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APERTO ALL'INFINITO O CHIUSO SU SE STESSO?
Ulisse nel pensiero novecentesco di Bloch e Lévinas
Nonostante la sua lontananza cronologica, il personaggio di Ulisse viene ripreso e interpretato in modo antitetico anche da due filosofi del Novecento, Ernst Bloch (1885-1977) e Emmanuel Lévinas (1905-1995): il primo, influenzato dalle idee marxiste, lo presenta come emblema dell'oltrepassamento del limite e quindi come eroe eminentemente positivo; il secondo, invece, esponente del pensiero neo-ebraico, ne fa il simbolo dell'erroneo cammino della filosofia occidentale e gli contrappone la figura di Abramo, il vero esempio comportamentale da seguire.
Nella trilogia "Il principio speranza" Bloch parte dal presupposto che la realtà data non appaghi pienamente il soggetto e che pertanto quest'ultimo sia costantemente teso verso il futuro, verso il non-ancora, in modo da poter correggere ciò che è, diventare quello che vorrebbe essere e trovare quel se stesso a cui ancora non assomiglia. In questo contesto la speranza non assume l'aspetto di semplice "premio di consolazione"[1] che allevia dalle disgrazie a cui siamo sottoposti, ma si configura come sforzo per vedere in che modo le cose stanno in movimento e principio necessariamente collegato alla ragione, dal momento che "senza la speranza la ragione non potrebbe volare e senza la ragione però la speranza sarebbe cieca" .
L'opera capolavoro di Bloch non fa dunque l'analisi della speranza in termini di utopia politica, ma definisce una mappa di tutti i suoi territori, spaziando dalla quotidianità all'arte, alla musica, alla filosofia e addirittura alla morte. Provando a liberare gli uomini dall'accettazione passiva dell'esistente e dal ricordo del passato, Bloch vuole proporre una speranza che non guardi unicamente al futuro, ma che faccia riscoprire il divenire costante del mondo e quindi imparare a vivere ogni istante cogliendo l'eternità, ossia la pienezza dell'esistere.
L'illusione e il sogno sono le dimensioni fondamentali dell'essere e dell'uomo, animale utopico per eccellenza, che aspira sempre al nuovo. Proprio in quest'ottica esistono delle figure che riescono a staccarsi dall'abituale e ad iniziare un viaggio caratterizzato dalla "fedeltà all'inquietudine" , destinato a finire solo quando trovino qualcosa che plachi il loro anelito: questo però non è possibile e pertanto tali esseri non tornano mai alla loro condizione di partenza.
L'Ulisse dantesco è uno di questi uomini e il suo ultimo viaggio testimonia l'insopprimibile irrequietudine della sua vita: egli, durante i dieci anni del ritorno, si è perso tra piaceri e pericoli e la sua metis è stata costantemente messa alla prova, ma non accetta di fermarsi ad Itaca poiché il suo animo non è limitabile alla banale forma borghese. Si mette dunque di nuovo in viaggio con lo scopo di abbracciare l'infinito come un nuovo "Faust del mare"[4] per il quale ogni godimento raggiunto viene subito cancellato da una nuova brama. Il Laerziade non si limita ad accettare passivamente la speranza che ci sia qualcosa d'altro, ma vuole sperimentare questo qualcosa sulla sua pelle, sicuro del fatto che la meta dell'uomo sia nel "mondo sanza gente" e che si debba cercare di raggiungerla malgrado la difficile rotta. Nonostante nell'Alighieri il tentativo di oltrepassamento del limite abbia termine e l'ubristes Ulisse sia travolto da un gorgo ai piedi del monte del Purgatorio, venendo così punito per il peccato di tracotanza, in Bloch questo aspetto negativo svanisce. L'avventura ai confini del mondo gli permette, infatti, di affermarsi come il primo eroe titanico e come il simbolo dell'incondizionatezza, che non si lascia bloccare dal divino divieto "non plus ultra" inciso sulle Colonne d'Ercole, ma si lancia in un "folle volo" con cui afferma il suo deciso desiderio di Esserci (= essere qui e ora). Egli continua a dirigersi verso ciò che è Altro perché solo tramite i suoi contributi riesce a crescere e a migliorare il suo se stesso: è il prototipo dell'eroe solo che, indirizzandosi verso tutti i lati del finito, tenta, anche se inutilmente, di cogliere quell'infinito il cui mancato possesso da parte dell'io è una conseguenza del costante divenire del mondo e non dell'esistenza dell'Altro, come invece emerge dagli scritti di Lévinas.
