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Eschilo
Eschilo (Eleusi, 525 a.C. - Gela, 456 a.C.) è considerato l’iniziatore della tragedia greca nella sua forma matura. Stando alla testimonianza aristotelica egli fu il primo ad utilizzare un secondo attore in scena, innovazione importante non solo da un punto di vista scenico, bensì anche ai fini della drammatizzazione del con- trasto, dello scontro, elemento essenziale di questa forma letteraria. Con l’introdu- zione del deuteragonista, fu infatti possibile esprimere la narrazione non più solo mediante l’interazione fra il Coro e il protagonista, bensì anche tramite i dialoghi fra i due personaggi in scena, guadagnandone in termini di complessità espressiva e di coinvolgimento del pubblico.
Al centro del teatro eschileo è l’indagine sulla condotta umana, soprattutto in rela- zione al problema della colpa, del castigo e dell’origine della sofferenza. La hybris (letteralmente tracotanza, sfrenatezza, oltraggio), che nel linguaggio giuri- dico dell’Atene classica designava un’azione delittuosa o un’offesa personale di particolare gravità, rappresenta qui un primo atto di empietà cui fa seguito un’ine- vitabile serie di conseguenze nefaste che coinvolgono non solo l’esecutore mate- riale dell’azione scellerata, bensì i suoi stessi familiari, gli appartenenti al suo ghé- nos. In tutto questo l’autorità divina si pone a stretta vigilanza della condotta uma- na: gli dèi spiano costantemente l’uomo e sono immediatamente pronti ad interve- nire nelle sue azioni dettando ordini e costruendo spietatamente la trappola in cui cadranno il colpevole accecato e i suoi discendenti
Nonostante ciò, sottolinea Di Benedetto, “non conosciamo nessuna tragedia greca che si presenti imperniata, senza scarti, sulla esemplificazione della validità della sequenza colpa/punizione. E questo vale anche per Eschilo, che pure era forte- mente interessato a un messaggio etico-didattico” La realtà della tragedia risulta
essere, quindi, molto più complessa.
Poco sopra abbiamo accennato all’intima contraddittorietà dell’evento tragico. Andiamo ora a prendere in considerazione come Eschilo rappresenti questa con- flittualità interna in quello che costituisce l’antefatto dell Orestea, ovvero l’azione criminosa compiuta da Agamennone per poter ripartire con le sue navi alla con- quista di Troia. Stando al racconto del Coro nella parodo, l’eroe era fermo con la flotta nel porto di Aulide per lo spirare di venti contrari e, interrogato Calcante, era venuto a conoscenza del volere degli dèi: se voleva poter ripartire con le proprie navi doveva sacrificare ad Artemide sua figlia Ifigenia. Ancor prima di ricordare questa situazione, il Coro aveva evocato un’immagine simbolo di un presagio in- fausto: quella della lepre pregna che veniva uccisa da due aquile, corrispondenti ai due Atridi a capo della spedizione, suscitando l’ira di Artemide Agam., 104 sgg.). L’uccisione di una lepre, di per sé, era di buon augurio, ma il fatto che essa fosse gravida fa assumere all’atto in questione una valenza sacrilega e funesta che può simboleggiare la contraddizione stessa della realtà tragica, prefigurando, in qualche modo, ciò a cui l’eroe sta andando incontro ancor prima del racconto del- la sua scelta effettiva: “Troia sarà presa, ma a un prezzo terribile. L’evento si pone come una cellula scissa che porta in sé le ragioni della contrapposizione”
Ma torniamo ad Agamennone che ha appreso il volere degli dèi da Calcante. Se- condo una modalità già incontrata in diversi eroi omerici, inizialmente egli appare incerto fra due alternative e valuta anticipatamente le conseguenze delle proprie scelte conscio del fatto che, in entrambi i casi, la sua decisione non sarà priva di dolore:
“Pesante sciagura il non obbedire, ma pesante anche se dovrò uccidere mia figlia, la gioia della mia casa, macchiando queste mani paterne sull’altare con un fiotto di sangue della vergine sgozzata: quale di queste decisioni è priva di mali? (Agam., 206-2 1)
