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Il luogo e la data di nascita di Publio Cornelio Tacito sono tuttora incerti. Doveva essere di poco più vecchio di Plinio il Giovane (nato nel 61) [1] , poiché questi lo cita dicendo: “Quando ero ancora giovinetto e tu già fiorivi di fama e di gloria, io desideravo ardentemente seguirti”. Si pone, quindi, la sua nascita intorno al 55.
Per quel che riguarda il luogo di nascita sono state formulate due ipotesi: la prima vede in Terni la città natale di Tacito, perché l’imperatore Tacito, che governò per poco più di un anno nel 275, proveniva da Terni e vantava tra i suoi antenati proprio l’omonimo storico. Secondo l’altra ipotesi Tacito sarebbe originario della Gallia. In questa regione, infatti, è presente in numerose iscrizioni il cognomen Tacitus (soprattutto nella Gallia Narbonese); altre testimonianze si trovano nel fatto che Plinio il Vecchio dice di aver conosciuto un Cornelius Tacitus, procuratore della Gallia Belgica, il quale sarebbe stato parente dello storico. Inoltre Tacito sposa la figlia di Giulio Agricola (originario di quelle regioni) e non nasconde la sua simpatia per i popoli d’oltralpe. In ogni caso, la questione resta ancora sub iudice.
(Composto negli anni 76-81 o posteriormente al 96): è un’opera che si distingue dalle altre per lo stile, in cui è evidente l’influenza ciceroniana. È comunque considerata un’opera giovanile. Si inserisce nel filone dei cosiddetti trattati de causis corruptae eloquentiae, trattando delle cause del corrompersi e del decadere dell’eloquenza rispetto all’epoca precedente. L’autore vede nel cambiamento dell’assetto politico il motivo principale: manca la libertà che nutriva i dibattiti.
(Del 98): si tratta della prima delle due monografie tacitiane, dedicata all’opera del suocero; è in sostanza un elogio al “grande generale” vittorioso in Britannia, morto probabilmente per avvelenamento (secondo Tacito ad opera di Domiziano). Vengono inoltre inseriti elementi etnici e geografici intorno alla Britannia.
(Meglio conosciuta come Germania, del 98): monografia nella quale troviamo abbondanti e precise notizie sul territorio, sulle popolazioni e sugli usi di queste regioni. L’etnografia passa però in secondo piano, poiché Tacito vuole anzitutto contrapporre la virtù di tali popoli alla decadenza di Roma. Egli vede nei Germani esempi di virtù e di incorruzione che un tempo erano presenti anche in Roma, e constata purtroppo l’assenza di libertà e la corruzione attuali, il servilismo e la decadenza morale contemporanea.
(Composte nel 100-111): è la prima delle sue due opere principali, quelle più ampie e di maggior respiro. Essa tratta del periodo che intercorre fra la morte di Nerone e quella di Domiziano: Tacito 'ha scelto il periodo che va dal 69 al 96, perché «nec enim umquam atrocioribus populi Romani cladibus magisve iustis indiciis adprobatum est non esse curae deis securitatem nostram, esse ultionem»' (Hist. I, 3) [2] . L’opera era originariamente composta da quattordici libri, dei quali sono conservati i primi quattro e metà del quinto.
(Dal 114): quest’opera tratta la storia di Roma dalla morte di Augusto fino a Nerone: vi ritroviamo quindi le figure di Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone. Anche in quest’opera, come nelle Historiae, ritroviamo la critica all’impero e l’ammirazione per l’epoca passata. Dei sedici libri originari ci sono giunti integri i primi quattro, un frammento del quinto ed il sesto privo della parte iniziale; l’undicesimo ha qualche lacuna, mentre il sedicesimo manca della metà. “Il termine Annales è stato impiegato per la prima volta come titolo dall’umanista Beato Renano, ma Tacito se ne serve a più riprese per designare i suoi libri «Ab excessu Divi Augusti» [3]
Potremmo definire drammatica la storiografia tacitiana. “L’equilibrio [tra gravitas e pathos viene] rinnovato con potente originalità da Tacito, ma Tacito saprà evitare la monotonia che era presente in Sallustio: sintassi e stile sapranno trovare nuove sottili pieghe, colore e dramma saranno più carichi, ma anche più cari. L’influenza politica, si accentua, soprattutto per la presenza di Virgilio; eppure non si perde la sensazione che la pagina di Tacito non è racconto affascinante di letterato ma ricostruzione ed interpretazione di un uomo di governo: sintesi d’esperienza politica e di letteratura raffinata, maturazione fino all’optimum degli elementi più importanti della storiografia latina [4] Ampio spazio è dato agli elementi patetici e drammatici: si ha un gran numero di descrizioni particolareggiate di morti tragiche, macabre, di catastrofi e sciagure. Tutti questi elementi, atti a sollecitare la partecipazione emotiva del lettore, concorrono a formare la concezione triste e amara del mondo e dell’uomo tipica di Tacito. Uno dei passi che meglio offrono un esempio di come Tacito sappia sfruttare la lingua per esprimere drammaticità, è Hist. I, 40:
«Agebatur huc
illuc Galba vario turbae fluctuantis impulsu, completis undique basilicis ac
templis, lugubri prospectu. neque populi aut plebis ulla vox, sed attoniti
vultus et conversae ad omnia aures; non tumultus, non quies, quale magni metus
et magnae irae silentium est. Othoni tamen armari plebem nuntiabatur; ire
praecipitis et occupare pericula iubet. igitur miles Romani, quasi Vologaesum
aut Pacorum avito Arsacidarum solio depulsuri ac non imperatorem suum inermem
et senem trucidare pergerent, disiecta plebe, proculcato senatu, truces armis,
rapidi equis forum inrumpunt. nec illos Capitolii aspectus et imminentium
templorum religio et priores et futuri princeps terruere quo minus facerent
scelus cuius ultor est quisquis successit» [5]
Per le sue opere storiche utilizza quindi uno stile e un modo di esprimersi
pieno di forza, tensione e gravità; pur tenendo presente l’esempio liviano,
Tacito si ispira in modo particolare a Sallustio, con il quale condivide
l’utilizzo di neologismi o la predilezione per termini rari e per determinati
costrutti. Si può trovare nella lingua tacitiana una certa coloritura arcaica e
poetica ottenuta con l’uso di metafore, o di costrutti ricercati e suggestivi,
o con metodi tipici della poesia, come l’utilizzo del verbo semplice per il
composto. Il suo vocabolario è molto ricco, ma anche assai selettivo. Evita,
infatti, termini bassi e volgari, molte parole comuni e banali, inoltre esclude
termini tecnici e grecismi che sostituisce con perifrasi. Segue l’esempio di
Sallustio, superandolo spesso, anche nella costruzione delle frasi e del periodo:
sua caratteristica peculiare è, infatti, la brevitas, così come il
ricorso alla variatio (analogamente alla metabol» tucididea) che conferisce alla sua prosa un andamento fortemente
asimmetrico (inconcinnitas), tormentato e difficile, impervio e spezzato,
come se l’autore volesse evitare ad ogni costo le soluzioni più ovvie e
prevedibili [6] . Frequenti sono i discorsi diretti, che sono per lo
più libere creazioni dell’autore ed assolvono non soltanto alla funzione di
illustrare drammaticamente una situazione o di caratterizzare un personaggio,
ma sono anche impiegati per sviluppare temi politici generali, che stanno
particolarmente a cuore all’autore: in una situazione appropriata un personaggio
diviene portavoce dello storico e ne espone le riflessioni. Si trovano anche
discorsi indiretti che espongono reazioni, considerazioni, commenti,
congetture, giudizi di determinati gruppi di persone o più in generale della
gente. Tale espediente consente al narratore di delineare, tenendosi in
disparte, lo sfondo, l’atmosfera in cui si compongono gli eventi o di
anticiparne le conseguenze. Ma lo stile di Tacito ricalca da vicino
l’eloquenza: infatti, bisogna considerare che era “grazie all’eloquenza che si
interveniva al foro, al Senato, nei tribunali” e, d’altra parte “l’eloquenza
aveva cercato di svincolarsi dalla retorica, e di accostarsi alla filosofia” [7]
. Per questo motivo in Tacito troviamo una “limpidità nella descrizione
di avvenimenti complicatissimi” e l’“organicità dell’impianto narrativo”[8]
che innalzano la letteratura “al livello della riflessione più elevata” [9]
Le fonti principali dalle quali Tacito trasse la materia delle sue opere furono i Commentari di Agrippina, i discorsi di Tiberio, gli Acta diurna, le testimonianze di Cluvio Rufo, Fabio Rustico, Domizio Corbulone, Aufidio Basso, Servilio Noniano, gli Atti del Senato, Cesare, Sallustio, Posidonio e Plinio il Vecchio. Ma “Tacito nell’uso e nella discussione delle fonti e dei documenti si è mostrato molto più esperto di Livio.” [10] . Inoltre il fatto che Tacito ricorra ad espressioni “tutti gli autorigli autori dell’epocagli autori più degni di fede” fa supporre che Tacito non si ispiri propriamente ad un autore in particolare, ma che il suo fine sia quello di arrivare alla conoscenza del maggior numero possibile di fonti, poiché egli vuole scrivere «neque amoresine odio» (Hist. I, 1), «sine ira et studio» (Ann. I, 1) per dimostrare la sua imparzialità. “Infatti, a giudizio dello scrittore, la storia dell’età repubblicana è stata narrata « pari eloquentia ac libertate» (Hist. I, 1), ma quella dell’età imperiale risulta falsata «inscitia rei publicae ut alienae» (Hist. I, 1) e dalla faziosità adulatrice o ostile” [11] . La preoccupazione di indagare e ricostruire il vero è certamente autentica, egli si dedica, infatti, con grande scrupolo ad una raccolta d’informazioni e notizie, utilizzando fonti non solo letterarie, ma anche documentarie, unite a testimonianze orali. “I maestri per il metodo e la tematica sono Sallustio e Tucidide, lo storico della crisi della Repubblica e lo storico della crisi dell’«impero ateniese»” [12] .
In realtà, sulle fonti di Tacito si dispone di un imponente repertorio bibliografico [13] . L’esito di tali studi ha dimostrato che pressoché tutti gli storici cui Tacito, Suetonio e Dione Cassio attingono appartenevano ad un medesimo filone, che potremmo definire filosenatorio. Tra le fonti merita una particolare attenzione Aufidio Basso, autore di una monografia etnografica intitolata Libri belli Germanici e di una più vasta opera chiamata Historiae [14] . L’opera di Aufidio conteneva sicuramente la morte di Cicerone (43 a. C.) e prendeva probabilmente le mosse dall’uccisione di Cesare (44 a. C.) [15] . Difficile è, invece, stabilire quale fosse il termine dell’opera, che, secondo il tipico procedere ciclico degli storici antichi, fu continuata da Plinio il Vecchio con i libri A fine Aufidi Bassi.
Secondo Bardon l’opera di Aufidio terminava forse nel 31; più verosimilmente Momigliano [16] ha dimostrato che l’opera di Plinio diventa fonte di Tacito e Dione dopo il 47/48 e che quindi le Historiae di Aufidio (che non dovevano terminare con la morte di un imperatore, come suggerisce il titolo scelto da Plinio) si arrestassero probabilmente al 47. La differenza è rilevante, poiché in questo modo l’intero principato di Tiberio era ricompreso nelle Historiae. Come osserva il Bardon [17] non abbiamo testimonianze di una carriera politica di Aufidio: egli apparteneva probabilmente all’opposizione senatoria. Dione, che utilizza Aufidio assai più di Tacito, contiene infatti molti particolari aggiuntivi sfavorevoli al princeps. Dione cita con tanta precisione gli atti delle sedute del Senato che alcuni studiosi hanno ipotizzato che Aufidio vi avesse preso parte. È certo, comunque, che anche Aufidio Basso appartiene a quella storiografia della libertà perduta entro la quale possiamo collocare anche la figura di Tacito.
Tacito nei proemi delle sue opere rivendica i fondamentali principi della storiografia: veridicità e imparzialità. Per essere totalmente imparziale lo storico riporta volutamente più versioni ed interpretazioni di un unico fatto; riferisce, seppur con scetticismo, anche i rumores, voci popolari di cui non si cura di garantire l’attendibilità. Si deve considerare che l’imparzialità delle sue opere è costituita dall’atteggiamento scettico verso le credenze religiose e, sul piano storiografico, dall’atteggiamento corrosivo verso gli ideali proclamati, i programmi sbandierati, gli slogan logori, le virtù ostentate, le istituzioni date per imparziali. Nella sua opera troviamo una forte critica moralistica: egli sente il diritto-dovere (rivendicato dagli storici antichi) di valutare gli eventi, formula severi giudizi di condanna su episodi e personaggi diversi, anche se, come aveva osservato Bodin, l’opera presenta la prudentia, caratteristica sia dell’ambito politico che culturale e mentale del tacitismo. In Lipsius [18] il tacitismo si coniuga con lo stoicismo, la prudentia si accompagna con la costantia e la sapientia. Ma tutto ciò contribuisce a dare una certa ambiguità alla sua opera. In effetti, Tacito non altera i fatti, ma ne guida implicitamente l’interpretazione in una determinata direzione: in realtà questa ambiguità, quest’arte del mistero è dettata dal fatto che “al tempo degli imperatori, non tutte le idee possono essere espresse chiaramente” [19] , quindi per scoprire idee, sentimenti e pensieri di questo storico bisogna imparare a leggerlo. Infatti “nei discorsi [Tacito] si sentiva più libero d’inventare e riplasmare secondo il suo gusto retorico. Il ben noto confronto di un discorso di Tacito con l’originale di Claudio ci ha reso meno diffidenti verso le concioni degli storici romani” [20].
