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L'ispirazione di Montale è concentrata su brevi momenti dell'esistenza circoscritta nelle linee di un paesaggio ligure compreso tra il mare e le colline. È un paesaggio arido e brullo, tormentato e scavato dal sole, che ne rende quasi allucinati e irreali i contorni, caricandoli di valenze metafisiche ed esistenziali. Il poeta ne spia le forme e si sofferma ad ascoltare le voci con un atteggiamento di perplessità attonita e meditativa.
Il paesaggio di Montale non si apre all'uomo (e per l'uomo); vive in se stesso, chiuso nella propria realtà incomunicabile. Esso non è uno scopo, il cui conseguimento possa appagare il poeta, ma un tramite, senza sbocchi risolutori, verso l'"altro", verso un qualcosa che resta, alla fine, misterioso e in conoscibile, crudele nel suo rifiuto di dare risposte.
Il confine tra la terra e l'acqua non apre nuove prospettive,ma il mare risulta un termine e un ostacolo invalicabile, superficie opaca e stagnante che non rivela nulla, a differenza di altri poeti, come Beaudelaire e Rimbaud che avevano visto nel mare il senso profondo di un mistero aperto a nuove esigenze conoscitive.
Montale nasce a Genova il 12 ottobre 1896. Dal 1905, trascorre l'intera stagione estiva a Monterosso, nelle Cinque Terre, perciò il paesaggio marino ligure sarà lo scenario privilegiato degli Ossi di seppia, la sua prima raccolta poetica.
Negli Ossi di Seppia tutto è assorbito dal mare fermentante; ma il tema, così importante, del mare è bivalente: perché dal mare l'io si sente quasi risucchiato, potentemente, come dall'elemento mitico per eccellenza vitale, ma insieme ne è rifiutato, espulso, confinato a terra; il mare è dunque la pienezza, l'integrità impossibile, quella della Vita stessa, contemporaneamente cantata a piena voce e negata al soggetto che la canta. Dunque Montale rimane a terra: di questa terra in cui sono ambientati quasi tutti gli Ossi egli scrive: "la Liguria orientale - la terra in cui trascorsi parte della mia giovinezza - ha questa bellezza scarna, scabra, allucinante", aggiungendo molto significativamente di aver cercato un verso che aderisse intimamente a quelle caratteristiche. Ma a sua volta il paesaggio ligure ha nella raccolta una doppia valenza: di risonanza dei sentimenti di solitudine, che abitano l'io, ma anche simbolo di quell'atteggiamento che la dignità dell'individuo vorrebbe opporre alla propria condizione esistenziale precaria.
Nel mese di marzo del 1923 dona a Francesco Messina e Angelo Barile due fascicoli identici. Entrambi i manoscritti recano il titolo complessivo di Rottami. Nel mese di luglio dona a Francesco Messina una seconda raccolta di versi che però non s'intitola più Rottami, ma Ossi di seppia.
Il 31 maggio 1924 compaiono su "Il Convegno" cinque liriche con il titolo complessivo di Ossi di seppia.
Nel 1925 pubblica a Torino Ossi di seppia.
Nel 1928 la casa editrice Ribet pubblica una seconda edizione accresciuta degli Ossi di seppia.
Gli Ossi di seppia sono la raccolta del Montale classico che ha la funzione di un libro "ufficiale" che rappresenta il meglio del poeta.
Tra le varianti di grande interesse c'è il titolo: Ossi di seppia è preceduto idealmente dal quasi sinonimo Rottami.
Negli Ossi rimangono degli endecasillabi con accentuazione non canonica. Altro punto della metrica di questi componimenti è la frequenza di novenari, anch'essi molto frequenti.
Montale intreccia rime facendone un uso originale né così intenso (è stato calcolato che il cinquanta per cento dei versi di questa collezione sia rimato).