A questa fase di indecisione e di compianto, fa immediato seguito la risoluzione di Agamennone, che è deciso ad immolare la figlia giudicando il sacrificio come un atto giusto benché estremamente penoso:
“Come potrei abbandonare le navi rompendo l’alleanza? Desiderare (ἐπιθυμεῖν) con passione bramosa un sacrificio che plachi i venti, e il sangue della vergine è lecito. E che ciò sia un bene”. (Agam., 212-217)
Le parole dell’eroe non tratteggiano un vero e proprio processo psicologico in ba- se al quale egli abbia scelto di sacrificare Ifigenia, bensì il passaggio da una fase di dissidio-stallo ad una di risoluzione avviene senza alcuna continuità, con uno stac- co netto da un momento all’altro. Eppure qualcosa è avvenuto nell’animo di Aga- mennone e tale mutamento viene giudicato dal Coro in termini di empietà:
E poi che si sottomise al giogo di necessità (ἐπεὶ δ᾽ ἀνάγκας ἔδυ λέπαδνον) spirando nell’animo un mutamento (φρενὸς πνέων δυσσεβῆ τροπαίαν) empio, impuro, sacrilego, (ἄναγνον ἀνίερον, τόθεν) da allora cambiò la sua mente (τὸ παντότολμον φρονεῖν μετέγνω) e fu pronto a osare tutto: poiché rende arditi i mortali la follia sciagurata che dà turpi consigli e avvia le sofferenze. Ebbene, tollerò di farsi sacrificatore della figlia, come aiuto a una guerra che puniva il ratto di una donna, e come rito preliminare alla partenza delle navi. (Agam., 218-227)
Ciò che Agamennone aveva valutato in termini di giustizia si configura nelle pa- role del Coro come un abbandono interiore, scellerato e criminale, alla follia (παρακοπὰ; 223) che rende temerari i mortali dando inizio alle sofferenze.
Un riferimento al testo greco, in questo caso, può risultare utile per comprendere meglio l’atteggiamento dell’eroe: qui Agamennone decide di uccidere sua figlia Ifigenia, letteralmente, “respirando un mutamento empio dell’animo” (φρενὸς πωέων δυσσεβῆ τροπαίαν; 219). Il termine φρήν, già incontrato in riferimento alle componenti del complesso pericardiale alle quali Omero associava la descri-
zione di diverse esperienze psichiche è quello che qui denota l’interiorità dell’e- roe ed è ciò che Padel definisce “il centro del linguaggio tragico della mente”
Nella sua accurata indagine, la studiosa inglese fa notare che nel V sec. a.C. erano in pochi a ritenere che il cervello avesse a che fare con la coscienza e normalmen- te, quando si prendeva in considerazione ciò che si supponeva accadesse dentro l’uomo, ciò che importava erano le viscere di una persona (σπλάγχνα), ovvero l’insieme di cuore, fegato, polmoni, cistifellea con i relativi vasi sanguigni. La psi- cologia nel mondo della tragedia non aveva praticamente niente a che fare con la testa, e gli atti del percepire e del pensare, spesso confusi col sentire, erano princi- palmente attribuiti al cuore (καρδία, κῆρ) e alla φρήν (termine etimologicamente connesso a φρονεῖν) o alle φρένες. Queste ultime, in particolare, venivano consi- derate come una specie di ricettacolo in cui le cose “cadevano”, erano una sorta di contenitori che si riempivano di rabbia, passione, forza, thymós, ricevendo ed e- sprimendo emozioni che venivano rappresentate in termini di movimenti di fluidi o di aria al loro interno. Da qui l’idea che le φρένες fossero principalmente passi- ve, atte a ricevere, e che, pertanto, fossero vulnerabili. Quest’ultimo tratto è di particolare importanza nell’ambito della tragedia che rappresenta strutture umane facilmente scisse e mandate in frantumi sulla scia di eventi emozionali e intellet- tuali che non solo erano descrivibili negli stessi termini dei movimenti fisici, bensì venivano considerati dei veri e propri movimenti fisici sintomi di malessere. Tornando al testo dell Agamennone, il termine φρήν è accostato a due vocaboli appartenenti al lessico dell’aria: il sostantivo τροπαία, vento che muta direzione, e il verbo πνέω, soffiare, spirare, respirare. Riprendendo il significato primario del termine τροπαία, Padel traduce il verso 219 “respirando un cattivo [alito? vento?] di φρήν, che cambia direzione” e mette in evidenza l’ambiguità insita in questo costrutto: estraendolo dal contesto, questo verso potrebbe voler dire che “Aga- mennone inspirò un alito cattivo dal fuori e che ciò fece mutare la sua mente”