Appartenente ad una famiglia ebraica, Lévinas ha avuto modo di conoscere in prima persona gli orrori del nazismo che hanno fortemente influenzato il suo filosofare: il pensiero di quest'autore si muove, infatti, prevalentemente sul piano etico e si propone di indicare una via perché Auschwitz non sia più possibile. E questa via si configura come critica del concetto di Totalità e affermazione di quello di infinito tramite il rapporto con l'Altro. Egli accusa la tradizione filosofica occidentale di "imperialismo del Medesimo" poiché ha cercato di imprigionare il diverso nell'ambito di una Totalità che soffoca ogni forma di alterità: questa tendenza è riscontrabile dai tempi più antichi, quando Socrate affermava la capacità del Singolo di partorire da solo la verità, a quelli moderni con la concezione hegeliana di ragione assoluta.
Tutto il pensiero occidentale è dunque una filosofia di potenza e dominio in cui l'essere ha costantemente prevaricato e inghiottito gli altri senza preoccuparsi delle conseguenze.
Ulisse è emblema del carattere egologico dell'ontologia occidentale, ossia del tentativo di ricondurre sempre tutto all'Io: dopo la guerra di Troia egli vaga per mare per un decennio, ma fa comunque ritorno a casa, riappropriandosi della sua situazione iniziale. Le esperienze che ha affrontato non sono state esperienze dell'incontro con l'Altro, ma unicamente dello scontro: Odisseo da solo sconfigge i mostri, rinuncia ai piaceri e riafferma tutte le volte la sua potenza eroica. Per Lévinas è però necessario rompere le barriere dell'immanenza e uscire da sé per darsi e relazionarsi all'Altro, che è il fondamento irrinunciabile dell'etica. L'Altro, infatti, essendo straniero, esiste prima di ogni nostra volontà e mette in discussione il nostro potere sul mondo: egli obbliga il soggetto ad essere responsabile nei suoi confronti e ad immedesimarsi nelle sue condizioni.
Il volto attraverso cui l'Altro si manifesta pone un limite alla libertà dell'Io ed è sin da subito un no rispetto ai suoi poteri: l'epifania dell'Altro costringe a non relazionarsi unicamente con se stessi, ma con ciò che ci trascende e cambia la prospettiva con cui uno si deve rapportare al reale, generando un senso di inquietudine legato al dovere di amare e di donarsi al prossimo senza aspettarsi niente in cambio. L'Io non è più l'entità totalizzante che vuole abbracciare tutto, ma acquista il significato di "me voici", ossia "eccomi".
In quest'ottica di annullamento dell'Io e affermazione del valore dell'Altro, Lévinas inserisce il confronto tra il mito di Ulisse, la cui avventura nel mondo non è stata che "una compiacenza del Medesimo, una disconoscenza dell'Altro"[7], e quello di Abramo, che lascia la sua patria per una terra ancora sconosciuta.
Ulisse non esce mai dall'Io, il suo pensiero è perennemente rivolto alla terra natale e agli affetti, si confronta solo con se stesso senza cercare il rapporto umano neppure con i compagni, che sono lì solo per obbedire ai suoi ordini e rispetto ai quali l'itacese si sente superiore. Abramo invece incentra tutta la sua vita sulla parola di Dio, il totalmente Altro, non esitando a cedere alla sua volontà e a rispondere alla sua chiamata.
Le azioni odissiache hanno lo scopo preciso di riportare l'eroe a casa e si distanziano nettamente dalla concezione che Lévinas ha dell'Opera e che vede concretizzata nell'agire dell'eroe biblico.
