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Giovanni Ipavec
IL PENSIERO
di
GIACOMO LEOPARDI
1 - Introduzione - Leopardi: filosofo o poeta o entrambi?
Che Leopardi sia poeta nessuno l'ha messo in
discussione. Che sia anche filosofo, invece, è stato oggetto di acceso
dibattito. Alla base c'è il fatto che egli ha scritto di filosofia e, per così
dire, da filosofo: sullo Zibaldone
troviamo tanti e tali pensieri sull'anima, la metafisica, la religione, la
società, la natura, la morale, e via dicendo, che l'opera, ancorché disorganica
e non sistematica, ben potrebbe configurarsi come trattato filosofico. Né si
può dire che manchi a Leopardi lo stile filosofico, perché alcune sue pagine,
specie quelle relative alla teoria del piacere, sono di tale rigore e
oggettività che sembrano stilate dalla penna di un Locke o di un suo seguace.
Ma non tutti i critici sono d'accordo su questo punto. Il vecchio filone della
cultura laicista italiana, da De Sanctis a
Croce, nega la filosofia di L., ritenendola scarsamente significativa, non
originale né profonda.
Per Francesco De Sanctis (cfr. Schopenhauer e Leopardi), interessato all'uomo
e all'artista, essa esprime un superficiale pessimismo, contraddetto dalla
poesia, l'unica sua produzione genuina e profonda; il L. filosofo, che odia la
vita, con la sua poesia ce la fa amare: 'La
vita rimane intatta quando ci sia la forza d'immaginare, di sentire e di amare:
che è appunto il vivere. Dice l'intelletto: l'amore è illusione, sola verità è
la morte. E io amo e vivo e voglio vivere. Il cuore rifà la vita che
l'intelletto distrugge'. Vera poesia è l'idillio, che è mera
espressione del sentimento; l'elemento raziocinante è un ostacolo, un pericolo,
dal quale il poeta non riesce sempre a guardarsi nei 'piccoli
idilli', quasi più nei Canti
scritti dopo il '30.
Benedetto Croce riprende la contrapposizione,
ma restringe ancor più il campo poetico: la poesia del recanatese gli sembra
oscillare tra filosofia e letteratura, quasi mai riuscendo a tenere la rotta
mediana (di qui la sua sostanziale e netta stroncatura).
Una nuova linea,che rivaluta L. filosofo, è aperta nei decenni tra le due
guerre. Giovanni Gentile, che legge L.
con interessi filosofici, nell'intento di rivalutare le Operette morali, arriva ad affermare che L. è
autentico e grande filosofo. Nel 1940 Adriano
Tilgher sostiene che esiste una filosofia di L., che non è
sistematica né procede per astrazioni (L. non indaga i problemi gnoseologici o
metafisici); essa ora si serve di un'espressione lirica o letteraria (Canti, Operette morali), ora è comunicata in
modo immediato, solitamente non elaborato, attraverso lo Zibaldone.
Nel dopoguerra si assiste ad un sostanziale rinnovamento degli studi
leopardiani, grazie prevalentemente agli apporti della critica
storicistico-marxiana, la quale mette in risalto l'ultimo L. (la produzione
posteriore al '30), sostenendo l'eccellenza del poeta impegnato e progressivo
contro quello isolato e solitario dell'idillio. Saggi fondamentali sono i
seguenti: L. progressivo di Cesare Luporini
(Firenze, 1947), La nuova poetica leopardiana
di Walter Binni (Firenze, 1947), Alcune osservazioni sul pensiero di L. di Sebastiano Timpanaro (Pisa, 1965), La protesta di L. di W. Binni (Firenze, 1973), La posizione storica di G.L. di Bruno Biral (Torino, 1974), L. - Schizzi, studi e letture di Carlo Muscetta (Roma, 1976). Questi contributi,
tutti contrassegnati da una decisa matrice ideologica, individuano una linea
'eroica' del pensiero leopardiano (L. consapevolmente eroico di
fronte al proprio destino), pensiero che, non elevato al rango di filosofia,
non è più un ostacolo alla poesia, ma piuttosto il suo vitale nutrimento.