Eschilo, però, fa notare la studiosa inglese, tace sulla provenienza del respiro de- cisivo di Agamennone dicendo solamente che è dell’animo (φρενὸς), e d’altronde da dove esso provenga è cruciale per la teologia del dramma in quanto da ciò dipende la colpa dell’eroe per la morte della figlia. Come osserva anche Spatafora a proposito dei poemi omerici Padel nota che l’essere “voltato” è qualcosa che tradizionalmente accade al φρήν, ma fa differenza considerare tale rivolgimento come un cambiamento che viene subito dall’esterno o come una conseguenza di alterazioni e mutamenti interiori. Allo stesso modo, fa differenza valutare il respi- ro decisivo di Agamennone in termini di vento proveniente dall’esterno o di alito interiore. “L’ambiguità del respiro diventa un’ambiguità di interpretazione che ac- quista un’etica forza vitale. Il volere e il respiro di Agamennone sono coinvolti tanto quanto, e insieme con, gli aliti e i venti del mondo esterno. Agamennone ar- riva a mettere in atto una decisione la cui fonte è parzialmente esterna a sé. Il re- spiro interiore risponde, in qualche modo, ad un alito proveniente dall’esterno” e l’eroe giunge a compiere una scelta indossando il giogo della necessità (ἐπεὶ δ᾽ ἀνάγκας ἔδυ λέπαδνον; 218).
Non va inoltre dimenticato, secondo Padel, che l’intero contesto in cui sono inse- riti i versi sopraccitati contribuisce a rafforzare l’idea di un’interazione fra vento e respiro: il racconto del Coro, infatti, ci fa sapere che le navi degli Atridi erano fer- me in porto per lo spirare di venti contrari (147), che Agamennone iniziò a parla- re, letteralmente, “respirando insieme (o essendo in accordo con) alle sorti che lo colpivano (ἐμπαίοις τύχαισι συμπνέων; 187)” e che i venti che spiravano dallo Strimone logoravano gli Achei (192 sgg.).
Quindi, dicendo che Agamennone compì la sua scelta “respirando un mutamento empio dell’animo”, Eschilo ci rende quella che Padel definisce “l’ambivalenza della causalità tragica”: “il respiro tragico non è simmetricamente ambiguo fra due possibili direzioni, fuori e dentro. La fonte dell’alito da cui proviene la vio- lenza umana sembra essere spesso esterna, come una malattia derivante “dallo pnéuma che respiriamo per vivere”. Nel V sec. l’interiorità umana è il recipiente, più che l’origine, della violenza. Gli dèi ci infondono un impeto furibondo attra- verso il respiro e “i venti provenienti dallo Strimone” sono essenziali nella noso- logia tragica del male”
Ma prendiamo adesso in esame un altro brano, estratto dalle Supplici di Eschilo,
incentrato su un atto decisionale cui si perviene con difficoltà. Il re Pelasgo non sa se dare asilo alle figlie di Danao che sono fuggite dall’Egitto per evitare le nozze con sgraditi pretendenti: acconsentendo alla loro richiesta rischia di trascinare la propria città in guerra, ma respingendole rischia di attirarsi la collera degli dèi. Vediamo come Eschilo abbia reso tale indecisione:
Bisogna calarsi sul fondo, scandagliare il pensiero. Laggiù è il rimedio. Chiara sfrecciante pupilla, non ebbra: di uno che fruga l’abisso (δεῖ τοι βαθείας φροντίδος σωτηρίου/ δίκην κολυμβητῆρος ἐς βυθὸν μολεῖν/ δεδορκὸς ὄμμα μηδ᾽ ἄγαν ὠινωμένον). Devo pensare a una fine serena del fatto: sono in ansia per Argo, poi per me stesso. Oh no, non fiamme di guerra, ferro e fuoco su Argo! Né ci si pianti in casa maligno Rimorso, se vi scaccio dal santo presidio dove sie- te arroccate. E’ plumbea Potenza, t’annienta, non puoi redimerti mai, neppure defunto, nel Nulla. Ho bisogno, ho bisogno d’idea che risolve!