Il tempo soggettivo è quello di una giovinezza già chiusa e corrosa, stretta tra la fine dell'infanzia mitica e un futuro incerto, o meglio bloccato, che si esprime fondamentalmente in negativo. Il tempo della storia italiana in cui sono scritti i più degli Ossi è quello dell'affermazione del fascismo.
È difficile inoltre concepire alcuni passi di questa raccolta senza le basi dannunziane di certe serie "marine".
Notiamo echi danteschi come il palpitare lontano del mare.
Quanto al lessico e alle immagini di matrice percepiamo il gusto per la terminologia esatta e specifica, specie della flora e fauna e del paesaggio e i motivi legati al senso della natura ostile e minacciosa.
In particolare il dannunzianesimo degli Ossi di seppia si spiega anche, tematicamente, con la rappresentazione di una natura rivierasca insieme infuocata e fermentante, difficile da concepirsi senza il precedente dannunziano.
È presente il gusto per la puntualità lessicale, che sfocia nel tecnicismo, il termine non individua mai il genere, ma sempre specie precise e rare, notevole anche nella terminologia. È a questa ricerca dell'individualizzazione lessicale e del tecnicismo che va in buona parte riportata la serie non breve di dialettalismi liguri, ma ora è ovvio che la fitta presenza di ligurismi negli Ossi è soprattutto in funzione del colore locale o meglio del mito regionale, in modo specifico, non generico, sentimenti e sensazioni sempre oggettivati.
Montale è colui che ha congiunto il massimo di fisicità con il massimo di astrazione metafisica: è poeta celeste e poeta terrestre insieme. Proveniente del resto dalla marginale e singolare Liguria, Montale è al centro della poesia italiana del secolo ma non è affatto tipico di essa: anche se è stato immenso e capillare, egli non ha propriamente avuto seguaci.
Si può parlare per Montale di poesia del correlativo oggettivo: le cose diventano emblemi, anche i concetti e i sentimenti più astratti trovano la loro definizione ed espressione in "oggetti" ben definiti e concreti.
La poesia delle "cose" in Montale è tutt'altro che semplice e lineare, ma risulta ardua e difficile, talora vertiginosamente oscura, nel tentativo di attribuire agli oggetti il compito di cogliere il senso indecifrabile dell'esistenza. Un medesimo termine contiene spesso una pluralità di significati, intrattenendo con il contesto molteplici relazioni, che lo rendono di ardua decifrazioni sul piano razionale.
Il simbolismo di Montale potrebbe essere visto, meglio, come una forma nuova e tutta moderna di allegoria , nella misura in cui gli elementi della natura rappresentano condizioni spirituali e morali.
A VORTICE S'ABBATTE.
A vortice s'abbatte
Sul mio capo reclinato
Un suono d'agri lazzi.
Scotta la terra percorsa
Da sghembe ombre di pinastri,
e al mare là in fondo fa velo
più che i rami, allo sguardo, l'afa che a tratti erompe
dal suolo che si avvena.
Quando più sordo o meno il ribollio delle acque
che s'ingorgano
accanto a lunghe secche mi raggiunge:
o è un bombo talvolta ed un ripiovere
di schiume sulle rocce.
Come rialzo il viso, esso cessare
I ragli sul mio capo; e via scoccare
Verso le strepeanti acque, frecciate biancazzurre, due ghiandaie.
Il primo movimento presenta i protagonisti della vicenda raffigurata nel poemetto: il soggetto e il mare. Il mare è inserito all'interno di un paesaggio estivo, mentre l'io è qui ritratto in una posizione iniziale pensosa e raccolta, con il capo basso, e quindi nel gesto di alzare lo sguardo, come dando inizio al confronto che deve svolgersi nei momenti successivi. Due ghiandaie dapprincipio scherniscono il poeta quasi a segnalare la sua estraneità rispetto all'armonia naturale e a deridere la sua introversione individualistica; ma poi, nel finale, volando veloci verso il mare spumeggiante portano un segno dinamico di vitalità nel mondo bloccato del paesaggio montaliano, e in qualche modo indicano allo sguardo del soggetto un obbiettivo e un interlocutore.
