarlo? E come? Ma niente, niente, niente! io non
potevo far niente! ancora una volta, niente! Mi sentii atterrato, annichilito.
Era la seconda scoperta, in quel giorno! Conoscevo il ladro, e non potevo
denunziarlo. Che diritto avevo io alla protezione della legge? Io ero fuori
d'ogni legge. Chi ero io? Nessuno! Non esistevo io, per la legge. E chiunque,
ormai, poteva rubarmi; e io, zitto!
Ma, tutto questo, Papiano non poteva saperlo. E dunque?
- Come ha potuto farlo? - dissi quasi tra me. - Da che gli è potuto venire
tanto ardire?
Adriana levò il volto dalle mani e mi guardò stupita, come per dire: 'E
non lo sai?'.
- Ah, già! - feci, comprendendo a un tratto.
- Ma lei lo denunzierà! - esclamò ella, levandosi in piedi. - Mi lasci, la
prego, mi lasci chiamare il babbo Lo denunzierà subito!
Feci in tempo a trattenerla ancora una volta. Non ci mancava altro, che ora,
per giunta, Adriana mi costringesse a denunziare il furto! Non bastava che mi
avessero rubato, come niente, dodici mila lire? Dovevo anche temere che il
furto si conoscesse; pregare, scongiurare Adriana che non lo gridasse forte,
non lo dicesse a nessuno, per carità? Ma che! Adriana - e ora lo intendo bene -
non poteva assolutamente permettere che io tacessi e obbligassi anche lei al
silenzio, non poteva in verun modo accettare quella che pareva una mia
generosità, per tante ragioni: prima per il suo amore, poi per l'onorabilità
della sua casa, e anche per me e per l'odio ch'ella portava al cognato.
Ma in quel frangente, la sua giusta ribellione mi parve proprio di più:
esasperato, le gridai:
- Lei si starà zitta: gliel'impongo! Non dirà nulla a nessuno, ha capito? Vuole
uno scandalo?
- No! no! - s'affrettò a protestare, piangendo, la povera Adriana. - Voglio
liberar la mia casa dall'ignominia di quell'uomo!
- Ma egli negherà! - incalzai io. - E allora, lei, tutti di casa innanzi al
giudice Non capisce?
- Si, benissimo! - rispose Adriana con fuoco, tutta vibrante di sdegno. - Neghi,
neghi pure! Ma noi, per conto nostro, abbiamo altro, creda, da dire contro di
lui. Lei lo denunzii, non abbia riguardo, non tema per noi Ci farà un bene,
creda, un gran bene! Vendicherà la povera sorella mia Dovrebbe intenderlo,
signor Meis, che mi offenderebbe, se non lo facesse. Io voglio, voglio che lei
lo denunzii. Se non lo fa lei, lo farò io! Come vuole che io rimanga con mio
padre sotto quest'onta! No! no! no! E poi
Me la strinsi fra le braccia: non pensai più al denaro rubato, vedendola
soffrire così, smaniare, disperata: e le promisi che avrei fatto com'ella
voleva purché si calmasse. No, che onta? non c'era alcuna onta per lei, né per
il suo babbo; io sapevo su chi ricadeva la colpa di quel furto; Papiano aveva
stimato che il mio amore per lei valesse bene dodicimila lire, e io dovevo
dimostrargli di no? Denunziarlo? Ebbene, sì, l'avrei fatto, non per me, ma per
liberar la casa di lei da quel miserabile: sì, ma a un patto: che ella prima di
tutto si calmasse, non piangesse più così, via! via! e poi, che mi giurasse su
quel che aveva di più caro al mondo, che non avrebbe parlato a nessuno, a
nessuno, di quel furto, se prima io non consultavo un avvocato per tutte le
conseguenze che, in tanta sovreccitazione, né io né lei potevamo prevedere.
- Me lo giura? Su ciò che ha di più caro?
Me lo giurò, e con uno sguardo, tra le lagrime, mi fece intendere su che cosa
me lo giurava, che cosa avesse di più caro.
Povera Adriana!
Rimasi lì, solo, in mezzo alla camera, sbalordito, vuoto, annientato, come se
tutto il mondo per me si fosse fatto vano. Quanto tempo passò prima ch'io mi
riavessi? E come mi riebbi? Scemo scemo! Come uno scemo, andai a
osservare lo sportello dello stipetto, per vedere se non ci fosse qualche
traccia di violenza. No: nessuna traccia: era stato aperto pulitamente, con un
grimaldello, mentr'io custodivo con tanta cura in tasca la chiave.
- E non si sente lei, - mi aveva domandato il Paleari alla fine
dell'ultima seduta, - non si sente lei come se le avessero sottratto qualche
cosa?
Dodici mila lire!
Di nuovo il pensiero della mia assoluta impotenza, della mia nullità, mi
assalì, mi schiacciò. Il caso che potessero rubarmi e che io fossi costretto a
restar zitto e finanche con la paura che il furto fosse scoperto, come se l'avessi
commesso io e non un ladro a mio danno, non mi s'era davvero affacciato alla
mente.
Dodici mila lire? Ma poche! poche! Possono rubarmi tutto, levarmi fin la
camicia di dosso; e io, zitto! Che diritto ho io di parlare? La prima cosa che
mi domanderebbero, sarebbe questa: 'E voi chi siete? Donde vi era venuto
quel denaro?'. Ma senza denunziarlo vediamo un po'! se questa sera io
lo afferro per il collo e gli grido: 'Qua subito il denaro che hai tolto
di là, dallo stipetto, pezzo di ladro!'. Egli strilla; nega; può forse
dirmi: 'Sissignore, eccolo qua, I'ho preso per isbaglio'? E
allora? Ma c'è il caso che mi dia anche querela per diffamazione. Zitto,
dunque, zitto! M'è sembrata una fortuna l'esser creduto morto? Ebbene, e sono
morto davvero. Morto? Peggio che morto; me l'ha ricordato il signor Anselmo: i
morti non debbono più morire, e io sì: io sono ancora vivo per la morte e morto
per la vita. Che vita infatti può esser più la mia? La noja di prima, la
solitudine, la compagnia di me stesso?
Mi nascosi il volto con le mani; caddi a sedere su la poltrona.
Ah, fossi stato almeno un mascalzone! avrei potuto forse adattarmi a restar
così, sospeso nell'incertezza della sorte, abbandonato al caso, esposto a un
rischio continuo, senza base, senza consistenza. Ma io? Io, no. E che fare,
dunque? Andarmene via? E dove? E Adriana? Ma che potevo fare per lei? Nulla
nulla Come andarmene però così, senz'alcuna spiegazione, dopo quanto era
accaduto? Ella ne avrebbe cercato la causa in quel furto; avrebbe detto:
'E perché ha voluto salvare il reo, e punir me innocente?'. Ah no,
no, povera Adriana! Ma, d'altra parte, non potendo far nulla come sperare di
rendere men trista la mia parte verso di lei? Per forza dovevo dimostrarmi
inconseguente e crudele. L'inconseguenza, la crudeltà erano della mia stessa
sorte, e io per il primo ne soffrivo. Fin Papiano, il ladro, commettendo il
furto, era stato più conseguente e men crudele di quel che pur troppo avrei
dovuto dimostrarmi io.
Egli voleva Adriana, per non restituire al suocero la dote della prima moglie:
io avevo voluto togliergli Adriana? e dunque la dote bisognava che la
restituissi io, al Paleari.
Per ladro, conseguentissimo!
Ladro? Ma neanche ladro: perché la sottrazione, in fondo, sarebbe stata più
apparente che reale: infatti, conoscendo egli l'onestà di Adriana, non poteva
pensare ch'io volessi farne la mia amante: volevo certo farla mia moglie:
ebbene allora avrei riavuto il mio denaro sotto forma di dote d'Adriana, e per
di più avrei avuto una mogliettina saggia e buona: che cercavo di più?
Oh, io ero sicuro che, potendo aspettare, e se Adriana avesse avuto la forza di
serbare il segreto, avremmo veduto Papiano attener la promessa di restituire,
anche prima dell'anno di comporto, la dote della defunta moglie.
Quel denaro, è vero, non poteva più venire a me, perché Adriana non poteva
esser mia: ma sarebbe andato a lei, se ella ora avesse saputo tacere, seguendo
il mio consiglio, e se io mi fossi potuto trattenere ancora per qualche po' di
tempo lì. Molta arte, molta arte avrei dovuto adoperare, e allora Adriana, se
non altro, ci avrebbe forse guadagnato questo: la restituzione della sua dote.
M'acquietai un po', almeno per lei, pensando così. Ah, non per me! Per me
rimaneva la crudezza della frode scoperta, quella de la mia illusione, di
fronte a cui era nulla il furto delle dodici mila lire, era anzi un bene, se
poteva risolversi in un vantaggio per Adriana.
Io mi vidi escluso per sempre dalla vita, senza possibilità di rientrarvi. Con
quel lutto nel cuore, con quell'esperienza fatta, me ne sarei andato via, ora,
da quella casa, a cui mi ero già abituato, in cui avevo trovato un po' di
requie, in cui mi ero fatto quasi il nido; e di nuovo per le strade, senza
meta, senza scopo, nel vuoto. La paura di ricader nei lacci della vita, mi
avrebbe fatto tenere più lontano che mai dagli uomini, solo, solo' affatto
solo, diffidente, ombroso; e il supplizio di Tantalo si sarebbe rinnovato per
me.
Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per la via Flaminia, vicino
a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi
s'affisarono su l'ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla;
infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo
calpestarla, l'ombra mia.
Chi era più ombra di noi due? io o lei?
Due ombre!
Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa,
schiacciarmi il cuore: e io, zitto; l'ombra, zitta.
L'ombra d'un morto: ecco la mia vita
Passò un carro: rimasi lì fermo, apposta: prima il cavallo, con le quattro
zampe, poi le ruote del carro.
- Là, cosi! forte, sul collo! Oh, oh, anche tu, cagnolino? Sù, da bravo, si:
alza un'anca! alza un'anca!
Scoppiai a ridere d'un maligno riso; il cagnolino scappò via, spaventato; il
carrettiere si voltò a guardarmi. Allora mi mossi; e l'ombra, meco, dinanzi.
Affrettai il passo per cacciarla sotto altri carri, Sotto i piedi de'
viandanti, voluttuosamente. Una smania mala mi aveva preso, quasi adunghiandomi
il ventre; alla fine non potei più vedermi davanti quella mia ombra; avrei
voluto scuotermela dai piedi. Mi voltai; ma ecco; la avevo dietro, ora.
'E se mi metto a correre,' pensai, 'mi seguirà!'
Mi stropicciai forte la fronte, per paura che stessi per ammattire, per farmene
una fissazione. Ma si! così era! il simbolo, lo spettro della mia vita era
quell'ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercé dei piedi altrui. Ecco
quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per
le vie di Roma.
Ma aveva un cuore, quell'ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell'ombra,
e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere
ch'era la testa di un'ombra, e non l'ombra d'una testa. Proprio cosi!
Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come il cavallo e le
ruote del carro e i piedi de' viandanti ne avessero veramente fatto strazio. E
non volli lasciarla più lì, esposta, per terra. Passò un tram, e vi montai.
Rientrando in casa
CAPITOLO XVI (il ritratto di Minerva)
Già prima che mi fosse aperta
la porta, indovinai che qualcosa di grave doveva essere accaduto in casa:
sentivo gridare Papiano e il Paleari. Mi venne incontro, tutta sconvolta, la
Caporale:
- E dunque vero? Dodici mila lire?
M'arrestai, ansante, smarrito. Scipione Papiano, l'epilettico, attraversò in
quel momento la saletta d'ingresso, scalzo, con le scarpe in mano,
pallidissimo, senza giacca; mentre il fratello strillava di là:
- E ora denunzii! denunzii!
Subito una fiera stizza m'assalì contro Adriana che, non ostante il divieto, non
ostante il giuramento, aveva parlato.
- Chi l'ha detto? - gridai alla Caporale. - Non è vero niente: ho ritrovato il
denaro!
La Caporale mi guardò stupita:
- Il denaro? Ritrovato? Davvero? Ah, Dio sia lodato! - esclamò, levando le
braccia; e corse, seguìta da me, ad annunziare esultante nel salotto da pranzo,
dove Papiano e il Paleari gridavano e Adriana piangeva: - Ritrovato! ritrovato!
Ecco il signor Meis! Ha ritrovato il denaro!
- Come!
- Ritrovato?
- Possibile?
Restarono trasecolati tutti e tre; ma Adriana e il padre, col volto in fiamme;
Papiano, all'incontro, terreo, scontraffatto.
Lo fissai per un istante. Dovevo essere più pallido di lui, e vibravo tutto.
Egli abbassò gli occhi, come atterrito, e si lasciò cader dalle mani la giacca
del fratello. Gli andai innanzi, quasi a petto, e gli tesi la mano.
- Mi scusi tanto; lei, e tutti mi scusino, - dissi.
- No! - gridò Adriana, indignata; ma subito si premé il fazzoletto su la bocca.
Papiano la guardò, e non ardì di porgermi la mano. Allora io ripetei:
- Mi scusi - e protesi ancor più la mano, per sentire la sua, come tremava.
Pareva la mano d'un morto, e anche gli occhi, torbidi e quasi spenti, parevano
d'un morto.
- Sono proprio dolente, - soggiunsi, - dello scompiglio, del grave dispiacere
che, senza volerlo, ho cagionato.
- Ma no cioè, sì veramente, - balbettò il Paleari, - ecco, era una cosa
che sì, non poteva essere, perbacco! Felicissimo, signor Meis, sono proprio
felicissimo che lei abbia ritrovato codesto denaro, perché
Papiano sbuffò, si passò ambo le mani su la fronte sudata e sul capo e,
voltandoci le spalle, si pose a guardare verso il terrazzino.
- Ho fatto come quel tale - ripresi, forzandomi a sorridere. - Cercavo
l'asino e c'ero sopra. Avevo le dodici mila lire qua, nel portafogli, con me.
Ma Adriana, a questo punto, non poté più reggere:
- Ma se lei, - disse, - ha guardato, me presente, da per tutto, anche nel
portafogli; se lì, nello stipetto
- Sì, signorina, - la interruppi, con fredda e severa fermezza. - Ma ho cercato
male, evidentemente, dal punto che le ho ritrovate Chiedo anzi scusa a lei
in special modo, che per la mia storditaggine, ha dovuto soffrire più degli
altri. Ma spero che
- No! no! no! - gridò Adriana, rompendo in singhiozzi e uscendo precipitosamente
dalla stanza, seguita dalla Caporale.
- Non capisco - fece il Paleari, stordito.
Papiano si voltò, irosamente:
- Io me ne vado lo stesso, oggi Pare che, ormai, non ci sia più bisogno
di di
S'interruppe, come se si sentisse mancare il fiato; volle volgersi a me, ma non
gli bastò l'animo di guardarmi in faccia:
- Io io non ho potuto, creda, neanche dire di no quando mi hanno qua,
preso in mezzo Mi son precipitato su mio fratello che nella sua
incoscienza malato com'è irresponsabile, cioè, credo chi sa! si poteva
immaginare, che L'ho trascinato qua Una scena selvaggia! Mi son veduto
costretto a spogliarlo a frugargli addosso da per tutto negli abiti,
fin nelle scarpe E lui ah!
Il pianto, a questo punto, gli fece impeto alla gola; gli occhi gli si
gonfiarono di lagrime; e, come strozzato dall'angoscia, aggiunse:
- Così hanno veduto che Ma già, se lei Dopo questo, io me ne vado!
- Ma no! Nient'affatto! - diss'io allora, - Per causa mia? Lei deve rimanere
qua! Me n'andrò io piuttosto!
- Che dice mai, signor Meis? - esclamò dolente, il Paleari.