(Suppl., 407-417)
Il calcolo è fatto. Duro incaglio. Duello mortale, comunque: con questi, o con gli altri. ormai è una stretta obbligata. Sono chiglia inchiodata ai paranchi marini. Ma il varo è deciso. Senza patire non c’è soluzione.
(Suppl., 438-442)
Per rendere la difficoltà del re Pelasgo nel pervenire a una conclusione, Eschilo fa appello a un’idea suggestiva e significativa: quella che alla decisione si arrivi an- dando sul fondo (ἐς βυθὸν μολεῖν; 408), calandosi nella profondità del pensiero (βαθείας φροντίδος; 407). L’utilizzo dell’aggettivo βαθύς in relazione al pen- siero e all’intelligenza, nota Snell era già sorto nell’ambito della lirica arcaica in parole composte di βατυ- formate per analogia con composti di πολυ-, caratteri- stici del linguaggio dei poemi omerici. I lirici, però, servendosi di termini come βαθύφρων o βαθυμήτης, avevano associato a realtà psichiche non più una deter- minazione di carattere quantitativo, come invece accadeva in Omero bensì una di carattere qualitativo, la profondità appunto, discostandosi in tal modo da una rappresentazione in termini prettamente concreti di funzioni che noi riteniamo es- sere psicologiche. Attuando un tale spostamento di senso in direzione più astratta, la lirica arcaica aveva prefigurato, in qualche modo, quella che in Eraclito risulterà essere una vera e propria caratteristica dell’anima: il suo esser priva di confini in quanto in possesso di un lógos profondo (B 45 DK) Ma a quel punto la psyché sarà concepita come ciò che identifica l’uomo e la sua attività cognitiva.
Il re Pelasgo, dunque, indugia nella profondità del pensiero, “si tuffa giù” e pare sprofondare in quei bui recessi interiori che già in precedenza abbiamo visto poter essere sinonimo di tutto ciò che è sconosciuto e che desta ansia e sgomento, ma che possono risultare anche fonte di una possibile conoscenza, divenendo in tal modo profetici. Pelasgo, però, a questo punto non ha ancora raggiunto una solu- zione e l’accento sembra battere sulle difficoltà e le pene insite nel processo deci- sionale: egli si figura come una nave incagliata, ferma sui paranchi marini, e sente incombere la prossimità di un varo cui è impossibile pervenire senza sofferenza (ἄνευ δὲ λύπης οὐδαμοῦ καταστροφή; 442).
La decisione risulta presa quando le supplici minacciano di compiere un sacrilegio senza pari, ovvero di impiccarsi alle statue degli dei, nel caso in cui il re si rifiuti di accoglierle:
Ostacoli atroci da punti diversi. Ostico, lottare. Sfacelo m’assale, gonfia fiumana. Oceano cieco, pozzo nero di pena m’accerchia senza spiragli. Non esiste approdo che salva. Se non compio la vo- stra preghiera, minacci di peste che varca il mio raggio mentale. Se invece resisto agli Egizi - al suo ceppo - immoto davanti ai bastioni, e duello allo stremo, che spreco amaro, pungente quel san- gue d’uomo che chiazza la terra per colpa di donne! Non ho scelta. Spaventa il rancore di Zeus delle Suppliche. Anzi, è panico vertiginoso per gli esseri umani. Tu, padre venerando di queste giovani donne, abbraccia subito le frasche e posale su ogni braciere dei potenti padroni di Argo. Che ognuno, in città, scorga l’emblema del vostro viaggio, e la mia scelta non abbia contrasti: pia- ce alla piazza criticare il governo. Dallo spettacolo, sorge certo un senso pietoso; e rabbia, per l’ol- traggio brutale del branco di maschi. Il popolo può farsi più indulgente con voi. Sui fragili si river- sa l’indulgenza dell’uomo.