METRICA
Diciassette versi di vario metro: prevalgono gli endecasillabi e i settenari. Alle rare rime fa riscontro un'elaborazione raffinata della fonica, con ricerca di consonanti doppie.
Antico, sono ubriacato dalla voce
Ch'esce dalle tue bocche quando si schiudono
Come verdi campane e si ributtano indietro e si disciolgono.
La casa delle mie estati lontane
T'era accanto, lo sai,
là nel paese dove il sole cuoce
e annuvolano l'aria le zanzare.
Come allora oggi in tua presenza impietro,
mare, ma non più degno
mi credo del solenne ammonimento
del tuo respiro. Tu m'hai detto primo
che il piccino fermento
del mio cuore non era che un momento
del tuo; che mi era in fondo
la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso
e insieme fisso:
e svuotami così d'ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso.
Si avvia un confronto tra due situazioni temporali diverse: un presente le cui difficoltà esistenziali sono per ora soltanto suggerite, e un passato di serena intesa con la natura. Il rapporto con il mare è lo specchio e la figura di questa condizione dell'io. Nel passato la legge del mare agiva sul soggetto coinvolgendolo in una dimensione che si potrebbe definire panica; nel presente nel presente è intervenuta una rottura che fa sentire l'io indegno di quella legge. È con questa crisi, coincidente con la "fine dell'infanzia", che i movimenti successivi dovranno fare i conti.
È questo un movimento stilisticamente più sostenuto del precedente: alle punte espressionistiche di quello che si sostituisce qui un periodare ampio e calmo, solo trapunto dalla forza dantesca del decisivo verbo "impietro" al verso 9.
Il suono del mare è raffigurato attraverso un processo di umanizzazione e di spostamento metaforico (con immagini visive e sonore al tempo stesso): quando le innumerevoli bocche del mare si aprono, e cioè quando la voce marina si fa udire, è come se ogni onda fosse una verde campana che oscilla: colpendo la costa è come se le campane si muovessero in avanti, indietreggiando nella risacca è come se si ritirassero indietro; l'insieme di questo movimento corrisponde al "disciogliersi" delle campane, cioè al loro passare dall'immobilità silenziosa al movimento e al suono. Questo suono iniziale del mare, è lo spunto e l'invito per la rievocazione memoriale.
Eguale è la reazione del soggetto, ma cambiate ne sono le ragioni poiché così come accadeva allora, da bambino, anche adesso davanti al mare l'autore diventa di pietra. E divenuto incapace di aderire alla legge del mare, che armonizza panicamente tutti gli esseri ma nega ai singoli individui il diritto all'identità individuale. La legge del mare scioglie la piccola identità del soggetto all'interno di quella immensa del mare. "Un momento" vale come "un particolare, un frammento" (come un attimo sta all'immensità del tempo, così la vita del singolo sta a quella del mare). Se ogni esistenza individuale, come quella del poeta, conta solo in quanto parte dell'immensa esistenza del mare, allora l'immensità di questo e la sua varietà non ne alterano la stabilità; e cioè ogni esistenza individuale può entrare a far parte del tutto che il mare rappresenta e può esserne poi espulsa senza che il mare si muti in nulla. È la leopardiana legge della natura, che vive e trionfa ignorando gli individui e la loro sorte. È una legge "rischiosa" per i soggetti singoli che si possono trovare espulsi dal mare e sacrificati alla sua logica. La legge del mare, cui l'io è soggetto come individuo, vale anche come suo modello: come il mare espelle gli scarti inutili per realizzare l'armonia dell'insieme, così deve fare il soggetto con le scorie del proprio vissuto.