Il grande risalto dato ai personaggi spinge lo storico ad attuare una profonda e acuta analisi psicologica che tende a ricercare le motivazioni dell’azione politica e le cause delle azioni nell’animo umano e a dare particolare rilievo, nell’interpretazione dei fatti, alle motivazioni interiori, alle passioni (fra cui spicca la brama di potere) e ai sentimenti (come l’invidia, la paura e il sospetto). I procedimenti con cui Tacito costruisce le sue figure sono numerosi. Ricorre al ritratto, impostato come in Sallustio, ossia trascurando quasi sempre le caratteristiche fisiche per concentrarsi sulle qualità e sui difetti morali; utilizza l’epitaffio (discorso in lode di un defunto, specie di un eroe morto per la patria) che segue immediatamente la descrizione della morte e comprende un giudizio finale in cui mette in luce i tratti principali del protagonista. Fa largo uso anche della caratterizzazione indiretta, che fa leva sui discorsi, sugli atti di una determinata figura, sulle sue reazioni di fronte allo scorrere degli eventi; attua numerosi confronti tra personaggi diversi e si sofferma con maggior interesse su quelli che egli definisce mixti, in cui convivono caratteristiche contrastanti e contraddittorie.
Tacito, nelle sue opere, si preoccupa anche di dare rilievo alla politica romana, soprattutto quella estera. Ecco che troviamo “un’ampiezza della prospettiva, che abbraccia tutte le terre dell’impero”, una “chiarificazione dell’opera di romanizzazione ed urbanizzazione delle Gallie e della Germania” e l’“esame lucidissimo dei problemi politici di Roma e delle provincie d’Oriente e d’Occidente, dello stato delle legioni della forza e della debolezza dell’amministrazione romana” [21].
Tacito ha una visione fortemente pessimistica della natura umana, dona maggior risalto alle interpretazioni più negative, sospetta di ogni cosa. L’autore stesso afferma che nella sua storiografia si ha un certo impoverimento dei contenuti rispetto agli storici precedenti e individua la causa di tale fenomeno nel fatto che sia uno solo a governare, tutto deve concentrarsi su ciò che accade intorno all’imperatore. “Poco meno di un secolo e mezzo dopo la nascita del principato l’opera di Tacito è ancora oppressa dall’angustia dell’orizzonte cittadino […]: ma il fatto che l’Urbe sia il centro dell’interesse dello storico non è poi così anacronistico come potrebbe sembrare: Roma è ancora la sede del potere, pur con tutte le limitazioni e le insidie a cui altre forze, il principe, la corte, la burocrazia espongono il potere del senato. Si vuole solo notare che il più grande storico dell’impero conserva in tutta la loro gravità certi limiti della storiografia di età repubblicana, allora più scusabili” [22] . Altri limiti della storiografia tacitiana sono le “inesattezze o forzature moralistiche e drammatiche” che alterano la reale visione dei fatti ed una “problematica politica troppo legata al presente che ignora il passato” [23].
Elemento centrale delle opere di Tacito, ma, d’altronde, anche di tutta la storiografia tradizionale, divengono i temi politici sempre connessi con quelli morali. Infatti, per esempio, “l’opera più importante dell’etnografia latina, la Germania di Tacito, si riattacca, sia pure con un filo la cui importanza non va esagerata, al problema della decadenza morale della res publica” [24]. Dunque, Tacito si trova a descrivere in generale le virtù della popolazione di questa regione, dividendole in tre gruppi: religio, fortitudo, fides. Così facendo, recupera l’antichissima tradizione platonica dell’organizzazione della città e la tripartizione mitica della società romana del primi secoli. “Ora avviene che queste grandi virtù storiche di Roma, non a Roma Tacito le osserva e le descrive, bensì in quella Germania ancora così rozza, così vicina allo stato si natura e dalla quale doveva venire il pericolo principale per un Impero infiacchito” [25]. I romani ormai sono oziosi, corrotti dal lusso che li ha portati all’ipocrisia ed alla leggerezza ed hanno perso il senso religioso. Il principato è per lo storico insieme la causa e l’effetto di questa decadenza della classe dirigente, l’autore analizza i difficili rapporti tra imperatore e Senato, e mostra tutto il suo sdegno per l’adulazione e il servilismo di molti senatores verso il principe. Tacito prende atto della profonda crisi che ha portato alla fine della res publica, della degenerazione della classe senatoria e della scomparsa del popolo come entità politica, muovendosi “sullo stesso piano di Sallustio: mondo umano di virtù e vizi, volontà e passioni: chiuso e ferreo mondo, poiché vizi e passioni vi prevalgono fortemente” [26]. Egli è tuttavia realista; è, infatti, convinto dell’impossibilità di resuscitare la libertà repubblicana. Afferma che l’impero è necessario, ma doloroso e la sua visione nei confronti di tale forma di governo si fa via via sempre più amara e critica nelle proprie opere: nell’Agricola e nel Dialogus è a favore dell’impero quando questo è nelle mani di uomini in grado di governare, come Nerva e Traiano ciascuno dei quali è definito «capax imperii» (Hist., I, 49; II, 77); “nelle Historiae Tacito ha una concezione «costituzionalistica» che possiamo definire in quattro punti:
1) Il regime imperiale è necessario per evitare lo sfaldamento dello Stato, poiché «l’immenso corpo dell’impero non si può reggere e conservare in equilibrio senza una guida (sine rectore, cfr. I, 15)», ma gli abitanti dell’impero «non possono sopportare né un’intera schiavitù né un’intera libertà».
2) Un principato «costituzionale» deve sottostare a precise norme (mai però «codificate»): il rispetto dei diritti politici e civili dei cittadini; la tutela degli «ordini» costituiti e dalla gerarchia fra cittadini e non cittadini; la collaborazione col senato nella direzione politica e amministrativa dell’impero.
3) Il senato resta il cardine permanente dello Stato: è il supremo organo delle garanzie costituzionali; costituisce la classe di governo che collabora col principe alla guida dello Stato; risulta serbatoio dei futuri principi, che debbono essere scelti nelle sue fila in una sorta di «uguaglianza democratica».
4) Un senato degno delle sue funzioni deve cooptare i migliori elementi dei municipi e delle provincie latinizzate dell’Occidente, aprendosi al merito e allargando la partecipazione degli ex vinti alla direzione dello Stato secondo l’antica tradizione romana.
Sulla base di questa ideologia del principato, Tacito contrappone al recente e spaventoso passato delle guerre civili la realtà del presente” [27]; negli Annales troviamo affermazioni più pessimistiche: “alla discordia della patria non c’era stato altro rimedio che il governo di uno solo”; lo storico “ha capito che i mali della società romana sono connessi con la stessa natura del principato, addirittura con la stessa natura del potere” [28]. Tacito si rende conto che il processo è irreversibile, ma d’altra parte non può aderire con entusiasmo e convinzione al principato, e anzi concentra la sua attenzione sugli aspetti negativi e oscuri dell’operato dei principi: tutta “la storiografia della tradizione Sallustio–Tacito è difatti ispirata verso l’ordine nuovo da rassegnazione amara, pessimistica, perché sa scorgere sotto la maschera del principatus la vera natura del dominatus” [29]. Proprio da questa posizione lucidamente disincantata deriva il fascino di uno storico che non ha ideali né soluzioni da proporre, ma che non per questo rinuncia a giudicare con severità la realtà che rappresenta. Infatti “allo storico interessa una valutazione politica di fondo che suoni globalmente polemica nei confronti dell’età contemporanea” [30]. In questo suo modo di scrivere la storia egli dona grandissima importanza alla persona storica che diviene elemento principale della narrazione. Argomento della storiografia tradizionale erano gli eventi grandi, “ciononostante non [era] senza utilità indagare quei fatti a prima vista insignificanti, dai quali però scaturiscono molte volte grandi rivolgimenti” [31]. In Tacito invece è ripresa ed accentuata la tendenza, già presente in Sallustio, a porre in primo piano il personaggio da cui dipendono e a cui fanno riferimento i fatti. Tra tali personaggi primi sono sicuramente gli imperatori, i cui atti molto spesso non hanno la nobile grandezza prescritta dalla tradizione, ma devono essere riportati ed analizzati per la posizione di assoluta preminenza del principe. Tuttavia le opere di Tacito sono percorse da una “paura di un pericolo mortale per l’impero che, se nella storiografia precedente, tuttavia era arginata dalla fede nel destino provvidenziale dell’impero ecumenico, che nell’età augustea va consolidandosi come fede nell’eternità di Roma, ora proprio nel filone più importante della storiografia, quello in cui si colloca Tacito, questa fede è molto debole, ed è la coscienza della crisi che prevale nettamente. […] La fede in garanzie provvidenziali è resa difficile innanzi tutto dalle esperienze dirette della crisi dai Gracchi in poi; vi contribuisce, almeno nel filone in cui è collocato Tacito, una vena di razionalismo e di scetticismo che limita in misura notevole l’influenza della religione” [32]. “Il mondo che Tacito descrive sembra sia privo di dèi, sia maledetto dagli dèi” [33]. Abbiamo un esempio nella seconda prefazione delle Historiae (II, 38): «eadem illos deum ira, eadem hominum rabies, eaedem scelerum causae in discordiam egere», oppure negli Annales, prima dell’omicidio di Agrippina «Noctem sideribus inlustrem et placido mari quietam quasi convincendum ad scelus dii praebuere» (XIV, 5). E gli dèi puniscono sempre l’uomo cattivo, perché questo e solo lo strumento del destino, non il suo padrone ed, a volte, suscita l’ira deorum. Questa collera degli dèi è una concezione filosofica che, però, è strettamente collegata alla concezione del destino, che in Tacito è visto sempre in negativo. È dunque la visione politica e non quella provvidenziale o filosofica, che rappresenta la chiave di lettura dell’opera tacitiana. Questa è “l’unica realtà che conta […] che però comprende tutta la realtà sociale: ecco perché Tacito è uno storico con vasti e complessi orizzonti” [34]
A proposito di Tacito gli studiosi parlano di “dissoluzione della storiografia tradizionale”: l’autore, cioè, pur rispettando formalmente l’andamento annalistico della narrazione, nella concreta tecnica storica si avvicina ad una concezione in cui, a causa delle mutate condizioni politiche, non ha più senso continuare a narrare le vicende secondo la scansione consolare ed appare quindi più realistico un resoconto che si ispiri sostanzialmente ad una cronologia scandita dal succedersi dei diversi imperatori. Suetonio porterà a termine questa “dissoluzione” adottando lo schema biografico (secondo il modello nepotiano), narrando i fatti non per tempora ma per species [35].
“La riflessione storiografica e quella politica si illuminano reciprocamente, dandoci in poche righe l’immagine di uno storico amareggiato che fa tutt’uno con quella del senatore deluso. La riflessioni di Tacito sono infatti il risultato di un’analisi politica condotta con i parametri del senatore nostalgico della repubblica aristocratica. Lo storico imperiale, inoltre, deve fare i conti con una realtà politica dalla quale è escluso e la cui conoscenza dipende solo da colui che ne è arbitro, l’attività stessa dello storico è legata ormai alla volontà del principe, di conseguenza è facile che la sua narrazione sia viziata da servilismo e da rancore. Per cui secondo Tacito, strettissima è la connessione tra storiografia e regimi politici. Per questi ultimi, tuttavia, egli non ha un interesse generale sul piano teorico; le costituzioni alle quali egli pensa non sono altro, in ultima analisi, che la repubblica e l’impero dello Stato romano. Il giudizio negativo sulla storiografia contemporanea è il risultato di un atteggiamento critico nei confronti del principato. Questo tipo di governo, secondo Tacito, pregiudica la possibilità di informazione obiettiva, in quanto esclude lo storico dalla partecipazione alla vita pubblica: di qui la necessità della nuova storiografia psicologica, che deve studiare l’anima dell’imperatore e dei suoi sudditi. È evidente come questa posizione di Tacito sia legata alla figura dello storico–senatore di età repubblicana, idealizzata da Tacito sia in chiave storiografica che politica” [36]
Da quanto detto, appare quindi evidente che la storiografia tacitiana presenta evidenti limiti sul piano della attendibilità e della imparzialità della narrazione storica. Tale difficoltà è ulteriormente accresciuta dal confronto - talvolta possibile - con altre fonti in relazione ad un medesimo periodo storico. Particolarmente delicato si fa quindi il compito della moderna storiografia, che deve cercare di ricostruire il vero volto di un personaggio storico o di un intero periodo cronologico sulla scorta di fonti che risultano, in maggiore o minor misura, influenzate dall’ottica della classe sociale di appartenenza.
In generale, infatti, se uno studioso vuol delineare il quadro di una società moderna in tutti i suoi aspetti, può esservi poco di quanto ha bisogno di sapere che egli non sia in grado di scoprire, anche se può restare molto che non saprà comprendere. Per la storia della Grecia e di Roma, moltissimo è semplicemente inconoscibile.
Le prime opere di storia, che si possono considerare in qualche modo precorritrici di quelle odierne, furono scritte in Grecia verso la fine dell’età arcaica; da quel momento in poi, una serie ininterrotta di opere composta da storici greci e, successivamente, romani giunge sino alla fine del mondo antico. Analizzare e caratterizzare questa tradizione storiografica è il primo compito di uno storico moderno del mondo antico. Ma solo una minima parte di quanto esisteva un tempo è sopravvissuta alla fine di quel mondo; inoltre, il campo di interesse di quegli storici antichi era limitato, con poche eccezioni, alla storia politica; spesso essi davano per scontato molto di quello che noi vorremmo conoscere sulle condizioni economiche e politiche del mondo antico. Per di più, c’era una tendenza generale a spiegare ampiamente tutte le azioni umane in termini morali.
È ovvio che, oltre che da opere propriamente storiche, molto si può apprendere dai testi letterari in genere (poesia epica, tragedia, commedia, orazioni, trattati filosofici, poesia lirica); ma molte di queste opere, analogamente alle storie, sono il prodotto di una classe sociale ristretta e ne condividono la visione, necessariamente limitata.
Inoltre la produzione letteraria del mondo greco-romano ci è pervenuta solo in minima parte e ciò che è rimasto pone spesso difficili problemi di interpretazione [37].
Di fronte a tutte queste difficoltà, qualche aiuto può venire dal materiale documentario prodotto nell’antichità, che va da lunghi testi a minuscole impressioni di sigilli. Tale materiale fu spesso scritto su pietra, nel bronzo o su altre sostanze durevoli; in grandissima parte ha evitato la distruzione e viene in effetti scoperto in quantità sempre crescente. In Egitto, grazie al clima secco, si sono conservati molti documenti scritti su papiro. Questi testi, anche se spesso frammentari e di difficile comprensione, possono in ogni caso approfondire la nostra conoscenza del mondo antico.