(Suppl., 468-489)
Per capire meglio in che modo Eschilo rappresenti la risoluzione finale di Pelasgo, può risultare utile suddividere il discorso del re in tre fasi distinte. Inizialmente il sovrano descrive la propria angoscia e il proprio dissidio ricorrendo a un lessico ricco di termini appartenenti al campo semantico del mare: già Omero aveva uti- lizzato l’immagine dei flutti sconvolti da forti venti e burrasche per rendere l’in- tensità di alcune emozioni ma qui la tempesta, più che essere evocata come uno spettacolo di ordine generale cui paragonarsi, costituisce una minaccia diretta, soggettiva, che provoca un senso di forte oppressione, che fa sentire il re senza vie di scampo, vulnerabile e quasi inerme innanzi alla fiumana di forze irresistibili che trascina l’uomo (468-471).
Abbiamo già visto in precedenza, citando l’analisi condotta da Padel come nel V sec. la mente sia spesso pensata in termini di aria, vento, liquido, buio, secondo una connessione fra mondo interiore ed esteriore che ammette poche distinzioni fra l’uno e l’altro e che, nell’ambito della causalità, fa sì che l’una si sposti conti- nuamente contro l’altra con una preponderanza della causalità esterna su quella interna. In particolare, l’utilizzo dell’immagine del mare che si fa scuro ed agitato per raffigurare l’agonia mentale, appartiene in modo specifico all’idea delle inte- riora che emerge sia dai testi delle tragedie, sia dagli scritti del corpus ippocratico: l’emozione, come il pensiero, la sensazione o qualsiasi altro moto interiore, viene rappresentata come un liquido in movimento che, in quanto tale, confonde e turba nello stesso modo in cui una tempesta increspa e sconvolge il mare privandolo di quella calma (γαλήνη) che è sinonimo di pace.
Nella seconda parte del discorso Pelasgo prende in considerazione, in due periodi ipotetici introdotti dalle particelle εἰ μέν εἰ δέ, secondo una modalità espressiva più volte incontrata in Omero, le due alternative entro cui si muove il proprio di- lemma: respingere le supplici inimicandosi Zeus o accoglierle esponendo la sua città alla rappresaglia egizia (472-477).
Infine, il re induce in osservazioni riguardanti la propria responsabilità e si augura che il popolo di Argo possa accogliere favorevolmente la sua scelta, sapendo an- che essere indulgente con le supplici (478-489).
Di fatto, il dissidio del sovrano non coinvolge due sentimenti opposti, pare bensì vertere su due alternative pratiche in maniera simile a ciò che sovente accadeva per gli eroi omerici. Le considerazioni di Pelasgo, però, oltre a fornirci diversi spunti riflessivi circa il modo in cui Eschilo tematizza l’interiorità, sembrano deli- neare un iter che richiama l’idea di un vero e proprio percorso di ricerca interiore: egli persegue la soluzione migliore lungamente, in maniera disperata, e con acuta coscienza della propria responsabilità. In tal modo, il momento del dissidio inte- riore acquista una notevole rilevanza nell’ambito dell’intera vicenda in scena e viene a connotarsi di una rinnovata violenza.
Tornando ad uno dei tre drammi facenti parte della trilogia dell Orestea, vediamo adesso come Eschilo esprima lo stato d’animo di Oreste dopo il matricidio:
Ma perché lo sappiate, - non so infatti dove andrà a terminare -, come auriga io volgo le briglie fuori dalla pista (ὥσπερ ξὺν ἵπποις ἡνιοστοφῶ δρόμου/ ἐξωτέρω); la mente non si lascia co- mandare, e mi porta via sconfitto; presso al cuore la paura è pronta a cantare e a danzare al suono della rabbia (φέρουσι γὰρ νικώμενον/ φρένες δύσαρκτοι, πρὸς δὲ καρδίᾳ φόβος/ ᾄδειν ἑτοῖμος ἠδ᾽ ὑπορχεῖσθαι κότῳ).