Anche Papiano, impedito dal pianto che pur voleva soffocare, negò con la mano;
poi disse:
- Dovevo dovevo andarmene; anzi, tutto questo è accaduto perché io così,
innocentemente annunziai che volevo andarmene, per via di mio fratello che
non si può più tenere in casa Il marchese, anzi, mi ha dato - l'ho qua -
una lettera per il direttore di una casa di salute a Napoli, dove devo recarmi
anche per altri documenti che gli bisognano E mia cognata allora, che ha per
lei meritatamente, tanto tanto riguardo è saltata sù a dire che
nessuno doveva muoversi di casa che tutti dovevamo rimanere qua perché
lei non so aveva scoperto A me, questo! al proprio cognato! l'ha
detto proprio a me forse perché io, miserabile ma onorato, debbo ancora
restituire qua, a mio suocero
- Ma che vai pensando, adesso! - esclamò, interrompendolo, il Paleari.
- No! - raffermò fieramente Papiano. - Io ci penso! ci penso bene, non
dubitate! E se me ne vado Povero, povero, povero Scipione!
Non riuscendo più a frenarsi, scoppiò in dirotto pianto.
- Ebbene, - fece il Paleari, intontito e commosso. - E che c'entra più adesso?
- Povero fratello mio! - seguitò Papiano, con tale schianto di sincerità, che
anch'io mi sentii quasi agitare le viscere della misericordia.
Intesi in quello schianto il rimorso, ch'egli doveva provare in quel momento
per il fratello, di cui si era servito, a cui avrebbe addossato la colpa del
furto, se io lo avessi denunziato, e a cui poc'anzi aveva fatto patir
l'affronto di quella perquisizione.
Nessuno meglio di lui sapeva ch'io non potevo, aver ritrovato il danaro ch'egli
mi aveva rubato. Quella mia inattesa dichiarazione, che lo salvava proprio nel
punto in cui, vedendosi perduto, egli accusava il fratello o almeno lasciava
intendere - secondo il disegno che doveva aver prima stabilito - che soltanto
questi poteva essere l'autore del furto, lo aveva addirittura schiacciato. Ora
piangeva per un bisogno irrefrenabile di dare uno sfogo all'animo così
tremendamente percosso, e fors'anche perché sentiva che non poteva stare, se
non così, piangente, di fronte a me. Con quel pianto egli mi si prostrava, mi
s'inginocchiava quasi ai piedi, ma a patto ch'io mantenessi la mia
affermazione, d'aver cioè ritrovato il denaro: che se io mi fossi approfittato
di vederlo ora avvilito per tirarmi indietro, mi si sarebbe levato contro,
furibondo. Egli - era già inteso - non sapeva e non doveva saper nulla di quel
furto, e io, con quella mia affermazione, non salvavo che suo fratello, il
quale, in fin de' conti, ov'io l'avessi denunziato, non avrebbe avuto forse a
patir nulla, data la sua infermità; dal canto suo, ecco, egli s'impegnava, come
già aveva lasciato intravedere, a restituir la dote al Paleari.
Tutto questo mi parve di
comprendere da quel suo pianto. Esortato dal signor Anselmo e anche da me, alla
fine egli si quietò; disse che sarebbe ritornato presto da Napoli, appena
chiuso il fratello nella casa di salute, liquidate le sue competenze in un
certo negozio che ultimamente aveva avviato colà in società con un suo amico,
e fatte le ricerche dei documenti che bisognavano al marchese.
- Anzi, a proposito, - conchiuse, rivolgendosi a me. - Chi ci pensava più? Il
signor marchese mi aveva detto che, se non le dispiace, oggi insieme con mio
suocero e con Adriana
- Ah, bravo, sì! - esclamò il signor Anselmo, senza lasciarlo finire. - Andremo
tutti benissimo! Mi pare che ci sia ragione di stare allegri, ora, perbacco!
Che ne dice, signor Adriano?
- Per me - feci io, aprendo le braccia.
- E allora, verso le quattro Va bene? - propose Papiano, asciugandosi
definitivamente gli occhi.
Mi ritirai in camera. Il mio pensiero corse subito ad Adriana, che se n'era
scappata singhiozzando, dopo quella mia smentita. E se ora fosse venuta a
domandarmi una spiegazione? Certo non poteva credere neanche lei, ch'io avessi
davvero ritrovato il denaro. Che doveva ella dunque supporre? Ch'io, negando a
quel modo il furto, avevo voluto punirla del mancato giuramento. Ma perché?
Evidentemente perché dall'avvocato, a cui le avevo detto di voler ricorrere per
consiglio prima di denunziare il furto, avevo saputo che anche lei e tutti di
casa sarebbero stati chiamati responsabili di esso. Ebbene, e non mi aveva ella
detto che volentieri avrebbe affrontato lo scandalo? Sì: ma io - era chiaro -
io non avevo voluto: avevo preferito di sacrificar così dodici mila lire E
dunque, doveva ella credere che fosse generosità da parte mia, sacrifizio per
amor di lei? Ecco a quale altra menzogna mi costringeva la mia condizione:
stomachevole menzogna, che mi faceva bello di una squisita, delicatissima prova
d'amore, attribuendomi una generosità tanto più grande, quanto meno da lei
richiesta e desiderata.
Ma no! Ma no! Ma no! Che andavo fantasticando? A ben altre conclusioni dovevo
arrivare, seguendo la logica di quella mia menzogna necessaria e inevitabile.
Che generosità! che sacrifizio! che prova d'amore! Avrei potuto forse lusingare
più oltre quella povera fanciulla? Dovevo soffocarla, soffocarla, la mia
passione; non rivolgere più ad Adriana né uno sguardo né una parola d'amore. E
allora? Come avrebbe potuto ella mettere d'accordo quella mia apparente
generosità col contegno che d'ora innanzi dovevo impormi di fronte a lei. Io
ero dunque tratto per forza a profittar di quel furto ch'ella aveva svelato
contro la mia volontà e che io avevo smentito, per troncare ogni relazione con
lei. Ma che logica era questa? delle due l'una: o io avevo patito il furto, e
allora per qual ragione, conoscendo il ladro, non lo denunziavo, e ritraevo
invece da lei il mio amore, come se anch'ella ne fosse colpevole? o io avevo
realmente ritrovato il denaro, e allora perché non seguitavo ad amarla?
Sentii soffocarmi dalla nausea, dall'ira, dall'odio per me stesso. Avessi
almeno potuto dirle che non era generosità la mia; che io non potevo, in alcun
modo, denunziare il furto Ma dovevo pur dargliene una ragione Eran forse
denari rubati, i miei? Ella avrebbe potuto supporre anche questo O dovevo
dirle ch'ero un perseguitato, un fuggiasco compromesso, che doveva viver
nell'ombra e non poteva legare alla sua sorte quella d'una donna? Altre
menzogne alla povera fanciulla Ma, d'altra parte, la verità ch'ora appariva
a me stesso incredibile, una favola assurda, un sogno insensato, Ia verità
potevo io dirgliela? Per non mentire anche adesso, dovevo confessarle d'aver
mentito sempre? Ecco a che m'avrebbe condotto la rivelazione del mio stato. E a
che pro? Non sarebbe stata né una scusa per me, né un rimedio per lei.
Tuttavia, sdegnato, esasperato com'ero in quel momento, avrei forse confessato
tutto ad Adriana, se lei, invece di mandare la Caporale, fosse entrata di
persona in camera mia a spiegarmi perché era venuta meno al giurarnento.
La ragione m'era già nota: Papiano stesso me l'aveva detta. La Caporale
soggiunse che Adriana era inconsolabile.
- E perché? - domandai, con forzata indifferenza.
- Perché non crede, - mi rispose, - che lei abbia davvero ritrovato il danaro.
Mi nacque lì per lì l'idea (che s'accordava, del resto, con le condizioni
dell'animo mio, con la nausea che provavo di me stesso) l'idea di far perdere
ad Adriana ogni stima di me, perché non mi amasse più dimostrandomele falso,
duro, volubile, interessato Mi sarei punito così del male che le avevo
fatto. Sul momento, sì, le avrei cagionato altro male, ma a fin di bene, per
guarirla.
- Non crede? Come no? - dissi, con un tristo riso, alla Caporale. - Dodici mila
lire, signorina e che son rena? crede ella che sarei così tranquillo, se
davvero me le avessero rubate?
- Ma Adriana mi ha detto - si provò ad aggiungere quella.
- Sciocchezze! sciocchezze! - troncai io. - E vero, guardi sospettai per un
momento Ma dissi pure alla signorina Adriana che non credevo possibile il
furto E difatti, via! Che ragione, del resto, avrei io a dire che ho
ritrovato il denaro, se non l'avessi davvero ritrovato?
La signorina Caporale si strinse ne le spalle.
- Forse Adriana crede che lei possa avere qualche ragione per
- Ma no! ma no! - m'affrettai a interromperla. - Si tratta, ripeto, di dodici
mila lire, signorina. Fossero state trenta, quaranta lire, eh via! Non ho di
queste idee generose, creda pure Che diamine! ci vorrebbe un eroe
Quando la signorina Caporale andò via, per riferire ad Adriana le mie parole,
mi torsi le mani, me le addentai. Dovevo regolarmi proprio così? Approfittarmi
di quel furto, come se con quel denaro rubato volessi pagarla, compensarla
delle speranze deluse? Ah, era vile questo mio modo d'agire! Avrebbe certo
gridato di rabbia, ella, di là, e mi avrebbe disprezzato senza comprendere
che il suo dolore era anche il mio. Ebbene, cosi doveva essere! Ella doveva
odiarmi, disprezzarmi, com'io mi odiavo e mi disprezzavo. E anzi per inferocire
di più contro me stesso, per far crescere il suo disprezzo, mi sarei mostrato
ora tenerissimo verso Papiano, verso il suo nemico, come per compensarlo a gli
occhi di lei del sospetto concepito a suo carico. Sì, sì, e avrei stordito così
anche il mio ladro, sì, fino a far credere a tutti ch'io fossi pazzo E
ancora più, ancora più: non dovevamo or ora andare in casa del marchese Giglio?
ebbene, mi sarei messo, quel giorno stesso, a far la corte alla signorina Pantogada.
- Mi disprezzerai ancor più, cosi, Adriana! gemetti, rovesciandomi sul letto. -
Che altro, che altro posso fare per te?
Poco dopo le quattro, venne a picchiare all'uscio della mia camera il signor
Anselmo.
- Eccomi, - gli dissi, e mi recai addosso il pastrano. - Son pronto.
- Viene cosi? - mi domandò il Paleari, guardandomi meravigliato.
- Perché? - feci io.
Ma mi accorsi subito che avevo ancora in capo il berrettino da viaggio, che
solevo portare per casa. Me lo cacciai in tasca e tolsi dall'attaccapanni il
cappello, mentre il signor Anselmo rideva, rideva come se lui
- Dove va, signor Anselmo?
- Ma guardi un po' come stavo per andare anch'io - rispose tra le risa,
additandomi le pantofole ai piedi. - Vada, vada di là; c'è Adriana
- Viene anche lei? - domandai.
- Non voleva venire, - disse, avviandosi per la sua camera, il Paleari. - Ma
l'ho persuasa. Vada: è nel salotto da pranzo, già pronta
Con che sguardo duro, di rampogna, m'accolse in quella stanza la signorina
Caporale! Ella, che aveva tanto sofferto per amore e che s'era sentita tante
volte confortare dalla dolce fanciulla ignara, ora che Adriana sapeva, ora che
Adriana era ferita, voleva confortarla lei a sua volta, grata, premurosa; e si
ribellava contro di me, perché le pareva ingiusto ch'io facessi soffrire una
così buona e bella creatura. Lei, sì, lei non era bella e non era buona, e
dunque se gli uomini con lei si mostravano cattivi, almeno un'ombra di scusa
potevano averla. Ma perché far soffrire cosi Adriana?
Questo mi disse il suo sguardo, e m'invitò a guardar colei ch'io facevo
soffrire.
Com'era pallida! Le si vedeva ancora negli occhi che aveva pianto. Chi sa che
sforzo, nell'angoscia, le era costato il doversi abbigliare per uscire con
me
Non ostante l'animo con cui
mi recai a quella visita, la figura e la casa del marchese Giglio d'Auletta mi
destarono una certa curiosità.
Sapevo che egli stava a Roma perché, ormai, per la restaurazione del Regno
delle Due Sicilie non vedeva altro espediente se non nella lotta per il trionfo
del potere temporale: restituita Roma al Pontefice, l'unità d'Italia si sarebbe
sfasciata, e allora chi sa! Non voleva arrischiar profezie, il marchese. Per
il momento, il suo cómpito era ben definito: lotta senza quartiere, là, nel
campo clericale. E la sua casa era frequentata dai più intransigenti prelati
della Curia, dai paladini più fervidi del partito nero.
Quel giorno, però, nel vasto salone splendidamente arredato non trovammo
nessuno. Cioè, no. C'era, nel mezzo, un cavalletto, che reggeva una tela a metà
abbozzata, la quale voleva essere il ritratto di Minerva, della cagnetta
di Pepita, tutta nera, sdrajata su una poltrona tutta bianca, la testa
allungata su le due zampine davanti.
- Opera del pittore Bernaldez, - ci annunziò gravemente Papiano, come se
facesse una presentazione, che da parte nostra richiedesse un profondissimo
inchino.
Entrarono dapprima Pepita Pantogada e la governante, signora Candida.
Avevo veduto l'una e l'altra nella semioscurità della mia camera: ora, alla
luce, la signorina Pantogada mi parve un'altra; non in tutto veramente, ma nel
naso Possibile che avesse quel naso in casa mia? Me l'ero figurata con un
nasetto all'insù, ardito, e invece aquilino lo aveva, e robusto. Ma era pur
bella così: bruna, sfavillante negli occhi, coi capelli lucidi, nerissimi e
ondulati; le labbra fine taglienti, accese. L'abito scuro, punteggiato di
bianco, le stava dipinto sul corpo svelto e formoso. La mite bellezza bionda
d'Adriana, accanto a lei, impallidiva.
E finalmente potei spiegarmi che cosa avesse in capo la signora Candida! Una
magnifica parrucca fulva, riccioluta, e - su la parrucca - un ampio fazzoletto
di seta cilestrina, anzi uno scialle, annodato artisticamente sotto il mento.
Quanto vivace la cornice, tanto squallida la faccina magra e floscia, tuttoché
imbiaccata, lisciata, imbellettata.
Minerva, intanto, la vecchia cagnetta, co' suoi sforzati rochi abbajamenti, non
lasciava fare i convenevoli. La povera bestiola però non abbajava a noi;
abbajava al cavalletto, abbajava alla poltrona bianca, che dovevano esser per
lei arnesi di tortura: protesta e sfogo d'anima esasperata. Quel maledetto
ordegno dalle tre lunghe zampe avrebbe voluto farlo fuggire dal salone; ma
poiché esso rimaneva lì, immobile e minaccioso, si ritraeva lei, abbajando, e
poi gli saltava contro, digrignando i denti, e tornava a ritrarsi, furibonda.
Piccola, tozza, grassa su le quattro zampine troppo esili, Minerva era
veramente sgraziata; gli occhi già appannati dalla vecchiaja e i peli della
testa incanutiti; sul dorso poi, presso l'attaccatura della coda, era tutta
spelata per l'abitudine di grattarsi furiosamente sotto gli scaffali, alle
traverse delle seggiole, dovunque e comunque le venisse fatto. Ne sapevo
qualche cosa.
Pepita tutt'a un tratto la afferrò pel collo e la gettò in braccio alla signora
Candida, gridandole:
- Cito!
Entrò, in quella, di furia don Ignazio Giglio d'Auletta. Curvo, quasi spezzato
in due, corse alla sua poltrona presso la finestra, e - appena seduto -
ponendosi il bastone tra le gambe, trasse un profondo respiro e sorrise alla
sua stanchezza mortale. Il volto estenuato, solcato tutto di rughe verticali,
raso, era d'un pallore cadaverico, ma gli occhi, all'incontro, eran
vivacissimi, ardenti, quasi giovanili. Gli s'allungavano in guisa strana su le
gote, su le tempie, certe grosse ciocche di capelli, che parevan lingue di
cenere bagnata.