Notevole il saggio di Umberto Bosco Titanismo e pietà in G.L. (Firenze, 1957) per
il tentativo di spiegare tutto il percorso intellettuale del poeta alla luce
del motivo eroico-titanico.
Infine, entro l'ambito di una critica prevalentemente stilistica si sono mosse
le ricerche di Bigongiari, Getto, Ramat, Solmi e Bigi.
In conclusione, mentre per alcuni studiosi L. è un filosofo esistenziale, che
si pone problemi di ordine pratico-morale (la vita ha un senso? può l'uomo
essere felice? dopo la morte c'è qualcosa o con la morte finisce tutto?), la
maggior parte dei critici concorda oggi nel ritenere che L. non possa essere
considerato filosofo per il fatto che, pur avendone l'attitudine e i mezzi
'culturali', era viziata in partenza la sua volontà di speculazione.
Egli infatti, sollecitato da motivi biografici e storico-culturali (vedi sotto
il punto 2), assunse sin dall'inizio un atteggiamento critico negativo nei
confronti della vita e dei valori che essa esprime, considerati alla stregua di
miti e illusioni. Tali convincimenti, penetrati profondamente e per tempo nel
suo pensiero, ne condizionarono di fatto l'attività e gli intendimenti,
cosicché, quando L. disporrà degli strumenti filosofici, se ne servirà non per
sottoporre a critica razionale il suo atteggiamento di base, bensì per
rafforzarlo, per aumentarne la consistenza logica e la naturale persuasione.
Così facendo, però, si precludeva la via alla vera filosofia: il giudizio, se
segue e scaturisce dall'analisi, è oggettivo e logicamente valido, ma se la
precede diventa pregiudizio e strumentalizza e vizia gli esiti di quella.
2 - La formazione di Giacomo (1798-1816)
La genesi del pensiero di L. appare determinata da una
progressiva presa di coscienza della propria infelicità. All'origine di questa
si possono individuare due diversi ordini di fattori: biografico-ambientali e
storico-culturali.
Tra i primi l'atmosfera affettivamente carente della sua famiglia e l'educazione
retrograda e autoritaria, impartita da una madre bigotta e formalista e da
un padre conservatore e chiuso; poi la formazione isolata e solitaria,
da autodidatta, quello 'studio matto e disperatissimo' che contribuì
all'insorgere di diverse malattie croniche e alla malformazione
fisica. Al gelo dei rapporti familiari vanno aggiunti lo scherno e la derisione
dei concittadini, la mediocrità e la scarsa cultura dell'ambiente
recanatese, la precoce sensibilità e la vivace intelligenza
di Giacomo.
Motivi di ordine storico-culturale furono la crisi dell'illuminismo e
l'insorgere inizialmente indistinto e confuso di nuove ideologie, la perdita
d'identità e di funzione politico-civile dell'intellettuale, l'arretratezza
sociale e culturale dello stato pontificio.
Né va dimenticato che il periodo storico in cui Giacomo raggiunge la maturità è
l'età della Restaurazione, caratterizzata dal conflitto tra
nazionalismo, liberalismo e romanticismo da una parte, cosmopolitismo,
assolutismo e classicismo dall'altra. In ambito letterario nasce e si sviluppa
la polemica classico-romantica attizzata dall'articolo di M.me de Stael, nella quale interviene anche L.
(vedi sotto il punto 3).
Punto di partenza della speculazione leopardiana, volta a tentare di chiarire
il senso della vita, è dunque il disagio esistenziale dell'autore, ovvero la
sua infelicità fisica e psicologica. Tale disagio è all'origine di un pessimismo
di tipo esistenziale, le cui caratteristiche si possono compendiare come
segue: precoce venir meno delle illusioni e dei sogni infantili, sfiducia nella
vita, sentimento (non ancora razionalizzato) di desolazione e di delusione,
insofferenza verso i condizionamenti, sensazione di inutilità e di
soffocamento.
3 - La fase del pessimismo storico (1816-1820)
Il pensiero leopardiano prende l'avvio da una
meditazione sull'infelicità in sé, della quale vengono indagate le cause, le
dinamiche e le conseguenze.