(Choeph., 1021-1025)
Notevoli sono i punti di contatto fra questo segmento delle Coefore e le parole che Io pronuncia nel Prometeo incatenato poco prima di lasciare la scena (878 sgg.): entrambi i personaggi appaiono sul punto di perdere le proprie facoltà mentali e si esprimono in termini simili. Io menziona vari sintomi fisici del suo malessere (ac- cusa crampi, ha la sensazione di esser punta da aculei, gli occhi le si torcono, la lingua si scatena; 878-884) ma si esprime anche dicendo che “scalpita il cuore d’angoscia” κραδία δὲ φόβωι φρένα λακτίζει; 881) e che, letteralmente, “la pazzia mi trascina fuori dal percorso” (ἔξω δὲ δρόμου φέρομαι λύσσης;
883). Oreste è investito da un sentimento simile e si dimostra consapevole del tremendo turbamento che sta per sconvolgere la sua mente: torna il tema del φόβος, della paura che qui assedia il cuore del matricida 1024), torna anche il riferimento al δρόμος (corsa di persone o cavalli, percorso, gara) che non si riesce a seguire in quanto le φρένες sono vinte da una forza che vanifica ogni sforzo umano Dei vaghi riferimenti a una qualche mancanza di dominio inte- riore si trovano anche in Omero Nei versi di alcuni dei lirici arcaici, inoltre, l’amore viene descritto come un’esperienza che sconvolge e innanzi alla quale il poeta sembra incapace di controllo Eschilo rappresenta l’impeto emotivo che trascina Oreste, rendendo l’idea del venir meno del suo autodominio, mediante l’immagine dell’auriga alla guida di redini difficili da governare, immagine che, secondo De Romilly, “non fa che preparare da lontano il grande mito del Fedro di Platone []. Poco a poco la battaglia interiore si rivela, con la sua violenza e con la diversità che essa implica”
Il quadro nelle Coefore, però, è complesso e il profondo turbamento mentale di Oreste è tale anche in relazione all’incombere della minaccia persecutoria delle Erinni. Divinità appartenenti a uno strato antichissimo della religiosità greca strettamente connesse in Omero ad atti di maledizione nei confronti dei genitori, di spergiuro, di violazione dell’ordine normale delle cose da parte di eventi fuori dell’ordinario, sono definite da Padel “il demone ideale della tragedia” in quanto la loro azione punitiva si presenta come una sorta di summa delle multiple forze e- sterne che concretamente assalgono l’io Poco prima di uscire di scena il matri- cida vede delle mostruose figure femminili simili alle Gorgoni, aggrovigliate da serpenti (1048-1050). Il Coro, non potendole vedere, ritiene che tali visioni siano solo illusioni (δόξαι) frutto del turbamento psichico dell’omicida che, macchian- dosi le mani del sangue di Clitemestra, è incorso in un’inevitabile contaminazione (1055-1056). Di fronte all’incredulità del Coro, Oreste si rivolge a Apollo: le E- rinni diventano sempre più numerose e “stillano dagli occhi sangue ributtan- te” (1058), egli non può più restare, è trascinato via e così esce di scena (1062).
Le Eumenidi, l’ultima tragedia della trilogia dell Orestea, ripartono proprio dalla conclusione delle Coefore: la perdita di senno di Oreste, data per imminente nella conclusione del precedente dramma, non viene rappresentata, ma la narrazione in- troduttiva della Pizia ci fa sapere che egli siede in atteggiamento supplice nel tem- pio di Apollo, che ha le mani ancora grondanti di sangue e che innanzi a lui dorme una schiera di creature mostruose. Le Erinni, quindi, in qualità di una minaccia continua e assillante dalla quale è necessario cercare di difendersi, perseguitano Oreste anche nelle Eumenidi e sono coinvolte, insieme allo stesso protagonista, nel risvolto finale della vicenda che vede l’instaurazione, da parte del tribunale dell’Areopago, di un nuovo ideale di giustizia.
La crisi che investe Oreste sul finire delle Coefore, quindi, costituisce un punto di svolta dell’intera vicenda della stirpe degli Atridi ed è proprio nel corso della rappresentazione di un momento di così profondo turbamento che si rivelano alcune caratteristiche dell’interiorità effigiata da Eschilo. Interiorità che emerge già, in maniera ancor più articolata, nell’ansia e nella paura espresse dal Coro nel terzo stasimo dell’Agamennone, quando l’Atride entra nella casa in cui verrà ucciso per mano di Clitemestra:
Perché mai continuamente
come un guardiano questo timore volteggia
davanti al mio cuore indovino (καρδίας τερασκόπου)
e un canto non richiesto, non pagato fa profezie, né, scacciandolo come sogno dal senso oscuro, una confidente sicurezza
siede sul trono della mia mente (φρενὸς φίλον θρόνον)?