Ci accolse con molta cordialità, parlando con spiccato accento napoletano;
pregò quindi il suo segretario di seguitare a mostrarmi i ricordi di cui era pieno
il salone e che attestavano la sua fedeltà alla dinastia dei Borboni. Quando
fummo innanzi a un quadretto coperto da un mantino verde, su cui era ricamata
in oro questa leggenda: 'Non nascondo; riparo; alzami e leggi'
egli pregò Papiano di staccar dalla parete il quadretto e di recarglielo. C'era
sotto, riparata dal vetro e incorniciata, una lettera di Pietro Ulloa che, nel
settembre del 1860, cioè agli ultimi aneliti del regno, invitava il marchese
Giglio d'Auletta a far parte del Ministero che non si poté poi costituire:
accanto c'era la minuta della lettera d'accettazione del marchese: fiera
lettera che bollava tutti coloro che s'erano rifiutati di assumere la
responsabilità del potere in quel momento di supremo pericolo e d'angoscioso
scompiglio, di fronte al nemico, al filibustiere Garibaldi già quasi alle porte
di Napoli.
Leggendo ad alta voce questo documento, il vecchio s'accese e si commosse
tanto, che, sebbene ciò ch'ei leggeva fosse affatto contrario al mio
sentimento, pure mi destò ammirazione. Era stato anch'egli, dal canto suo, un
eroe. N'ebbi un'altra prova, quando egli stesso mi volle narrar la storia di un
certo giglio di legno dorato, ch'era pur lì, nel salone. La mattina del 5
settembre 1860 il Re usciva dalla Reggia di Napoli in un legnetto scoperto
insieme con la Regina e due gentiluomini di corte: arrivato il legnetto in via
di Chiaja dovette fermarsi per un intoppo di carri e di vetture innanzi a una
farmacia che aveva su l'insegna i gigli d'oro. Una scala, appoggiata
all'insegna, impediva il transito. Alcuni operaj, saliti su quella scala,
staccavano dall'insegna i gigli. Il Re se n'accorse e additò con la mano alla
Regina quell'atto di vile prudenza del farmacista, che pure in altri tempi
aveva sollecitato l'onore di fregiar la sua bottega di quel simbolo regale.
Egli, il marchese d'Auletta, si trovava in quel momento a passare di là:
indignato, furente, s'era precipitato entro la farmacia, aveva afferrato per il
bavero della giacca quel vile, gli aveva mostrato il Re ll fuori, gli aveva poi
sputato in faccia e, brandendo uno di quei gigli staccati, s'era messo a
gridare tra la ressa: 'Viva il Re!'.
Questo giglio di legno gli ricordava ora, lì nel salotto, quella triste mattina
di settembre, e una delle ultime passeggiate del suo Sovrano per le vie di
Napoli; ed egli se ne gloriava quasi quanto della chiave d'oro di
gentiluomo di camera e dell'insegna di cavaliere di San Gennaro e di tant'altre
onorificenze che facevano bella mostra di sé nel salone, sotto i due grandi
ritratti a olio di Ferdinando e di Francesco II.
Poco dopo, per attuare il mio tristo disegno, io lasciai il marchese col
Paleari e Papiano, e m'accostai a Pepita.
M'accorsi subito ch'ella era molto nervosa e impaziente. Volle per prima cosa
saper l'ora da me.
- Quattro e meccio? Bene! bene!
Che fossero però le quattro e meccio non aveva certamente dovuto farle
piacere: lo argomentai da quel 'Bene! bene!' a denti stretti e
dal volubile e quasi aggressivo discorso in cui subito dopo si lanciò contro
l'Italia e più contro Roma così gonfia di sé per il suo passato. Mi disse, tra
l'altro, che anche loro, in Ispagna, avevano tambien un Colosseo come il
nostro, della stessa antichità; ma non se ne curavano né punto né poco:
- Piedra muerta!
Valeva senza fine di più, per loro, una Plaza de toros. Sì, e per lei
segnatamente, più di tutti i capolavori dell'arte antica, quel ritratto di Minerva
del pittore Manuel Bernaldez che tardava a venire. L'impazienza di Pepita non
proveniva da altro, ed era già al colmo. Fremeva, parlando; si passava
rapidissimamente, di tratto in tratto, un dito sul naso; si mordeva il labbro;
apriva e chiudeva le mani, e gli occhi le andavano sempre lì, all'uscio.
Finalmente il Bernaldez fu annunziato dal cameriere, e si presentò accaldato,
sudato, come se avesse corso. Subito Pepita gli voltò le spalle e si sforzò
d'assumere un contegno freddo e indifferente; ma quando egli, dopo aver
salutato il marchese, si avvicinò a noi, o meglio a lei e, parlandole nella sua
lingua, chiese scusa del ritardo, ella non seppe contenersi più e gli rispose
con vertiginosa rapidità:
- Prima de tuto lei parli taliano, porqué aquí siamo a Roma, dove ci sono
aquesti segnori che no comprendono lo espagnolo, e no me par bona crianza che
lei parli con migo espagnolo. Poi le digo che me ne importa niente del su'
retardo e che podeva pasarse de la escusa.
Quegli, mortificatissimo, sorrise nervosamente e s'inchinò; poi le chiese se
poteva riprendere il ritratto, essendoci ancora un po' di luce.
- Ma comodo! - gli rispose lei con la stessa aria e lo stesso tono. - Lei
puede pintar senza de mi o tambien borrar lo pintado, come glie par.
Manuel Bernaldez tornò a inchinarsi e si rivolse alla signora Candida che
teneva ancora in braccio la cagnetta.
Ricominciò allora per Minerva il supplizio. Ma a un supplizio ben più crudele
fu sottoposto il suo carnefice: Pepita, per punirlo del ritardo, prese a
sfoggiar con me tanta civetteria, che mi parve anche troppa per lo scopo a cui
tendevo. Volgendo di sfuggita qualche sguardo ad Adriana, m'accorgevo di
quant'ella soffrisse. Il supplizio non era dunque soltanto per il Bernaldez e
per Minerva; era anche per lei e per me. Mi sentivo il volto in fiamme,
come se man mano mi ubriacasse il dispetto che sapevo di cagionare a quel
povero giovane, il quale tuttavia non m'ispirava pietà: pietà, lì dentro,
m'ispirava soltanto Adriana; e, poiché io dovevo farla soffrire, non
m'importava che soffrisse anche lui della stessa pena: anzi quanto più lui ne
soffriva, tanto meno mi pareva che dovesse soffrirne Adriana. A poco a poco, la
violenza che ciascuno di noi faceva a se stesso crebbe e si tese fino a tal
punto, che per forza doveva in qualche modo scoppiare.
Ne diede il pretesto Minerva. Non tenuta quel giorno in soggezione dallo
sguardo della padroncina, essa, appena il pittore staccava gli occhi da lei per
rivolgerli alla tela, zitta zitta, si levava dalla positura voluta, cacciava le
zampine e il musetto nell'insenatura tra la spalliera e il piano della
poltrona, come se volesse ficcarsi e nascondersi lì, e presentava al pittore il
di dietro, bello scoperto, come un o, scotendo quasi a dileggio la coda ritta.
Già parecchie volte la signora Candida la aveva rimessa a posto. Aspettando, il
Bernaldez sbuffava, coglieva a volo qualche mia parola rivolta a Pepita e la commentava
borbottando sotto sotto fra sé. Più d'una volta, essendomene accorto, fui sul
punto d'intimargli: 'Parli forte!'. Ma egli alla fine non ne poté
più, e gridò a Pepita:
- Prego: faccia almeno star ferma la bestia!
- Vestia, vestia, vestia - scattò Pepita, agitando le mani per aria,
eccitatissima. - Sarà vestia, ma non glie se dice!
- Chi sa che capisce, poverina - mi venne da osservare a mo' di scusa,
rivolto al Bernaldez.
La frase poteva veramente prestarsi a una doppia interpretazione; me ne accorsi
dopo averla proferita. Io volevo dire: 'Chi sa che cosa immagina che le si
faccia'. Ma il Bernaldez prese in altro senso le mie parole, e con estrema
violenza, figgendomi gli occhi negli occhi, rimbeccò:
- Ciò che dimostra di non capir lei!
Sotto lo sguardo fermo e provocante di lui, nell'eccitazione in cui mi trovavo
anch'io, non potei fare a meno di rispondergli:
- Ma io capisco, signor mio, che lei sarà magari un gran pittore
- Che cos'è? - domandò il marchese, notando il nostro fare aggressivo.
Il Bernaldez, perdendo ogni dominio su se stesso s'alzò e venne a piantarmisi
di faccia:
- Un gran pittore Finisca!
- Un gran pittore, ecco ma di poco garbo, mi pare; e fa paura alle cagnette,
- gli dissi io allora, risoluto e sprezzante.
- Sta bene, - fece lui. - Vedremo se alle cagnette soltanto!
E si ritirò.
Pepita improvvisamente ruppe in un pianto strano, convulso, e cadde svenuta tra
le braccia della signora Candida e di Papiano.
Nella confusione sopravvenuta, mentr'io con gli altri mi facevo a guardar la
Pantogada adagiata sul canapè, mi sentii afferrar per un braccio e mi vidi
sopra di nuovo il Bernaldez, ch'era tornato indietro. Feci in tempo a
ghermirgli la mano levata su me e lo respinsi con forza, ma egli mi si lanciò
contro ancora una volta e mi sfiorò appena il viso con la mano. Io mi avventai,
furibondo; ma Papiano e il Paleari accorsero a trattenermi, mentre il Bernaldez
si ritraeva gridandomi:
- Se l'abbia per dato! Ai suoi ordini! Qua conoscono il mio indirizzo!
Il marchese s'era levato a metà dalla poltrona, tutto fremente, e gridava
contro l'aggressore; io mi dibattevo intanto fra il Paleari e Papiano, che mi
impedivano di correre a raggiungere colui. Tentò di calmarmi anche il marchese,
dicendomi che, da gentiluomo, io dovevo mandar due amici per dare una buona
lezione a quel villano, che aveva osato di mostrar così poco rispetto per la
sua casa.
Fremente in tutto il corpo, senza più fiato gli chiesi appena scusa per lo
spiacevole incidente e scappai via, seguito dal Paleari e da Papiano. Adriana
rimase presso la svenuta, ch'era stata condotta di là.
Mi toccava ora a pregare il mio ladro che mi facesse da testimonio: lui e il
Paleari: a chi altri avrei potuto rivolgermi?
- Io? - esclamò, candido e stupito, il signor Anselmo. - Ma che! Nossignore!
Dice sul serio? - (e sorrideva). - Non m'intendo di tali faccende, io, signor
Meis Via, via, ragazzate, sciocchezze, scusi
- Lei lo farà per me, - gli gridai energicamente, non potendo entrare in quel
momento in discussione con lui. - Andrà con suo genero a trovare quel signore,
e
- Ma io non vado! Ma che dice! - m'interruppe. - Mi domandi qualunque altro
servizio: son pronto a servirla; ma questo, no: non è per me, prima di tutto; e
poi, via, glie l'ho detto: ragazzate! Non bisogna dare importanza Che
c'entra
- Questo, no! questo, no! - interloquì Papiano vedendomi smaniare. - C'entra
benissimo! Il signor Meis ha tutto il diritto d'esigere una soddisfazione;
direi anzi che è in obbligo, sicuro! deve, deve
- Andrà dunque lei con un suo amico, - dissi, non aspettandomi anche da lui un
rifiuto.
Ma Papiano apri le braccia addoloratissimo.
- Si figuri con che cuore vorrei farlo!
- E non lo fa? - gli gridai forte, in mezzo alla strada.
- Piano, signor Meis, - pregò egli, umile. - Guardi Senta: mi consideri
consideri la mia infelicissima condizione di subalterno di miserabile
segretario del marchese servo, servo, servo
- Che ci ha da vedere? Il marchese stesso ha sentito?
- Sissignore! Ma domani? Quel clericale di fronte al partito col
segretario che s'impiccia in questioni cavalleresche Ah, santo Dio, lei non
sa che miserie! E poi, quella fraschetta, ha veduto? è innamorata, come una
gatta, del pittore, di quel farabutto Domani fanno la pace, e allora io,
scusi, come mi trovo? Ci vado di mezzo! Abbia pazienza, signor Meis, mi
consideri E proprio così.
- Mi vogliono dunque lasciar solo in questo frangente? - proruppi ancora una
volta, esasperato. - Io non conosco nessuno, qua a Roma!
-Ma c'è il rimedio! C'è il rimedio! - s'affrettò a consigliarmi Papiano. -
Glielo volevo dir subito Tanto io, quanto mio suocero, creda, ci troveremmo
imbrogliati; siamo disadatti Lei ha ragione, lei freme, lo vedo: il sangue
non è acqua. Ebbene, si rivolga subito a due ufficiali del regio esercito: non
possono negarsi di rappresentare un gentiluomo come lei in una partita d'onore.
Lei si presenta, espone loro il caso Non è la prima volta che càpita loro di
rendere questo servizio a un forestiere.
Eravamo arrivati al portone di casa; dissi a Papiano: - Sta bene! - e lo
piantai lì, col suocero, avviandomi solo, fosco, senza direzione.
Mi s'era ancora una volta riaffacciato il pensiero schiacciante della mia
assoluta impotenza. Potevo fare un duello nella condizione mia? Non volevo
ancora capirlo ch'io non potevo far più nulla? Due ufficiali? Sì, Ma avrebbero
voluto prima sapere, e con fondamento, ch'io mi fossi. Ah, pure in faccia
potevano sputarmi, schiaffeggiarmi, bastonarmi: dovevo pregare che picchiassero
sodo, sì, quanto volevano, ma senza gridare, senza far troppo rumore Due
ufficiali! E se per poco avessi loro scoperto il mio vero stato, ma prima di
tutto non m'avrebbero creduto, chi sa che avrebbero sospettato; e poi sarebbe
stato inutile, come per Adriana: pur credendomi, m'avrebbero consigliato di
rifarmi prima vivo, giacché un morto, via, non si trova nelle debite condizioni
di fronte al codice cavalleresco
E dunque dovevo soffrirmi in pace l'affronto, come già il furto? Insultato,
quasi schiaffeggiato, sfidato, andarmene via come un vile, sparir così, nel
bujo dell'intollerabile sorte che mi attendeva, spregevole, odioso a me stesso?
No, no! E come avrei potuto più vivere? come sopportar la mia vita? No, no,
basta! basta! Mi fermai. Mi vidi vacillar tutto all'intorno; sentii mancarmi le
gambe al sorgere improvviso d'un sentimento oscuro, che mi comunicò un brivido
dal capo alle piante.
'Ma almeno prima, prima' dissi tra me, vaneggiando, 'almeno
prima tentare perché no? se mi venisse fatto Almeno tentare per non
rimaner di fronte a me stesso così vile Se mi venisse fatto avrei meno
schifo di me Tanto, non ho più nulla da perdere Perché non tentare?'
Ero a due passi dal Caffè Aragno. 'Là, là, allo sbaraglio!' E, nel
cieco orgasmo che mi spronava, entrai.
Nella prima sala, attorno a un tavolino, c'erano cinque o sei ufficiali
d'artiglieria e, come uno d'essi, vedendomi arrestar lì presso torbido,
esitante, si voltò a guardarmi, io gli accennai un saluto, e con voce rotta
dall'affanno:
- Prego scusi - gli dissi. - Potrei dirle una parola?
Era un giovanottino senza baffi, che doveva essere uscito quell'anno stesso
dall'Accademia, tenente. Si alzò subito e mi s'appressò, con molta cortesia.