Alla base c'è la teoria dell'amor proprio (di derivazione
illuministica), secondo la quale l'uomo è un essere che ama necessariamente se
stesso e mira alla propria conservazione e alla propria felicità. L'altruismo è
un controsenso: quando io faccio del bene ad un altro è perché provo piacere,
quindi lo faccio sempre a me stesso. L'altruismo non è il contrario
dell'egoismo, ma è una sublimazione dell'amor proprio, in quanto esistere
significa amare se stesso, cercare la propria felicità. L'amor proprio non
coincide con l'egoismo: quest'ultimo è una degenerazione dell'amor proprio
causata dallo sviluppo della civiltà e dal predominio della ragione; è uno
degli esiti di quel progresso storico negativo, all'indietro, che è, secondo
L., il passaggio dai primitivi ai civilizzati. L'amor proprio è fonte di nobili
azioni, di sacrifici eroici; l'egoismo, invece, è calcolo meschino. L'amor
proprio è la volontà di potenza dei forti, l'egoismo è il calcolo razionale del
debole che uccide la vita.
L. respinge le ideologie ottimistiche e le utopie rassicuranti del suo secolo,
si ribella alla meschinità del suo tempo e alle convenzioni del suo ambiente,
che giudica arido e gretto; rimpiange un mondo mitico di nobili virtù e
di valori incorrotti, in cui gloria e fama, unici antidoti contro
il grigiore della vita, erano possibili, conseguibili. Si scaglia con veemenza
contro i miti dell'Ottocento, la storia e il progresso, e contro la stoltezza
di un secolo che dalla filosofia della storia di Hegel fino al balletto Excelsior
esalta l'uomo come creatore della realtà. Per L. si tratta di un
antropocentrismo fanatico, al quale egli si oppone con forza, affermando che la
storia non è progresso, ma regresso dal primitivo stato di natura, buono e
felice, allo stato di civiltà, corrotto e decadente.
Nella storia del genere umano si distinguono quattro tappe:
1) l'età primitiva, quando gli uomini vivevano in uno
stato di perfezione e di innocenza anteriore alla civiltà;
2) l'antichità classica, civiltà che L.
ammira come sintesi equilibrata di natura e ragione (nello Zibaldone
sostiene la superiorità del politeismo greco-romano rispetto alla religione
cristiana);
3) il medioevo, nel giudicare il quale
L. incorre nei tipici luoghi comuni dell'illuminismo (secoli bui, epoca
negativa, trionfo della barbarie);
4) l'età moderna, con il predominio
assoluto della ragione, la freddezza, il convenzionalismo, il calcolo, la
funzionalità, in una parola la vita inautentica.
L. rifiuta il progresso civile e tecnologico, convinto che
sia negativo in sé, poiché l'incivilimento è snaturamento, allontanamento dalla
natura: il mondo è sempre più corrotto e non può essere corretto. Netta,
quindi, per L. l'antitesi tra la remota grandezza e la miseria morale
e materiale odierna.
L'antagonismo di L. con gli orientamenti spirituali e culturali del
proprio tempo si manifesta anche nell'impegno in favore dei classicisti, i
quali devono assolvere il duplice compito di riproporre i valori classici,
che hanno funzione liberatoria e di stimolo delle coscienze, e di scrivere
per il proprio tempo (= alfierismo).
Causa della decadenza è la ragione, 'nemica della natura',
corruttrice dei costumi, madre della civiltà e della società con tutti i loro
egoismi, distruttrice del rimpianto mondo eroico. Sogno è ritrovare la
'favilla antica', cioè la vivacità dell'immaginazione, la forza delle
illusioni, la vitalità dell'ieri contro la delusione dell'oggi, attraverso il
meccanismo della ricordanza.
Come già il Foscolo, anche L. avverte la
necessità delle illusioni (gloria, amor proprio, amor di patria,
libertà, onore, virtù, amore per la donna), che sono secondo natura e
costituiscono l'unico antidoto agli effetti della civiltà e della ragione, i
quali hanno guastato il mondo moderno, 'tristissimo
secolo di ragione e di lume'; e come il Foscolo nei Sepolcri, così
anche L. concepisce la poesia come stimolatrice di illusioni.
Tutta la storia del genere umano è la storia della lotta tra la felicità e il
vero, tra l'illusione e la realtà, tra la vita e il sogno. La realtà è banale e
cattiva, vere sono solo le illusioni, ossia le speranze, di cui l'umanità si
nutre e che non può abbandonare senza cadere nella disperazione.