Oltre a ciò, le testimonianze dell’archeologia e della numismatica possono essere anch’esse di notevole importanza. I siti di antichi insediamenti e gli oggetti qui scavati forniscono moltissime informazioni sulla cultura materiale della società greca e romana. Le monete sono giunte a noi in quantità enormi dal VII sec. a.C. e offrono una documentazione importante per comprendere meglio la storia economica del mondo antico.
Ecco quindi che, accanto ai resoconti degli storici antichi, gli studiosi moderni possono avvalersi di altre basi documentarie per ricostruire la storia dell’antichità. Tale integrazione fra le diverse discipline appare particolarmente utile per la ricostruzione del periodo della dinastia Giulio-Claudia.
Di particolare interesse appare l’analisi dei principati di Tiberio e di Nerone, per le dirette implicazioni con la prassi storiografica di Tacito e per il valore paradigmatico che le biografie di questi imperatori assumono nel quadro di uno studio comparato fra fonti antiche e interpretazioni storiografiche moderne.
Augusto era morto nell’agosto del 14. Dopo neanche un mese d’interregno (17 settembre del 14) gli successe il figliastro Tiberio. Nel 4, già quarantenne - era nato nel 42 a.C. -, Tiberio era stato adottato dal patrigno e associato al potere mediante il conferimento della tribunicia potestas.
L’adozione e la conseguente designazione alla dignità imperiale erano state condizionate dalla situazione familiare. Augusto aveva avuto solo una figlia, Giulia; Tiberio e Druso erano figli di Livia e del suo primo marito, Tiberio Claudio Nerone. Morto Marcello, figlio della sorella Ottavia, morti Gaio e Lucio, figli di Giulia e di Agrippa, Augusto era stato costretto a ripiegare su una successione ‘claudia’, alla quale lo spingeva Livia. Morto anche Druso non poté fare altro che adottare Tiberio - verso il quale non nutrì mai sincera simpatia -, ma volle da lui che adottasse a sua volta Germanico, figlio di Druso. Legato fin dalla nascita agli ambienti della vecchia nobilitas, Tiberio non nascose mai la sua avversione al principato, che amò considerare più come magistratura straordinaria che come punto di arrivo di un secolo di lotte, dai Gracchi al secondo triumvirato. Di qui certa sua ambiguità: incapace di sfumature, restò sempre in bilico fra ossequio alla tradizione repubblicana e devozione all’eredità politica di Augusto. Di qui alcuni errori politici di fondo, perché non seppe conciliare i privilegi senatori e la realtà rivoluzionaria del principato.
Tiberio, avanti negli anni, onesto e scrupoloso fino all’eccesso, chiuso e pessimista di carattere, assunse la sua carica dopo molte esitazioni e ripetute insistenze del Senato. Era ben consapevole del gravoso fardello imposto dall’eredità augustea: il potere del padre adottivo si basava sul prestigio personale e su caratteristiche d’eccezione che certo a lui mancavano. Egli poi avvertiva, da aristocratico sostanzialmente conservatore, di seppellire per sempre l’antica libertas senatoria: accettando la carica rinsaldava e rendeva definitivo il regime imperiale, mentre avrebbe preferito essere aequalis civis anziché eminens princeps. Tiberio, rinunciando così alla politica augustea di mediazione fra le due classi dominanti, senatoria ed equestre, si presentò come sostenitore del Senato. Per sottolineare il suo ossequio alla tradizione, rinunciò a ogni onore divino, al prenome di Imperator, al titolo di pater patriae, e fu incerto se accettare il cognome Augustus. Era intima convinzione, la sua, e non ipocrisia: a giustificare il suo potere erano sufficienti la potestà tribunicia e l’impero proconsolare; il resto era ‘culto della personalità, ed egli rifuggiva da questo aspetto del potere. Di ciò è esempio un passo di Suetonio, Tib., XXVI:
[…] Templa, flamines, sarerdotes decerni sibi prohibuit, etiam statuas atque
imagines nisi permittente se poni, permisitque ea sola condicione, ne inter
simulacra deorum sed inter ornamenta aedium ponerentur. Intercessit et quo minus in acta sua
iuraretur, et ne mensis September Tiberius, October Liuius uocarentur. Praenomen
quoque «imperatoris» cognomenque «patris patriae» ct ciuicam in uestibulo
coronam recusauit; ac ne «Augusti» quidem nomen, quanquam hereditarium, nullis
nisi ad reges ac dynastas epistulis addidit. Nec amplius
quam mox tres consulatus, unum paucis diebus, alterum tribus mensibus, tertium
absens usque in Idus Maias gessit
L’exemplum augusteo, però, andava o rifiutato o seguito fino in fondo: rinunciare al prenome Imperator e al titolo di pater patriae significava ledere il prestigio carismatico che sosteneva le attribuzioni giurisdizionali; per riaffermare questo prestigio, Tiberio dovette ricorrere sempre più spesso a misure repressive e trasformare il principato in uno stato di polizia. Schierarsi decisamente a favore di una determinata classe sociale, delimitando le proprie competenze di monarca, significava poi creare incomprensioni violente, destinate a trasformare l’imperatore filosenatorio in fiero persecutore del Senato.
L’esitazione di Tiberio nell’accettare il principato, il suo troppo deferente ossequio verso la nobilitas, i suoi atteggiamenti ‘legalitari’ furono facilmente fraintesi dai contemporanei e gli valsero la taccia di bugiardo e ipocrita proprio da parte di quella classe senatoria che egli prima privilegiò, poi represse. Ne sono testimonianza le pagine di Tacito, Ann. I, 7.
«At Romae ruere in servitium consules patres eques. Quanto quis inlustrior,
tanto magis falsi ac festinantes vultuque composito, ne laeti excessu principis
neu tristior<es> primordio, lacrimas gaudium, questus adulatione<m>
miscebant. Sex. Pompeius et Sex. Ap<p>uleius consules primi in verba
Tiberii Caesaris iuravere, apud que eos Seius Strabo et C. Turranius, ille
praetoriarum cohortium praefectus, hic annonae; mox senatus milesque et
populus. Nam Tiberius cuncta per consules incipebat, tamquam vetere re publica
et ambiguus imperandi. Ne edictum quidem, quo patres in curiam vocabat, nisi
tribuniciae potestatis praescriptione posuit sub Augusto acceptae. Verba edicti
fuere pauca et sensu permodesto: de honoribus parentis consulturum, neque
abscedere a corpore idque unum ex publicis muneribus usurpare. Sed defuncto
Augusto signum praetoriis cohortibus ut imperator dederat; excuriae arma,
cetera aulae; miles in forum, miles in curiam comitabatur. Litteras ad
exercitus tamquam adepto principatu misit, nusquam cunctabundus nisi cum in
senatu loqueretur. Causa praecipua ex formidine, ne Germanicus, in cuius manu
tot legiones, immensa sociorum auxilia, mirus apud populum favor, habere
imperium quam expectare mallet. Dabat et famae, ut vocatus electusque potius a re publica videretur quam
per uxorium ambitum et senili adoptione inrepsisse. Postea cognitum est ad
introspicendas etiam procerum voluntaes inductam dubitationem; nam verba vultus
in crimen detorquens recondebat
L’atteggiamento dell’imperatore filosenatorio nella medesima circostanza è invece elogiato da uno scrittore d’estrazione ‘borghese’, partecipe della nuova realtà del principato, Velleio Patercolo, Hist., II 124, 1.
«[1] Quid tunc homines timuerint, quae senatus trepidatio, quae populi confusio, quis urbis metus, in quam arto salutis exitiique fuerimus confinio, neque mihi tam festinanti exprimere vacat neque cui vacat potest. Id solum voce publica dixisse satis habeo: cuius orbis ruinam timueramus, eum ne commotum quidem sensimus, tantaque unius viri maiestas fuit, ut nec pro bonis neque contra malos opus armis foret. [2] Una tamen veluti luctatio civitatis fuit, pugnantis cum Caesare senatus populique Romani, ut stationi paternae succederet, illius, ut potius aequalem civem quam eminentem liceret agere principem. Tandem magis ratione quam honore victus est, cum quidquid tuendum non suscepisset, periturum videret, solique huic contigit paene diutius recusare principatum, quam, ut occuparent eum, alii armis pugnaverant. [3] Post redditum caelo patrem et corpus eius humanis honoribus, numen divinis honoratum, primum principalium eius operum fuit ordinatio comitiorum, quam manu sua scriptam divus Augustus reliquerat. [4] Quo tempore mihi fratrique meo, candidatis Caesaris, proxime a nobilissimis ac sacerdotalibus viris destinari praetoribus contigit, consecutis quidem, ut neque post nos quemquam divus Augustus neque ante nos Caesar commendaret Tiberius
I due luoghi qui riferiti dànno la misura della contraddittorietà della tradizione storiografica relativa a Tiberio: l’imperatore filosenatorio è schernito dallo storico d’ispirazione oligarchica, mentre viene elogiato dallo storico ‘borghese’.
Benché generale di provata esperienza, quando ebbe assunto il principato, Tiberio non condusse più guerre in prima persona e non si recò mai nelle provincie. La sua popolarità ne fu così sminuita. Per quanto riguarda la politica militare Tiberio, per mantenere fede alla linea politica di Augusto e non per invidia, ordinò a Germanico nel 16 di interrompere la campagna sul Reno, deciso a non ritentare l’avventura espansionistica al di là del fiume germanico.
Negli anni successivi, nonostante l’impegno ancora assiduo per la cosa pubblica, Tiberio andò gradatamente perdendo il gusto del potere. Infatti la situazione politica del princeps andava mutando nei rapporti interni, poiché, dopo pochi anni di principato, si manifestò la difficoltà di mantenere la posizione politica del principato sottomettendolo alla superiorità senatoria, in quanto tale superiorità avrebbe finito per riaprire tutta la crisi della decadenza repubblicana. Il principato, svuotato dalle sue prerogative e quindi delle sue funzioni, non avrebbe più potuto corrispondere alle esigenze per cui era divenuto indispensabile e la nobilitas senatoria avrebbe avuto la tendenza a renderlo inefficiente ed inutile, impedendogli di funzionare. Il figlio Druso minore prese il posto di Germanico e dal 20 d.C. fu associato alla potestà tribunicia. Ma i familiari di Germanico manifestarono il loro dissenso e a questo si aggiunse un’opposizione sempre più netta e imprevista da parte della nobilitas senatoria. Il tentativo utopistico di gestire il principato come suprema magistratura di carattere straordinario, sottoposta al Senato, riapriva in fondo la crisi dell’età tardo-repubblicana: gli oligarchici, forti dai riacquistati privilegi, chiedevano sempre di più, mentre i ceti ‘borghesi’ non erano disposti a cedere quanto avevano ottenuto con la riforma augustea. Questo contrasto indeboliva il prestigio del principe e perciò Tiberio, vistosi sempre più isolato, fu costretto a rafforzare il proprio potere armato per riaffermare in forma implacabile, di fronte al Senato, la sua vacillante auctoritas, Radunò, con intento intimidatorio, le coorti pretorie in un unico grande acquartieramento a Roma e ne affidò il comando al prefetto Elio Seiano, di rango equestre, figlio di un praefectus Aegypti, uomo di grande energia e di smodata ambizione. Per le prerogative a lui riconosciute e per il favore imperiale di cui godeva, Seiano diventò in breve tempo personaggio di primissimo piano, con un’illimitata ingerenza nella cosa pubblica. Nel 26 – con decisione politicamente avventata – Tiberio lo lasciò arbitro assoluto dello Stato, abbandonando Roma e ritirandosi a Capri. S’avviava alla settantina e temeva sempre di essere assassinato, riponeva in Seiano tutta la fiducia e non aveva amato mai il potere: preferì gli ultimi anni di vita il più possibile a se stesso, senza dimenticare per altro gli obblighi verso la comunità.
La figura di Seiano, come quella di Tiberio, è stata interpretata differentemente; Velleio Patercolo ne ha fatto un elogio in Hist., II 127, 1:
«[…] [2] Etenim magna negotia magnis adiutoribus egent interestque rei
publicae quod usu necessarium est, dignitate eminere utilitatemque auctoritate
muniri. [3] Sub
his exemplis Ti. Caesar Seianum Aelium, principe equestris ordinis patre
natum, materno vero genere clarissimas veteresque et insignes honoribus
complexum familias, habentem consularis fratres, consobrinos, avunculum, ipsum
vero laboris ac fidei capacissimum, sufficiente etiam vigori animi compage
corporis, singularem principalium onerum adiutorem in omnia habuit atque habet,
[4] virum severitatis laetissimae, hilaritatis priscae, actu otiosis
simillimum, nihil sibi vindicantem eoque adsequentem omnia, semperque infra
aliorum aestimationes se metientem, vultu vitaque tranquillum, animo exsomnem
Valerio Massimo, invece, ne fa un ritratto negativo in Factorum et dictorum memorabilium libri IX, 11, Ext. 4:
«[4] Sed quid ego ista consector aut quid his immoror, cum unius parricidii cogitatione cuncta scelera superata cernam? Omni igitur impetu mentis, omnibus indignationis viribus ad id lacerandum pio magis quam valido adfectu rapior: quis enim amicitiae fide exstincta genus humanum cruentis in tenebris sepelire conatum profundo debitae execrationis satis efficacibus verbis adegerit? Tu videlicet efferatae barbariae immanitate truculentior habenas Romani imperii, quas princeps parensque noster salutari dextera continet, capere potuisti? Aut te conpote furoris mundus in suo statu mansisset? Urbem a Gallis captani et trecentorum inclytae gentis virorum strage foedatum amnem Cremeram et Alliensem diem et oppressos in Hispania Scipiones et Trasimennum lacum et Cannas bellorumque civilium domestico sanguine manantis † furores amentibus propositis furoris tui repraesentare et vincere voluisti. Sed vigilarunt oculi deorum, sidera suum vigorem obtinuerunt, arae, pulvinaria, templa praesenti numine vallata sunt, nihilque, quod pro capite augusto ac patria excubare debuit, torporem sibi permisit, et in primis auctor ac tutela nostrae incolumitatis ne excellentissima merita sua totius orbis ruina conlaberentur divino consilio providit. Itaque stat pax, valent leges, sincerus privati ac publici officii tenor servatur. Qui autem haec violatis amicitiae foederibus temptavit subvertere, omni cum stirpe sua populi Romani viribus obtritus etiam apud inferos, si tamen illuc receptus est, quae meretur supplicia pendit
La diversa interpretazione che della figura di Seiano offrono Velleio Patercolo e Valerio Massimo rappresenta anche un utile criterio cronologico per la datazione delle opere dei due autori. Si deve infatti ritenere che lo scritto di Velleio sia anteriore al 31, anno della morte del prefetto del pretorio, quella di Valerio, al contrario, posteriore a tale data. Questa duplice posizione è del resto illuminante sui rapporti intercorrenti tra ceto intellettuale e princeps.