- Dica pure, signore
- Ecco, mi presento da me: Adriano Meis. Sono forestiere, e non conosco
nessuno Ho avuto una una lite, sì Avrei bisogno di due padrini Non
saprei a chi rivolgermi Se lei con un suo compagno volesse
Sorpreso, perplesso, quegli stette un po' a squadrarmi, poi si voltò verso i
compagni, chiamò:
- Grigliotti!
Questi, ch'era un tenente anziano, con un pajo di baffoni all'insù, la
caramella incastrata per forza in un occhio, lisciato, impomatato, si levò,
seguitando a parlare coi compagni (pronunziava l'erre alla francese) e ci
s'avvicinò, facendomi un lieve, compassato inchino. Vedendolo alzare, fui sul
punto di dire al tenentino: 'Quello, no, per carità! quello, no!'. Ma
certo nessun altro del crocchio, come riconobbi poi, poteva esser più designato
di colui alla bisogna. Aveva su la punta delle dita tutti gli articoli del
codice cavalleresco.
Non potrei qui riferire per filo e per segno tutto ciò che egli si compiacque
di dirmi intorno al mio caso, tutto ciò che pretendeva da me dovevo
telegrafare, non so come, non so a chi, esporre, determinare, andare dal
colonnello ça va sans dire come aveva fatto lui, quando non era
ancora sotto le armi, e gli era capitato a Pavia lo stesso mio caso Perché,
in materia cavalleresca e giù, giù, articoli e precedenti e controversie e
giurì d'onore e che so io.
Avevo cominciato a sentirmi tra le spine fin dal primo vederlo: figurarsi ora,
sentendolo sproloquiare così! A un certo punto, non ne potei più: tutto il
sangue m'era montato alla testa: proruppi:
- Ma sissignore! ma lo so! Sta bene lei dice bene; ma come vuole ch'io
telegrafi, adesso? Io son solo! Io voglio battermi, ecco! battermi subito,
domani stesso, se è possibile senza tante storie! Che vuole ch'io ne sappia?
Io mi son rivolto a loro con la speranza che non ci fosse bisogno di tante
formalità, di tante inezie, di tante sciocchezze, mi scusi!
Dopo questa sfuriata, la conversazione diventò quasi diverbio e terminò
improvvisamente con uno scoppio di risa sguajate di tutti quegli ufficiali.
Scappai via, fuori di me, avvampato in volto, come se mi avessero preso a
scudisciate. Mi recai le mani alla testa, quasi per arrestar la ragione che mi
fuggiva; e, inseguito da quelle risa, m'allontanai di furia, per cacciarmi, per
nascondermi in qualche posto Dove? A casa? Ne provai orrore. E andai, andai
all'impazzata; poi, man mano rallentai il passo e alla fine, arrangolato, mi
fermai, come se non potessi più trascinar l'anima, frustata da quel dileggio,
fremebonda e piena d'una plumbea tetraggine angosciosa. Rimasi un pezzo
attonito; poi mi mossi di nuovo, senza più pensare, alleggerito d'un tratto, in
modo strano, d'ogni ambascia, quasi istupidito; e ripresi a vagare, non so per
quanto tempo, fermandomi qua e là a guardar nelle vetrine delle botteghe, che man
mano si serravano, e mi pareva che si serrassero per me, per sempre; e che le
vie a poco a poco si spopolassero, perché io restassi solo, nella notte,
errabondo, tra case tacite, buje, con tutte le porte, tutte le finestre
serrate, serrate per me, per sempre: tutta la vita si rinserrava, si spegneva,
ammutoliva con quella notte; e io già la vedevo come da lontano, come se essa
non avesse più senso né scopo per me. Ed ecco, alla fine, senza volerlo, quasi
guidato dal sentimento oscuro che mi aveva invaso tutto, maturandomisi dentro
man mano, mi ritrovai sul Ponte Margherita, appoggiato al parapetto, a guardare
con occhi sbarrati il fiume nero nella notte.
'Là?'
Un brivido mi colse, di sgomento, che fece d'un subito insorgere con impeto
rabbioso tutte le mie vitali energie armate di un sentimento d'odio feroce
contro coloro che, da lontano, m'obbligavano a finire, come avevan voluto, là,
nel molino della Stìa. Esse Romilda e la madre, mi avevan gettato in
questi frangenti: ah, io non avrei mai pensato di simulare un suicidio per
liberarmi di loro. Ed ecco, ora, dopo essermi aggirato due anni, come un'ombra,
in quella illusione di vita oltre la morte, mi vedevo costretto, forzato,
trascinato pei capelli a eseguire su me la loro condanna. Mi avevano ucciso davvero!
Ed esse esse sole si erano liberate di me
Un fremito di ribellione mi scosse. E non potevo io vendicarmi di loro, invece
d'uccidermi? Chi stavo io per uccidere? Un morto nessuno
Restai, come abbagliato da una strana luce improvvisa. Vendicarmi! Dunque,
ritornar lì, a Miragno? uscire da quella menzogna che mi soffocava divenuta
ormai insostenibile; ritornar vivo per loro castigo, col mio vero nome, nelle
mie vere condizioni, con le mie vere e proprie infelicità? Ma le presenti?
Potevo scuotermele di dosso, così, come un fardello esoso che si possa gettar
via? No, no, no! Sentivo di non poterlo fare. E smaniavo lì, sul ponte ancora
incerto della mia sorte.
Frattanto, ecco, nella tasca del mio pastrano palpavo, stringevo con le dita
irrequiete qualcosa che non riuscivo a capir che fosse. Alla fine, con uno
scatto di rabbia, la trassi fuori. Era il mio berrettino da viaggio, quello
che, uscendo di casa per far visita al marchese Giglio, m'ero cacciato in
tasca, senza badarci. Feci per gittarlo al fiume, ma - sul punto - un'idea mi
balenò; una riflessione, fatta durante il viaggio da Alenga a Torino, mi tornò
chiara alla memoria.
'Qua,' dissi, quasi inconsciamente, tra me, 'su questo
parapetto il cappello il bastone Sì! Com'esse là, nella gora del
molino, Mattia Pascal; io, qua, ora, Adriano Meis Una volta per uno! Ritorno
vivo; mi vendicherò!'
Un sussulto di gioja, anzi un impeto di pazzia m'investì, mi sollevò. Ma sì! ma
sì! Io non dovevo uccider me, un morto, io dovevo uccidere quella folle,
assurda finzione che m'aveva torturato, straziato due anni, quell'Adriano Meis,
condannato a essere un vile, un bugiardo, un miserabile; quell'Adriano Meis
dovevo uccidere, che essendo, com'era, un nome falso, avrebbe dovuto aver pure
di stoppa il cervello, di cartapesta il cuore, di gomma le vene, nelle quali un
po' d'acqua tinta avrebbe dovuto scorrere, invece di sangue: allora sì! Via,
dunque, giù, giù, tristo fantoccio odioso! Annegato, là, come Mattia Pascal Una
volta per uno! Quell'ombra di vita, sorta da una menzogna macabra, si sarebbe
chiusa degnamente, così, con una menzogna macabra! E riparavo tutto! Che altra
soddisfazione avrei potuto dare ad Adriana per il male che le avevo fatto? Ma
l'affronto di quel farabutto dovevo tenermelo? Mi aveva investito a tradimento,
il vigliacco! Oh, io ero ben sicuro di non aver paura di lui. Non io, non io,
ma Adriano Meis aveva ricevuto l'insulto. Ed ora, ecco, Adriano Meis
s'uccideva.
Non c'era altra via di scampo per me!
Un tremore, intanto, mi aveva preso, come se io dovessi veramente uccidere
qualcuno. Ma il cervello mi s'era d'un tratto snebbiato, il cuore alleggerito,
e godevo d'una quasi ilare lucidità di spirito.
Mi guardai attorno. Sospettai che di là, sul Lungotevere, ci potesse essere
qualcuno, qualche guardia, che - vedendomi da un pezzo sul ponte - si fosse
fermata a spiarmi. Volli accertarmene: andai, guardai prima nella Piazza della
Libertà, poi per il Lungotevere dei Mellini. Nessuno! Tornai allora indietro;
ma, prima di rifarmi sul ponte, mi fermai tra gli alberi, sotto un fanale:
strappai un foglietto dal taccuino e vi scrissi col lapis: Adriano Meis.
Che altro? Nulla. L'indirizzo e la data. Bastava così. Era tutto lì, Adriano
Meis, in quel cappello, in quel bastone. Avrei lasciato tutto, là, a casa,
abiti, libri Il denaro, dopo il furto, l'avevo con me.
Ritornai sul ponte, cheto, chinato. Mi tremavano le gambe, e il cuore mi
tempestava in petto. Scelsi il posto meno illuminato dai fanali, e subito mi
tolsi il cappello, infissi nel nastro il biglietto ripiegato, poi lo posai sul
parapetto, col bastone accanto; mi cacciai in capo il provvidenziale berrettino
da viaggio che m'aveva salvato, e via, cercando l'ombra, come un ladro, senza
volgermi addietro.
CAPITOLO XVII (rincarnazione)
Arrivai alla stazione in
tempo per il treno delle dodici e dieci per Pisa.
Preso il biglietto, mi rincantucciai in un vagone di seconda classe, con la
visiera del berrettino calcata fin sul naso, non tanto per nascondermi, quanto
per non vedere. Ma vedevo lo stesso, col pensiero: avevo l'incubo di quel
cappellaccio e di quel bastone, lasciati lì, sul parapetto del ponte. Ecco,
forse qualcuno, in quel momento, passando di là, li scorgeva o forse già
qualche guardia notturna era corsa in questura a dar l'avviso E io ero
ancora a Roma! Che s'aspettava? Non tiravo più fiato
Finalmente il convoglio si scrollò. Per fortuna ero rimasto solo nello
scompartimento. Balzai in piedi, levai le braccia, trassi un interminabile
respiro di sollievo, come se mi fossi tolto un macigno di sul petto. Ah!
tornavo a esser vivo, a esser io, io Mattia Pascal. Lo avrei gridato forte a
tutti, ora: 'Io, io, Mattia Pascal! Sono io! Non sono morto! Eccomi
qua!'. E non dover più mentire, non dover più temere d'essere scoperto! Ancora
no, veramente: finché non arrivavo a Miragno Là, prima, dovevo dichiararmi,
farmi riconoscer vivo, rinnestarmi alle mie radici sepolte Folle! Come mi
ero illuso che potesse vivere un tronco reciso dalle sue radici? Eppure,
eppure, ecco, ricordavo l'altro viaggio, quello da Alenga a Torino: m'ero
stimato felice, allo stesso modo, allora. Folle! La liberazione! dicevo
M'era parsa quella la liberazione! Sì, con la cappa di piombo della menzogna
addosso! Una cappa di piombo addosso a un'ombra Ora avrei avuto di nuovo la
moglie addosso, è vero, e quella suocera Ma non le avevo forse avute addosso
anche da morto? Ora almeno ero vivo, e agguerrito. Ah, ce la saremmo veduta!
Mi pareva, a ripensarci, addirittura inverosimile la leggerezza con cui, due
anni addietro, m'ero gettato fuori d'ogni legge, alla ventura. E mi rivedevo
nei primi giorni, beato nell'incoscienza, o piuttosto nella follia, a Torino, e
poi man mano nelle altre città, in pellegrinaggio, muto, solo, chiuso in me,
nel sentimento di ciò che mi pareva allora la mia felicità; ed eccomi in
Germania, lungo il Reno, su un piroscafo: era un sogno? no, c'ero stato
davvero! ah, se avessi potuto durar sempre in quelle condizioni; viaggiare,
forestiere della vita Ma a Milano, poi quel povero cucciolotto che volevo
comperare da un vecchio cerinajo Cominciavo già ad accorgermi E poi ah
poi!
Ripiombai col pensiero a Roma; entrai come un'ombra nella casa abbandonata.
Dormivano tutti? Adriana, forse, no m'aspetta ancora, aspetta che io rincasi;
le avranno detto che sono andato in cerca di due padrini, per battermi col
Bernaldez; non mi sente ancora rincasare, e teme e piange
Mi premetti forte le mani sul volto, sentendomi stringere il cuore d'angoscia.
- Ma se io per te non potevo esser vivo, Adriana, - gemetti, - meglio che tu
ora mi sappia morto! morte le labbra che colsero un bacio dalla tua bocca,
povera Adriana Dimentica! Dimentica!
Ah, che sarebbe avvenuto in quella casa, nella prossima mattina, quando
qualcuno della questura si sarebbe presentato a dar l'annunzio? A qual ragione,
passato il primo sbalordimento, avrebbero attribuito il mio suicidio? Al duello
imminente? Ma no! Sarebbe stato, per lo meno, molto strano che un uomo, il
quale non aveva mai dato prova d'essere un codardo, si fosse ucciso per paura
di un duello E allora? Perché non potevo trovar padrini? Futile pretesto! O
forse chi sa! era possibile che ci fosse sotto, in quella mia strana
esistenza, qualche mistero
Oh, sì: l'avrebbero senza dubbio pensato! M'uccidevo così, senz'alcuna ragione
apparente, senza averne prima dimostrato in qualche modo l'intenzione. Sì:
qualche stranezza, più d'una, l'avevo commessa in quegli ultimi giorni: quel
pasticcio del furto, prima sospettato, poi improvvisamente smentito Oh che
forse quei denari non erano miei? dovevo forse restituirli a qualcuno? m'ero
indebitamente appropriato d'una parte di essi e avevo tentato di farmi credere
vittima d'un furto, poi m'ero pentito, e, in fine, ucciso? Chi sa! Certo ero
stato un uomo misteriosissimo: non un amico, non una lettera, mai, da nessuna
parte
Quanto avrei fatto meglio a scrivere qualche cosa in quel bigliettino, oltre il
nome, la data e l'indirizzo: una ragione qualunque del suicidio. Ma in quel
momento E poi, che ragione?
'Chi sa come e quanto,' pensai, smaniando, 'strilleranno adesso
i giornali di questo Adriano Meis misterioso Salterà certo fuori quel mio
famoso cugino, quel tal Francesco Meis torinese, ajuto-agente, a dar le sue
informazioni alla questura: si faranno ricerche, su la traccia di queste
informazioni, e chi sa che cosa ne verrà fuori. Sì, ma i danari? l'eredità?
Adriana li ha veduti, tutti que' miei biglietti di banca Figuriamoci
Papiano! Assalto allo stipetto! Ma lo troverà vuoto E allora, perduti? in
fondo al fiume? Peccato! peccato! Che rabbia non averli rubati tutti a tempo!
La questura sequestrerà i miei abiti, i miei libri A chi andranno? Oh!
almeno un ricordo alla povera Adriana! Con che occhi guarderà ella, ormai,
quella mia camera deserta?'
Così, domande, supposizioni, pensieri, sentimenti tumultuavano in me, mentre il
treno rombava nella notte. Non mi davano requie.
Stimai prudente fermarmi qualche giorno a Pisa per non stabilire una relazione
tra la ricomparsa di Mattia Pascal a Miragno e la scomparsa di Adriano Meis a
Roma, relazione che avrebbe potuto facilmente saltare a gli occhi, specie se i
giornali di Roma avessero troppo parlato di questo suicidio. Avrei aspettato a
Pisa i giornali di Roma, quelli de la sera e quelli del mattino; poi, se non si
fosse fatto troppo chiasso, prima che a Miragno, mi sarei recato a Oneglia, da
mio fratello Roberto, a sperimentare su lui l'impressione che avrebbe fatto la
mia resurrezione. Ma dovevo assolutamente vietarmi di fare il minimo accenno
alla mia permanenza in Roma, alle avventure, ai casi che m'erano occorsi. Di
quei due anni e mesi d'assenza avrei dato fantastiche notizie, di lontani
viaggi Ah, ora, ritornando vivo, avrei potuto anch'io prendermi il gusto di
dire bugie, tante, tante, tante, anche della forza di quelle del cavalier Tito
Lenzi, e più grosse ancora!