'Larve' definisce L. le illusioni in cui l'uomo crede nella
sua età giovanile, ovvero in quel 'sabato del villaggio' che precede
il giorno più noioso che è il giorno della 'festa di sua vita'; sono
le illusioni che impediscono di scorgere la tragedia del vivere. E le illusioni
rappresentarono veramente l'unica motivazione alla vita per l'adolescente
Giacomo, che le ricorda con accenti commossi in uno degli squarci più elevati
della sua lirica, i vv. 77-103 delle Ricordanze.
La realtà è illusoria: manifestando un'evidente consonanza con Schopenhauer, L.
sostiene la coincidenza di vita e sogno, essendo la realtà niente altro che
sogno, come scrive Calderòn de la Barca. Questo concetto è ribadito nelle opere
della maturità (Operette morali e Canti posteriori al '27). Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare
si legge: 'Sappi che dal vero al sognato
non corre altra differenza se non che questo può qualche volta essere molto più
bello e più dolce, mentre quello non può esserlo mai'. E il
verso conclusivo di A se stesso
('l'infinita vanità del tutto') sottolinea che il vero è
nemico della felicità. L. mostra qui il suo paradosso: un'educazione
illuministica che si rivolta contro l'illuminismo, un illuminista
antiilluminista, un uomo educato al culto della ragione (che dissipa le tenebre
della superstizione e liquida come favole le verità della religione), il quale
distrugge i miti stessi dell'illuminismo e afferma la superiorità rispetto al
vero di ciò che è pensato, sognato e sperato. Nel Dialogo di Timandro e di
Eleandro tale concezione è così espressa: 'Si
ingannano grandemente quelli che dicono e predicano che la perfezione dell'uomo
consiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali provengono dalle
opinioni false e dall'ignoranza, e che il genere umano allora finalmente sarà
felice, quando ciascuno o i più degli uomini conosceranno il vero, e a norma di
quello solo comporranno e governeranno la loro vita.' L.
nega in tal modo l'essenza, il 'vangelo' dell'illuminismo: la
felicità è data non dalla conoscenza del vero, bensì dalla sua ignoranza;
sapere di più significa soffrire di più, e chi aumenta la conoscenza aumenta
anche il dolore, come dice la Bibbia. Tutta la poesia A Silvia esprime in termini altamente lirici
questa concezione.
In conclusione, la sostanza del pessimismo storico leopardiano si esprime in quattro antinomie, nelle quali il primo termine ha valenza positiva, il secondo negativa:
valenza positiva valenza negativa
natura vs ragione
antico vs moderno
stato naturale vs società
illusione vs vero
4 - La fase del pessimismo cosmico
A partire dagli anni del cosiddetto 'silenzio
poetico' (1823-27) L. opera un progressivo ribaltamento della
concezione iniziale, giungendo a riabilitare la ragione contro la natura.
Continuando ad analizzare le cause dell'infelicità umana, egli osserva che il naturale
impulso vitale è contrastato e ostacolato, a livello individuale, da un
duplice limite, biologico e ontologico; a livello storico
da un terzo limite, l'egoismo, che egli definisce 'peste della
società'.
Il limite biologico consiste nell'intrinseca debolezza dell'uomo, il
quale, al pari di ogni altro essere vivente, è subordinato al ciclo
meccanicistico della materia. Di qui la scoperta della propria fragilità e
solitudine.
Il limite ontologico è dato dall'impossibilità di essere felici: la
natura genera nell'uomo una tensione irrefrenabile verso la felicità, un
anelito costante al piacere, ma la felicità è irraggiungibile, giacché, in
quanto tale, deve essere infinita e pienamente appagante; di conseguenza la
ricerca di essa conduce inevitabilmente ad una finita e concreta infelicità. I
piaceri momentanei che si provano nella vita non sono altro che una tregua
relativa e passeggera dell'infelicità.