Diversamente dalle teorie che continuano ad affermare l'Essere come identico a se stesso e che riducono il suo evento fondamentale al pensiero di sè, facendo in modo che l'Opera ricada sempre su colui che l'ha compiuta, per l'autore questa (l'Opera) dovrebbe essere un movimento dello Stesso che va verso l'Altro, senza mai tornare sullo Stesso, e che non cerca mai la ricompensa della vittoria, ma addirittura implica un'ingratitudine dell'Altro, proprio perché la sua riconoscenza costituirebbe il non auspicato ritorno del movimento all'origine. Nel fare non bisogna quindi né calcolare le perdite e i guadagni, né attendere la reciprocità del gesto perché allora esso finirebbe per riversarsi sullo Stesso: l'agente deve rinunciare ad essere contemporaneo al proprio fine e giudicare indifferente l'avvenire.
L'Opera diventa un "essere-per-l'al-di-là-della-morte"[8] in cui la pazienza non risulta più essere la capacità di aspettare il tempo del trionfo, ma quella di accettare che il trionfo sarà in un tempo senza di noi: non c'è più speranza per sé, come in Bloch, ma solo per l'Altro. L'Opera assume pertanto le caratteristiche di una liturgia, intesa nel senso greco del termine, ossia è un investimento obbligatorio e a fondo perduto in favore della comunità.
Essa non è più legata ad un bisogno particolare, ma è un Desiderio d'Altri che nasce nel singolo al di là di ciò che può mancargli: i desideri di Ulisse sono vincolati alla nostalgia di casa e alla mancanza di un porto sicuro e sono finalizzati a colmare queste necessità; al contrario Abramo viene coinvolto in una situazione che avrebbe dovuto lasciarlo indifferente. Dio gli dice: "Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre verso il paese che io ti indicherò"[9] e Abramo esce dalla sua terra per non tornare mai più, abbandonando tutto ciò che aveva costruito fino ad allora.
In entrambi gli autori viene preso in considerazione il forte richiamo dell'Io di Ulisse: in Bloch questo aspetto acquista valore positivo in quanto egli ha il coraggio di portarsi all'aperto perseguendo il progetto che si è imposto, in Lévinas invece questo desiderio di conseguire il Suo obiettivo soffoca la necessità originaria di relazionarsi con l'Altro.
Per ambedue è necessario superare un limite, solo che nel pensiero del filosofo marxista l'oltrepassamento proietta verso qualcosa di Altro, ma rimane sempre nell'orizzonte del singolo Io. Secondo il pensatore lituano, al contrario, l'uomo deve rompere la barriera che lo separa dall'Altro, annullando le sue tendenze totalitarie e aprendosi al contatto con l'Infinito, che si attua nel volto.
Dal momento che Ulisse non mette in discussione il suo potere sul mondo, non sente responsabilità nei confronti dell'Altro e pone al primo posto la relazione conoscitiva, risulta logico che non possa essere accettato come modello da Lévinas che porta in alto l'etica e la necessità di essere responsabili degli altri, anche nel caso in cui loro non lo siano nei nostri riguardi. L'intelligenza astuta induce Ulisse ad approfittare delle situazioni e dei personaggi con cui viene a contatto e gli fa indirizzare le azioni in modo opportunistico: le sue relazioni sono basate sull'inganno, non sull'amore e la carità, e la speranza è finalizzata al raggiungimento di qualcosa per sé.
La "chiusura" di Odisseo, biasimata da Lévinas, diventa invece la caratteristica positiva fondamentale per Bloch: non è l'eroe che si deve rivolgere all'Altro, ma è l'uomo comune che deve aprirsi all'avventura di Ulisse e prenderne spunto per tentare di realizzare ciò che è, utilizzando come strumento principe la ragione, senza farsi coinvolgere emotivamente e psicologicamente, ma dimostrandosi pronto ad andar contro agli affetti e ai sentimenti per raggiungere la meta finale.
Se l'analisi condotta fino ad ora ha evidenziato profonde diversità tra i pensieri dei due autori, sicuramente influenzati dal loro vissuto, si può notare comunque un tratto comune: sia che Ulisse sia il simbolo di una civiltà in degrado e debba essere sostituito da Abramo, sia che sia modello di virtù, dalle due interpretazioni del mito emerge come tratto distintivo e inestinguibile dell'essere umano il desiderio di infinito, al quale possiamo essere legati da una tensione speranzosa o da una relazione etica, ma con il quale siamo sempre destinati a confrontarci, pur essendo consci di non poterlo cogliere e capire mai interamente.
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