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I. SVEVO
Aron Hector Schmitz nacque a Trieste il 19 dicembre 1861 da Francesco Schmitz,
commerciante in vetrami, e Allegra Moravia, entrambi di origine ebraica. Quinto
di otto figli, trascorre un'agiata infanzia a Trieste, che abbandona per
andare in collegio in Germania, dove studia materie legate alle attività
commerciali. Poco incline ai suoi studi, si dedicò ad appassionate letture di
scrittori tedeschi, Goethe, Schiller, Heine, Jean Paul, dimostrando così il suo
forte interesse letterario.
Nel 1878, terminati gli studi, ritornò a Trieste, dove si iscrisse all'Istituto
superiore per il commercio Pasquale Revoltella, che frequentò per due anni. La
sua reale aspirazione era divenire scrittore: nel 1880 diede inizio ad
una collaborazione con il giornale irredentista triestino 'L'Indipendente',
con articoli letterari e teatrali, firmati con lo pseudonimo Ettore Samigli.
Nello stesso anno il fallimento del padre lo costrinse a cercar lavoro e a
impiegarsi presso la succursale triestina della banca Union di Vienna. La nuova
insoddisfacente occupazione lo portò a cercare un'evasione nella letteratura,
frequentando la biblioteca civica e leggendo i classici italiani e i maggiori
narratori francesi dell'Ottocento.
In questo periodo scrive le prime novelle e il romanzo, Una vita, lucido racconto
del dramma dell'inurbamento di un giovane di campagna che si concluderà con il
suicidio, iniziato nell'88 e pubblicato a sue spese nel '92, anno in cui era
morto suo padre, con il nome di Italo Svevo.
Nel dicembre 1895 si fidanzò con la cugina Livia Veneziani, figlia di un
industriale cattolico dirigente di una fabbrica di vernici sottomarine.
Svevo entra così a far parte di una solida e ricca borghesia, dalla quale
avverte una distanza tale da redigere nel 1896 un Diario per la fidanzata, nel
tentativo di colmare la distanza attraverso l'educazione della fidanzata
all'inquietudine intellettuale.
Nel luglio del '96 avviene il matrimonio con rito civile, e solo nel '97, dopo
l'abiura della religione ebraica, con rito cattolico; due anni dopo Svevo pubblica
a puntate sull'Indipendente il suo secondo romanzo, Senilità, che poi
stampa a proprie spese.: storia dell'amore di un non più giovane letterato per
la sfuggente Angiolina, dalla prorompente vitalità, da molti identificata con
Giuseppina Zergol, una ragazza triestina con cui l'autore ebbe una relazione
prima di conoscere la futura moglie.
L'insuccesso del romanzo e il matrimonio lo allontanano dalla letteratura, e
nel 1899 entra a far parte della ditta del suocero: nella nuova veste di uomo
d'affari compie lunghi viaggi in Francia e in Inghilterra.
Nel 1905 a Trieste conosce Joyce, che insegna inglese alla Berlitz School e gli
dà lezioni d'inglese: l'amicizia con lo scrittore irlandese e la curiosità da
questi manifestata per le sue opere mantengono viva la sua passione per la
letteratura. Poco dopo Svevo comincia ad appassionarsi al pensiero di Freud, e
dopo essere venuto a conoscenza delle sue teorie, induce il cognato Bruno
Veneziani a sottoporsi a terapia e a rivolgersi direttamente al fondatore della
psicoanalisi a Vienna.
Durante la guerra rimane a Trieste a occuparsi della fabbrica.
Nel 1919 si apre la fase di ritorno alla letteratura. Nel 1923 viene pubblicato
La coscienza di Zeno: dopo il disinteresse iniziale manifestatosi in Italia per
questo romanzo, Joyce, che al tempo viveva a Parigi, si adoperò per farlo
conoscere fra i critici francesi, mentre in Italia la sua grandezza veniva
riconosciuta dal giovane Eugenio Montale, con cui strinse una grande amicizia.
Nel 1927 tiene una conferenza su Joyce a Milano e pubblica una nuova edizione
di Senilità.
Ormai in condizione di salute malferma, ebbe un incidente d'auto al ritorno da
Bormio: morì il 13 settembre 1928 in seguito a complicazioni
cardio-respiratorie.
Il riconoscimento della sua opera fu così tardivo che, sebbene già negli anni
'30 i critici ne avessero riconosciuta l'importanza, solo dopo gli anni
cinquanta fu conosciuto dal grande pubblico.
La cultura e la poetica
E' possibile ricostruire la cultura di Svevo attraverso l'epistolario, il
Profilo autobiografico, scritto negli ultimi anni di vita, e articoli e saggi
composti in tre periodi: il primo, fino al 1899, coincide con la collaborazione
all' 'Indipendente' e a altre riviste; il secondo è il periodo del
silenzio letterario, fra il 1899 e il 1918, nel quale Svevo di dedicò alla
stesura, incompleta, di alcuni saggi; e infine l'ultimo, fase della
collaborazione con la Nazione, e dei saggi scritti negli ultimi dieci anni di
vita.