Mi restavano più di cinquantadue mila lire. I creditori, sapendomi morto da due
anni, s'erano certo contentati del podere della Stìa col mulino. Venduto
l'uno e l'altro, s'erano forse aggiustati alla meglio: non mi avrebbero più
molestato. Avrei pensato io, se mai, a non farmi più molestare. Con
cinquantadue mila lire, a Miragno, via, non dico grasso, avrei potuto vivere
discretamente.
Lasciato il treno a Pisa, prima di tutto mi recai a comperare un cappello,
della forma e della dimensione di quelli che Mattia Pascal ai suoi dì soleva
portare; subito dopo mi feci tagliar la chioma di quell'imbecille d'Adriano
Meis.
- Corti, belli corti, eh? - dissi al barbiere.
M'era già un po' ricresciuta la barba, e ora, coi capelli corti, ecco che
cominciai a riprender il mio primo aspetto, ma di molto migliorato, più fino,
già ma sì, ringentilito. L'occhio non era più storto, eh! non era più quello
caratteristico di Mattia Pascal.
Ecco, qualche cosa d'Adriano Meis mi sarebbe tuttavia rimasta in faccia. Ma
somigliavo pur tanto a Roberto, ora; oh, quanto non avrei mai supposto.
Il guajo fu, quando - dopo essermi liberato di tutti quei capellacci - mi
rimisi in capo il cappello comperato poc'anzi: mi sprofondò fin su la nuca!
Dovetti rimediare, con l'ajuto del barbiere, ponendo un giro di carta sotto la
fodera.
Per non entrare così, con le mani vuote, in un albergo, comperai una valigia:
ci avrei messo dentro, per il momento, l'abito che indossavo e il pastrano. Mi
toccava rifornirmi di tutto, non potendo sperare che, dopo tanto tempo, là a
Miragno, mia moglie avesse conservato qualche mio vestito e la biancheria.
Comperai l'abito bell'e fatto, in un negozio, e me lo lasciai addosso; con la
valigia nuova, scesi all'Hotel Nettuno.
Ero già stato a Pisa quand'ero Adriano Meis, ed ero sceso allora all'Albergo di
Londra. Avevo già ammirato tutte le meraviglie d'arte della città; ora,
stremato di forze per le emozioni violente, digiuno dalla mattina del giorno
avanti, cascavo di fame e di sonno. Presi qualche cibo, e quindi dormii quasi
fino a sera.
Appena sveglio, però, caddi in preda a una fosca smania crescente. Quella
giornata quasi non avvertita da me, tra le prime faccende e poi in quel sonno
di piombo in cui ero caduto, chi sa intanto com'era passata lì, in casa
Paleari! Rimescolìo, sbalordimento, curiosità morbosa di estranei, indagini
frettolose, sospetti, strampalate ipotesi, insinuazioni, vane ricerche; e i
miei abiti e i miei libri, là, guardati con quella costernazione che ispirano
gli oggetti appartenenti a qualcuno tragicamente morto.
E io avevo dormito! E ora, in questa impazienza angosciosa, avrei dovuto
aspettare fino alla mattina del giorno seguente, per saper qualche cosa dai
giornali di Roma.
Frattanto, non potendo correre a Miragno, o almeno a Oneglia, mi toccava a
rimanere in una bella condizione, dentro una specie di parentesi di due, di tre
giorni e fors'anche più: morto di là, a Miragno, come Mattia Pascal; morto di
qua, a Roma, come Adriano Meis.
Non sapendo che fare, sperando di distrarmi un po' da tante costernazioni,
portai questi due morti a spasso per Pisa.
Oh, fu una piacevolissima passeggiata! Adriano Meis, che c'era stato, voleva
quasi quasi far da guida e da cicerone a Mattia Pascal; ma questi oppresso da
tante cose che andava rivolgendo in mente, si scrollava con fosche maniere,
scoteva un braccio come per levarsi di torno quell'ombra esosa, capelluta, in
abito lungo, col cappellaccio a larghe tese e con gli occhiali.
'Va' via! va'! Tornatene al fiume, affogato!'
Ma ricordavo che anche Adriano Meis, passeggiando due anni addietro per le vie
di Pisa, s'era sentito importunato, infastidito allo stesso modo dall'ombra,
ugualmente esosa, di Mattia Pascal, e avrebbe voluto con lo stesso gesto
cavarsela dai piedi, ricacciandola nella gora del molino, là, alla Stìa.
Il meglio era non dar confidenza a nessuno dei due. O bianco campanile, tu
potevi pendere da una parte; io, tra quei due, né di qua né di là.
Come Dio volle, arrivai finalmente a superare quella nuova interminabile
nottata d'ambascia e ad avere in mano i giornali di Roma.
Non dirò che, alla lettura, mi tranquillassi: non potevo. La costernazione che
mi teneva, fu però presto ovviata dal vedere che alla notizia del mio suicidio
i giornali avevano dato le proporzioni d'uno dei soliti fatti di cronaca.
Dicevano tutti, sù per giù, la stessa cosa: del cappello, del bastone trovati
sul Ponte Margherita, col laconico bigliettino; ch'ero torinese, uomo alquanto
singolare, e che s'ignoravano le ragioni che mi avevano spinto al triste passo.
Uno però avanzava la supposizione che ci fosse di mezzo una 'ragione
intima', fondandosi sul 'diverbio con un giovane pittore spagnuolo,
in casa di un notissimo personaggio del mondo clericale'.
Un altro diceva 'probabilmente per dissesti finanziarii'. Notizie
vaghe, insomma, e brevi. Solo un giornale del mattino, solito di narrar
diffusamente i fatti del giorno, accennava 'alla sorpresa e al dolore
della famiglia del cavalier Anselmo Paleari, caposezione al Ministero della
pubblica istruzione, ora a riposo, presso cui il Meis abitava, molto stimato
per il suo riserbo e pe' suoi modi cortesi'. - Grazie! - Anche questo
giornale, riferendo la sfida corsa col pittore spagnuolo M. B., lasciava intendere
che la ragione del suicidio dovesse cercarsi in una segreta passione amorosa.
M'ero ucciso per Pepita Pantogada, insomma. Ma, alla fine, meglio così. Il nome
d'Adriana non era venuto fuori, né s'era fatto alcun cenno de' miei biglietti
di banca. La questura dunque, avrebbe indagato nascostamente. Ma su quali
tracce?
Potevo partire per Oneglia.
Trovai Roberto in villa, per
la vendemmia. Quel ch'io provassi nel rivedere la mia bella riviera, in cui
credevo di non dover più metter piede, sarà facile intendere. Ma la gioja m'era
turbata dall'ansia d'arrivare, dall'apprensione d'esser riconosciuto per via da
qualche estraneo prima che dai parenti, dall'emozione di punto in punto
crescente che mi cagionava il pensiero di ciò che avrebbero essi provato nel
rivedermi vivo, d'un tratto, innanzi a loro. Mi s'annebbiava la vista, a
pensarci, mi s'oscuravano il cielo e il mare, il sangue mi frizzava per le
vene, il cuore mi batteva in tumulto. E mi pareva di non arrivar mai!
Quando, finalmente, il servo venne ad aprire il cancello della graziosa villa,
recata in dote a Berto dalla moglie, mi sembrò, attraversando il viale, ch'io
tornassi veramente dall'altro mondo.
- Favorisca, - mi disse il servo, cedendomi il passo su l'entrata della villa.
- Chi debbo annunziare?
Non mi trovai più in gola la voce per rispondergli. Nascondendo lo sforzo con
un sorriso, balbettai:
- Di' dite ditegli che sì, c'è c'è un suo amico intimo,
che che viene da lontano Così
Per lo meno quel servo dovette credermi balbuziente. Depose la mia valigia
accanto all'attaccapanni e m'invitò a entrare nel salotto lì presso.
Fremevo nell'attesa, ridevo, sbuffavo, mi guardavo attorno, in quel salottino
chiaro, ben messo, arredato di mobili nuovi di lacca verdina. Vidi a un tratto,
su la soglia dell'uscio per cui ero entrato un bel bimbetto, di circa
quattr'anni, con un piccolo annaffiatojo in una mano e un rastrellino
nell'altra. Mi guardava con tanto d'occhi.
Provai una tenerezza indicibile: doveva essere un mio nipotino, il figlio maggiore
di Berto; mi chinai, gli accennai con la mano di farsi avanti; ma gli feci
paura; scappò via.
Sentii in quel punto schiudere l'altro uscio del salotto. Mi rizzai, gli occhi
mi s'intorbidarono dalla commozione, una specie di riso convulso mi gorgogliò
in gola.
Roberto era rimasto innanzi a me, turbato, quasi stordito.
- Con chi? - fece.
- Berto! - gli gridai, aprendo le braccia. - Non mi riconosci?
Diventò pallidissimo, al suono della mia voce, si passò rapidamente una mano su
la fronte e su gli occhi, vacillò, balbettando:
- Com'è com'è com'è?
Ma io fui pronto a sorreggerlo, quantunque egli si traesse indietro, quasi per
paura.
- Son io! Mattia! non aver paura! Non sono morto Mi vedi? Toccami! Sono io,
Roberto. Non sono mai stato più vivo d'adesso! Sù, sù, sù
- Mattia! Mattia! Mattia! - prese a dire il povero Berto, non credendo ancora
agli occhi suoi. - Ma com'è? Tu? Oh Dio com'è? Fratello mio! Caro Mattia!
E m'abbracciò forte, forte, forte. Mi misi a piangere come un bambino.
- Com'è? - riprese a domandar Berto che piangeva anche lui. - Com'è? com'è?
- Eccomi qua Vedi? Son tornato non dall'altro mondo, no sono stato
sempre in questo mondaccio Sù Ora ti dirò
Tenendomi forte per le braccia, col volto pieno di lagrime, Roberto mi guardava
ancora trasecolato:
- Ma come se là?
- Non ero io Ti dirò. M'hanno scambiato lo ero lontano da Miragno e ho
saputo, come l'hai saputo forse tu, da un giornale, il mio suicidio alla Stìa.
- Non eri dunque tu? - esclamò Berto. - E che hai fatto?
- Il morto. Sta' zitto. Ti racconterò tutto. Per ora non posso. Ti dico questo
soltanto, che sono andato di qua e di là, credendomi felice, dapprima, sai?:
poi, per per tante vicissitudini, mi sono accorto che avevo sbagliato, che
fare il morto non è una bella professione: ed eccomi qua: mi rifaccio vivo .
- Mattia, l'ho sempre detto io, Mattia, matto Matto! matto!
matto! - esclamò Berto. - Ah che gioja m'hai dato! Chi poteva aspettarsela?
Mattia vivo qua! Ma sai che non ci so credere ancora? Lasciati guardare
Mi sembri un altro!
- Vedi che mi sono aggiustato anche l'occhio?
- Ah già, sì per questo mi pareva non so ti guardavo, ti guardavo
Benone! Sù, andiamo di là, da mia moglie Oh! Ma aspetta tu
Si fermò improvvisamente e mi guardò, sconvolto:
- Tu vuoi tornare a Miragno?
- Certamente, stasera.
- Dunque non sai nulla?
Si coprì il volto con le mani e gemette:
- Disgraziato! Che hai fatto che hai fatto? Ma non sai che tua moglie?
- Morta? - esclamai, restando.
- No! Peggio! Ha ha ripreso marito!
Trasecolai.
- Marito?
- Sì, Pomino! Ho ricevuto la partecipazione. Sarà più d'un anno.
- Pomino? Pomino, marito di - balbettai; ma subito un riso amaro, come un
rigurgito di bile, mi saltò alla gola, e risi, risi fragorosamente.
Roberto mi guardava sbalordito, forse temendo che fossi levato di cervello.
- Ridi?
- Ma si! ma sì! ma sì! - gli gridai, scotendolo per le braccia. - Tanto meglio!
Questo è il colmo della mia fortuna!
- Che dici? - scattò Roberto, quasi rabbiosamente. - Fortuna? Ma se tu ora vai
lì
- Subito ci corro, figùrati!
- Ma non sai dunque che ti tocca a riprendertela?
- Io? Come!
- Ma certo! - raffermò Berto, mentre sbalordito lo guardavo io, ora, a mia
volta. - Il secondo matrimonio s'annulla, e tu sei obbligato a riprendertela.
Sentii sconvolgermi tutto.
- Come! Che legge è questa? - gridai. - Mia moglie si rimarita, ed io.. Ma che?
Sta' zitto! Non è possibile!
- E io ti dico invece che è proprio così! - sostenne Berto. - Aspetta: c'è di
là mio cognato. Te lo spiegherà meglio lui, che è dottore in legge. Vieni o
meglio, no: attendi un po' qua: mia moglie è incinta; non vorrei che, per
quanto ti conosca poco, le potesse far male un'impressione troppo forte Vado
a prevenirla Attendi, eh?
E mi tenne la mano fin sulla soglia dell'uscio, come se temesse ancora, che -
lasciandomi per un momento - io potessi sparir di nuovo.
Rimasto solo, mi misi a fare in quel salottino le volte del leone.
'Rimaritata! con Pomino! Ma sicuro Anche la stessa moglie. Lui - eh
già! - la aveva amata prima. Non gli sarà parso vero! E anche lei
figuriamoci! Ricca, moglie di Pomino E mentre lei qua s'era rimaritata, io
là a Roma E ora devo riprendermela! Ma possibile?'
Poco dopo, Roberto venne a chiamarmi tutto esultante. Ero ormai però tanto
scombussolato da questa notizia inattesa, che non potei rispondere alla festa
che mi fecero mia cognata e la madre e il fratello di lei. Berto se n'accorse,
e interpellò subito il cognato su ciò che mi premeva soprattutto di sapere.
- Ma che legge è questa? - proruppi ancora una volta. - Scusi! Questa è legge
turca!
Il giovane avvocato sorrise, rassettandosi le lenti sul naso, con aria di
superiorità.
- Ma pure è così, - mi rispose. - Roberto ha ragione. Non rammento con
precisione l'articolo, ma il caso è previsto dal codice: il secondo matrimonio
diventa nullo, alla ricomparsa del primo coniuge.
- E io devo riprendermi, - esclamai irosamente, - una donna che, a saputa di
tutti, è stata per un anno intero in funzione di moglie con un altr'uomo, il
quale
- Ma per colpa sua, scusi, caro signor Pascal! - m'interruppe l'avvocatino,
sempre sorridente.
- Per colpa mia? Come? - feci io. - Quella buona donna sbaglia, prima di tutto,
riconoscendomi nel cadavere d'un disgraziato che s'annega, poi s'affretta a
riprender marito, e la colpa è mia? e io devo riprendermela?
- Certo, - replicò quegli, - dal momento che lei, signor Pascal, non volle
correggere a tempo, prima cioè del termine prescritto dalla legge per contrarre
un secondo matrimonio, lo sbaglio di sua moglie, sbaglio che poté anche - non
nego - essere in mala fede. Lei lo accettò, quel falso riconoscimento, e se ne
avvalse Oh, badi: io la lodo di questo: per me ha fatto benissimo. Mi fa
specie, anzi, che lei ritorni a ingarbugliarsi nell'intrico di queste nostre
stupide leggi sociali. Io, ne' panni suoi, non mi sarei fatto più vivo.
La calma, la saccenteria spavalda di questo giovanottino laureato di fresco
m'irritarono.
- Ma perché lei non sa che cosa voglia dire! - gli risposi, scrollando le
spalle.
- Come! - riprese lui. - Si può dare maggior fortuna, maggior felicità di
questa?
- Sì, la provi! la provi! - esclamai, voltandomi verso Berto, per piantarlo lì,
con la sua presunzione.
Ma anche da questo lato trovai spine.
- Oh, a proposito, - mi domandò mio fratello, - e come hai fatto, in tutto
questo tempo, per?
E stropicciò il pollice e l'indice, per significare quattrini.