Per comprendere a fondo queste ultime affermazioni, occorre rifarsi alla teoria
leopardiana del piacere, secondo la quale il piacere non né è
assoluto né infinito; anzi, il piacere in sé non esiste: esiste solo nel
desiderio, essendo un 'subbietto speculativo', vale a dire un puro
concetto. Il desiderio è immaginazione, speranza, sogno, proiettato sempre al
futuro e sempre destinato ad essere deluso. Invece del piacere esistono i
piaceri, intesi in senso negativo come cessazione dell'affanno, brevi momenti
di assenza del dolore; concreti ed effimeri, rendono sopportabile il dolore,
restituendo momentaneamente la vitalità, l'impulso vitale.
La teoria del piacere, il cui carattere è negativo, è strettamente legata alla
teoria dell'amor proprio. L'amor proprio, infatti, implica la ricerca della
felicità, ma questa ricerca è senza esito, non può avere fine, quindi non può
mai appagarsi. L'uomo cerca il piacere sempre, ma non può accontentarsi del
piacere che trova, che è finito; egli è pertanto destinato a cercare il piacere
in qualcosa di sempre diverso, di sempre più alto: ciò significa che non lo
trova mai. La tragicità della condizione umana è in questa ricerca dell'infinito,
che conduce sempre allo scacco.
Il piacere è sempre sperato, mai posseduto, sempre futuro, mai presente: esso
sfugge sempre. Non esistendo e non potendo esistere realmente, esiste solo nel
desiderio del vivente e nella speranza o aspettativa che ne segue. In base a
questa teoria il concetto di piacere è negativo, quello di dolore è positivo,
per cui si può dire che il piacere è la mancanza del dolore, ma non si può dire
che il dolore è la mancanza del piacere, ovvero di qualcosa che non esiste. Il
concetto è espresso poeticamente nei seguenti versi tratti da La quiete dopo
la tempesta:
Piacer figlio d'affanno; Gioia vana ch'è frutto Del passato timore (.). Uscir di pena È diletto fra noi. Pene tu (= la Natura) spargi a larga mano; il duolo Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto Che per mostro e miracolo talvolta Nasce d'affanno, è gran guadagno.
È questa la concezione del piacere negativo,
perché, se per caso cessa il dolore, di cui il piacere è la negazione, non
subentra il piacere, ma qualcosa di peggio, che nella dialettica di L. è
la noia. Il dolore, infatti, non esclude che l'uomo cerchi e speri di
superarlo, mentre la noia è angoscia e disperazione. E allora, per L.
come per Schopenhauer, la vita oscilla inarrestabilmente come un pendolo tra il
dolore e la noia, in un eterno meriggio privo di tramonto ristoratore.
Il limite storico è dato dalla inconciliabilità di individuo e società,
tra i quali si determina uno scontro di egoismi. L'atteggiamento dei singoli è
antisociale: ognuno cerca sempre di avere di più, di soverchiare gli altri, di
sottomettere tutto e tutti al proprio utile o piacere. E ciò per natura.
Ne consegue che tutte le società sono state cattive (superamento del pessimismo
storico) e che, a causa appunto dell'egoismo e dell'aggressività umani, ci si
avvia inesorabilmente alla distruzione del mondo, già data per avvenuta nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo. Di qui
la polemica contro l'ingenua fiducia del XIX secolo nel progresso scientifico e
tecnologico, nelle macchine, nell'espansione economica, che comporta lo
sfruttamento industriale e il colonialismo.
Considerati i tre suddetti limiti, L. conclude che tutto è male.
Esistere equivale ad essere perennemente insoddisfatti, incontentabili, a
soffrire per la propria fragilità. Il bene consiste nel non esistere. Responsabile
del male è la natura, non più vista come provvida e benefica madre,
bensì come causa dell'infelicità umana. Essa con l'esistenza ci dà i
germi dell'infelicità, essendo l'insopprimibile bisogno di felicità destinato a
restare insoddisfatto.