Attraverso le sue opere, e in particolare attraverso l'apologo politico La
tribù, o i saggi L'uomo e la teoria darwiniana e La corruzione dell'anima, la
cultura di Svevo rivela un apparente aspetto contraddittorio: infatti egli da
un lato fu studioso del positivismo, di Darwin e del marxismo; dall'altro di
Schopenhauer e di Nietzsche.
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Subì inoltre,
soprattutto negli ultimi anni, l'influenza di Freud, il
quale era portatore sia di elementi positivisti, quale la necessità di
ricondurre lo studio a chiarezza scientifica, che antipositivisti, come
l'evidenziamento dei limiti della ragione rispetto al potere dell'inconscio.
In realtà lo scrittore assunse gli elementi critici e gli strumenti di diversi
pensatori, e non il loro pensiero complessivo.
Infatti Svevo condivise con Darwin, con il positivismo in genere e con Freud,
la propensione all'utilizzo di metodi scientifici di conoscenza e il rifiuto di
una visione metafisica, spiritualistica, senza però accettare la fiducia
darwiniana nel progresso e la presunzione del positivismo di fare della scienza
una base oggettiva e indiscutibile del sapere.
Nel racconto La tribù, uscito nel 1897 sulla rivista teorica del socialismo
italiano 'Critica sociale', in cui viene rifiutato il percorso
graduale attraverso cui l'umanità potrà giungere al socialismo, e viene
proposto di cominciare dalla fine, saltando le tappe intermedie, lo scrittore
palesa di non aver accettato il marxismo come soluzione sociale, ma solo come
strumento e come prospettiva critica di giudizio sulla civiltà europea e sui
suoi meccanismi economici e sociali.
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Stessa selezione aveva compiuto anche nei confronti del pensiero di Schopenhauer, dal quale imparò a osservare i caratteri della volontà umana, a verificare come ideali e programmi siano determinati non da motivazioni razionali, ma da diversi orientamenti della volontà, i quali spingono poi gli uomini fino a ingannare se stessi e a rimanere prigionieri delle proprie illusioni: se nei suoi romanzi Svevo mira sempre a smascherare gli autoinganni dei suoi personaggi e a smontare gli alibi psicologici che essi si costruiscono, dipende certo dalla forte influenza del filosofo.
Problematico
fu il rapporto con la psicoanalisi, che pure ebbe un ruolo così importante
nella sua riflessione e nella sua scrittura letteraria: verso Freud lo spingeva
l'interesse per le tortuosità e le ambivalenze della psiche profonda, che già
aveva esplorato prima della nascita delle teorie psicoanalitiche in Una vita e
in Senilità.
Ma Svevo non apprezzò la psicoanalisi come terapia, che pretendeva di portare
alla salute il malato di nevrosi, bensì come puro strumento conoscitivo, capace
di indagare più a fondo la realtà psichica, e, di conseguenza come strumento
narrativo. L'autore riconosce infatti nell'ammalato pulsioni vitali che
verrebbero spente dalla terapia.
Nella lettera a Valerio Jahvier, letterato italiano che risiedeva a Parigi, con
il quale aveva intrapreso una corrispondenza epistolare, Svevo discute di
psicoanalisi e esprime i suo pareri:
Egregio
Signore, Non vorrei poi averle dato un consiglio che potrebbe attenuare la
speranza ch'Ella ripone nella cura che vuole imprendere. Dio me ne guardi.
Certo è ch'io non posso mentire e debbo confermarle che in un caso trattato dal
Freud in persona non si ebbe alcun risultato. Per esattezza debbo aggiungere
che il Freud stesso, dopo anni di cure implicanti gravi spese, congedò il
paziente dichiarandolo inguaribile.
()Perché non prova la cura dell'autosuggestione con qualche dottore della
scuola di Nancy? Ella probabilmente l'avrà conosciuta per ridere. Io non ne
rido. E provarla non costerebbe che la perdita di pochi giorni.
Letterariamente Freud è certo più interessante. Magari avessi fatto io una cura
con lui. Il mio romanzo sarebbe risultato più intero.
E perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all'umanità
quello che essa ha di meglio? Io credo sicuramente che il vero successo che mi
ha dato la pace è consistito in questa convinzione. Noi siamo una vivente
protesta contro la ridicola concezione del superuomo come ci è stata gabellata
(soprattutto a noi italiani).
()Ma intanto - con qualche dolore - spesso ci viene di ridere dei sani. Il
primo che seppe di noi è anteriore al Nietzsche: Schopenhauer, e considerò il
contemplatore come un prodotto della natura, finito quanto il lottatore. Non
c'è cura che valga. Se c'è differenza allora la cosa è differente: Ma se questa
può scomparire per un successo (p. e. la scoperta d'esser l'uomo più umano che
sia stato creato) allora si tratta proprio di quel cigno della novella di
Andersen che si credeva un'anitra male riuscita perché era stato covato da
un'anitra. Che guarigione quando arrivò fra i cigni!