Seiano represse facilmente l’opposizione senatoria valendosi senza scrupoli, in nome di Tiberio, di condanne per lesa maestà [43]. Poi, al culmine della sua ascesa politica, favorito dalla lontananza di Tiberio – che solo saltuariamente, per lettera, faceva sentire la sua volontà al Senato -, meditò addirittura di succedergli. Gli erano d’ostacolo Druso minore, erede designato, e Agrippina maior, la vedova di Germanico, che avrebbe rivendicato la successione ai suoi figli. Ma Druso morì in circostanze misteriose e Agrippina, col facile pretesto di intrighi contro Tiberio, fu incarcerata insieme ai figli e poi relegata nell’isola Pandeteria [44]. Nel 30 Seiano ottenne dall’imperatore l’associazione nella potestà proconsolare: era riuscito così nel suo proposito, quando commise l’errore di cospirare contro lo stesso imperatore. Questi, aperti finalmente gli occhi, s’assicurò la fedeltà dalle coorti pretorie e procedette implacabile contro il traditore: rimise il caso al Senato e fece condannare a morte Seiano.
A peggiorare ulteriormente la situazione, si aggiunse, nel 33, una grave crisi economica. Amministratore severo e tradizionalista, Tiberio fece una politica di contrazione nelle emissioni monetarie (solo 16 emissioni auree e 36 argentee in 23 anni) e tesaurizzò, abbandonando la politica augustea di larga spesa e concentrando circa 700 milioni di denarii nelle sue casse private. D'altra parte, il rialzo del tenore di vita, portato dall’abbondanza di traffici e di occasioni di lavoro e dalle largizioni del precedente principato, in concomitanza alla concorrenza delle industrie e delle materie prime delle provincie, determinò una fuga di mezzi di pagamento verso il Levante e le Gallie, paesi che riuscivano a collocare vantaggiosamente le loro merci a danno della produzione italica.
Per questo avvennero speculazioni monetarie e rialzo (illegale) dei tassi d’interesse; misure legislative sbagliate, come quella diretta a obbligare a immobilizzare in beni fondiari una parte del denaro liquido già troppo scarso, resero anche più gravi la crisi, e il senato dovette trovare 25 milioni di denarii per fare prestiti su ipoteca agli agricoltori e quindi immettere moneta in circolazione. Dopo qualche mese, Tiberio fece condannare a morte il maggiore proprietario di miniere della Spagna, accusandolo di illeciti traffici, ne confiscò le proprietà e quindi si assicurò un nuovo afflusso di metallo monetabile. Nel 35 un incendio devastò l’Aventino e Tiberio stanziò 25 milioni di denarii per sovvenire e permettere la ricostruzione [45].
Sempre da Capri e sempre più solo, negli ultimo anni Tiberio governò con più vigile interesse la res publica. Esempio della vita di Tiberio a Capri è il seguente passo di Suetonio, Tib., XLII:
«Ceterum secreti licentiam nanctus et quasi ciuitatis oculis remotis, cuncta simul uitia male diu dissimulata tandem profudit ; de quibus singillatim ab exordio referam. In castris tiro etiam tum propter nimiam uini auiditatem pro Tiberio «Biberius», pro Claudio «Caldius», pro Nerone «Mero» uocabatur. Postea princeps in ipsa publicorum morum correctione cum, Pomponio Flacco et L. Pisone noctem continuumque biduum epulando potandoque consumpsit, quorum alteri Syriam prouinciam, alteri praefecturam urbis confestim detulit, codicillis quoque iucundissimos et omnium horarum amicos professus. Sestio Gallo, libidinoso ac prodigo seni, olim ab Augusto ignominia notato et a se ante paucos dies apud senatum increpito cenam ea lege condixit, ne quid ex consuetudine immutaret aut demeret utque nudis puellis ministrantibus cenaretur. Ignotissimum quaesturae candidatum nobilissimis anteposuit ob epotam in conuiuio propinante se uini amphoram. Asellio Sabino sestertia ducenta donauit pro dialogo, in quo boleti et ficedulae et ostreae et turdi certamen induxerat. Nouum denique officium instituit a uoluptatibus, praeposito equite R. T. Caesonio Prisco» [46].
Nominò suoi eredi Gaio, figlio di Germanico, e il nipote Tiberio Gemello, figlio di Druso. Nel 37, quando Tiberio morì, gli successe il venticinquenne figlio di Germanico, soprannominato dalle truppe Caligola, che a sua volta adottò e designò alla successione Tiberio Gemello, messo a morte poco dopo.
Le opposte tendenze della critica storica nel giudizio sulla personalità di Tiberio trovano la loro ragion d’essere nelle reali contraddizioni in cui si dibatté l’azione del successore d’Augusto dal principio alla fine del suo principato; “gli storici infatti, e più in generale gli scrittori posteriori a Tiberio, sono quasi tutti concordi nell’attribuirgli moderazione, assennatezza nei primi tempi del principato, a cui seguono poi crudeltà, scelleratezze e dissolutezze via via crescenti; ma sono meno concordi sulla spiegazione di questo fatto, cioè sul problema se Tiberio fosse dotato all’inizio di buone qualità e subisse più tardi un processo di degenerazione, oppure se avesse fin dai primi anni qualità negative che, mascherate per un certo periodo, egli andò poi rivelando in maniera sempre più evidente” [47].
Vi sono contraddizioni, sulle quali ha pesato poi la mano degli storici antichi, che hanno tratteggiato nelle loro opere la figura del secondo imperatore romano, illuminando di luce ora favorevole ora sinistra i diversi aspetti della sua politica, a seconda delle loro personali predilezioni o avversità.
“Plinio Maggiore afferma che Tiberio in vecchiaia fu rigido e perfino crudele (Nat. Hist. XIV, 144), e con ciò sembra implicitamente ammettere che tale non fu negli anni precedenti. Sostanzialmente concordi nel presentare Tiberio in complesso come moderato e assennato all’inizio, e poi come progressivamente più feroce e tirannico, sono i tre autori che costituiscono le fonti principali per la vita di questo imperatore, cioè Tacito, Suetonio e Dione Cassio.
Dione Cassio è l’unico che pone il dilemma - lasciandolo però irrisolto - se Tiberio fosse perverso per natura e simulatore nei primi tempi, oppure possedesse buone qualità iniziali che poi si guastarono (LVII, 13, 6). E ancora Dione Cassio, in un giudizio riassuntivo su Tiberio, riconosce in lui grande abbondanza di pregi e di difetti, includendolo in un certo modo nella categoria dei personaggi «paradossali» (LVIII, 28, 5).
Quanto a Suetonio, dopo aver parlato di molti atti di moderazione e perfino di eccessiva modestia di Tiberio, e quindi del suo aggressivo peggioramento, gli attribuisce poi un’indole perversa fin da fanciullo (e anche a Capri, cap. 42).
Tacito, nella rappresentazione di Tiberio, concorda in complesso con Suetonio piuttosto che con Dione Cassio. Tuttavia, mentre Suetonio ne distingue generalmente le qualità positive da quelle negative trattandole separatamente, Tacito invece, anche quando ne riferisce esempi di moderazione e di saggezza, tende non di rado a collocarli in un contesto o in una prospettiva sfavorevole al personaggio” [48].
Suetonio espose le azioni di Tiberio in maniera più distaccata e quasi impassibile, con uno stile più impersonale, e Tacito invece esercita una forte suggestione sul lettore col suo pathos, con la sua tensione morale e con la potenza del suo stile. Tuttavia, mentre Suetonio definisce Tiberio freddo e crudele fin dalla puerizia, né offre elementi rilevanti in senso contrario (passaggio da qualità positive a qualità negative, cap. 33), sì che i suoi atti di modestia e di assennatezza devono interpretarsi come una mera finzione che sarebbe durata per tutta la vita, Tacito, invece, pur mostrando spesso, anche se non sempre in modo chiaro, un simile orientamento, fornisce anche dettagli per una diversa valutazione, secondo cui Tiberio non sarebbe stato d’indole malvagia fin dall’inizio, ma si sarebbe guastato più tardi con un continuo peggioramento.
“Per parlare del regno di Tiberio bisogna dividere la sua vita in cinque fasi o periodi: 1) egregio per vita e reputazione quale cittadino privato oppure come subalterno agli ordini di Augusto; 2) subdolo nel simulare qualità positive finché furono in vita Germanico e Druso; 3) un misto di bene e di male fino alla morte della madre Livia; 4) esecrabile per crudeltà, ma con dissolutezze nascoste finché amò o temé Seiano; 5) sfrenato nei delitti e nelle ignominie dopo che, deposto ogni ritegno e timore, seguì soltanto la propria indole” [49].
Si è detto che il regno di Tiberio ci appare denso di contraddizioni; né poteva del resto essere diversamente. Tiberio ha dovuto, infatti, attuare la forma monarchica di Augusto, senza tuttavia godere del prestigio indiscusso che aveva circondato la personalità del suo padre adottivo; egli stesso ha sentito quanto fosse grave il peso della successione per un uomo come lui, il quale non veniva dall’esperienza della rivoluzione, ma apparteneva alla generazione che aveva trovato una rivoluzione già compiuta e un’organizzazione politica da attuare, non da instaurare. Perciò egli ha eseguito tutti i piani di Augusto con convinzione e dedizione assoluta, ma con piena coscienza delle gravi difficoltà che avrebbero intralciato la sua opera. I fondamenti della sua posizione costituzionale e religiosa furono quelli stessi posti da augusto e poi rimasti sempre a fondamento del principato: impero proconsolare e potestà tribunicia, titolo di Imperator e di Augustus, dignità di Pontefice Massimo.
Disgraziatamente alcune sfortunate circostanze, dovute in parte al carattere stesso di Tiberio e ai suoi errori, la rivalità dinastica con la famiglia di Germanico, ma soprattutto la nefasta opera di Seiano, crearono incomprensioni ed equivoci fra l’imperatore e la nobiltà senatoriale, imprimendo nella tradizione storica il tenace giudizio che già dal regno del profondo principe fosse cominciata la degenerazione del principato, mentre assai diversamente parlano i fatti. In realtà nessun altro degli imperatori romani si accinse a governare con tanto palese e deciso ossequio alla collaborazione e all’autorità del Senato. Tutto il regno di Tiberio fu una battaglia intesa a mantenere al principato il suo carattere civile: sia nei rapporti coi magistrati e coi privati, sia nella vita privata Tiberio non si stancò mai di insistere sul fatto che egli era un princeps alla maniera antica, che non era né un dominus né un «dio».
E del resto tra i fattori favorevoli al formarsi di un potere dispotico, sta proprio la fatica rappresentata, in chi dovrebbe controllare nel governo col principe, dall’esercizio diretto del potere e dalla responsabilità ch’esso comporta, mentre è facile e piacevole rimettere ad altri il peso del governo. Infatti, in Tacito, assistiamo ad assemblee Senatoriali, che pur formate di competenti uomini politici di professione, sono pronte a sottrarsi ai loro compiti, per rimettersi al principe.
E Tiberio, uomo all’antica, rude e poco paziente, non nascondeva il suo dispetto; e si dice che, più d’una volta, uscendo dal Senato, esclamasse: «O uomini preparati alla servitù».
Il giudizio più accettabile su Tiberio è che egli fosse un comandante militare esperto e avveduto, e un buon amministratore, ma non avesse adeguate capacità politiche e parlamentari: perciò il suo proposito iniziale di governare insieme col senato finì per risolversi in un fallimento.
Tiberio non vide mai di buon occhio i processi di «lesa maestà», con i quali si voleva colpire qualunque offesa fatta al principe come un’offesa fatta allo Stato, che nel principe si impersonava. Tuttavia i processi si moltiplicarono; erano un mezzo troppo comodo per sfogare rancori personali o per mettersi in bella mostra o per accumulare ricchezze comperando a basso prezzo i beni espropriati ai condannati.
Fu una decisione disastrosa, per la fama di Tiberio, quella di ritirarsi a Capri, amareggiato e deluso dalle opposizioni, dalle perfide dicerie, dalle basse adulazioni mescolate alle calunnie d’ogni sorta, che si accumulavano sul suo conto, da parte proprio di quella nobiltà, verso la quale egli aveva mostrato fin da principio tanto rispetto e che più volte aveva invano invitato a collaborare con lui. Dopo il tradimento e la condanna a morte di Seiano visse ancora sei anni, senza mai far ritorno a Roma, non interessandosi più nemmeno degli affari ordinari di governo, sempre più isolato dopo la vittoria silenziosa riportata dal quel Senato, che egli con animo devoto aveva rispettato e venerato.
Queste sono dunque le conclusioni cui giunge la storiografia moderna a proposito del principato di Tiberio. Come si è visto, non è possibile accettare acriticamente il giudizio di Tacito, nonostante la sua professione di voler scrivere sine ira et studio. Del pari problematico appare l’uso delle altre fonti antiche, come ha dimostrato la comparazione dei testi di Velleio Patercolo e Valerio Massimo. E così, per una sorta di nèmesi storica o di eterogenesi dei fini, dopo alcuni tentativi di difesa dell’operato dell’imperatore, la più recente ed accreditata storiografia è tornata a formulare su Tiberio un duro giudizio, nella sostanza coincidente con quello dato da Tacito, sia pur per vie diverse e sulla base di indizi documentari differenti.
Bisogna ora stabilire quanto la concezione storiografica, la visione del mondo, la posizione sociale influiscano nella narrazione dei fatti del principato di Nerone. La domanda che ci dobbiamo porre è se veramente Tacito rispetta quei princìpi di obiettività ed oggettività tanto esaltati. Per fare questo si prenderà la figura di Nerone e si cercherà di confrontare le pagine degli Annales con il giudizio dato dalla storiografia moderna.