Dai miei stessi occhi apprendo il loro ritorno, io stesso ne sono il testimone;
e tuttavia l’animo (θυμός)
intona dentro di me (ἔσωθεν)
il funebre canto senza lira dell’Erinni
che da solo ha appreso (αὐτοδίδακτος), per nulla provando
la dolce fiducia della speranza.
Le viscere non parlano a vuoto (σπλάγκνα δ᾽ οὔτοι ματᾴ-), il cuore che sta vicino alla mente (ζει πρὸς ἐνδίκοις φρεσίν) consapevole di giustizia
si volge in vortici che avranno compimento. (Agam., 975-983; 988-997)
Troviamo qui menzionati molti di quei luoghi somatici che fin dai poemi omerici vengono coinvolti nella rappresentazione del vissuto interiore (καρδίας 977; φρενός 983; θυμός 993; σπλάγκνα 995; φρεσίν 996; κέαρ 997), ma ciò che colpisce, come fa notare Di Benedetto è il fatto che Eschilo li metta in relazio- ne ad un livello di percezione più profondo rispetto a quello proveniente dai sensi, da un contatto immediato con la realtà dei fatti.
Agamennone è tornato, il Coro ne è testimone con i suoi stessi occhi (988-989), tuttavia (ὅμως, 990) questo ritorno non suscita gioia e l’interiorità è scossa da un sentimento di forte paura: il thymós intona il lugubre canto dell’Erinni, presagio della morte che attende Agamennone, e questo canto l’animo lo ha appreso da so- lo, da “autodidatta” (992). Appellandosi all’interiorità, al cuore che è indovino (977) e alle viscere che non parlano a vuoto (995-996), il Coro arriva a presentire la realtà ancor prima che questa venga a compimento. L’effettività dell’intimo, al- lora, acquista qui un’autonomia che prescinde da ogni sollecitazione esterna
Già nelle Supplici, nell’ambito dell’ardua decisione che si trova a prendere il re Pelasgo, abbiamo incontrato qualcosa di simile, ossia un riferimento a ciò che sta giù, nel profondo, dentro l’uomo, come a qualcosa da cui attingere una risoluzio- ne e anche nella parodo dei Persiani il Coro dice che l’animo, profondamente turbato, è “profeta di tristi eventi” (10- 1) Ma il carattere profetico dell’ansia, nel Coro dell Agamennone, viene portato all’estremo anche in virtù di ciò che se- guirà di lì a poco, ovvero del vaticinio, fatto di visioni cruente e paurose, che pro- nuncerà la sacerdotessa di Apollo rimasta in silenzio fin dal suo arrivo sulla scena (1072 sgg.). “Attraverso il terzo stasimo dell Agamennone e le susseguenti visioni di Cassandra si ha come una dislocazione tettonica nella trilogia e si recupera an- che la memoria “storica” di una generazione precedente alla quale quella attuale si ricollega. E’ come un rivelarsi di una realtà nuova, in cui la demonicità della casa e l’attesa di sciagure irreparabili fanno tutt’uno”
In questo contesto la paura risulta una sorta di filo rosso che attraversa l’intera Orestea e anch’essa, insieme ai personaggi che la esprimono di volta in volta, su- bisce uno sviluppo nel corso della trilogia: lasciata la funzione anticipatrice delle sventure future, essa diviene, nelle Eumenidi, il fondamento di un ordinario vivere civile cui presiedono quelle stesse Erinni che, sul finire delle Coefore, si erano pa- lesate ad Oreste destandogli terrore e assillo trascinandolo sull’orlo del baratro. Una tale dilatazione scenica, dall’ambito della vicenda familiare degli Atridi a quello del tribunale ateniese dell’Areopago presieduto da Atena, permette ad E-
schilo di esprimere un messaggio politico, ricco di implicazioni etico-religiose, espressamente rivolto al pubblico della polis. Infatti, non solo i versi del Coro e- sortano i cittadini a rifiutare comportamenti ispirati alla vendetta Eum., 976-987), ma dalle parole espresse dal matricida al termine del processo che vede la sua as- soluzione, risulta che “la pólis appare come capace di porre termine alla disgrega- zione del ghénos; e Oreste può affermare al v. 754 delle Eumenidi che Athena ha salvato la sua casa, ed egli esce dalla scena per avviarsi a riprendere possesso del- la sua terra. [] Eschilo ha voluto far leva sulla carica emotiva di cui era dotato il ghénos per proporre una rifondazione etico-religiosa dello Stato”
La conclusione dell Orestea, quindi, pare costituire una sorta di completamento e di realizzazione della concezione, pronunciata dal Coro nella parodo del primo dramma della trilogia, secondo la quale la sofferenza si fa veicolo di conoscenza in un disegno divino che agisce tramite la violenza Agam., 160-183). Ma qui E- schilo carica la dottrina del páthei máthos di una precisa valenza politica che porta le Erinni a cantare:
Accade certo che talvolta
ciò che è pauroso (τὸ δεινὸν) sia un bene e deve restare, assiso,
a vigilare sulle menti degli uomini.