Mi perdoni questa sfuriata in atteggiamento da superuomo. Ho paura di essere
veramente guastato (guarito?) dal successo.
Ma provi l'autosuggestione. Non bisogna riderne perché è tanto semplice.
Semplice è anche la guarigione cui ella ha da arrivare. Non Le cambieranno
l'intimo Suo «io». E non disperi perciò. Io dispererei se vi riuscissero.()
Anche sul piano del gusto letterario e delle scelte di poetica Svevo muove da maestri diversi: da un lato i realisti e i naturalisti ( Balzac, Flaubert e Zola); dall'altro invece Bourget, creatore del romanzo psicologico e Dostoevskij, che aveva scandagliato le piaghe più riposte della psiche umana.
Nell'ambito
della letteratura italiana l'opera di Svevo segna proprio il trapasso dal
verismo a una nuova visione e descrizione del reale, più analitica e
introversa, svincolata da certe cristallizzazioni tradizionalmente presenti
nella narrativa, quali il personaggio, le ordinate categorie temporali,
l'univocità degli eventi: si tratta naturalmente di un'acquisizione progressiva,
poco visibile nel suo primo libro, nettissima nella Coscienza di Zeno.
I dati realistici - la raffigurazione dei vari ceti (borghesi o popolari che
siano), la rappresentazione dell'ambiente, le descrizioni degli accadimenti -
vanno incontro, nelle pagine di Svevo, a una crescente interiorizzazione,
vengono cioè usati sempre più come specchi per chiarire i complessi e
contraddittori moti della coscienza. Al centro delle storie l'autore pone
sempre un solo personaggio, al quale gli altri fan da coro, per lo più
antagonista: un individuo abulico e infelice, incapace di affrontare la realtà
e che a essa costantemente soccombe, ma che nello stesso tempo tenta di
nascondere a se stesso la propria inettitudine, sognando evasioni, cercando
diversivi, giustificazioni e compromessi.
Nell'analizzare questi processi, l'inconscio, le sue canalizzazioni e le sue
mascherature, Svevo smonta l'io del protagonista, rivelando ironicamente, e
talora comicamente, le non semplici stratificazioni della psiche, tutta la sua
instabilità, in cui passato e presente, ricordi e desideri si intrecciano
reciprocamente. Ma questa indagine è anche carica di un affetto dolente, quasi
che l'autore volesse salvare dall'estrema umiliazione della condanna il suo
eroe negativo, che è in fondo il risvolto irredimibile di noi stessi, e la cui
malattia è da assimilare alla crisi di un'intera società.
Portatore di innovazioni straordinarie, Svevo non ottenne grande successo, se
non alla fine degli anni Sessanta, quando entrò a far parte dei classici della
letteratura italiana: causa di questo tardivo successo fu certamente la cultura
mitteleuropea, più viennese che italiana, che fece sì che egli non avesse mai
alcun rapporto con la cultura letteraria fiorentina, allora egemone a livello
nazionale. Inoltre in Italia la psicoanalisi penetrò solo negli anni Sessanta;
e la mancata conoscenza del pensiero di Freud
era certamente un ostacolo alla comprensione della grandiosità della Coscienza
di Zeno.
In secondo luogo, Svevo è totalmente estraneo all'idea di arte propria dei
letterati e critici italiani: la sua visione di scrittura come igiene appariva
incomprensibile ai suoi contemporanei. Inoltre, anche la sintassi semplice e
talora vicino al parlato, non coincideva con i canoni armoniosi e lirici del
tempo.
Riportiamo un passo da un articolo del 1926, scritto da Eugenio Montale, grande
sostenitore del poeta: Presentazione di Italo Svevo
Nasce così il romanzo moderno secondo la via additata a noi dai grandi modelli
stranieri: il romanzo da accettarsi non per questo o per quel frammento, ma da
accogliersi come organismo, in funzione di vita e di umanità; il libro fatto di
parole dette da uomo a uomo e nelle quali la nostra vita di tutti i giorni
possa riconoscersi con immediata rispondenza ()
La coscienza di Zeno è l'apporto della nostra letteratura a quel gruppo di
libri ostentatamente internazionali che cantano l'ateismo sorridente e
disperato del novissimo Ulisse: l'uomo europeo. Non è, si noti, che sian qui
visioni cosmopolitiche, anime d'eccezioni od altrettali risorse; ma queste
borghesi figure di Svevo sono ben cariche di storia inconfessata, eredi di mali
e di grandezze millenarie, scarti ed outcasts di una civiltà che si esaurisce
in se stessa e s'ignora. Più che l'eterna miseria inerente all'universalità
degli uomini, l''imbecillità' dei personaggi di Svevo è dunque un
carattere proprio dei protagonisti di cotesta nostra epoca turbinosa ()
A confutare frattanto, ogni critica eccessiva, potremmo chiedere a questi
scontenti in quale altro libro nostro sia contenuta una rappresentazione
altrettanto profonda della media borghesia italiana di questi ultimi anni.
L'osservazione ci sembra decisiva.
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