Innanzi tutto si deve individuare quale sia la fonte a cui Tacito attinge, per la narrazione dei suoi eventi. Bisogna subito dire che è necessario «mantenersi nei limiti di un’attenta revisione, in cui il dubbio sia sempre tenuto nel debito conto. Perciò saranno escluse tutte quelle ipotesi e induzioni fondate sulla verosimiglianza generica» [51] che non oltrepassano «la semplice possibilità» [52]. Un mezzo efficace per la ricerca delle fonti è l’analisi e il confronto dei testi di diversi autori, anche se, come è noto, c’è una «relativa uniformità del punto i vista in tutti gli scritti a noi giunti» [53], fatto che rende ancora più difficile l’indagine. I testi da cui la mia ricerca muove sono: il De vita duodecim caesarum libri VIII di Suetonio, gli Annales di Tacito e, infine, l’opera di Dione Cassio `Rwmaik¾ …stor…a
L’origine della vulgata per Nerone presuppone un problema di fondo, se essa preesisteva alle nostre fonti oppure se è stata ottenuta dalle nostre fonti, coll’imporsi di una fonte come la più autorevole. Per la storia di Nerone, infatti, vi è una discrepanza di giudizi attestata dallo stesso Suetonio: «Et tamen non defuerunt qui per longum tempus vernis aestivisque floribus tumulum eius ornarent, ac modo imagines praetextatas in rostris proferrent, modo edicta quasi viventis et brevi magno inimicorum malo reversuri» [55] (Nero, 57). Ma bisogna supporre che se, sia Tacito sia Suetonio sia Dione Cassio hanno scelto identiche fonti, ciò sia causato dall’imporsi di queste, che per la loro completezza ed eccellenza di informazioni, si imponevano sulle altre e che «li esimevano dal ricorrere a fonti di intonazione diversa in modo da dover rispecchiare punti di vista, sia pure involontariamente, contrari a quelli da loro accolti» [56].
Per la fonte neroniana è subito evidente l’accordo tra Dione e Tacito che riportano non solo la medesima versione degli avvenimenti, ma raccontandoli anche con le medesime parole.
Si prendano come esempio l’accordo fra Tac., XIII, 5 e Dio., LXI,3 (è impedito ad Agrippina di partecipare alle sedute del Senato):
Tac.: «Quin et legatis Armeniorum causam gentis apud Neronem orantibus escendere suggestum imperatoris et preaesidere simul parabat nisi ceteris favore defixis Seneca amonuisset» [57].
Dio.: «Giunse un’ambasciata degli Armeni ed anche Agrippina volle salire sulla tribuna dalla quale Nerone discuteva con loro. Allora quelli, vedendola avvicinarsi, convinsero il giovane a scendere e ad andare incontro alla madre per salutarla» [58].
XIV, 14 e LXI, 17,4 (uccisione di Agrippina):
Tac.: «Nobilium familiarum posteros egestate venales in scaenam deduxit: quos fato perfunctos ne nominatim tradam, maioribus eorum tribuendum puto» [59].
Dio.: «Gli uomini di quel tempo videro le famiglie prestigiose, i Furi, gli Orazi, i Fali, i Porci, i Valeri ecc.» [60].
XIV,60 e LXII, 13 (ripudio di Ottavia):
Tac.: «Ex quibus una intanti Tigellino castiora ese muliebria Octaviae respondit quam os eius» [61].
Dio.: «Alla fine, poiché Tigellino le stava appresso, lei gli sputò addosso e gli disse: “Tigellino, il sesso della mia signora è più puro della tua bocca» [62].
XV, 29 e LXII, 23:
Tac.: «Medio tribunale sedem curulem et sedes effigiem Neronis sustinebat. Ad quam progressus Tridates caesis ex more victimis sublatum capite diadema imagini subiecit» [63].
Dio.: «Ma fu anche innalzato un alto palco sul quale furono collocate la statua di Nerone, e Tridate, alla presenza di molti Armeni, Parti e Romani, si avvicinò ad essa e si prostrò; poi, dopo aver sacrificato e intonato formule d’augurio, si tolse la corona dal capo e la depose su di essa» [64].
XV, 57 e LXII, 27:
Tac.: «… recordatus … Epicharin attineri ratusque mulierebre corpus impar dolori tormentis dilacerari iubet. At illam non verbera, non ignes, non ira… pervicere quin obiecta denegaret» [65].
Dio.: «È giusto anche ricordarsi di una donna di nome Epicari; questa infatti benché torturata non rivelò assolutamente nulla» [66].
XV, 67 e LXII, 24:
Tac.: «Interrogatusque [Subrius Flavius] a Nerone, quibus causis ab oblivionem sacramenti processisset “oderam te – inquit – nec quisquam tibi fidelior militum fuit, dum amari meruisti, odisse coepi, post quam parricida matris et uxoris, auriga et histrio et incensiarius extitisti» [67].
Dio.: «Allora Flavio disse: “Sopra ogni cosa ti ho voluto bene e ti ho odiato. Ti ho voluto bene perché speravo che saresti stato un buon imperatore; ti ho odiato, invece, perché compi azioni come queste; infatti, non posso servire un auriga e un citaredo» [68].
XV, 68 e LXII, 24:
Tac.: «Percontanti Neroni, cur in caede suam conspiravisset Sulpicius Asper centurio breviter respondens non aliter tot flagitiis eius subveniri potuisse» [69].
Dio.: «Quello, infatti, alla domanda di Nerone sui motivi che lo avevano spinto all’attentato, rispose che non poteva aiutarlo diversamente» [70].
XVI, 21 e LXII, 26:
Tac.: «Eaque offensio altius penetrabat quia idem Thrasea Patavii unde ortus erat ludis † cetastis a Troiano Antenore institutis habitu tragico cecinerat» [71].
Dio.: «E non recitò assolutamente nulla, benché nella sua città, Padova, avesse recitato una tragedia, secondo un’usanza avita, durante una festa che si celebrava ogni trenta anni» [72].
XVI, 22 e LXII, 26:
Tac.: «Numquam pro salute principis aut celesti voce immolavisse» [73].
Dio.:«Poiché non aveva sacrificato in onore della sua voce divina come tutti gli altri» [74].
È d’altra parte evidente l’accordo di Suetonio con Tacito attestato dai seguenti punti di contatto:
Tacito XV,36 e Suetonio Nero, 19 (Nerone nel tempio di Vesta):
Tac.: «Illic veneratus deos, cum Vestae quoque templum inisset, repente cunctos per artus tremens, seu numine exterrente, seu facinorum recordatione numquam timore vacuus, deseruit inceptum…» [75].
Suet.: «Nam cum circumitis templis in aede Vestae resedisset, consurgenti ei primum lacinia abhaesit, deinde tanta aborta caligo est, ut dispicere non posset» [76].
XIII, 2 e Nero, 9 (Onori tributati ad Agrippina)
Tac.: «signumque mox militiae petenti tribuno dedit optimae matris» [77].
Suet.: «Primo etiam imperii die signum excubanti tribuno dedit optimam matrem» [78].
XIV, 47 e Nero, 12(Atti pubblici di Nerone):
Tac.: «Gymnasyum eo anno dedicatum a Nerone praebitumque oleum equiti ac Senatui graeca facilitate» [79].
Suet.: «dedicatisque thermis atque gymnasio senatui quaoque et equiti oleum praebuit» [80].
Basterebbero questi presupposti per affermare l’accordo tra Suetonio e Dione, si possono tuttavia ricordare alcuni punti di contatto: Suet Nero, 37 e Dio. LXII, 24 (congiura pisoniana), Suet. Nero, 38 e Dio. LXII, 16 sg. (incendio di Roma) e la coincidenza letterale in Nero, 40 e LXIII, 27 (detto di Nerone).
Già per la storiografia riguardante il periodo sotto l’impero di Claudio, Momigliano (citando esplicitamente i lavoro compiuto dal Grigull) individua in Plinio il Vecchio e nella sua opera, A fine Aufidii Bassi, la fonte comune agli scrittori, come d’altronde si nota dal confronto tra Tacito, XII, 56 (ipse insigni paludamento neque procul Agrippina clamyde aurata praesedere [81]), Dione, LX, 33, 3 (e Agrippina si vestì con una clamide dorata [82]) e Plinio, Nat. Hist., XXXIII, 63 (Nos vidimus Agrippinam Claudii principis, edente eo navalis proelii spectaculum, adsidentem et indutam paludamento auro textili [83]). Quindi se l’opera veniva già utilizzata come fonte per il periodo immediatamente precedente, non si vede il motivo per cui Tacito, Dione e Suetonio dovrebbero averla cambiata.
Inoltre Tacito in XIII, 31 scrive:
«Nerone iterum L. Pisone consulibus pauca memoria digne evenere, nisi cui libeat laudandis fundamentis et trabibus, quis molem amphitheatri apud campum Martis Caesar extruxerat, volumina implere» [84],
coincidenza evidente con Plinio che scrive (in Nat. Hist. XVI, 200):
«Amplissima arborum ad hoc aevi existimatur Romae visa, quam propter miraculum Tiberius Caesar… exposuerat, duravitque ad Neronis principis amphitheatrum; fuit autem trabes e larice, longa pedes CXX, bipedali crassitudine, quo intellegebatur vix credibilis reliqua altitudo fastigum ad cacumen aestimantibus» [85]:
questa è la conferma che Tacito aveva dinanzi, mentre scriveva i suoi libri, gli annali di Plinio.
È anche attestato che sia Cluvio Rufo sia Fabio Rustico, i quali erano fonti discrepanti, confluivano in Plinio: uno stesso scrittore poteva quindi scegliere tra le versione quella che più lo accattivava. Così fece Suetonio: «tra le due versioni che la fonte gli offriva, scelse la peggiore per Nerone» [86].
Ora perché mai Tacito seguiva uno scrittore, in cui evidentemente non aveva molta fiducia, nonostante la promessa in XIII, 20 degli Annali: «nos consensum auctorum secuturi, si qui diversa prodiderint, sub nominibus ipsorum trademus» [87]? Intanto il passo XV, 53 attesta che Plinio è l’unico autore tenuto davanti da Tacito seppur con qualche diffidenza:
«Interim Piso apud aedem Cereris opperiretur, unde eum praefectus Faenius et ceteri accitum ferrent in castra, comitante Antonia, Claudii Caesaris filia, ad eliciendum vulgi favorem, quod C. Plinius memorat. Nobis quoquo modo traditum non occultare in animo fuit, quamvis absurdum videretur aut inanem ad spem Antoniam nomen et periculum commodavisse, aut, …» [88].
Tacito, «non essendo fatto per le ricerche erudite» [89], scelse Plinio proprio perché questo riportava Rustico e Cluvio e quindi differenti versioni. Questo rappresentava un vantaggio enorme che suppliva le «eventuali deficienze critiche» [90].