- Come ho fatto? - gli risposi. - Storia lunga! Non sono adesso in condizione
di narrartela. Ma ne ho avuti, sai? quattrini, e ne ho ancora: non credere
dunque ch'io ritorni ora a Miragno perché ne sia a corto!
- Ah, ti ostini a tornarci? - insistette Berto, - anche dopo queste notizie?
- Ma si sa che ci torno! - esclamai. - Ti pare che dopo quello che ho
sperimentato e sofferto, voglia fare ancora il morto? No, caro mio: là, là;
voglio le mie carte in regola, voglio risentirmi vivo, ben vivo, e anche a
costo di riprendermi la moglie. Di, un po', è ancora viva la madre la vedova
Pescatore ?
- Oh, non so, - mi rispose Berto. - Comprenderai che, dopo il secondo
matrimonio Ma credo di sì, che sia viva
- Mi sento meglio! - esclamai. - Ma non importa! Mi vendicherò! Non son più
quello di prima, sai? Soltanto mi dispiace che sarà una fortuna per
quell'imbecille di Pomino!
Risero tutti. Il servo venne intanto ad annunziare ch'era in tavola. Dovetti
fermarmi a desinare; ma fremevo di tanta impazienza, che non m'accorsi nemmeno
di mangiare; sentii però infine che avevo divorato. La fiera, in me, s'era
rifocillata, per prepararsi all'imminente assalto.
Berto mi propose di trattenermi almeno per quella sera in villa: la mattina
seguente saremmo andati insieme a Miragno. Voleva godersi la scena del mio
ritorno impreveduto alla vita, quel mio piombar come un nibbio là sul nido di
Pomino. Ma io non tenevo più alle mosse, e non volli saperne: lo pregai di
lasciarmi andar solo, e quella sera stessa, senz'altro indugio.
Partii col treno delle otto: fra mezz'ora, a Miragno.
CAPITOLO XVIII (il fu Mattia Pascal)
Tra l'ansia e la rabbia (non
sapevo che mi agitasse di più, ma eran forse una cosa sola: ansiosa rabbia,
rabbiosa ansia) non mi curai più se altri mi riconoscesse prima di scendere o
appena sceso a Miragno.
M'ero cacciato in un vagone di prima classe, per unica precauzione. Era sera; e
del resto, l'esperimento fatto su Berto mi rassicurava: radicata com'era in
tutti la certezza della mia trista morte, ormai di due anni lontana, nessuno
avrebbe più potuto pensare ch'io fossi Mattia Pascal.
Mi provai a sporgere il capo dal finestrino, sperando che la vista dei noti
luoghi mi destasse qualche altra emozione meno violenta; ma non valse che a
farmi crescer l'ansia e la rabbia. Sotto la luna, intravidi da lontano il
clivio della Stìa.
- Assassine! - fischiai tra i denti. - Là Ma ora
Quante cose, sbalordito dall'inattesa notizia, mi ero dimenticato di domandare
a Roberto! Il podere, il molino erano stati davvero venduti? o eran tuttora,
per comune accordo dei creditori, sotto un'amministrazione provvisoria? E
Malagna era morto? E zia Scolastica?
Non mi pareva che fossero passati soltanto due anni e mesi; un'eternità mi
pareva, e che - come erano accaduti a me casi straordinarii - dovessero
parimenti esserne accaduti a Miragno. Eppure niente, forse, vi era accaduto,
oltre quel matrimonio di Romilda con Pomino, normalissimo in sé, e che solo
adesso, per la mia ricomparsa, sarebbe diventato straordinario.
Dove mi sarei diretto, appena sceso a Miragno. Dove s'era composto il nido la
nuova coppia?
Troppo umile per Pomino, ricco e figlio unico la casa in cui io, poveretto,
avevo abitato. E poi Pomino, tenero di cuore, ci si sarebbe trovato certo a
disagio, lì, con l'inevitabile ricordo di me. Forse s'era accasato col padre,
nel Palazzo. Figurarsi la vedova Pescatore, che arie da matrona, adesso!
e quel povero cavalier Pomino, Gerolamo I, delicato, gentile, mansueto, tra le
grinfie della megera! Che scene! Né il padre, certo, né il figlio avevano avuto
il coraggio di levarsela dai piedi. E ora, ecco - ah che rabbia! - li avrei
liberati io
Sì, là, a casa Pomino, dovevo indirizzarmi: che se anche non ce li avessi
trovati, avrei potuto sapere dalla portinaja dove andarli a scovare.
Oh paesello mio addormentato, che scompiglio dimani, alla notizia della mia
resurrezione!
C'era la luna, quella sera, e però tutti i lampioncini erano spenti, al solito,
per le vie quasi deserte, essendo l'ora della cena pei più.
Avevo quasi perduto, per la estrema eccitazione nervosa, la sensibilità delle
gambe: andavo, come se non toccassi terra coi piedi. Non saprei ridire in che
animo fossi: ho soltanto l'impressione come d'una enorme, omerica risata che,
nell'orgasmo violento, mi sconvolgeva tutte le viscere, senza poter scoppiare:
se fosse scoppiata, avrebbe fatto balzar fuori, come denti, i selci della via,
e vacillar le case.
Giunsi in un attimo a casa Pomino; ma in quella specie di bacheca che è
nell'androne non trovai la vecchia portinaja; fremendo, attendevo da qualche
minuto, quando su un battente del portone scorsi una fascia di lutto stinta e
polverosa, inchiodata lì, evidentemente, da parecchi mesi. Chi era morto? La
vedova Pescatore? Il cavalier Pomino? Uno dei due, certamente. Porse il
cavaliere In questo caso, i miei due colombi, li avrei trovati sù,
senz'altro, insediati nel Palazzo. Non potei aspettar più oltre: mi
lanciai a balzi sù per la scala. Alla seconda branca, ecco la portinaja.
- Il cavalier Pomino?
Dallo stupore con cui quella vecchia tartaruga mi guardò, compresi che proprio
il povero cavaliere doveva esser morto.
- Il figlio! il figlio! - mi corressi subito, riprendendo a salire.
Non so che cosa borbottasse tra sé la vecchia per le scale. A pie' dell'ultima
branca dovetti fermarmi: non tiravo più fiato! guardai la porta; pensai:
'Forse cenano ancora, tutti e tre a tavola senz'alcun sospetto. Fra
pochi istanti, appena avrò bussato a quella porta, la loro vita sarà
sconvolta Ecco, è in mia mano ancora la sorte che pende loro sul capo'.
Salii gli ultimi scalini. Col cordoncino del campanello in mano, mentre il
cuore mi balzava in gola, tesi l'orecchio. Nessun rumore. E in quel silenzio
ascoltai il tin-tin lento del campanello, tirato appena, pian piano.
Tutto il sangue m'affluì alla testa, e gli orecchi presero a ronzarmi, come se
quel lieve tintinno che s'era spento nel silenzio, m'avesse invece squillato
dentro furiosamente e intronato.
Poco dopo, riconobbi con un sussulto, di là dalla porta, la voce della vedova
Pescatore:
- Chi è?
Non potei, lì per lì, rispondere: mi strinsi le pugna al petto, come per impedir
che il cuore mi balzasse fuori. Poi, con voce cupa, quasi sillabando, dissi:
- Mattia Pascal.
- Chi?! - strillò la voce di dentro.
- Mattia Pascal, - ripetei, incavernando ancor più la voce.
Sentii scappare la vecchia strega, certo atterrita, e subito immaginai che cosa
in quel momento accadeva di là. Sarebbe venuto l'uomo, adesso: Pomino: il
coraggioso!
Ma prima bisognò ch'io risonassi, come dianzi, pian piano.
Appena Pomino, spalancata di furia la porta, mi vide - erto - col petto in
fuori - innanzi a sé - retrocesse esterrefatto. M'avanzai, gridando:
- Mattia Pascal! Dall'altro mondo.
Pomino cadde a sedere per terra, con un gran tonfo, sulle natiche, le braccia
puntate indietro, gli occhi sbarrati:
- Mattia! Tu?!
La vedova Pescatore, accorsa col lume in mano, cacciò uno strillo acutissimo,
da partoriente. Io richiusi la porta con una pedata, e d'un balzo le tolsi il
lume, che già le cadeva di mano.
- Zitta! - le gridai sul muso. - Mi prendete per un fantasima davvero?
- Vivo?! - fece lei, allibita, con le mani tra i capelli.
- Vivo! vivo! vivo! - seguitai io, con gioja feroce. - Mi riconosceste morto, è
vero? affogato là?
- E di dove vieni? - mi chiese con terrore.
- Dal molino, strega! - le urlai. - Tieni qua il lume, guardami bene! Sono io?
mi riconosci? o ti sembro ancora quel disgraziato che s'affogò alla Stia?
- Non eri tu?
- Crepa, megera! Io sono qua, vivo! Sù, alzati tu, bel tomo! Dov'è Romilda?
- Per carità gemette Pomino, levandosi in fretta. - La piccina ho
paura il latte
Lo afferrai per un braccio, restando io, ora, a mia volta:
- Che piccina?
- Mia mia figlia balbettò Pomino.
- Ah che assassinio! - gridò la Pescatore.
Non potei rispondere ancora sotto l'impressione di questa nuova notizia.
- Tua figlia? - mormorai. - Una figlia, per giunta? E questa, ora
- Mamma, da Romilda, per carità - scongiurò Pomino.
Ma troppo tardi. Romilda, col busto slacciato, la poppante al seno, tutta in
disordine, come se - alle grida - si fosse levata di letto in fretta e in
furia, si fece innanzi, m'intravide:
- Mattia! - e cadde tra le braccia di Pomino e della madre, che la trascinarono
via, lasciando, nello scompiglio, la piccina in braccio a me accorso con loro.
Restai al bujo, là, nella sala d'ingresso, con quella gracile bimbetta in
braccio, che vagiva con la vocina agra di latte. Costernato, sconvolto, sentivo
ancora negli orecchi il grido della donna ch'era stata mia, e che ora, ecco,
era madre di questa bimba non mia, non mia! mentre la mia, ah, non la aveva
amata, lei, allora! E dunque, no, io ora, no, perdio! non dovevo aver pietà di
questa, né di loro. S'era rimaritata? E io ora Ma seguitava a vagire quella
piccina, a vagire; e allora che fare? per quietarla, me l'adagiai sul petto
e cominciai a batterle pian pianino una mano su le spallucce e a dondolarla
passeggiando. L'odio mi sbollì, l'impeto cedette. E a poco a poco la bimba si
tacque.
Pomino chiamò nel bujo con sgomento:
- Mattia! La piccina!
- Sta' zitto! L'ho qua, - gli risposi.
- E che fai ?
- Me la mangio Che faccio! L'avete buttata in braccio a me Ora
lasciamela stare! S'è quietata. Dov'è Romilda?
Accostandomisi, tutto tremante e sospeso, come una cagna che veda in mano al
padrone la sua cucciola:
- Romilda? Perché? - mi domandò.
- Perché voglio parlarle! - gli risposi ruvidamente.
- E svenuta, sai?
- Svenuta? La faremo rinvenire.
Pomino mi si parò davanti, supplichevole:
- Per carità senti ho paura come mai, tu vivo! Dove sei
stato? Ah, Dio Senti Non potresti parlare con me?
- No! - gli gridai. - Con lei devo parlare. Tu, qua, non rappresenti più nulla.
- Come! io?
- Il tuo matrimonio s'annulla.
- Come che dici? E la piccina?
- La piccina la piccina - masticai. - Svergognati! In due anni, marito e
moglie, e una figliuola! Zitta, carina, zitta! Andiamo dalla mamma Sù,
conducimi! Di dove si prende?
Appena entrai nella camera da letto con la bimba in braccio, la vedova
Pescatore fece per saltarmi addosso, come una jena.
La respinsi con una furiosa bracciata:
- Andate là, voi! Qua c'è vostro genero: se avete da strillare, strillate con
lui. Io non vi conosco!
Mi chinai verso Romilda, che piangeva disperatamente, e le porsi la figliuola:
- Sù, tieni Piangi? Che piangi? Piangi perché son vivo? Mi volevi morto? Guardami
sù, guardami in faccia! Vivo o morto?
Ella si provò, tra le lagrime, ad alzar gli occhi su me, e con voce rotta dai
singhiozzi, balbettò:
- Ma come tu? che che hai fatto?
Io, che ho fatto? - sogghignai. - Lo domandi a me, che ho fatto? Tu hai ripreso
marito quello sciocco là! tu hai messo al mondo una figliuola, e hai il
coraggio di domandare a me che ho fatto?
E ora? - gemette Pomino, coprendosi il volto con le mani.
- Ma tu, tu dove sei stato? Se ti sei finto morto e te ne sei scappato -
prese a strillar la Pescatore, facendosi avanti con le braccia levate.
Glien'afferrai uno, glielo storsi e le urlai:
- Zitta, vi ripeto! Statevene zitta, voi, perché, se vi sento fiatare, perdo la
pietà che m'ispira codesto imbecille di vostro genero e quella creaturina là, e
faccio valer la legge! Sapete che dice la legge? Ch'io ora devo riprendermi
Romilda
- Mia figlia? tu? Tu sei pazzo! - inveì, imperterrita, colei.
Ma Pomino, sotto la mia minaccia, le si accostò subito a scongiurarla di
tacere, di calmarsi, per amor di Dio.
La megera allora lasciò me, e prese a inveire contro di lui, melenso, sciocco,
buono a nulla e che non sapeva far altro che piangere e disperarsi come una
femminuccia
Scoppiai a ridere, fino ad averne male ai fianchi.
- Finitela! - gridai, quando potei frenarmi. - Gliela lascio! la lascio a lui
volentieri! Mi credete sul serio così pazzo da ridiventar vostro genero? Ah,
povero Pomino! Povero amico mio, scusami, sai? se t'ho detto imbecille; ma hai
sentito? te l'ha detto anche lei, tua suocera, e ti posso giurare: che, anche
prima, me l'aveva detto Romilda, nostra moglie sì, proprio lei, che le
parevi imbecille, stupido, insipido e non so che altro. E vero, Romilda? di'
la verità Sù, sù, smetti di piangere, cara: rassèttati: guarda, puoi far
male alla tua piccina, così Io ora sono vivo - vedi? - e voglio stare
allegro Allegro! come diceva un certo ubriaco amico mio Allegro,
Pomino! Ti pare che voglia lasciare una figliuola senza mamma? Ohibò! Ho già un
figliuolo senza babbo Vedi, Romilda? Abbiamo fatto pari e patta: io ho un
figlio, che è figlio di Malagna, e tu ormai hai una figlia, che è figlia di
Pomino. Se Dio vuole, li mariteremo insieme, un giorno! Ormai quel figliuolo là
non ti deve far più dispetto Parliamo di cose allegre Ditemi come tu e
tua madre avete fatto a riconoscermi morto, là, alla Stìa
- Ma anch'io! - esclamò Pomino, esasperato. Ma tutto il paese! Non esse sole!
- Bravi! bravi! Tanto dunque mi somigliava?
- La tua stessa statura la tua barba vestito come te, di nero e poi,
scomparso da tanti giorni
- E già, me n'ero scappato, hai sentito? Come se non m'avessero fatto scappar
loro Costei, costei Eppure stavo per ritornare, sai? Ma sì, carico d'oro!
Quando che è, che non è, morto, affogato, putrefatto. .. e riconosciuto, per
giunta! Grazie a Dio. mi sono scialato, due anni; mentre voi, qua:
fidanzamento, nozze, luna di miele, feste, gioje, la figliuola chi muore
giace, eh? e chi vive si dà pace
- E ora? come si fa ora? - ripeté Pomino, gemendo, tra le spine. - Questo dico
io!
Romilda s'alzò per adagiar la bimba nella cuna.
- Andiamo, andiamo di là, - diss'io. - La piccina s'è riaddormentata.
Discuteremo di là.