Documenti (testi che testimoniano la rottura del rapporto con la Natura):
a. La sera del dì di
festa (idillio, 1820);
Cfr. vv. 11-15:
. io questo ciel, che sì benigno Appare in vista, a salutar m'affaccio, E l'antica natura onnipossente, Che mi fece all'affanno. A te la speme Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Commenta G. Oliva: 'Il sonno silenzioso e tranquillo della donna si fa metafora di una indifferenza ben più dolorosa per il L.: quella della Natura, che mostra agli uomini il suo aspetto più delicato (il cielo, che sì benigno appare in vista) solo per nascondere la sua malvagia crudeltà'.
b. Ultimo canto di
Saffo (canzone, 1822);
Imperscrutabile è il destino dell'uomo; uniche certezze sono il dolore e la
morte:
. i destinati eventi Move arcano consiglio. Arcano è tutto, Fuor che il nostro dolor. Negletta prole Nascemmo al pianto. Morremo.
La Natura è beffarda, insensibile al dolore dell'uomo, intenta solo a perpetuare se stessa; come nella Sera del dì di festa cela sotto una struggente immagine di bellezza il suo disdegno (cfr. vv. 19-36). L. non sa proporre alcuna soluzione in grado di superare il dolore del mondo; l'assurdo non può essere vinto, ma solo accettato come tale. L'uomo non può sperare di vincere il nulla, da cui è sorto e a cui farà ritorno, ma può solo identificarsi con esso in un'operazione che ricorda quella orientale del 'nirvana', dell'annullamento.
c. Zibaldone (dal 1821);
Nella sua condanna della Natura il L. rifiuta qualsiasi
provvidenzialismo, qualsiasi consolazione religiosa, qualsiasi soluzione
irrazionale; al contrario, rivaluta pienamente la ragione: è la ragione
che disinganna e guida l'uomo alla vera sapienza, che consiste nel prendere
coscienza della propria inutilità; è la ragione che 'atterra' (cioè
riporta sulla terra dal cielo della metafisica) l'uomo e lo pone davanti all' arido
vero; è la ragione, infine, che scopre che tutta l'umanità è accomunata da
un unico e identico destino (superamento del pessimismo individuale e
psicologico).
d. Dialogo della
Natura e di un Islandese (O.M., 1824);
Ogni tentativo di agonismo è votato a disfatta: la Natura è invincibile ed è
indifferente alla felicità o meno dell'uomo. L'universo è dominato
dall'irrazionalismo e dal casualismo: non c'è una ragione, un senso; non c'è un
fine, una creazione, un orientamento; tutto è abbandonato al caso. Del tutto
inutile è la ricerca di un significato: la Natura non dà risposte. L'estrema
domanda dell'Islandese ('Dimmi quello che
nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita
infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose
che lo compongono?') rimane senza risposta.
e. Cantico del gallo silvestre (O.M., 1824); L'essere esiste, ma non c'è nessuna ragione perché esista anziché perché non esista; la vita non ha senso, né ha alcun senso la realtà. I positivisti, che collegavano il pessimismo di L. alle sue condizioni fisiche, nel centenario della nascita ne riesumarono il corpo per misurarlo ed espressero la tesi che egli, essendo infelice e gobbo, doveva diventare fatalmente pessimista. Ma tale tesi è del tutto insostenibile: il pessimismo di L. non è di ordine psicologico, bensì cosmico, poiché riguarda la realtà tutta, non solo l'uomo, né tanto meno l'uomo Giacomo Leopardi. Il quale, nella pagina più terribile delle Operette morali denuncia il radicale non senso della realtà. Si tratta della parte conclusiva del Cantico del gallo silvestre: 'Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna: parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi'.
f. A Silvia (idillio,
1828);
La Natura tradisce, è matrigna, non mantiene le promesse, inganna, spegne le
illusioni:
O natura, o natura, Perché non rendi poi Quel che prometti allor? perché di tanto Inganni i figli tuoi?
La vita si rivela aridità e disillusione:
All'apparir del vero Tu, misera, cadesti: e con la mano La fredda morte ed una tomba ignuda Mostravi di lontano'.
g. Canto notturno di un pastore errante
dell'Asia (idillio, 1830).
Il desiderio di sapere la verità non è appagato; uniche certezze il vuoto e il
nulla; l'esistenza è assurda. 'Perché siamo nati?'. A questa domanda
L. risponde: 'Per mostrare che era meglio che non nascessimo
affatto': per questo, non appena un bambino è nato, noi prendiamo a
consolarlo dell'essere venuto al mondo. E forse la definizione più precisa del
pessimismo cosmico, del non senso dell'essere, si trova in questa grande
lirica, che è stata chiamata l'"anti Divina Commedia", perché, se la Divina Commedia è senso dell'ordine, della
provvidenza, della finalità, il Canto notturno,
all'opposto, esprime una visione della vita improntata ad un totale casualismo.