Tacito, uniformandosi con l’opinione della propria fonte, tratteggia negativamente la figura di Nerone. Ancora una volta, nella stessa personalità del nuovo princeps, si manifestava il contrasto fondamentale, di carattere politico e sociale, che era alla base di tutta la politica della comunità imperiale e romana: da un lato i ceti possidenti più elevati di Roma, appoggiati da quelli delle provincie, tanto a Oriente come a Occidente, decise a difendere i privilegi del loro ambiente ed i vantaggi tratti dal dominio di Roma. D’altra parte vi era il precedente della conquista di Alessandro, la superiorità della tradizione culturale, le pretese delle masse non abbienti di Roma o d’Italia, il popolo e la ricca borghesia delle provincie, le masse del proletariato civile e militare, milioni e milioni di persone che da secoli e secoli vivevano nell’attesa della giustizia e del benessere, della pace e della vita facile, beni infinite volte promessi da re e da capi, e mai ottenuti malgrado promesse e speranze. Attorno a Nerone, giovanissimo, si agitavano lotte politiche e religiose. Non vi erano dirette influenze cristiane, ma l’insoddisfazione di gran parte della popolazione per la religione tradizionale era cresciuta, con Augusto e con Claudio, dall’arcaico formalismo con cui venivano restaurati riti della più antica religione ormai privi d’ogni rispondenza nell’animo delle parti meno rozze e sprovvedute della popolazione. In taluni ambienti, le dottrine filosofiche, preparavano ad atteggiamenti monoteistici e anche mistici, e quindi si ascoltavano con interesse le dottrine religiose orientali, portate anche a Roma dalla numerosa immigrazione. Nerone aveva ricevuto i poteri di princeps il tredici ottobre del 54, ed una prima sua presa di posizione diede l’impressione del ritorno all’inizio del principato di Tiberio, il richiamo all’esempio di Augusto apparteneva ormai alla tradizione: Nerone si dichiarò alieno dagli abusi dei suoi predecessori: «non enim se negotiurum omnium iudice fore… , nihil in penatibus suis venale aut ambitioni pervenium [92] ; discretam domum et re publica [93] .Teneret antiqua munia senatus… illi patrum aditum praeberent se mandatis exercitibus consulturum [94] ». Lo stesso Tacito si accorge che in un primo tempo, gli anni in cui l’influenza di Seneca era forte, «manebat minius quaedam imago rei publicae» [95] (XIII, 28). Era la “classica” formula costituzionale dell’oligarchia conservatrice: a rendere più convincente il suo programma Nerone non lasciò proseguire i lavori del tempio iniziato alla memoria di Claudio e non lasciò trattare della già decisa deificazione, mentre si prodigò con atti di ossequio alla maestà senatoria e con manifestazioni di moderazione e di clemenza. Taluni di questi atteggiamenti dovevano però essere indirizzati ad una maggiore concentrazione monarchica dei poteri e contrastavano, per le reali conseguenze, con i reali programmi annunciati, come quando fu restituito al senato il diritto di coniazione dell’oro e dell’argento, per poi affidare questa funzione a senatori stipendiati dal principe e quindi suoi funzionari. Segno anche più chiaro del suo indirizzo politico dopo aver annunciato la restituzione della giurisdizione al senato e ai magistrati. Nerone fece largo uso dei discrezionali poteri delle legge de maiestatis e delle procedure intra cubiculum, due strumenti di rigore poliziesco. La vita di palazzo era troppo simile a quella delle corti ellenistiche, perché gli scandali non si moltiplicassero insieme alle congiure. La memoria di Claudio rendeva ingrato quanto ne ricordava la sua presenza ed opera: ingrata era Ottavia, moglie di Nerone; ingrato era Britannico, cui l’adozione di Nerone aveva tolti tutti i diritti naturali della successione patrimoniale e politica, ingrata Agrippina rivelatasi troppo invadente, come era già avvenuto con Gaio e con Claudio. Britannico fu ucciso (55); ad Ottavia giunsero ripudio e morte (62) dopo che anche Agrippina venne fatta uccidere (59) e dopo che Seneca fu allontanato (62) e poi obbligato al suicidio. Il principato di Nerone fu accompagnato dalla graduale soppressione dell’ambiente che lo circondava agl’inizi; nel 62 morì anche il prefetto del pretorio, Afranio Burro. Tuttavia la cronaca degli scandali di palazzo che riempiono la tradizione di Nerone non è altro che la parte più esterna e superficiale della storia di Nerone, la cui opera politica si manifesta in un profondo e sostanziale impegno nella lotta contro i ceti più elevati della classe possidente di Roma e delle provincie, a favore di quei ceti meno abbienti che erano l’unica, ma numerosa e indispensabile, base del principato. Nel quadro della sua politica avversa alla nobilitas e favorevole ai ceti popolari, nel 58 Nerone propose l’abolizione delle imposte indirette (vectigalia), di cui la parte più importante era costituita da dogane e dazi (portoria). che Tacito narra in Ann. XIII, 50. La proposta di abolizione dei vectigalia avrebbe reso incontrastato l’afflusso delle merci dalle provincie, cioè sia dei prodotti di lusso, in cui si disperdevano le ricchezze aristocratiche, sia dei generi alimentari e delle materie prime, il cui libero ingresso avrebbe fatto abbassare il costo della vita, a vantaggio dei meno abbienti. Non più protetti dalle barriere doganali i prodotti dei latifondi senatori, olio, vino e cereali, malamente avrebbero potuto resistere alla concorrenza delle merci provinciali; d’altra parte l’abolizione dei vectigalia avrebbe sottratto all’erario un’imponente cifra, per il recupero della quale si sarebbero dovuti colpire gli interessi dei proprietari immobiliari italiani. Inoltre, le società degli appaltatori delle imposte indirette, avrebbero visti annullati i loro redditi. Infine, indebolendo finanziariamente la nobilitas Nerone avrebbe avuto maggiore possibilità di imporsi col favore dei provinciali e dei ceti romano-italici da lui beneficati. La riforma tributaria del 58 non fu approvata dal senato, e segnò l’inizio della rottura fra princeps e nobilitas. Nerone non era Giulio-Claudio per nascita, ma solo per adozione e quegli elementi di legittimità che ai suoi predecessori, come Gaio e Claudio, derivavano dalla discendenza da Augusto, a lui mancavano. Avvenuto il primo grave incidente, che dimostrava l’inconciliabilità delle esigenze politiche del principato con quelle del senato, Nerone si trovò costretto a cercare la base legittima del suo potere solo nel suo personale prestigio, e nel seguito naturale del principato, e quindi iniziò la lotta fra i due poteri dello stato e la preoccupazione ansiosa del princeps, che si sentiva sempre insidiato dagli oppositori per carenza di legittimità. Per poter svolgere la politica occorrente al principato erano necessari successi militari e disponibilità finanziarie. Alla ricerca di vittorie e di gloria, sin dagli inizi egli inviò una spedizione in Oriente, al comando di Domizio Corbulone, uno dei migliori generali del tempo, per sistemare la questione Armena, rifacendo di questo paese un protettorato romano, in funzione antipartica. L’Armenia fu conquistata, anche approfittando della difficoltà dei Parti, spesso premuti da movimenti ostili di popolazioni orientali (fra cui i Cinesi che a quel tempo avevano raggiunto il Mar Caspio); stabilito Tigrane sul trono d’Armenia, nel 58 i Parti lo espulsero ed occuparono il paese, onde nel 61 fu ripresa la guerra, questa volta contro i Parti, ed il comando fu diviso tra Corbulone e Cesennio Peto. Nel 63 Corbulone restò nuovamente solo comandante e riuscì a provocare un accordo con i Parti per il quale il trono Armeno fu lasciato al principe partico Tiridate, ma sotto la condizione che ricevesse l’investitura a Roma da Nerone e accettasse il protettorato romano. La solenne incoronazione di Tiridate fu uno dei maggiori successi ottenuti nei rapporti romano-partici del primo secolo, e rafforzò il potere di Nerone. Precedentemente, Plauzio Silvano Eliano, legato imperiale della Mesia, nel 63 aveva rafforzato il dominio romano in Crimea ed aveva assicurati grandi centri di rifornimento di cereali; ma il fatto che non ebbe onori né premi da Nerone dimostra che i progetti del princeps erano più vasti e non erano stati attuati. In Britannia, fu repressa una rivolta ed alla fine del suo principato, nel 67, Nerone, ormai alleato dei Parti, stava preparando con il loro aiuto una spedizione oltre Caucaso, donde provenivano le invasioni delle popolazioni dell’Estremo Oriente, e del centro dell’Asia. La politica neroniana portava alla necessità di un vasto programma d’azione culturale in quanto egli, per dare un fondamento alla sua aspirazione a una monarchia accentrata a base trascendente e religiosa, doveva largamente diffondere nel mondo romano idee e mentalità dell’ellenismo: in questa direzione si muove l’istituzione dei Neronia, spettacoli e giochi periodici di tipo greco, non ché la sua attività in Grecia. D’altre parte questa politica offendeva ed urtava non soltanto gli interessi ma anche i sentimenti dei ceti più elevati ed il contrasto si accrebbe anche più dopo la svalutazione della moneta e dopo l’incendio di Roma. Egli dovette difendersi dalle accuse voltegli dai senatori, i quali sostenevano che fosse stato lui a causare l’incendio della città (che oggi sappiamo dovuto a cause naturali); quale migliore difesa che girare, a sua volta, l’accusa ai cristiani, creando un perfetto capro espiatorio. Nel 65 la congiura dei Pisoni e nell’anno successivo la rivolta degli ebrei in Palestina (repressa da Flavio Vespasiano) e nel 68 la rivolta delle truppe di Spagna, di Gallia, dell’Africa e della Lusitania, nonché l’imminente arrivo di Galba a Roma, fecero capire a Nerone che il proprio potere era ormai in declino. Il 9 giugno 68, a 31 anni di età, il princeps si dava la morte.
Come si vede, la ricostruzione operata dalla moderna storiografia a proposito del principato neroniano differisce radicalmente da quella fornita dagli storici antichi. Oggi si tende a inserire l’azione politica di Nerone in un quadro coerente e finalizzato ad un preciso scopo, che restò inattuato per l’opposizione dei poteri forti e per l’incapacità del princeps di trovare un punto di mediazione con l’aristocrazia senatoria. Appare comunque evidente che, sia sul piano generale, sia sui singoli avvenimenti, la presentazione tacitiana di Nerone sia stata fortemente modificata dalla storiografia contemporanea.
Legato alla mentalità e alla logica dell’aristocrazia senatoria, Tacito affronta la storia legata all’esercizio del potere assoluto e del parallelo declino dell’ordine senatorio con l’atteggiamento di un moralista rassegnato. Ai suoi occhi la virtù risiede ancora negli antichi modelli di vita della cultura nobiliare, mentre i ceti sociali in ascesa e le masse indistinte della plebe e degli umili sono considerati moralmente e intellettualmente inferiori, capaci soltanto di servile adulazione nei confronti del principe e portatori dei germi della degenerazione del mos maiorum. Le sue simpatie vanno inevitabilmente a quei pochi personaggi che ancora sanno tenere in vita gli antichi modelli di comportamento, come Cremuzio Cordo o come Tràsea Peto, o a quei leali funzionari che sanno vivere e morire con dignità, come Agricola; come è inevitabile che di contro i ritratti dei principi risentano, nonostante le ripetute professioni di obiettività, dell’ottica ostile con cui la storiografia senatoria ha guardato alle figure degli imperatori, ritenendoli responsabili della propria sconfitta storica e della degradazione della società romana. Spetta alla critica moderna il merito di aver dimostrato deformazioni tendenziose nelle descrizioni di un Tiberio subdolo e crudele, di un Claudio plagiato dai liberti e dalle mogli, di un Nerone dissennato e istrionesco, ma spetta a Tacito il merito di averci lasciato, anche a costo di qualche sacrificio della verità storica, la potente rappresentazione di personaggi tragici che recitano un ruolo di desolazione e di morte sul tetro scenario di Roma imperiale. “La storia del principato si trasforma, nelle pagine tacitiane, in una tragedia di eroi negativi e di sconfitti, in un dramma senza speranza di riscatto che si trascina generazione dopo generazione e che non consente giustificazione razionale” [96].
In Roma l’interesse per l’attività economica e commerciale si intensificò notevolmente dopo le guerre puniche e macedoniche, quando i migliori empori commerciali del Mediterraneo caddero in mano romana.
Nei primi secoli dell’impero Roma divenne il centro del commercio mondiale; infatti l’unità politica che essa aveva creato fra i paesi soggetti al suo dominio aveva determinato anche l’unità economica, aveva favorito cioè l’instaurazione di costanti scambi commerciali fra le varie regioni dello stato romano. Le barriere doganali erano ormai cadute e le grandi strade, che erano state costruire per permettere il transito delle truppe, servivano ora al passaggio dei carri che trasportavano le merci da una parte all’altra dell’impero.
Per gestire gli scambi commerciali l’unità di peso adottata dai Romani fu la libra, equivalente a circa 327 grammi: la libbra veniva chiamata anche asse (“as”, parola derivata dal greco e che significa appunto “unità”).
Nei primi tempi della repubblica i Romani adoperavano soltanto monete di rame (aes) e le calcolavano in base al loro peso in libbre (asses), e contavano perciò: duo asses, tres asses ecc. Quando volevano indicare più migliaia, omettevano la parola asses, sostituendola con aeris, e dicevano, per esempio, centum milia aeris = 100.000 libbre di rame.
Quando, intorno al 270 a. C., si introdussero le monete d’argento e queste si andarono sempre più diffondendo, si cominciò a computare le somme di denaro in sesterzi. Che cos’era il sesterzio? Si chiamava così una moneta d’argento del valore di due assi e mezzo: da questo valore deriva il nome della moneta. Infatti in latino sestertius vuol dire proprio “due e mezzo”; nel nostro caso, as + as + semis (metà) del tertius as: perciò “sesterzio” è la moneta che vale due assi più un semis-tertius (abbreviato in sestertius), cioè metà del terzo asse.
Nella scrittura il sesterzio si indicava con il segno HS, derivato da II Semis, cioè as + as + semis. I multipli del sesterzio erano il quinario (quinarius = quinque asses), che valeva cinque assi, e il denario, che ne valeva dieci (denarius = decem asses).
Monete d’oro si cominciarono a coniare alla fine dell’età repubblicana, ma furono largamente usate soltanto in epoca imperiale. La moneta d’oro si chiamava aureus e valeva 25 denari, cioè 250 assi, pari a 100 sesterzi.
Anche le più grandi somme in contanti si valutavano in sesterzi e, per questo scopo, si formò un sostantivo particolare di genere neutro, sestertium: mille sesterzi (infatti, originariamente, si trattava di un genitivo plurale dipendente da un mille sottinteso; e quindi: un migliaio di sesterzi). Naturalmente si trattava di una moneta di solo calcolo, che non esisteva in concreto (come per noi “il milione”). Tuttavia, quando si dovevano fare grossi conti, si diceva duo sestertia, tria sestertia ecc., espressioni che significavano 2.000 sesterzi, 3.000 sesterzi ecc. Un milione di sesterzi si diceva decies centena milia sestertium, cioè “dieci volte cento migliaia di sesterzi”.
Ma sarebbe possibile tradurre queste espressioni in valori monetari correnti, moderni? Cosa si comperava, ad esempio, con 500 sesterzi? La risposta non è semplice. Una semplice trasposizione dei dati (anche tenendo conto di tutte le variabili e le variazioni intercorse in duemila anni) non sarebbe molto utile. Si può ad esempio affermare che l’aureus alla fine del I sec. d. C. aveva un peso di circa 7 grammi e ¼ di oro: corrispondeva quindi, come valore di metallo pregiato, a circa una lira e mezza (o un franco e mezzo) del principio del nostro secolo (tra il 1905 e il 1912), tenuto conto che la lira-oro corrispondeva a 5 grammi di oro fino. Ma ciò non ci dice molto, perché noi non conosciamo con esattezza il potere di acquisto della moneta antica e la differenza dei prezzi attuali rispetto a quelli di allora. Ci serve relativamente sapere (nel caso specifico dall’editto di Diocleziano del 301) quanto costava un chilo di pane (tanto più che nessuno rispettò quell’editto). Ciò che risulta chiaro è invece la gigantesca sproporzione tra la remunerazione della mano d’opera e il costo dei prodotti di consumo: scopriamo, infatti, che un muratore percepiva in un giorno una cifra di poco superiore al costo di un chilogrammo di pane. Risulta dunque molto evidente la sproporzione fra i prezzi dei generi di consumo e la bassissima remunerazione della mano d’opera.
Dopo questa premessa di carattere generale, consideriamo alcuni aspetti della rivoluzione economica operata da Costantino. È stato scritto che a questo imperatore si deve la fondazione della società piramidale, con i ricchi al vertice e i poverissimi senza speranza alla base.