Ci recammo nella sala da pranzo, dove, sulla tavola ancora apparecchiata, erano
i resti della cena. Tutto tremante, stralunato, scontraffatto nel pallore
cadaverico, battendo di continuo le palpebre su gli occhietti diventati
scialbi, forati in mezzo da due punti neri, acuti di spasimo, Pomino si
grattava la fronte e diceva, quasi vaneggiando:
- Vivo vivo Come si fa? come si fa?
- Non mi seccare! - gli gridai. - Adesso vedremo, ti dico.
Romilda, indossata la veste da camera, venne a raggiungerci. Io rimasi a
guardarla alla luce, ammirato: era ridivenuta bella come un tempo, anzi più
formosa.
- Fammiti vedere - le dissi. - Permetti, Pomino? Non c'è niente di male:
sono marito anch'io, anzi prima e più di te. Non ti vergognare, via, Romilda!
Guarda, guarda come si torce Mino! Ma che ti posso fare se non son morto
davvero?
- Così non è possibile! - sbuffò Pomino, livido.
- S'inquieta! - feci, ammiccando, a Romilda. - No, via, calmati, Mino Ti ho
detto che te la lascio, e mantengo la parola. Solo, aspetta con permesso!
Mi accostai a Romilda e le scoccai un bel bacione su la guancia.
- Mattia! - gridò Pomino, fremente.
Scoppiai a ridere di nuovo.
- Geloso? di me? Va' là! Ho il diritto della precedenza. Del resto, sù,
Romilda, cancella, cancella Guarda, venendo, supponevo (scusami, sai, Romilda),
supponevo, caro Mino, che t'avrei fatto un gran piacere, a liberartene, e ti
confesso che questo pensiero m'affliggeva moltissimo, perché volevo vendicarmi,
e vorrei ancora, non credere, togliendoti adesso Romilda, adesso che vedo che
le vuoi bene e che lei sì, mi pare un sogno, mi pare quella di tant'anni
fa ricordi, eh, Romilda? Non piangere! ti rimetti a piangere? Ah, bei
tempi sì, non tornano più! Via, via: voi ora avete una figliuola, e
dunque non se ne parli più! Vi lascio in pace, che diamine!
- Ma il matrimonio s'annulla? - gridò Pomino.
- E tu lascialo annullare! - gli dissi. - Si annullerà pro forma, se
mai: non farò valere i miei diritti e non mi farò neppure riconoscer vivo
ufficialmente, se proprio non mi costringono. Mi basta che tutti mi rivedano e
mi risappiano vivo di fatto, per uscir da questa morte, che è morte vera,
credetelo! Già lo vedi: Romilda, qua, ha potuto divenir tua moglie il resto
non m'importa! Tu hai contratto pubblicamente il matrimonio; è noto a tutti che
lei è, da un anno, tua moglie, e tale rimarrà. Chi vuoi che si curi più del
valor legale del suo primo matrimonio? Acqua passata Romilda fu mia
moglie: ora, da un anno, è tua, madre d'una tua bambina. Dopo un mese
non se ne parlerà più. Dico bene, doppia suocera?
La Pescatore, cupa, aggrondata, approvò col capo. Ma Pomino, nel crescente
orgasmo, domandò:
- E tu rimarrai qua, a Miragno?
- Sì, e verrò qualche sera a prendermi in casa tua una tazza di caffè o a bere
un bicchier di vino alla vostra salute.
- Questo, no! - scattò la Pescatore, balzando in piedi.
- Ma se scherza! - osservò Romilda, con gli occhi bassi.
Io m'ero messo a ridere come dianzi.
- Vedi, Romilda? - le dissi. - Hanno paura che riprendiamo a fare all'amore
Sarebbe pur carina! No, no: non tormentiamo Pomino Vuol dire che se lui non
mi vuole più in casa, mi metterò a passeggiare giù per la strada, sotto le tue
finestre. Va bene? E ti farò tante belle serenate.
Pomino, pallido, vibrante, passeggiava per la stanza, brontolando:
- Non è possibile non è possibile
A un certo punto s'arrestò e disse:
- Sta di fatto che lei con te, qua, vivo, non sarà più mia moglie
- E tu fa' conto che io sia morto! - gli risposi tranquillamente.
Riprese a passeggiare:
- Questo conto non posso più farlo!
- E tu non lo fare. Ma, via, credi davvero - soggiunsi, - che vorrò darti
fastidio, se Romilda non vuole? deve dirlo lei Sù, di', Romilda, chi è più
bello? io o lui?
- Ma io dico di fronte alla legge! di fronte alla legge! - gridò egli,
arrestandosi di nuovo.
Romilda lo guardava, angustiata e sospesa.
- In questo caso, - gli feci osservare, - mi sembra che più di tutti, scusa,
dovrei risentirmi io, che vedrò d'ora innanzi la mia bella quondam metà
convivere maritalmente con te.
- Ma anche lei, - rimbeccò Pomino, - non essendo più mia moglie
- Oh, insomma, - sbuffai, - volevo vendicarmi e non mi vendico; ti lascio la
moglie, ti lascio in pace, e non ti contenti? Sù, Romilda, alzati! andiamocene
via, noi due! Ti propongo un bel viaggetto di nozze Ci divertiremo! Lascia
questo pedante seccatore. Pretende ch'io vada a buttarmi davvero nella gora del
molino, alla Stìa.
- Non pretendo questo! - proruppe Pomino al colmo dell'esasperazione. - Ma
vattene, almeno! Vattene via, poiché ti piacque di farti creder morto! Vattene
subito, lontano, senza farti vedere da nessuno. Perché io qua con te
vivo
Mi alzai; gli battei una mano su la spalla per calmarlo e gli risposi, prima di
tutto, ch'ero già stato a Oneglia, da mio fratello, e che perciò tutti, là, a
quest'ora, mi sapevano vivo, e che domani, inevitabilmente, la notizia sarebbe
arrivata a Miragno; poi:
- Morto di nuovo? Lontano da Miragno? Tu scherzi, mio caro! - esclamai. - Va'
là: fa' il marito in pace, senza soggezione Il tuo matrimonio, comunque sia,
s'è celebrato. Tutti approveranno, considerando che c'è di mezzo una
creaturina. Ti prometto e giuro che non verrò mai a importunarti, neanche per
una miserrima tazza di caffè, neanche per godere del dolce, esilarante
spettacolo del vostro amore, della vostra concordia, della vostra felicità
edificata su la mia morte Ingrati! Scommetto che nessuno, neanche tu,
sviscerato amico, nessuno di voi è andato ad appendere una corona, a lasciare
un fiore su la tomba mia, là nel camposanto Di', è vero? Rispondi!
- Ti va di scherzare! - fece Pomino, scrollandosi.
- Scherzare? Ma nient'affatto! Là c'è davvero il cadavere di un uomo, e non si
scherza! Ci sei stato?
- No non non ne ho avuto il coraggio borbottò Pomino.
- Ma di prendermi la moglie, sì, birbaccione!
- E tu a me? - diss'egli allora, pronto. - Tu a me non l'avevi tolta, prima, da
vivo?
- Io? - esclamai. - E dàlli! Ma se non ti volle lei! Lo vuoi dunque ripetuto
che le sembravi proprio uno sciocco? Diglielo tu, Romilda, per favore: vedi,
m'accusa di tradimento Ora, che c'entra! è tuo marito, e non se ne parla
più; ma io non ci ho colpa Sù, sù. Ci andrò io domani da quel povero morto,
abbandonato là, senza un fiore, senza una lacrima Di', c'è almeno una lapide
su la fossa?
- Si, - s'affrettò a rispondermi Pomino. - A spese del Municipio Il povero
babbo
- Mi lesse l'elogio funebre, lo so! Se quel pover'uomo sentiva Che c'è
scritto su la lapide?
- Non so La dettò Lodoletta.
- Figuriamoci! - sospirai. - Basta. Lasciamo anche questo discorso. Raccontami,
raccontami piuttosto come vi siete sposati così presto Ah, come poco mi
piangesti, vedovella mia Forse niente, eh? di' sù, possibile ch'io non debba
sentir la tua voce? Guarda: è già notte avanzata appena spunterà il giorno,
io andrò via, e sarà come non ci avessimo mai conosciuto Approfittiamoci di
queste poche ore. Sù, dimmi
Romilda si strinse nelle spalle, guardò Pomino, sorrise nervosamente: poi,
riabbassando gli occhi e guardandosi le mani:
- Che posso dire? Certo che piansi
- E non te lo meritavi! - brontolò la Pescatore.
- Grazie! Ma infine, via fu poco, è vero? - ripresi. - Codesti begli occhi,
che pur s'ingannarono così facilmente, non ebbero a sciuparsi molto, di certo.
- Rimanemmo assai male, - disse, a mo' di scusa, Romilda. - E se non fosse
stato per lui
- Bravo Pomino! - esclamai. - Ma quella canaglia di Malagna, niente?
- Niente, - rispose, dura, asciutta, la Pescatore. - Tutto fece lui
E additò Pomino.
- Cioè cioè - corresse questi, - il povero babbo Sai ch'era al
Municipio? Bene, fece prima accordare una pensioncina, data la sciagura e
poi
- Poi accondiscese alle nozze?
- Felicissimo! E ci volle qua, tutti, con sé Mah! Da due mesi
E prese a narrarmi la malattia e la morte del padre; l'amore di lui per Romilda
e per la nipotina; il compianto che la sua morte aveva raccolto in tutto il
paese. Io domandai allora notizie della zia Scolastica, tanto amica del
cavalier Pomino. La vedova Pescatore, che si ricordava ancora del batuffolo di
pasta appiastratole in faccia dalla terribile vecchia, si agitò sulla sedia.
Pomino mi rispose che non la vedeva più da due anni, ma che era viva; poi, a
sua volta, mi domandò che avevo fatto io, dov'ero stato, ecc. Dissi quel tanto
che potevo senza far nomi né di luoghi né di persone, per dimostrare che non
m'ero affatto spassato in quei due anni. E così, conversando insieme,
aspettammo l'alba del giorno in cui doveva pubblicamente affermarsi la mia
resurrezione.
Eravamo stanchi della veglia e delle forti emozioni provate; eravamo anche
infreddoliti. Per riscaldarci un po', Romilda volle preparare con le sue mani
il caffè. Nel porgermi la tazza, mi guardò, con su le labbra un lieve, mesto
sorriso, quasi lontano, e disse:
- Tu, al solito, senza zucchero, è vero?
Che lesse in quell'attimo negli occhi miei? Abbassò subito lo sguardo.
In quella livida luce dell'alba, sentii stringermi la gola da un nodo di pianto
inatteso, e guardai Pomino odiosamente. Ma il caffè mi fumava sotto il naso,
inebriandomi del suo aroma e cominciai a sorbirlo lentamente. Domandai quindi a
Pomino il permesso di lasciare a casa sua la valigia, fino a tanto che non
avessi trovato un alloggio: avrei poi mandato qualcuno a ritirarla.
- Ma sì! ma sì! - mi rispose egli, premuroso. - Anzi non te ne curare: penserò
io a fartela portare
- Oh, - dissi, - tanto è vuota, sai? A proposito, Romilda: avresti ancora,
per caso, qualcosa di mio abiti, biancheria?
- No, nulla - mi rispose, dolente, aprendo le mani. - Capirai dopo la
disgrazia
- Chi poteva immaginarselo? - esclamò Pomino.
Ma giurerei ch'egli, l'avaro Pomino, aveva al collo un mio antico fazzoletto di
seta.
- Basta. Addio, eh! Buona fortuna! - diss'io, salutando, con gli occhi fermi su
Romilda, che non volle guardarmi. Ma la mano le tremò, nel ricambiarmi il
saluto. - Addio! Addio!
Sceso giù in istrada, mi
trovai ancora una volta sperduto, pur qui, nel mio stesso paesello nativo:
solo, senza casa, senza mèta.
'E ora?' domandai a me stesso. 'Dove vado?'
Mi avviai, guardando la gente che passava. Ma che! Nessuno mi riconosceva?
Eppure ero ormai tal quale: tutti, vedendomi, avrebbero potuto almeno pensare:
'Ma guarda quel forestiero là, come somiglia al povero Mattia Pascal! Se
avesse l'occhio un po' storto, si direbbe proprio lui'. Ma che! Nessuno mi
riconosceva, perché nessuno pensava più a me. Non destavo neppure curiosità, la
minima sorpresa E io che m'ero immaginato uno scoppio, uno scompiglio,
appena mi fossi mostrato per le vie! Nel disinganno profondo, provai un
avvilimento, un dispetto, un'amarezza che non saprei ridire; e il dispetto e
l'avvilimento mi trattenevano dallo stuzzicar l'attenzione di coloro che io,
dal canto mio, riconoscevo bene: sfido! dopo due anni Ah, che vuol dir
morire! Nessuno, nessuno si ricordava più di me, come se non fossi mai
esistito
Due volte percorsi da un capo all'altro il paese, senza che nessuno mi
fermasse. Al colmo dell'irritazione, pensai di ritornar da Pomino, per
dichiarargli che i patti non mi convenivano e vendicarmi sopra lui
dell'affronto che mi pareva tutto il paese mi facesse non riconoscendomi più.
Ma né Romilda con le buone mi avrebbe seguito, né io per il momento avrei
saputo dove condurla. Dovevo almeno prima cercarmi una casa. Pensai d'andare al
Municipio, all'ufficio dello stato civile, per farmi subito cancellare dal
registro dei morti; ma, via facendo, mutai pensiero e mi ridussi invece a
questa biblioteca di Santa Maria Liberale, dove trovai al mio posto il
reverendo amico don Eligio Pellegrinotto, il quale non mi riconobbe neanche
lui, lì per lì. Don Eligio veramente sostiene che mi riconobbe subito e che
soltanto aspettò ch'io pronunziassi il mio nome per buttarmi le braccia al
collo, parendogli impossibile che fossi io, e non potendo abbracciar subito uno
che gli pareva Mattia Pascal. Sarà pure così! Le prime feste me le ebbi
da lui, calorosissime; poi egli volle per forza ricondurmi seco in paese per
cancellarmi dall'animo la cattiva impressione che la dimenticanza dei miei concittadini
mi aveva fatto.
Ma io ora, per ripicco, non voglio descrivere quel che seguì alla farmacia del
Brìsigo prima, poi al Caffè dell'Unione, quando don Eligio, ancor tutto
esultante, mi presentò redivivo. Si sparse in un baleno la notizia, e tutti
accorsero a vedermi e a tempestarmi di domande. Volevano sapere da me chi fosse
allora colui che s'era annegato alla Stìa, come se non mi avessero
riconosciuto loro: tutti, a uno a uno. E dunque ero io, proprio io: donde
tornavo? dall'altro mondo! che avevo fatto? il morto! Presi il partito di non
rimuovermi da queste due risposte e lasciar tutti stizziti nell'orgasmo della
curiosità, che durò parecchi e parecchi giorni. Né più fortunato degli altri fu
l'amico Lodoletta che venne a 'intervistarmi' per il Foglietto.
Invano, per commuovermi, per tirarmi a parlare mi portò una copia del suo
giornale di due anni avanti, con la mia necrologia. Gli dissi che la sapevo a
memoria, perché all'Inferno il Foglietto era molto diffuso.
- Eh, altro! Grazie caro! Anche della lapide Andrò a vederla, sai?
Rinunzio a trascrivere il suo nuovo pezzo forte della domenica seguente
che recava a grosse lettere il titolo: MATTIA PASCAL È VIVO!
Tra i pochi che non vollero farsi vedere, oltre ai miei creditori, fu Batta
Malagna, che pure - mi dissero - aveva due anni avanti mostrato una gran pena
per il mio barbaro suicidio. Ci credo. Tanta pena allora, sapendomi sparito per
sempre, quanto dispiacere adesso, sapendomi ritornato alla vita. Vedo il perché
di quella e di questo.
