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Catullo - Liber Catullianus




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Catullo - Liber Catullianus

Carmen I


Cui dono lepidum novum libellum
arida modo pumice expolitum
Corneli, tibi: namque tu solebas
meas esse aliquid putare nugas
iam tum, cum ausus es unus Italorum
omne aevum tribus explicare cartis
doctis, Iuppiter, et laboriosis.
Quare habe tibi quidquid hoc libelli
qualecumque, quod, o patrona virgo,
plus uno maneat perenne saeclo.

A chi posso donare il nuovo grazioso libretto or ora levigato dalla ruvida pomice? A te, Cornelio: e infatti tu eri solito che le mie inezie valessero qualcosa, già da quando osasti, solo degli Italici, esporre tutta la storia in tre libri dotti, o Giove, ed elaborati. Perciò accetta questo libretto, qualuncque sia la sua lunghezza e il suo valore; e questo, o vergine protettrice, possa durare più a lungo di una generazione.


Carme II


Passer, deliciae meae puellae,
quicum ludere, quem in sinu tenere,
cui primum digitum dare appetenti
et acris solet incitare morsus,
cum desiderio meo nitenti
carum nescio quid lubet iocari
et solaciolum sui doloris,
credo ut tum gravis acquiescat ardor:
tecum ludere sicut ipsa possem
et tristis animi levare curas!

O passero, gioia della mia ragazza, con cui (ella) è solita giocare, che (lei è solita) tener in grembo, a cui lei (è solita) dar (da beccare) la punta del dito a lui che la reclama, e provocarne irose beccate, quando allo splendente oggetto del mio desiderio piace fare per scherzo non so che di dilettevole e di conforto al suo dolore, credo, perché si plachi l'insopportabile bruciare; potessi io giocare con te come fa lei, e sollevare i tristi tormenti dell'animo!


Carmen III


Lugete, o Veneres Cupidinesque,
et quantum est hominum venustiorum:
passer mortuus est meae puellae,
passer, deliciae meae puellae,
quem plus illa oculis suis amabat.
nam mellitus erat suamque norat
ipsam tam bene quam puella matrem,
nec sese a gremio illius movebat,
sed circumsiliens modo huc modo illuc
ad solam dominam usque pipiabat.
qui nunc it per iter tenebricosum
illuc, unde negant redire quemquam.
at vobis male sit, malae tenebrae
Orci, quae omnia bella devoratis:
tam bellum mihi passerem abstulistis
o factum male! o miselle passer!
tua nunc opera meae puellae
flendo turgiduli rubent ocelli.

Piangete, o Veneri e Amorini, quanto vi è di uomini dal cuore assai gentile. È morto il passero della mia fanciulla, il passero, delizia della mia fanciulla, che ella amava più dei propri occhi; infatti era tenero, e conosceva la sua padrona bene come la fanciulla (conosceva) la madre, e non si muoveva dal suo grembo, ma saltellando ora qua ora là fino alla padrona sempre pigolava. Esso ora va per il cammino tenebroso lì da dove negano a chiunque di ritornare. Ma siate maledette, malvage tenebre dell'Orco, che divorate tutto ciò che è grazioso; mi avete portato via un passero tanto grazioso. O disgrazia! O povero passerotto! Ora per colpa tua gli occhi della mia fanciulla sono rossi, gonfi di pianto.


Carmen V


Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis!
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus inuidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.

Viviamo, mia Lesbia, e amiamo(ci) (alcuni interpretano 'facciamo l'amore'), e valutiamo le chiacchiere dei vecchi troppo bacchettoni un soldo appena. I giorni (lett: i soli) possono tramontare e sorgere: (ma) noi, una volta tramontata la giornata della vita, (noi) dobbiamo dormire una sola continua notte. Dammi mille baci, poi cento, quindi altri mille, poi ancora cento, quindi un'altra volta mille, poi cento. (E) dopo, quando ne avremo contati molte migliaia, li rimescoleremo, per non riconoscerli, o perché nessun maligno possa gettare il malocchio, ché sa che tanti posson essere (lett: sono) i baci


Carmen VII


Quaeris, quot mihi basiationes
tuae, Lesbia, sint satis superque.
quam magnus numerus Libyssae harenae
lasarpiciferis iacet Cyrenis
oraclum Iovis inter aestuosi
et Batti veteris sacrum sepulcrum;
aut quam sidera multa, cum tacet nox,
furtivos hominum vident amores:
tam te basia multa basiare
vesano satis et super Catullo est,
quae nec pernumerare curiosi
possint nec mala fascinare lingua.