METRICA
Ventuno versi nei quali prevale l'alternanza di endecasillabi e settenari. Alcune rime, ma più frequenti sono le figure foniche come l'assonanza, la consonanza. Frequenti gli enjambements, e particolarmente estremo il caso dei versi 14-15.
Il viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l'anima che non sa più dare un grido.
Ora I minuti sono eguali e fissi
come I giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d'acqua che rimbomba.
Un altro, altr'acqua, a tratti un cigolio.
Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
I soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l'isole dell'aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.
Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell'ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s'appressa
l'ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s'infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l'avara mia speranza.
A' nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l'offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.
Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m'ode
salpa già forse per l'eterno.
Composto quasi certamente nel 1924, questo testo conclude il trittico dedicato a Paola Vicoli. Si basa sulla condivisione del negativo esistenziale, il fallimento del proprio destino si offre come via di scampo per la donna.
È il componimento esemplare della sezione che presenta un legame tra esperienza e metafora, a partire dall'immagine-metafora del titolo stesso: il ritorno alla casa sul mare dell'infanzia s'identifica col viaggio stesso della vita, privo di risultati e di senso. I segni della realtà fisica, che il soggetto è in grado di raccogliere, trasmettono tutti i sensi di una ripetizione priva di sbocchi o di un'eccezionalità senza seguito.
La stessa memoria è incapace di trattenere lo sperpero vitale, e si riduce ad una traccia evanescente.La conclusione è dunque carica di desolazione e di malinconia. Si pone in rilievo tuttavia uno scatto che affida all'interlocutrice femminile la possibilità, negata a se stesso, di fare eccezione, partecipe di un destino di salvezza.
Descrive la fine di un viaggio, un percorso concreto, probabilmente il "viaggio" della vita, finito perché giunto ad un ostacolo invalicabile come il mare, oppure alla meta, rappresentata dalla casa d'infanzia dove si deve interrogare sul senso della vita. Finisce in preoccupazioni banali che feriscono l'anima, divenuta incapace di reazioni vitali. L'immagine della ripetitività circolare del tempo è rilevata dall'equivalenza tra il ruotare della pompa che estrae l'acqua dal pozzo e il trascorrere del tempo.
Il moto delle onde e delle maree è ancora un'immagine del tempo sempre ripetitiva. La distesa del mare non mostra nulla se non fumi quasi immobili, fumi che possono essere intesi come nebbia oppure provenienti dalle case sulla costa. E solo raramente appaiono, quando c'è la silenziosa cala del vento, in mezzo alle nuvole, la Corsica montuosa o la Capraia.
Entra in scena, quindi, la figura femminile che si domanda se tutto può svanire nell'incertezza e l'evanescenza dei ricordi, se tutta la vita si esaurisce in un'alternanza di mobilità e di movimenti minimi e insensati, se il significato della vita debba essere ricavato da quello desolato dei cicli naturali, ma solo chi s'impegna può superare i confini del tempo sottraendosi alle leggi di ripetitività e distruzione. Qualcuno, però, rovescia il proprio destino, attraversa il paesaggio tra tempo e infinito, tra necessità e libertà, per poi diventare quello che ha sempre voluto. Prima di accettare il fallimento, il poeta, vuole indicarle la via di fuga, tenue come l'increspatura sulla distesa agitata del mare; consegna in dono alla figura femminile anche la propria scarsa speranza che sente di non poter nutrire in futuro, essendo ormai stanco e sfiduciato. La offre quindi l'impegno per il destino della donna, per tentare di salvarla. È il consueto sacrificio di sé che caratterizza il rapporto con la figura della Vicoli.
Il viaggio, indicato nell'ultima strofa come cammino, finisce sulle rive consumate dal movimento del mare, quello delle onde. La poesia si conclude sconsolata e al tempo stesso aperta alla fiducia sulla possibile salvezza della donna. L'immagine del "salpare" esprime felicemente il gesto di libertà attiva nei confronti della vita: come il viaggio del poeta finisce sulla riva, così quello della donna varca il confine e affronta la navigazione. In tal modo il limite temporale che solitamente confina le esistenze è nel suo caso eccezionalmente trasceso verso l'eterno.
