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"La coscienza di Zeno" di Italo Svevo
Fra le varie influenze subite da Italo Svevo
(Schopenhauer, Freud) quella della psicanalisi è sicuramente la più evidente
nel suo terzo romanzo: "La coscienza di Zeno". Il rapporto dello
scrittore con tale disciplina fu però sin dal principio assai problematico:
egli infatti non applicò la psicanalisi come terapia che pretendeva di portare
alla salute il malato di nevrosi, tuttavia ne riconosceva la validità in campo
conoscitivo come strumento capace di indagare più a fondo nella
psiche. Svevo si mostra interessato soprattutto al valore conoscitivo
della psicanalisi e in particolare al concetto di "inconscio". E' invece
scettico sulle possibilità terapeutiche della psicanalisi: la malattia gli appare
non come il prodotto di un'individuale conformazione psichica, e quindi
curabile, ma come la condizione normale dell'esistenza. La salute in realtà non
esiste e i personaggi che ci presenta come sani si rivelano, nel corso del
racconto, non meno malati di quanto lo sia il protagonista. L'unica salvezza
possibile è la «coscienza» critica della malattia stessa e, in tal senso, l'
«inetto», proprio perché incapace di agganciarsi alle convezioni della vita,
possiede una più elastica capacità di adattamento a quello stato patologico che
è l'esistenza in quanto tale.
La critica sottolinea che le resistenze di Zeno esprimono le resistenze dello
stesso autore alla psicanalisi, rintracciando nelle confessioni scritte del
protagonista uno strumento per erigere una barriera che impedisce l'emergere
dell'inconscio. Infatti la sorveglianza della ragione impedisce a Zeno di
innescare il meccanismo delle "libere associazioni" del metodo Freudiano, come
se fosse lo stesso Svevo a voler proteggere la malattia dalla guarigione.
La figura di Zeno Cosini ben si presta a dimostrare la presenza di fortissime
ambivalenze nell'inconscio di ogni uomo. A partire dal suo rapporto ambiguo col
padre, sinceramente amato, ma deluso dall'ozio e dall'inconcludenza negli
studi, fino alla presa di coscienza dell'odio profondo.
Alla fine appare evidente come l'intero romanzo sia in realtà un autoinganno
del protagonista che tenta di celare i propri sensi di colpa nei confronti
delle persone che lo circondano, rivelando in trasparenza un groviglio
complesso di motivazioni ambigue e contraddittorie.
"Uno Nessuno e Centomila" di Luigi Pirandello
La follia è il grande tema che percorre tutta l'opera pirandelliana. Pirandello, a differenza di Svevo, non lesse direttamente le opere di Freud, ma il suo percorso letterario è pieno di richiami al mondo della follia, dell'inconscio, del sogno. La sua fonte primaria fu lo psichiatra Alfred Binet, che gli offrì le formulazioni scientifiche di alcune sue intuizioni sulla variabilità degli stati psicologici e sulla scomposizione della personalità. E' il suo punto di partenza per esplorare quella crisi d'identità che qualsiasi evento può scatenare e che è uno dei terni fondamentali della sua produzione. Dall'idea per cui la personalità degli uomini non è una ma molteplici, verrà uno dei suoi temi decisivi: la follia.
I suoi personaggi si sdoppiano, sono dissociati, sono contemporaneamente "Uno, Nessuno e Centomila".
"Uno, Nessuno e Centomila"
Questo romanzo aiuta a riflettere su uno dei più interessanti temi del pensiero pirandelliano: l'incomprensione e l'incomunicabilità umana (da cui poi ci si ricollega al tema della follia).
Il protagonista, Vitangelo Moscarda, entra in crisi quando gli viene fatto notare dalla moglie di avere il naso diverso da come lui lo vedeva: questa banale constatazione lo porterà gradualmente alla pazzia.
Il romanzo mette in evidenza quindi la diversità che esiste tra come noi ci vediamo e come gli altri ci vedono, non solo esteriormente ma anche interiormente. Ciascuno di noi non è uno, ma centomila, tante personalità quante sono le immagini che gli altri si fanno di noi.
Il dramma della pazzia è già presente nel primo capitolo dei libro; naturalmente al termine pazzia non sì dà il significato corrente di patologia grave della psiche ma quello pirandelliano più congruo di spazio vuoto, squarcio improvviso nella coscienza, istantaneo ed improvviso coincidere di "essere" ed "esistere". Pazzo è infatti chi, allo specchio, scopre di esistere in maniera diversa da quella in cui credeva fino a quel momento; e comunque chi, con la reduplicazione speculare dell'immagine, come Vitangelo Moscarda, avvia un generale processo dì scomposizione dell' "io", della propria personalità.