Bisogna innanzi tutto conoscere e comprendere un fatto che è comune di tutti i tempi e di tutti i luoghi dove circola la moneta: quando in uno Stato le entrate non bastano a coprire le spese, si è costretti a coniare (o, se si tratta di moneta cartacea, ad “emettere”) una quantità di monete maggiore di quella che il tesoro dello Stato permette di coniare o di emettere; allora succede che la moneta perde il valore, perché, se è metallica, la si è dovuta coniare usando leghe (d’oro, d’argento, di bronzo) sempre più povere di metallo pregiato, se è cartacea, facendo corrispondere alla moneta stessa una minor quantità di metallo pregiato custodito nel tesoro dello Stato a garanzia della carta moneta emessa. A Roma al principio dell’impero circolavano due monete principali, come si è detto: il denarius, una moneta d’argento del valore di dieci assi; l’aureus, una moneta d’oro del valore di 25 denari (e quindi 250 assi). Che cosa accadde in progresso di tempo, specialmente a causa delle fortissime spese fatte da alcuni imperatori o per guerre, o per lavori pubblici, o per elargizioni ai soldati ecc.? Accadde che si dovette coniare moneta in quantità maggiore delle riserve di metallo prezioso custodite nel tesoro dello Stato. Queste coniazioni straordinarie di monete avvennero per la prima volta al tempo di Nerone; fu necessario allora mettere in circolazione una gran quantità di nuovi denari di minor peso e più poveri d’argento di quelli precedenti, ma si provvide a che conservassero la medesima capacità d’acquisto dei precedenti, riducendo contemporaneamente la quantità d’oro contenuta nell’aureus. Era questa una politica favorevole ai soldati, ai quali il soldo era pagato in denari [97] , alla povera gente, ai lavoratori, alla piccola borghesia, fra i quali non circolavano che denari: guai per loro se la capacità d’acquisto del denaro fosse diminuita insieme con lo scemare del suo valore intrinseco!
La saggia e popolare politica monetaria inaugurata da Nerone fu continuata dai successivi imperatori del II e del III secolo, che cercarono sempre, nella ormai inevitabile e continua svalutazione della moneta, di difendere la capacità d’acquisto del denaro [98]. Ancora Diocleziano tentò con ogni mezzo di sostenere il suo denarius, divenuto ormai un pezzo di rame con una superficiale patina bianca d’argento, diminuendo il peso dell’aureus. In questo modo i prezzi delle derrate, fissati in aurei, non divenivano proibitivi per chi doveva acquistarle con denari; e siccome i produttori si rifiutavano di vendere ai soldati e ai salariati a bassi prezzi espressi in denari, Diocleziano ricorse al celebre editto sui prezzi, cioè all’imposizione di un calmiere in tutto l’impero.
Costantino, rimasto unico imperatore nel 324, giudicò fallita la politica monetaria ed economica del suo predecessore e ritenne opportuno abbandonare la tradizionale economia monetaria del principato. Egli fondò il suo sistema sulla moneta d’oro, stabilizzato su un peso fisso, abbandonando al suo destino la moneta popolare, il denaro. Crolla definitivamente così il potere d’acquisto del denarius di rame argentato; crolla, senza speranza di ripresa, la situazione economica della piccola borghesia e del proletariato; nasce una nuova società nella quale solo i detentori di moneta d’oro possono effettivamente controllare lo Stato, mentre i detentori della moneta di rame sono irrimediabilmente rovinati. Nella società del basso impero (IV e V secolo d. C.), l’aureus è dunque l’effettivo signore. L’oro, questa favolosa macchina dei romanzi, è il comune denominatore delle ambizioni degli ultimi Romani. La politica monetaria di Costantino rimase per secoli e secoli la politica monetaria del declinante impero romano e poi dell’impero bizantino. Si potrà osservare che se Costantino fu il primo imperatore cristiano (sia pure battezzato in punto di morte), non certo a spirito cristiano fu uniformata la sua politica economica.
Diverso fu il caso di Nerone. Un primo esempio di una politica fiscale contraria alla nobilitas e favorevole ai ceti popolari si ebbe nel 58, quando Nerone propose l’abolizione delle imposte indirette (vectigalia), fra le quali rientravano anche le dogane e i dazi. Se accolta la proposta avrebbe fatto entrare liberamente in Italia e in Roma dalle province tutte le merci, compresi i generi alimentari e le materie prime, a prezzi più bassi. Ciò avrebbe danneggiato i produttori italici ma avrebbe al tempo stesso favorito la plebe. La riforma non fu approvata e questo rifiuto segnò la rottura dei rapporti fra senato e princeps. La frattura si acuì ancor di più quando nel 63 Nerone ridusse di circa 1/12 il peso della moneta. L’aureo passò da 1/40 di libbra a 1/45, il denarius da 1/84 di libbra a 1/96: in tal modo lo Stato disponeva di maggior denaro circolante e i creditori dovevano ricevere in pagamento monete di minor valore. La popolarità di Nerone ne risultò accresciuta fra i ceti meno abbienti, mentre aumentò l’odio contro di lui da parte dei ceti più ricchi.
Quelli di Costantino e di Nerone sono due esempi, fra loro diametralmente opposti, di gestione della politica monetaria da parte dell’imperatore: entrambi rivelano tuttavia l’importanza dello studio dell’economia antica per comprendere meglio la storia politica del passato. È evidente, infatti, che lo storico moderno non potrà limitarsi (come fanno le fonti antiche) a parlare della pazzia di Nerone, ma dovrà comprendere che la repressione da lui attuata fu uno strumento della lotta politica che si svolse fra il senatus e il princeps, lotta che costituì la caratteristica dominante di tutta la storia romana imperiale.
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[1] Tutte le date si intendono dopo Cristo, se non diversamente indicato.
[2] S. D’Elia, Storiografia tacitiana, p. 37. Per il presente lavoro è stata utilizzata la seguente edizione critica: Corneli Taciti Historiarum libri, recognovit brevique adnotatione critica instruxit C. D. Fischer, Oxford 1911.
[3] A. Michel, Il destino dell’impero, p. 624 n. 3.
[4] A. La Penna, Pensiero storico, p.101.
[5] Galba era sballottato qua e là, spinto dalla folla che ondeggiava in ogni direzione. Tutte le basiliche ed i templi erano gremiti, un lugubre spettacolo. Non si sentiva una voce, né di popolo né di plebe, e tutti i volti erano attoniti e le orecchie tese ad ogni rumore. Non c’era tumulto e nemmeno calma: ma il silenzio delle grandi paure e dell’ira. Nel frattempo annunciarono ad Otone che si armava la plebe: egli comandò di andare di corsa a prevenire il pericolo, e allora, truci di armi, i soldati romani, rapidi come se andassero a scacciare Vologese e Pacoro dall’avito trono degli Arsacidi, e non a trucidare il proprio imperatore, vecchio ed inerme, disperdono la plebe, calpestano il Senato ed irrompono a cavallo nel Foro. Non li atterrisce né la vista del Campidoglio né la reverenza dei templi vicini, e neppure il pensiero dei principi passati e futuri li trattiene dal commettere quel delitto, che è sempre punito da chi eredita il trono.
[6] Si può citare come esempio il primo capitolo degli Annales: «Tiberii Gaique et Claudii ac Neronis res florentibus ipsis ob metum falsae, postquam occiderant, recentibus odiis compositae sunt». Nel primo membro del periodo la proposizione temporale è espressa con un ablativo assoluto, nel secondo membro con postquam e l’indicativo. Ancora: il complemento di causa nel primo membro è espresso con ob e l’accusativo, nel secondo membro con l’ablativo semplice.
[7] A. Michel, Il destino dell’impero, p. 115.
[8] S. D’Elia, Storiografia tacitiana, p. 42.
[9] A. Michel, Il destino dell’impero, p. 115.
[10] A. La Penna, Pensiero storico, p. 102.
[11] S. D’Elia, Storiografia tacitiana, pp. 36-37.
[12] S. Ibidem, p. 37.
[13] Cfr. A. Momigliano, Osservazioni sulle fonti, p. 295. Valga qui una osservazione incidentale: il lettore resta sorpreso di fronte alla vastità delle conoscenze di studiosi come il Momigliano e ha netta l’impressione che il venir meno di una filologia che veniva quasi sprezzantemente definita “erudita” sia in realtà dovuta alla carenza di ingegni.
[14] È improbabile che si tratti invece di una sola opera con excursus etnografici; cfr. H. Bardon, La littérature latine inconnue, II, Paris 1956, pp. 164-165.
[15] Ibidem, p. 165.
[16] Art. cit., p. 305, 310.
[17] Bardon, op. cit., p. 161.
[18] Nome latinizzato di Joost Lips, umanista e filosofo fiammingo vissuto dal 1547 al 1606. Fu professore a Roma, Jena, Lovanio e presso l’università calvinista di Leida. Autore di pregevoli commenti ai classici latini, curò le edizioni di Valerio Massimo e soprattutto di Tacito e Seneca. Come scrittore politico, si ispirò a Tacito e Machiavelli, e cercò nella «prudenza» una via per conciliare la morale e l’utile. Deve essere ricordata anche la personalità di Alciati Andrea (o Alciato), giureconsulto di grande fama. Studiò a Pavia e Bologna, diventò professore di diritto civile ad Avignone. Giovandosi della filologia fu di grande rinnovatore della giurisprudenza ed il vero iniziatore di un indirizzo umanistico, senza tuttavia sprezzare la tradizione giuridica italiana. Il lavoro più importante di Alciati fu l’esegesi storica e filologica del Corpus iuris civilis (in 4 volumi, nel 1582: i primi tre di commentaria, il 4 di Tractatus e Orationes con appendice meramente letteraria: Emblemata e Annotationes a Tacito).
[19] A. Michel, Il destino dell’impero, p. 114.
[20] A. La Penna, Pensiero storico, p. 56. Il discorso di Claudio può essere letto nel CD “The Rhind Project 1.0” che gli autori del presente lavoro hanno realizzato.
[21] S. D’Elia, Storiografia tacitiana, p. 42.
[22] A. La Penna, Pensiero storico, pp. 57-58.
[23] S. D’Elia, Storiografia tacitiana, p. 43.
[24] A. La Penna, Pensiero storico, p. 66.
[25] A. Michel, Il destino dell’impero, p. 119.
[26] A. La Penna, Pensiero storico, p. 84.
[27] S. D’Elia, Storiografia tacitiana, pp. 41-42.
[28] S. D’Elia, Storiografia tacitiana, p. 43.
[29]A. La Penna, Pensiero storico, p. 102.
[30] M. A. Giua, Storiografia in Tacito, p. 6.
[31] Ibidem, p. 6.
[32] A. La Penna, Pensiero storico, pp. 82-83.
[33] A. Michel, Il destino dell’impero, p. 250.
[34] S. D’Elia, Storiografia tacitiana, p. 53.
[35] Con grande consapevolezza, negli stessi anni, Plutarco scriveva nella Vita di Alessandro: “Noi, infatti, non scriviamo storie, ma biografie” (oÜte ƒstor…aj gr£fomen, ¢ll¦ b…ouj
[36] M. A. Giua, Storiografia in Tacito, p. 27.
[37] Appare in tal senso esemplare l’opera del Bardon, citata in bibliografia, dedicata alla “littérature latine inconnue”. In essa l’autore parte dal presupposto, troppo spesso dimenticato, che solo un terzo della letteratura latina è giunto sino a noi.
[38] Proibì che gli si erigessero templi e che gli si attribuissero dei flamini o dei sacerdoti, e persino che si esponesse il suo ritratto o gli si innalzassero delle statue senza il suo permesso, che diede soltanto a condizione che non venissero poste tra i simulacri degli dei, ma tra gli ornamenti dei templi. Vietò che si prestasse giuramento sui suoi atti e che il mese di settembre venisse chiamato Tiberio e quello di ottobre Livio. Rifiutò anche il titolo di Imperatore e quello di Padre della patria, e non consentì che, nel vestibolo della sua casa, venisse posta una corona civica; e persino non aggiunse mai al proprio il nome di Augusto, che pure aveva ereditato dal padre, eccetto che nelle lettere dirette a re o a dinasti stranieri. Non esercitò più di tre consolati, uno per pochi giorni, un altro per tre mesi, e l'ultimo mentre era assente, e solo fino alle idi di maggio.
[39] In Roma, frattanto, si precipitavano a servire consoli, senatori, cavalieri. Tanto più ipocriti e solleciti, quanto più erano di classe sociale elevata; con atteggiamento studiato per non apparire lieti per la morte di Augusto, né troppo tristi per l’inizio del nuovo regno, mescolavano le lacrime alla gioia ed i gemiti alle parole dell’adulazione. I consoli Sesto Pompeo e Sesto Appuleio, giurarono per i primi fedeltà a Tiberio e dopo di loro Seio Stabone e C. Turranio, quello prefetto delle coorti pretorie, questo dall’annona; subito dopo fecero lo stesso giuramento il Senato, l’esercito ed il popolo. Tiberio per tanto, lasciava ai consoli ogni iniziativa come se vi fosse l’antica repubblica ed egli fosse poco pratico di governare; persino l’editto col quale convocava i senatori nella curia, emanò in nome dell’autorità che gli veniva dalla carica di tribuno, che Augusto gli aveva conferito. Le parole dell’editto furono poche e di contenuto molto moderato: egli si sarebbe consultato intorno alle onoranze da tributarsi al padre, ne si sarebbe allontanato dalla salma, e soltanto questa delle funzioni spettanti allo Stato egli avrebbe compiuto. Tuttavia, morto Augusto, Tiberio, come «imperator», aveva dato la parola d’ordine alle coorti pretorie; disponeva di sentinelle di armati e di ogni pompa di corte; soldati lo scortavano nel foro e nella curia. Inviò messaggi agli eserciti come già avesse conquistato il potere, in nessuna occasione appariva esitante, se non quando dovesse parlare in Senato. La principale ragione di ciò veniva dalla paura che Germanico, nelle cui mani stavano tante legioni e un immenso numero di milizie ausiliarie alleate e che godeva di un grandissimo favore presso il popolo, preferisse prendere subito l’impero, invece che attendere. Tiberio dava anche peso alla pubblica opinione, perché preferiva sembrare di essere stato prescelto e chiamato dal popolo, piuttosto che si pensasse che egli era salito al potere di soppiatto, in virtù degli intrighi di una moglie e dell’adozione fatta da un vecchio. Si seppe poi che il contegno dubbioso ed incerto era stato adottato per scrutare i sentimenti dei principali cittadini, poiché egli fissava bene nella sua mente parole e volti, interpretandoli in modo sinistro.