METRICA
Quattro strofe di lunghezza ineguale, sul rito endecasillabico: le uniche eccezioni sono tre settenari e dei novenari prima e ultima posizione con funzione di cornice. Poche rime, alcune imperfette e altre interne o ipermetre. Il poema assume un andamento monotono e dolente.
MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO:
Meriggiare
pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Questo componimento è da collocare al 1916 secondo la dichiarazione stessa del poeta, che sottolinea anche l'importanza del tema paesaggistico.
Il paesaggio è quello ligure del meriggio estivo, negli orti in vista del mare; la percezione è tutta assorbita dai particolari concreti e minuti: i versi degli animali, il lavorio delle formiche, le onde lontane, il muro con i cocci di bottiglia. Particolari che stentano a dare un significato universale; e denunciano perciò, l'esperienza dell'isolamento e dello sbarramento che conclude il testo. C'è l'intensificazione delle percezioni sensoriali e c'è la tendenza a raffigurare il disagio dell'io oggettivandolo nei particolari naturali e realistici.
È un momento di sospensione in cui la vita sembra essersi arrestata nelle proprie forme e parvenze, in un colloquio muto fra l'uomo e le cose.
Il quadro paesistico propone il motivo dell'aridità, dominante negli Ossi di seppia come emblema oggettivato di una condizione esistenziale desolata, prosciugata e svuotata da ogni slancio vitale.
METRICA
Quattro strofe composte di endecasillabi, decasillabi e novenari. Attentissimo al gioco delle allitterazioni, con ricerca in particolare dei suoni aspri.
Comme je
descendais des Fleuves impassibles,
Je ne me sentais plus
guidé par les haleurs
:
Des Peaux-Rouges criards
les avaient pris pour
cibles
Les ayant cloués nus aux poteaux de couleurs.
J'étais insoucieux de tous les
équipages,
Porteur de blés flamands et de cotons anglais.
Quand avec mes haleurs
ont fini ces tapages
Les Fleuves m'ont laissé descendre où je voulais.
Dans les clapotements
furieux des marées,
Moi, l'autre hiver,
plus sourd que les cerveaux d'enfants,
Je courus ! Et les
Péninsules démarrées
N'ont pas subi tohu-bohus
plus triomphants.
La tempête a béni mes éveils
maritimes.
Plus léger qu'un bouchon j'ai dansé
sur les flots
Qu'on appelle rouleurs éternels de victimes,
Dix nuits, sans regretter l'oil niais des falots !
Plus douce qu'aux enfants la chair des pommes sûres,
L'eau verte pénétra ma coque de sapin
Et des taches de vins bleus et des vomissures
Me lava, dispersant gouvernail et grappin.
Et dès lors, je me suis baigné dans le Poème
De la Mer, infusé d'astres, et lactescent,
Dévorant les azurs verts
; où, flottaison blême
Et ravie, un noyé pensif parfois descend
Où, teignant tout
à coup les bleuites,
délires
Et rythmes lents sous
les rutilements du jour,
Plus fortes que
l'alcool, plus vastes
que nos lyres,
Fermentent les rousseurs
amères de l'amour !
Je sais les cieux crevant en éclairs, et les trombes
Et les ressacs et les courants
: Je sais le soir,
L'aube exaltée ainsi qu'un peuple de colombes,
Et j'ai vu quelques
fois ce que l'homme a cru voir !
J'ai vu le soleil bas, taché
d'horreurs mystiques,
Illuminant de longs
figements violets,
Pareils à des acteurs de drames très-antiques
Les flots roulant au loin leurs frissons de volets !
J'ai rêvé la nuit verte
aux neiges éblouies,
Baiser montant aux yeux des mers avec lenteurs,
La circulation des sèves inouïes
Et l'éveil jaune et bleu des phosphores chanteurs !