Effetto di questa presa di coscienza è il tedio, la noia,
definita 'la più sterile delle passioni umane',
'figlia della nullità e madre del nulla',
ma anche 'il più sublime dei sentimenti umani'. Essa è
tormento, è l'esaurirsi del mito vitalistico, è privazione del desiderio, è
coscienza dell'inutilità del tutto; ed è sentimento nobile, perché distingue
gli spiriti più sensibili e dotati. In questo risiede la grandezza dell'uomo.
In conclusione, una valida sintesi delle concezioni su cui si fonda il pessimismo cosmico di G.L. può essere la seguente:
L'uomo nasce per il dolore e la gioia è cessazione momentanea dell'affanno.
Dal punto di vista dell'uomo (piano esistenziale) tutto l'universo sembra cospirare contro di lui. Da quello dell''ssoluto (piano metafisico) la vita è un processo naturale che alterna gli esseri attraverso la generazione e la morte.
La natura, intesa come forza bruta e malefica, è responsabile della nostra sventura.
L'uomo conosce il suo destino, ma ciò lo rende infelice, poiché da questa comprensione egli viene ricondotto in se stesso, alla sorgente prima della sua infelicità, che è il suo stesso esistere. Perciò la morte è l'unico rifugio per il vivente.
5 - L'ultimo Leopardi: il pessimismo eroico (1827-1837)
Dopo il definitivo addio a Recanati del 30 aprile 1830
il pensiero di L., sia sul piano ideologico sia su quello etico, fa registrare
una svolta (anticipata dal Dialogo di Plotino e di Porfirio del 1827)
nel senso di un superamento della visione materialisticamente negativa e
nichilista maturata nella fase del pessimismo cosmico, per un messaggio
agonistico positivo (di difficile comprensione e attuazione, perché
'non apprezzato in questo secolo').
Le ragioni di tale svolta sono molteplici e si possono sintetizzare nei punti
seguenti:
L'amicizia, per quanto effimera, con i liberali toscani dell' Antologia.
La fallimentare esperienza dell'amore (ultima delusione in ordine di tempo il rifiuto ottenuto da Fanny Targioni Tozzetti, che fu all'origine del Ciclo di Aspasia).
I contrasti con gli spiritualisti napoletani dopo il trasferimento a Napoli in casa di Antonio Ranieri.
L'assidua pratica della filologia, improntata a severo rigore scientifico, nella ricerca di risposte non evasive né fideistiche al dramma esistenziale.
La scoperta del linguaggio satirico come strumento espressivo del titanismo e del pessimismo.
La lettura di Epitteto (filosofo stoico greco, autore del Manuale) e di Teofrasto (discepolo di Aristotele, propugnatore dell'empirismo materialistico).
Il superamento dell'etica stoica e dell'atteggiamento apolitico (dall'atarassia alla partecipazione).
L'esigenza di un atteggiamento eroico e di una morale costruttiva, fondata esclusivamente sull'uomo e aliena dal trascendente.
Nel ricostruire, attraverso i documenti, le tappe di
questa fase del pensiero leopardiano, troviamo nel Dialogo
di Plotino e di Porfirio del 1827 la prima espressione della
necessità di una solidarietà umana di fronte al destino. Il dialogo, incentrato
sul tema del suicidio e volto a chiarire le ragioni che lo respingono come
soluzione al dramma esistenziale, si conclude con un'appassionata esortazione rivolta
da Plotino all'amico: 'Viviamo, Porfirio mio,
e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino
ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci
compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso
scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La
quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci
dorremo: e anche in quell'ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno:
e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci
ricorderanno, e ci ameranno ancora.'
Due anni più tardi L., in una famosa pagina dello Zibaldone, dissipa con forza i sospetti di
misantropia di cui era fatto oggetto il suo pensiero: 'La mia filosofia non solo non è conducente alla
misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti
l'accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a
sanare, a spegnere quel mal umore, quell'odio, non sistematico, ma pur vero
odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbero esser
chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente ai loro simili (.).