E Oliva? L'ho incontrata per via, qualche domenica, all'uscita della messa, col
suo bambino di cinque anni per mano, florido e bello come lei: - mio figlio!
Ella mi ha guardato con occhi affettuosi e ridenti, che m'han detto in un
baleno tante cose
Basta. Io ora vivo in pace, insieme con la mia vecchia zia Scolastica, che mi
ha voluto offrir ricetto in casa sua. La mia bislacca avventura m'ha rialzato
d'un tratto nella stima di lei. Dormo nello stesso letto in cui morì la povera
mamma mia, e passo gran parte del giorno qua, in biblioteca, in compagnia di
don Eligio, che è ancora ben lontano dal dare assetto e ordine ai vecchi libri
polverosi.
Ho messo circa sei mesi a scrivere questa mia strana storia, ajutato da lui. Di
quanto è scritto qui egli serberà il segreto, come se l'avesse saputo sotto il
sigillo della confessione.
Abbiamo discusso a lungo insieme su i casi miei, e spesso io gli ho dichiarato
di non saper vedere che frutto se ne possa cavare.
- Intanto, questo, - egli mi dice: - che fuori della legge e fuori di quelle
particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor
Pascal, non è possibile vivere.
Ma io gli faccio osservare che non sono affatto rientrato né nella legge, né
nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio
dire ch'io mi sia.
Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto che s'uccise alla Stìa,
c'è ancora la lapide dettata da Lodoletta:
COLPITO DA AVVERSI FATI |
Io vi ho portato la corona
di fiori promessa e ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là. Qualche
curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s'accompagna con me, sorride, e -
considerando la mia condizione - mi domanda:
- Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?
Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo:
- Eh, caro mio Io sono il fu Mattia Pascal.
CAPITOLO XIX (avvertenza sugli scrupoli della fantasia)
Il signor Alberto Heintz,
di Buffalo negli Stati Uniti, al bivio tra l'amore della moglie e quello d'una
signorina ventenne, pensa bene di invitar l'una e l'altra a un convegno per
prendere insieme con lui una decisione.
Le due donne e il signor Heintz si trovano puntuali al luogo convenuto;
discutono a lungo, e alla fine si mettono d'accordo.
Decidono di darsi la morte tutti e tre.
La signora Heintz ritorna a casa; si tira una revolverata e muore. Il signor
Heintz, allora, e la sua innamorata signorina ventenne, visto che con la morte
della signora Heintz ogni ostacolo alla loro felice unione è rimosso,
riconoscono di non aver più ragione d'uccidersi e risolvono di rimanere in vita
e di sposarsi. Diversamente però risolve l'autorità giudiziaria, e li trae in
arresto.
Conclusione volgarissima.
(Vedere i giornali di New York del 25 gennajo 1921, edizione del mattino.)
Poniamo che un
disgraziato scrittor di commedie abbia la cattiva ispirazione di portare sulla
scena un caso simile.
Si può esser sicuri che la sua fantasia si farà scrupolo prima di tutto di
sanare con eroici rimedii l'assurdità di quel suicidio della signora Heintz,
per renderlo in qualche modo verosimile.
Ma si può essere ugualmente sicuri, che, pur con tutti i rimedii eroici
escogitati dallo scrittor di commedie, novantanove critici drammatici su cento
giudicheranno assurdo quel suicidio e inverosimile la commedia.
Perché la vita, per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui
beatamente è piena, ha l'inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella
stupidissima verosimiglianza, a cui l'arte crede suo dovere obbedire.
Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono
vere. All'opposto di quelle dell'arte che, per parer vere, hanno bisogno
d'esser verosimili. E allora, verosimili, non sono più assurdità.
Un caso della vita può essere assurdo; un'opera d'arte, se è opera d'arte, no.
Ne segue che tacciare d'assurdità e d'inverosimiglianza, in nome della vita,
un'opera d'arte è balordaggine.
In nome dell'arte, sì; in nome della vita, no.
C'è nella storia naturale
un regno studiato dalla zoologia, perché popolato dagli animali.
Tra i tanti animali che lo popolano è compreso anche l'uomo.
E lo zoologo sì, può parlare dell'uomo e dire, per esempio, che non è un quadrupede ma un bipede, e
che non ha la coda, vuoi come la scimmia, vuoi come l'asino, vuoi come il
pavone.
All'uomo di cui parla lo zoologo non può mai capitar la disgrazia di perdere,
poniamo, una gamba e di farsela mettere di legno; di perdere un occhio e di
farselo mettere di vetro. L'uomo dello zoologo ha sempre due gambe, di cui
nessuna di legno; sempre due occhi, di cui nessuno di vetro.
E contraddire allo zoologo è impossibile. Perché lo zoologo, se gli presentate
un tale con una gamba di legno o con un occhio di vetro, vi risponde che egli
non lo conosce, perché quello non è l'uomo, ma un uomo.
È vero però che noi tutti, a nostra volta, possiamo rispondere allo zoologo che
l'uomo ch'egli conosce non esiste, e che invece esistono gli uomini, di
cui nessuno è uguale all'altro e che possono anche avere per disgrazia una
gamba di legno o un occhio di vetro.
Si domanda a questo punto se vogliono esser considerati come zoologi o come
critici letterarii quei tali signori che, giudicando un romanzo o una novella o
una commedia, condannano questo o quel personaggio, questa o quella
rappresentazione di fatti o di sentimenti, non già in nome dell'arte come
sarebbe giusto, ma in nome d'una umanità che sembra essi conoscano a
perfezione, come se realmente in astratto esistesse, fuori cioè di
quell'infinita varietà d'uomini capaci di commettere tutte quelle sullodate
assurdità che non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere.
Intanto, per l'esperienza
che dal canto mio ho potuto fare d'una tal critica, il bello è questo: che
mentre lo zoologo riconosce che l'uomo si distingue dalle altre bestie anche
per il fatto che l'uomo ragiona e che le bestie non ragionano; il ragionamento
appunto (vale a dire ciò che è più proprio dell'uomo) è apparso tante volte ai
signori critici, non come un eccesso se mai, ma anzi come un difetto d'umanità
in tanti miei non allegri personaggi. Perché pare che umanità, per loro, sia qualche cosa che
più consista nel sentimento che nel ragionamento.
Ma volendo parlare così astrattamente come codesti critici fanno, non è forse
vero che mai l'uomo tanto appassionatamente ragiona (o sragiona, che è lo
stesso), come quando soffre, perché appunto delle sue sofferenze vuol veder la
radice, e chi gliele ha date, e se e quanto sia stato giusto il dargliele;
mentre, quando gode, si piglia il godimento e non ragiona, come se il godere
fosse suo diritto?
Dovere delle bestie è il soffrire senza ragionare. Chi soffre e ragiona
(appunto perché soffre), per quei signori critici non è umano; perché
pare che, chi soffra, debba esser soltanto bestia, e che soltanto quando sia bestia,
sia per essi umano.
Ma di recente ho pur
trovato un critico, a cui son molto grato.
A proposito della mia disumana
e, pare, inguaribile 'cerebralità' e paradossale inverosimiglianza
delle mie favole e dei miei personaggi, egli ha domandato a quegli altri
critici donde attingevano il criterio per giudicare siffattamente il mondo
della mia arte.
'Dalla cosiddetta vita normale?' ha domandato. 'Ma cos'è
questa se non un sistema di rapporti, che noi scegliamo nel caos degli eventi
quotidiani e che arbitrariamente qualifichiamo normale?' Per
concludere che 'non si può giudicare il mondo d'un artista con un criterio
di giudizio attinto altrove che da questo mondo medesimo'.
Debbo aggiungere, per dar credito a questo critico presso gli altri critici che
non ostante questo, anzi proprio per questo, anch'egli poi giudica
sfavorevolmente l'opera mia: perché gli pare, cioè, ch'io non sappia dar valore
e senso universalmente umano alle mie favole e ai miei personaggi; tanto da
lasciar perplesso chi deve giudicarli, se io non abbia inteso piuttosto
limitarmi a riprodurre certi curiosi casi, certe particolarissime situazioni
psicologiche.
Ma se il valore e il senso universalmente umano di certe mie favole e di
certi miei personaggi, nel contrasto com'egli dice, tra realtà e illusione, tra
volto individuale ed immagine sociale di esso, consistesse innanzi tutto nel
senso e nel valore da dare a quel primo contrasto, il quale per una beffa
costante della vita, ci si scopre sempre inconsistente, in quanto che, necessariamente
purtroppo, ogni realtà d'oggi è destinata a scoprircisi illusione domani, ma
illusione necessaria, se purtroppo fuori di essa non c'è per noi altra
realtà? Se consistesse appunto in questo, che un uomo o una donna, messi da
altri o da se stessi in una penosa situazione, socialmente anormale, assurda
per quanto si voglia, vi durano, la sopportano, la rappresentano davanti agli
altri, finché non la vedono, sia pure per la loro cecità o incredibile
buonafede; perché appena la vedono come a uno specchio che sia posto loro
davanti, non la sopportano più, ne provan tutto l'orrore e la infrangono o, se
non possono infrangerla, se ne senton morire? Se consistesse appunto in questo,
che una situazione, socialmente anormale, si accetta, anche vedendola a uno
specchio, che in questo caso ci para davanti la nostra stessa illusione; e
allora la si rappresenta, soffrendone tutto il martirio, finché la
rappresentazione di essa sia possibile dentro la maschera soffocante che da noi
stessi ci siamo imposta o che da altri o da una crudele necessità ci sia stata
imposta, cioè fintanto che sotto questa maschera un sentimento nostro, troppo
vivo, non sia ferito così addentro, che la ribellione alla fine prorompa e
quella maschera si stracci e si calpesti?
'Allora, di colpo' dice il critico 'un fiotto d'umanità invade
questi personaggi, le marionette divengono improvvisamente creature di carne e
di sangue, e parole che bruciano l'anima e straziano il cuore escono dalle loro
labbra'
E sfido! Hanno scoperto il loro nudo volto individuale sotto quella maschera,
che li rendeva marionette di se stessi, o in mano agli altri; che li faceva in
prima apparir duri, legnosi, angolosi, senza finitezza e senza delicatezza, complicati
e strapiombanti, come ogni cosa combinata e messa sù non liberamente ma per
necessità, in una situazione anormale, inverosimile, paradossale, tale insomma
che essi alla fine non han potuto più sopportarla e l'hanno rotta.
L'arruffìo, se c'è, dunque è voluto; il macchinismo, se c'è, dunque è voluto;
ma non da me: bensì dalla favola stessa, dagli stessi personaggi; e si scopre
subito, difatti: spesso è concertato apposta e messo sotto gli occhi nell'atto
stesso di concertarlo e di combinarlo: è la maschera per una rappresentazione;
il giuoco delle parti; quello che vorremmo o dovremmo essere; quello che agli
altri pare che siamo; mentre quel che siamo, non lo sappiamo, fino a un certo
punto, neanche noi stessi; la goffa incerta metafora di noi; la costruzione,
spesso arzigogolata, che facciamo di noi, o che gli altri fanno di noi: dunque,
davvero, un macchinismo, sì, in cui ciascuno volutamente, ripeto, è la
marionetta di se stesso; e poi, alla fine, il calcio che manda all'aria tutta
la baracca.
Credo che non mi resti che di congratularmi con la mia fantasia se, con tutti i
suoi scrupoli, ha fatto apparir come difetti reali, quelli ch'eran voluti da
lei: difetti di quella fittizia costruzione che i personaggi stessi han messo
su di sé e della loro vita, o che altri ha messo sù per loro: i difetti insomma
della maschera finché non si scopre nuda.
Ma una consolazione più
grande m'è venuta dalla vita, o dalla cronaca quotidiana, a distanza di circa
vent'anni dalla prima pubblicazione di questo mio romanzo Il fu Mattia Pascal,
che ancora una volta oggi si ristampa.
Neppure ad esso, quando apparve per la prima volta, mancò, pur tra il consenso
quasi unanime, chi lo tacciasse d'inverosimiglianza.
Ebbene, la vita ha voluto darmi la prova della verità di esso in una misura
veramente eccezionale, fin nella minuzia di certi caratteristici particolari
spontaneamente trovati dalla mia fantasia.
Ecco quanto si leggeva nel Corriere della Sera del 27 marzo 1920:
L'OMAGGIO DI UN VIVO
ALLA PROPRIA TOMBA
Un singolare caso di
bigamia, dovuto all'affermata ma non sussistente morte di un marito, si è
rivelato in questi giorni. Risaliamo brevemente all'antefatto. Nel reparto
Calvairate il 26 dicembre 1916 alcuni contadini pescavano dalle acque del
canale delle 'Cinque chiuse' il cadavere di un uomo rivestito di
maglia e pantaloni color marrone. Del rinvenimento fu dato avviso ai
carabinieri che iniziarono le investigazioni. Poco dopo il cadavere veniva
identificato da tale Maria Tedeschi, ancor piacente donna sulla quarantina, e
da certi Luigi Longoni e Luigi Majoli, per quello dell'elettricista Ambrogio
Casati di Luigi, nato nel 1869 marito della Tedeschi. In realtà l'annegato
assomigliava molto al Casati.
Quella testimonianza, a quanto ora è risultato, sarebbe stata alquanto
interessata, specie per il Majoli e per la Tedeschi. Il vero Casati era vivo!
Era, però, in carcere ancora dal 21 febbraio dell'anno precedente per un reato
contro la proprietà e da tempo viveva diviso, sebbene non legalmente, dalla
moglie. Dopo sette mesi di gramaglie, la Tedeschi passava a nuove nozze col
Majoli, senza urtare contro nessuno scoglio burocratico. Il Casati finì di
scontare la pena l'8 marzo del 1917 e solo in questi giorni egli apprese di
essere morto e che sua moglie si era rimaritata ed era scomparsa. Seppe
tutto ciò quando si recò all'Ufficio di anagrafe in piazza Missori, avendo
bisogno di un documento. L'impiegato, allo sportello, inesorabilmente gli
osservò:
- Ma voi siete morto! Il vostro domicilio legale è al cimitero di Musocco,
campo comune 44, fossa n. 550
Ogni protesta di colui che voleva essere dichiarato vivo fu inutile. Il Casati
si propone di far riconoscere i suoi diritti alla resurrezione, e non appena
rettificato, per quanto lo riguarda, lo stato civile, la presunta vedova
rimaritata vedrà annullato il secondo matrimonio.
Intanto la stranissima avventura non ha punto afflitto il Casati: anzi si
direbbe che l'ha messo di buon umore, e, desideroso di nuove emozioni, ha
voluto far una capatina alla propria tomba e come atto di omaggio alla sua
memoria, ha deposto sul tumulo un fragrante mazzo di fiori e vi ha acceso un
lumino votivo!
Il presunto suicidio in
un canale; il cadavere estratto e riconosciuto dalla moglie e da chi poi sarà
secondo marito di lei; il ritorno del finto morto e finanche l'omaggio alla
propria tomba! Tutti i dati di fatto, naturalmente senza tutto quell'altro che
doveva dare al fatto valore e senso, universalmente umano.
Non posso supporre che il signor Ambrogio Casati elettricista, abbia letto il
mio romanzo e recato i fiori alla sua tomba per imitazione del fu Mattia
Pascal.
La vita, intanto, col suo beatissimo dispregio d'ogni verosimiglianza, poté
trovare un prete e un sindaco che unirono in matrimonio il signor Majoli e la
signora Tedeschi senza curarsi di conoscere un dato di fatto, di cui pur forse
era facilissimo aver notizia, che cioè il marito signor Casati si trovava in
carcere e non sottoterra.
La fantasia si sarebbe fatto scrupolo, certamente, di passar sopra a un tal
dato di fatto; e ora gode, ripensando alla taccia di inverosimiglianza che
anche allora le fu data, di far conoscere di quali reali inverosimiglianze sia
capace la vita anche nei romanzi che, senza saperlo, essa copia dall'arte
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