J'ai suivi, des mois
pleins, pareilles aux vacheries
Hystériques, la houle à l'assaut des récifs,
Sans songer que les pieds lumineux des Maries
Pussent forcer le mufle aux Océans poussifs !
J'ai heurté, savez-vous,
d'incroyables Florides
Mêlant aux fleurs des yeux des panthères à peaux
D'hommes ! Des arcs-en-ciel tendus comme des brides
Sous l'horizon des mers, à de glauques troupeaux !
J'ai vu fermenter les marais
énormes, nasses
Où pourrit dans les joncs tout un
Léviathan !
Des écroulement d'eau au milieu des bonacees,
Et les lointains vers les gouffres cataractant !
Glaciers, soleils d'argent, flots nacreux, cieux de braises !
échouages hideux au fond des golfes bruns
Où les serpents géants dévorés de punaises
Choient, des arbres tordus, avec de noirs parfums !
J'aurais voulu montrer aux
enfants ces dorades
Du flot bleu, ces poissons d'or, ces poissons chantants.
- Des écumes de fleurs ont bercé mes
dérades
Et d'ineffables vents m'ont ailé
par instant.
Parfois, martyr lassé des pôles et des zones,
La mer dont le sanglot faisait mon roulis doux
Montait vers moi ses fleurs d'ombres aux ventouses jaunes
Et je restais, ainsi
qu'une femme à genoux
Presque ile, ballottant sur mes bords les querelles
Et les fientes d'oiseaux clabotteurs aux yeux blonds.
Et je voguais lorsqu'à
travers mes liens frêles
Des noyés descendaient dormir à reculons !
Or moi, bateau
perdu sous les cheveux des anses,
Jeté par l'ouragan dans l'éther sans oiseau,
Moi dont les Monitors
et les voiliers des Hanses
N'auraient pas repêché la carcasse ivre d'eau ;
Libre, fumant, monté de brumes violettes,
Moi qui trouais le
ciel rougeoyant comme un mur
Qui porte, confiture exquise aux bons poètes,
Des lichens de soleil et des morves d'azur ;
Qui courais, taché de lunules électriques,
Planche folle, escorté des hippocampes
noirs,
Quand les juillets faisaient couler à coups de trique
Les cieux ultramarins aux ardents entonnoirs ;
Moi qui tremblais, sentant
geindre à cinquante lieues
Le rut des Béhémots et
les Maelstroms épais,
Fileur éternel des immobilités bleues,
Je regrette l'Europe aux anciens parapets !
J'ai vu des archipels sidéraux ! et des iles
Dont les cieux délirants sont ouverts au vogueur :
- Est-ce en ces nuits sans fond que tu dors et t'exiles,
Million d'oiseaux d'or, ô future vigueur ?
Mais, vrai, j'ai trop pleuré
! Les Aubes sont navrantes.
Toute lune est atroce et tout soleil amer :
L'acre amour m'a gonflé de torpeurs
enivrantes.
O que ma quille éclate
! O que j'aille à la mer !
Si je désire une eau d'Europe, c'est
la flache
Noire et froide où vers le crépuscule embaumé
Un enfant accroupi plein de tristesses, lache
Un bateau frêle comme un papillon de mai.
Je ne puis plus, baigné de vos
langueurs, ô lames,
Enlever leurs sillages aux porteurs de cotons,
Ni traverser l'orgueil des drapeaux et des flammes,
Ni nager sous les yeux horribles des pontons.
Rimbaud écrit son « poème de la mer » en septembre 1871.
On dit que admirer le bateau ivre est un signe de vulgarité de l'esprit, mais le succès même de Rimbaud rend le poème soupçonnable de n'être encore qu'un texte vraiment révolutionnaire.