Giova essere saggi (σωφρονεῖν ὑπὸ στένει)
per via di costrizione.
E chi, nella luce del suo cuore nulla † temendo †,
o città oppure anche un uomo -
potrà ancora venerare la giustizia? (Eum., 517-525)
Ciò che è pauroso può rappresentare un bene in quanto può esercitare sugli uomi- ni una funzione spesso attribuita da Eschilo agli dèi quella della vigilanza. La sofferenza dalla quale procede la saggezza, allora, assume qui la sfumatura della costrizione derivante dal deinón, valido deterrente nei confronti di chi nulla teme. La stessa Atena, poco prima che i giudici dell’Areopago si esprimano nel voto, ri- badisce il concetto dicendo che “ciò che non è privo di comando né sottoposto a dispotismo questo io consiglio ai cittadini di curare e di riverire, e di non espellere dalla città tutto ciò che è pauroso: chi degli uomini infatti è giusto se nulla te- me?” (Eum., 696-699). Il tribunale dell’Areopago assume così, in ambito specifi- catamente politico, la stessa funzione che nella trilogia hanno le Erinni: questo, quanto quelle, punisce in maniera esemplare chi si è macchiato di orrendi delitti di sangue in nome della vendetta, e l’esaltazione di tale prerogativa, provocando nel pubblico un atteggiamento di timore, può indurre al rispetto della giustizia.
Ma al sentimento della paura, tornando al tema specifico della nostra indagine, ri- sulta connessa la rappresentazione che Eschilo ci dona dell’interiorità umana: i personaggi che abbiamo preso in considerazione, più che avere a che fare con e- sperienze di intima conflittualità, appaiono alle prese con una realtà di per sé con- traddittoria e lacerata, e ciò, oltre a opporli l’uno all’altro e a metterli di fronte a scelte difficili e dolorose, suscita sentimenti di ansia e di terrore tali da far presen- tire, in taluni casi, i funesti avvenimenti futuri ancor prima del loro effettivo com- pimento. La loro interiorità concreta, costituita dalle viscere di cui fanno parte cuore, thymós e phrénes, risulta scossa e agitata dall’angoscia e dalla paura alla stregua di uno scuro mare in tempesta, ma è proprio in concomitanza con tali stati di forte turbamento interiore che emerge una realtà dell’intimo che prescinde da ciò che gli è esterno e che, se per un verso può esser sintomo di follia - come nel caso dello stato d’animo di Oreste dopo aver ucciso la madre - per l’altro può an- che esser sinonimo di capacità profetiche - come nel caso dei versi pronunciati dal Coro alla vigilia dell’uccisione di Agamennone per mano di Clitemestra.
In sostanza, se l’inquietudine espressa dai personaggi di Eschilo è ancora il frutto di uno scontro con forze esterne che trascinano senza che vi si possa far nulla essa è anche lo spunto per un tentativo di descrizione dell’interiorità che, oltre a ricorrere ancora a termini concreti e all’elenco dei sintomi fisici del malessere, lascia scorgere un livello più profondo di percezione raggiunta da “autodidatta”, fa- cendo intravedere come, all’altro capo della follia, stia la consapevolezza interio- re e la saggezza.
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