La mia filosofia fa rea d'ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente,
rivolge l'odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all'origine
vera dei mali dei viventi.'
Ma L. non trova rispondenza né comprensione nella classe politica e
intellettuale del suo tempo, la quale professa fiducia nelle magnifiche sorti
e progressive. Contro l'ottimismo storicistico del secolo, che egli giudica
stolto, e contro lo stesso impegno politico e legislativo, che egli vede
animato dalla sterile e ridicola pretesa di procurare agli stati il benessere e
la felicità ignorando le reali esigenze degli individui, L. intraprende una
vigorosa crociata solitaria. In una lettera al Giordani del 1828 scrive: 'Mi comincia a stomacare il superbo disprezzo che qui si
professa di ogni bello e di ogni letteratura: massimamente che non mi entra poi
nel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la politica e la
statistica. Anzi, considerando filosoficamente l'inutilità quasi perfetta degli
studi fatti dall'età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli stati
civili e la felicità dei popoli, mi viene un poco da ridere di questo furore di
calcoli e di arzigogoli politici e legislativi; e umilmente mi domando se la
felicità dei popoli si può dare senza la felicità degl'individui.' La
polemica di L. è particolarmente dura contro il liberalismo cattolico e
moderato, come attesta la satira dei Nuovi
credenti, e la sua condanna coinvolge ogni tipo di conformismo, sia
reazionario, sia liberale.
Negli ultimi anni L. abbandona il pessimismo più 'metafisico' per
acquisire un atteggiamento più 'relativistico', fondato sul
riconoscimento di un doppio piano della verità, quello dell''ordine delle
cose' e quello del 'modo dell'esistenza', e, di conseguenza, di
una duplice matrice del dolore. 'C'è il dolore che deriva dall'ordine
delle cose, dunque legato all'essenza stessa della vita e, come tale, è
ineliminabile se non a costo della rinuncia alla vita stessa (si tratta del
dolore inflitto all'uomo dai 'mali esterni', ai quali non ci si può
sottrarre: malattie, eventi atmosferici, cataclismi, deperimento dovuto a
vecchiaia). C'è poi un altro tipo di sofferenza, che invece rimanda al mondo
dell'esistenza, cioè alla qualità della vita, alla storia, alla cultura. Questo
secondo tipo di dolore può essere invece combattuto e rimosso in quanto dipende
non dalla natura, ma dall'uomo: di qui il recupero del vitalismo e la scoperta,
da parte della poesia leopardiana, della dimensione sociale.
Il male storico dipende dal libero sfogo dell'egoismo umano: noi viviamo tutti
per la morte e, anche se accomunati dalla stessa miseria della vita e dall'odio
implacabile della Natura, tendiamo a contrapporci l'un l'altro per desiderio di
affermarci, voglia di prevalere, che sono la manifestazione degli istinti più
bassi. Così accresciamo il già grande male di vivere. Ma l'uomo è essere
razionale, soggetto di cultura, dunque può controllare i bassi istinti, che
sono fondamentalmente antisociali, e produrre valori alternativi come la
compassione, la solidarietà, l'amicizia, che invece fondano la società. E'
questo il compito della 'filosofia dolorosa ma vera', che riconosce francamente
il male della vita e mostra concretamente come esso possa essere mitigato.
Questo è il compito del nuovo poeta, che così recupera la funzione di vate al
servizio tanto della verità quanto dell'intera umanità e si fa promotore di
autentica cultura e autentico progresso sociale.'
L'etica della solidarietà è il tema centrale della Ginestra,
concepito come un messaggio indirizzato sia ai contemporanei sia ai posteri: si
impone una grande alleanza fra tutti gli uomini, una social catena che
coalizzi i mortali contro l'empia Natura e abbia il coraggio della verità,
rifiutando l'idea di una Provvidenza e le superbe fole del secol
superbo e sciocco.
Il messaggio finale di L. è frutto di un razionalismo irriducibile.
Progressismo e pessimismo convivono in quest'ultima fase del suo pensiero,
caratterizzata dalla speranza che la riconquista del giusto sapere sia il
fondamento di una società nuova, costruita con le sole forze umane.
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