[40] Quali furono allora i timori degli uomini, il turbamento del popolo, il panico in Roma? In quale stretta alternativa di salvezza e di rovina noi ci siamo trovati? Sono argomenti per i quali, in così frettolosa esposizione, non mi rimane il tempo; né chi pure lo avesse, ne verrebbe a capo. Mi accontento di affermare, secondo la voce pubblica, questo solo: il mondo, di cui avevamo temuto il crollo, non lo vedemmo neppure turbato; e tanta fu l'autorità di un sol uomo che non vi fu bisogno di armi né a favore degli onesti, né contro i malvagi. [2] Vi fu tuttavia una - diciamo così - contesa politica, tra il senato ed il popolo romano da un lato contro Tiberio, perché subentrasse nelle funzioni del re, e Tiberio stesso desideroso di ottenere la parte di cittadino pari agli altri, piuttosto che quella eminente di principe. Si lasciò infine convincere dalla ragione più che dal desiderio di onori, vedendo che tutto quanto egli non si disponeva a difendere sarebbe caduto in rovina; e a lui solo accadde di rifiutare il potere quasi per un tempo più lungo di quello impiegato da altri in lotta armata per impadronire. [3] Dopo che il padre salì al cielo - e il corpo ebbe onori umani, ed il nume onori divini - il primo suo atto di principe fu il riordinamento dei comizi, secondo quanto il divo Augusto aveva lasciato scritto di sua mano. [4] In quel tempo toccò a me ed a mio fratello, candidati di Tiberio, di essere stati come pretori, subito dopo i personaggi più nobili e insigniti di sacerdozi; e di ottenere così che nessuno sia stato dopo di noi raccomandato dal divo Augusto, e nessuno prima di noi da Tiberio Cesare.
[41] [2] I grandi impegni esigono infatti grandi coadiutori; ed è interesse dello stato che spicchi anche per dignità esteriore chi svolge compiti indispensabili, e che una posizione autorevole sia di presidio alla sua opera preziosa. [3] Seguendo questi esempi, Tiberio Cesare ebbe ed ha tuttora, come ineguagliabile aiutante delle funzioni imperiali in ogni campo, Elio Seiano, nato da un eminente personaggio del ceto equestre, e per parte di madre legato ad illustri e antiche famiglie insigni per cariche pubbliche, con fratelli, cugini e uno zio materno di rango consolare, ricchissimo egli stesso di zelo e di lealtà, ed anche dotato di una complessione fisica rispondente al vigore dello spirito: [4] uomo di una serietà serena, di una giocondità d'altri tempi, simile nel gestire a persona estranea agli affari, alieno dall'avanzare pretese, e per questo capace di ottenere tutto, uso a giudicare sé stesso al di sotto della stima tributatagli dagli altri, calmo nell'espressione del volto e nella vita, insonne nell'animo.
[42] [4] Ma a che insistere su questi fatti o perché indugiarvi, quando vedo che tutti i delitti sono stati superati in gravità dalla premeditazione di un solo parricidio? A bollarlo sono indotto, dunque, con ogni impeto dell'animo e con ogni sdegno, da un sentimento di pietà più che d'ira. Chi, infatti, estintasi la lealtà dell'amicizia, potrebbe con espressioni adeguate gettare nell'abisso della dovuta esecrazione chi ha tentato di seppellire in cruente tenebre il genere umano? Tu, certamente reso più tracotante e crudele dall'efferatezza della barbarie, hai potuto prendere le briglie dell'impero romano, tenute nella sua salutare destra dal nostro principe e padre? O il mondo sarebbe rimasto in piedi, se tu avessi attuato il tuo folle progetto? Con i pazzi propositi della tua insania avresti voluto resuscitare e superare la presa di Roma da parte dei Galli e la strage dei trecento dell'inclita famiglia presso il Cremera lordo del loro sangue e la giornata dell'Allia e l'eccidio degli Scipioni in Ispagna e il lago Trasimeno e Canne e † stillanti del sangue delle guerre civili. Ma furono ben svegli gli occhi degli dei, le stelle conservarono il loro potere, gli altari, i pulvinari, i templi furono protetti dalla presenza dei numi e nessuna divinità di quelle che avrebbero dovuto vegliare a difesa dell'augusta persona del principe e della patria si lasciò addormentare; e, più degli altri, il supremo difensore della nostra incolumità provvide a che i suoi eccellentissimi meriti non rovinassero in una con la distruzione totale del mondo. Così la pace trionfa sicura, vigono le leggi, viene integralmente rispettata la continuità dei doveri privati e pubblici. Chi, violando le leggi dell'amicizia, tentò di sovvertire questo stato di cose, calpestato con tutta la sua stirpe dalle forze del popolo romano, sconta anche presso gli inferi, se pure vi è stato ricevuto, le pene che ha meritato.
[43] Il «delitto di lesa maestà», ipotesi di reato a contenuto generico, e quindi potenzialmente molto pericolosa, veniva commesso recando in qualunque modo – con atti, con scritti, con parole – offese all’imperatore, il quale, essendo in possesso della «potestà tribunizia» (cioè di quelli che erano stati un tempo i poteri del tribuno della plebe), rappresentava la «maestà» (la dignità ad ogni altra superiore) del popolo romano (maiestas populi Romani).
[44] Isola di Ventotène nel golfo di Gaeta.
[45] Per una analisi di alcuni aspetti della politica economica romana si veda l’Appendice 1, nella quale si osserva altresì come le scienze ausiliarie quali la numismatica possano contribuire alla definizione del quadro storico.
[46] Col favore dell'isolamento e, per così dire, lontano dagli sguardi del popolo, sfogò tutti quei vizi che, fino allora, aveva mal dissimulato, e che io enumererò a uno a uno. Già durante il servizio militare, fin dal principio il suo eccessivo amore per il vino lo faceva chiamare Biberio invece che Tiberio, Caldio invece che Claudio e Merone invece che Nerone. In seguito, quando già era principe, nell'epoca in cui riformava i pubblici costumi, passò una notte e due giorni di seguito bevendo e banchettando con Pomponio Flacco e Lucio Pisone, e subito dopo affidò al primo il governo della Siria e nominò il secondo prefetto dell'Urbe, dicendoli, anche nei mandati di nomina, amici piacevolissimi e di tutte le ore. Accettò un invito da Sestio Gallio - il quale era un vecchio prodigo e libidinoso che Augusto, in altri tempi, aveva bollato d’infamia, e che egli stesso aveva rimproverato qualche giorno prima in Senato -, a condizione che nulla mutasse o togliesse delle proprie abitudini e che la cena venisse servita da ragazzine nude. Preferì per la questura un candidato ignoto ad altri di origine nobilissima, perché durante un banchetto questi aveva bevuto un'intera anfora di vino che gli aveva fatto servire. Regalò duecentomila sesterzi ad Asellio Sabino, per un dialogo dove il fungo, il beccafico, l'ostrica e il tordo si contendevano la palma. Creò infine una nuova magistratura, quella dei piaceri, e ne mise a capo il cavaliere romano Tito Cesonio Prisco.
[47] Cesare Grassi, Ambiguità di Tacito, p. 27.
[48] Cesare Grassi, Ambiguità di Tacito, pp. 29-31.
[49] Ibidem, p. 38.
[50] La traduzione dei passi di Dione Cassio è di A. F. Moretti.
[51] A. Momigliano, Osservazioni sulle fonti, p. 294.
[52] Ibidem.
[53] A. Momigliano, Osservazioni sulle fonti, p. 295.
[54] “Storia romana”.
[55] Eppure non mancarono le persone che, per lungo tempo, adornarono la sua tomba con fiori dell’estate e con quelli di primavera, e che esposero ai Rostri delle sue statue vestite con la pretesta, e dei suoi editi in cui, come se fosse stato ancora vivo dichiarava che tra poco sarebbe tornato con grave danno per i propri nemici.
[56] A. Momigliano, Osservazioni sulle fonti, p. 297.
[57] Un giorno, anzi, avvenne che, mentre i legati degli Armeni peroravano dinanzi a Nerone la causa della loro gente, Agrippina si preparò a salire sul palco dell’imperatore e a sedergli vicino, quando Seneca, mentre tutti erano inchiodati dalla paura, si affrettò ad avvertire Nerone.
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[59] Indusse a recitare sulla scena i discendenti delle nobili famiglie spinti dal bisogno di vendersi: il nome di costoro, anche se morti, ormai, io non citerò, poiché credo che ai loro avi spetti questo riguardo.
kaˆ OÙaler…ouj ktl.
[61] una tra di esse a Tigellino che insisteva, rispose che il sesso di Ottavia era più casto della bocca di lui.
kaˆ stÒmatoj œcei.
[63] Nel mezzo su di una tribuna stava una curule e sulla sedia era posata la statua di Nerone. A questa si diresse Tiridate, che, fatti i sacrifici rituali, toltosi la corona dal capo e la depose ai piedi della statua, in mezzo alla generale commozione.
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[65] Si ricordò del fatto che Epicari era in carcere, e pensando che quel corpo di donna non avrebbe resistito ai tormenti, comandò di straziarla con la tortura. Ma quella non fu piegata né dalle percosse, né dal fouco, né dall’ira…; Epicari negò tutto.
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[67] Interrogato da Nerone [Subrio Flavio] perché avesse tradito il giuramento militare: «Ti odiavo», rispose, «nessun soldato ti fu più fedele di me, finché tu meritavi di essere amato: ho cominciato ad odiarti il giorno che tu sei apparso omicida della madre e della moglie, auriga, istrione ed incendiario».
kaˆ dÚnamai.
[69] A Nerone che gli chiedeva perché aveva congiurato per ucciderlo, rispose brevemente che in nessun altro modo sarebbe possibile porgergli aiuto dopo tanti delitti.
™ke‹noj sdun£mhn.
[71] Tale risentimento era tanto più aspro in quanto lo stesso Trasea in Padova, dove era nato, aveva cantato in paludamento da tragedia nelle solenni celebrazioni in onore del troiano Antenore.
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[73] Non aveva mai fatto sacrifici propiziatori per la salute del principe o per la sua divina voce.
Öti ¥lloi.
[75] Qui, dopo aver venerato gli dèi, essendo entrato anche nel tempio di Vesta, all’improvviso si mise a tremare per tutte le membra, sia che fosse preso da terrore alla presenza del nume, sia che non lo abbandonasse mai lo spaventoso ricordo dei delitti commessi, desistette perciò…
[76] Ma rinunciò al primo [viaggio] il giorno stesso della partenza, turbato da uno scrupolo religioso e da un pericolo. Infatti, dopo aver fatto il giro dei templi, si era seduto in quello di Vesta, e quando aveva voluto alzarsi si era sentito trattenere per il lembo della toga; quindi gli calò davanti agli occhi una nebbia così fitta da non veder più nulla,
[77] Ad un tribuno che, secondo l’uso militare, chiedeva a lui la parola d’ordine, Nerone rispose «Ottima madre».
[78] Nel primo giorno del proprio impero diede persino come parola d’ordine al tribuno di guardia: «Ottima madre».
[79] Nerone in quell’anno inaugurò una palestra, fece distribuire olio per gli esercizi atletici ai cavalieri ed ai senatori, con la liberalità del Greci.
[80] Quando dedicò le terme e il ginnasio, offrì gratuitamente l’olio anche ai senatori e ai cavalieri.
[81] Egli stesso presenziò avvolto in uno splendido mantello, mentre non lontano stava Agrippina ricoperta da una clamide dorata.
¼ te ™kosm»qh.
[83] Noi abbiamo visto Agrippina, moglie dell’imperatore Claudio, che, nell’occasione in cui egli allestì uno spettacolo di battaglia navale, stava seduta accanto a lui e indossava un mantello militare intessuto d’oro.
[84] Sotto il consolato di Nerone e L. Pisone, essendo Nerone console per la seconda volta, pochi fatti avvennero degni di memoria; a meno che piaccia riempire volumi per lodare le fondamenta e le travature, con le quali Cesare aveva fatto innalzare la mole dell’anfiteatro presso il Campo di Marte.
[85] L’albero di maggiori dimensioni che sia mai esistito fino ai tempi nostri è ritenuto quello che fu visto a Roma quando l’imperatore Tiberio lo fece esporre per la sua straordinaria grandezza; si conservò fino a quando fu costruito l’anfiteatro di Nerone. Era una trave di larice, lunga 120 piedi, con uno spessore uniforme di due piedi; misure che rendevano quasi incredibile l’altezza complessiva dell’albero, calcolando quanto doveva elevarsi fino alla sommità.
[86] A. Momigliano, Osservazioni sulle fonti, p. 330.
[87] Noi, decisi a seguire l’opinione comune degli storici, riferiremo i nomi di quelli fra loro che narrano le cose diversamente
[88] Intanto Pisone sarebbe stato in attesa presso il tempio di Cerere, dal quale il prefetto del pretorio Fenio e gli altri, dopo essere andati a prenderlo, lo avrebbero portato alla caserma dei pretoriani, accompagnato da Antonia, figlia di Claudio, al fine di attrarre a sé il favore della plebe, secondo quanto racconta C. Plinio. Non abbiamo comunque ritenuto di dover tacere questa notizia, in qualunque modo sia nata, per quanto ci sia sembrato assurdo che Antonia avesse voluto porre in pericolo il suo nome, affidandolo ad una incerta speranza o che…
[89] A. Momigliano, Osservazioni sulle fonti, p. 332.
[90] Ibidem.
[91] Non sarebbe stato giudice in tutti i processi.
[92] Nulla in casa sua sarebbe stato posto in vendita o alla mercé dei favoriti.
[93] La corte sarebbe stata distinta dal Senato.
[94] Il senato avrebbe dovuto conservare le antiche sue competenze… egli da parte sua avrebbe provveduto agli eserciti affidatigli.
[95] Sopravviveva ancora una certa parvenza di repubblica.
[96] G. F. Gianotti – A. Pennacini, Società e comunicazione letteraria in Roma antica, III, Torino 1981, p. 127.
[97] La paga delle truppe era fissata in 150 denari all’anno sotto Auguto; si passò a 225 con Tiberio, a 300 con Domiziano, a 375 con Commodo, a 500 con Settimio Severo.
[98] Esaminando nel dettaglio la natura della monetazione romana imperiale si osserva che dal contenuto metallico quasi puro dell’età augustea, la quantità di argento del denarius fu abbassata del 10% con Nerone, del 15% con Traiano, del 25% con Marco Aurelio, del 33% con Commodo e del 50% con Settimio Severo.
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