Già, perché la storia narrata in "Uno, nessuno e centomila" è proprio quella di una progressiva "scomposizione dell'io", una certa demistificazione della falsa unitarietà della coscienza, per cui il protagonista si accorge, di fronte allo specchio, di non essere quell'uno -uguale ed inseparabile- che credeva di essere per sé e per la moglie. L'impossibilità di conoscersi appieno -se non a patto di osservarsi dall'esterno e, dunque, uscendo da sé, per cui diventa impossibile vivere e vedersi contemporaneamente-, ingabbia subito il protagonista.
Tutto il primo capitolo è infatti giocato sulla variazione dell'unico, ossessivo tema dello sdoppiamento davanti allo specchio. Il confronto con lo specchio non è affatto un veicolo per il riconoscimento dì sé, tutt'altro! Lo specchio "deforma" l'immagine, ne scopre l'assoluta relatività e spinge al folle gioco della scomposizione: in ogni specchio si rifrange una delle tante possibili immagini di un'io che, frantumato nelle sue varie sfaccettature, impedisce la ricomposizione di un'unica identità. Il dramma a questo punto si complica: Moscarda non solo scopre di essere uno, ma centomila, e di conseguenza nessuno. Quindi, l'esperienza allo specchio gli conferma la sua ipotesi (cioè di non credere di essere ciò che un tempo era convinto di essere); anzi, gli rivela come non possa vedersi vivere (dall'esterno), e come sia condannato a restare estraneo a se stesso, conoscibile solo dagli altri. Si vede di fronte un corpo vuoto perché chiunque avrebbe potuto appropriarsene e dargli una realtà a modo suo, una delle centomila possibili realtà. L'idea gli risulta quasi inaccettabile. Così si propone di mettere a nudo le sue tante identità, che i conoscenti gli attribuivano, nella speranza di riuscire a distruggerle. Nelle sue scoperte,rilevante è la presa di coscienza della falsità di un mondo costruito dall'esterno, illusorio, in cui la conoscenza viene ripudiata perché condannata come relativa. Vitangelo impara per sua esperienza come il giudizio altrui risulti influenzato dalla condizione familiare, dal nome di una persona. Così era capitato a lui, figlio di un banchiere, considerato da conoscenti un usuraio. E' un'idea inaccettabile e per cancellarla fa di tutto: decide infatti di donare a un tale, Marco di Dio la sua casa In seguito decide di sfrattarlo, e poco dopo, tra gli insulti della folla, decide di donargli una casa più accogliente ed una cospicua somma di denaro. Però la folla, invece di cambiare idea sul suo conto gli dà del pazzo. Venuto a conoscenza dell'inganno che stavano progettando i suoi due soci (Firbo e Quantorzo volevano infatti denunciarlo come malato di mente), decide quindi di recarsi da un vescovo di Richieri e finge di voler cedere la banca per motivi di coscienza: ne riceve invece il consiglio di rivolgersi a don Antonio Sclepis, direttore del collegio degli abati. Alla fine Moscarda si ritira nell'ospizio che lui stesso aveva fatto costruire. Tutto sommato non mostra rimpianti: ha raggiunto il suo obiettivo, ha saputo annullare la realtà che gli altri gli avevano dato e vivere una nuova vita. Ma il prezzo della battaglia che ha combattuto contro gli altri è altissimo: la totale decostruzione della propria immagine viene pagata con una desolante solitudine interiore e con l'interdizione e l'emarginazione; viene spogliato di tutto: dei beni, del nome, dello statuto anagrafico e di un ruolo sociale. Vitangelo resta solo, solo con la pazzia, che è il marchio con cui gli altri continuano a difendersi da chi li minaccia nelle loro certezze,nella loro ottusa ostinazione a credersi 'veri' (non è vero che i pazzi sono quelli che lo sembrano, ma lo sono di più quelli che sembrano normali).
Già nel primo capitolo è presente tutto il nucleo di considerazioni che il protagonista narrante, attraverso intenzionali gesti di follia e variazioni, svilupperà lungo tutto il romanzo. Se c'è infatti una caratteristica particolare in questo romanzo, è la quasi assoluta mancanza di azioni tutto ciò che avviene è mentale, è il processo contrario al romanzo di formazione è il romanzo della "deformazione", della scomposizione fino ad approdare al risultato finale di affacciarsi sugli abissi della coscienza e scoprire l'assoluta menzogna di tutto. Che è poi il significato della pazzia pirandelliana.
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