On peut trouver deux lectures, le récit d'un voyage maritime, d'une odyssée, que raconte, le bateau lui-même, et celui d'une expérience, d'une quête poétique. Le « je » désigne tant le bateau que Rimbaud. Le voyage est une longue métaphore : le « bateau ivre » est à la fois l'odyssée d'un bateau et d'un poète adolescent à la dérive.
Le poème balance entre une dramatique « maritime » et les exploits, les épreuves, les échecs de l'adolescent entré en poésie. Toutes le expériences du Bateau ivre sont celles de Rimbaud. Par un jeu constant de métaphores entre poète et bateau, on assiste à la première séparation, pour le navire l'éloignement des « haleurs » qui représentent les liens, les guides et pour le poète les traditions, les entraves, les conventions. Les « fleuves impassibles » représentent cette société immobile à ses élans poétiques. L'impatience du poète pour sa nouvelle aventure s'éloigne de la société commerciale, source de toutes les aliénations de l'individu. Tout ça se traduit en la rébellion d'adolescent, son désir d'autonomie.
Au givre immobile de l'hiver qui engourdit et traduit l'enfance idiote qui s'isole dans son propre monde, succèdent les hardiesses et les tempêtes de l'adolescence. Le poète-navire quitte le monde. Au fleuve paisible succède un univers marin agité chaotique. Le contact avec l'océan est une danse metaphorisée, une euphorie, de liberté retrouvée. Cette euphorie devient indifférence, insouciance du bateau fugueur face aux gouffres marins, « rouleurs éternels de victimes », mépris des dangers, des signaux d'alarme.
Mer et ciel se confondent dans une constellation de mots: il s'abandonne « ravi » aux courants marins et tourné vers le ciel dévore les « azurs verts ». Totalement immergé dans la mer, possédé par elle au point de ne plus être qu'une « flottaison blême », il s'abandonne à l'immensité qu'il souhaite parcourir, oublie son corps pour devenir pensée et ne faire qu'un avec l'objet de son désir.
L'univers est somptueux et harmonique crée par le jeu d'assonances. Le rythme est ample et lent.
Plus besoin désormais d'artifices, ces « paradis artificiels » de l'alcool pour communier avec le monde, et célébrer la grande « fermentation » de « l'amour ». Errance spatiale, vagabondage poétique, identification du monde à la poésie, langage au gré du mouvement, des remous.
On assiste à la prise de possession sensorielle ou mentale par le moi du poète: « les cieux, et les trombes/ et les ressacs et les courants » sont autant d'éléments surdimensionnés et angoissants. La vraie vie n'est pas ici, mais bien « ailleurs », dans la vérité absolue des délires de l'imaginaire, dans cet autre monde recréé par alchimie verbale.
Le poème se met à charrier des visions inédites, les unes belles et exaltantes, les autres dangereuses et terrifiantes, le feu, la glace, le métal, la pierre, les animaux et végétaux, une multiplicité d'objets, de nuances et de sensations, objets de la quête infinie du « voguer ». Les mots inventés créent une nouvelle langue poétique et grace à cela la mer semble se faire tantôt sirène tantôt pieuvre.
Il y a une leçon positive à cette expérience, même si les mots ne suffisent pas à changer le monde et la vie, même si l'on peut se perdre dans les mots comme on se noie dans l'océan, ce contact avec « l'envers » du monde est une expérience enrichissante. Toute soumission à cet endroit ne peut se comprendre et s'admettre qu'en connaissant l'envers.
Sa structure narrative conventionnelle, symbolisme sommaire, sa métrique sage, mélange de facilités et d'audaces tapageuses. L'importance du « Bateau ivre » dans la carrière de Rimbaud tient précisément à la prise de conscience et à la formulation de cet échec. Rimbaud sait bien qu'on ne change pas sa vie avec des mots mais il sait aussi que ses échecs lui donnent la « Vigueur » dont il a besoin pour un nouveau départ. Le « Bateau ivre » est pour Rimbaud un passeport vers la voyance.
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