Mi chiedi, Lesbia, quanti tuoi baci siano per me più che abbastanza. Quanto grande (è) il numero delle sabbie libiche a Cirene fertile di silfio, tra l'oracolo di Giove fiammeggian e il sacro sepolcro dell'antico Batto, o quanto numerose (sono) le stelle, quando la notte tace, (e) vedono i furtivi amori degli uomini, che tu dia altrettanti numerosi baci è più che abbastanza per il folle Catullo, (tanti) che né i curiosi possano contare né le lingue (possano) gettare il malocchio.


Carmen VIII


Miser Catulle, desinas ineptire,# et quod vides perisse perditum ducas.
Fulsere quondam candidi tibi soles,
cum ventitabas quo puella ducebat
amata nobis quantum amabitur nulla.
Ibi illa multa cum iocosa fiebant,
quae tu volebas nec puella nolebat,
fulsere vere candidi tibi soles.
Nunc iam illa non vult: tu quoque impotens noli,
nec quae fugit sectare, nec miser vive,
sed obstinata mente perfer, obdura.
Vale puella, iam Catullus obdurat,
nec te requiret nec rogabit invitam.
At tu dolebis, cum rogaberis nulla.
Scelesta, uae te, quae tibi manet uita?
Quis nunc te adibit? cui videberis bella?
Quem nunc amabis? Cuius esse diceris?
Quem basiabis? Cui labella mordebis?
At tu, Catulle, destinatus obdura.

Povero Catullo, smetti di fare il pazzo, e considera ciò che vedi perduto perduto per sempre. Brillarono un giorno per te splendidi giorni di sole, quando te ne andavi dove la tua ragazza (ti) portava, amata da me quanto non sarà amata nessuna. Allora lì si facevano molti giochi d'amore, che tu volevi e (che) la ragazza non rifiutava. Splendevano davvero per te giorni luminosi. Ora lei non vuole più: e anche tu, che non puoi farci nulla, non volere, e non inseguire colei che fugge, e non vivere miseramente, ma sopporta con mente ferma, resisti. Addio, fanciulla. Catullo ormai resiste, e non ti cercherà, non ti chiederà a te che non vuoi; ma tu sarai addolorata, quando non sarai chiesta da nessuno. Sciagurata, mal per te! Che vita ti rimane? Chi ora si avvicinerà a te? A chi sembrerai bella? Ora chi amerai? Di chi si dirà che tu sia (la ragazza)? Chi bacerai? A chi mordicchierai le labbra? Ma tu, Catullo, risoluto resisti.


Carmen IX


Verani, omnibus e meis amicis
antistans mihi milibus trecentis,
venistine domom ad tuos penates
fratresque unanimos anumque matrem?
Venisit. O mihi nuntii beati!
Visam te incolumem audiamque Hiberum
narrantem loca, facta, nationes,
ut mos est tuus applicansque collum
iucundum os oculosque suaviabor?
O quantum est hominum beatiorem,
quid me laetius est beatiusvne?

Veranio, primo per me fra tutti i miei trecento mila amici (altra interpretazione: 'che fra tutti i miei amici per me sei avanti di trecento miglia'), sei tornato a casa dai tuoi Penati e dai fratelli unanimi (nell'affetto per te) e dalla vecchia madre. O notizia per me felice! Ti verrò a vedere incolume, e (ti) sentirò mentre parli dei paesi, delle imprese, dei popoli della spagna, come è tuo solito, e avvicinando a me il tuo collo ti bacerò il viso giocondo e gli occhi. Voi tutti uomini che siete felici, chi fra gli uomini è più felice di me?


Carmen XI


Furi et Aureli comites Catulli,
sive in extremos penetrabit Indos,
litus ut longe resonante Eoa
tunditur unda,

sive in Hyrcanos Arabesue molles,
seu Sagas sagittiferosue Parthos,
sive quae septemgeminus colorat
aequora Nilus,

sive trans altas gradietur Alpes,
Caesaris visens monimenta magni,
Gallicum Rhenum horribile aequor
ultimosque Britannos,

omnia haec, quaecumque feret voluntas
caelitum, temptare simul parati,
pauca nuntiate meae puellae
non bona dicta.

cum suis vivat valeatque moechis,
quos simul complexa tenet trecentos,
nullum amans vere, sed identidem omnium
ilia rumpens;

nec meum respectet, ut ante, amorem,
qui illius culpa cecidit uelut prati
ultimi flos, praetereunte postquam
tactus aratro est.

Furio e Aurelio, compagni di Catullo,
sia che voglia andare dagli Indi ai confini del mondo,
dove la costa è battuta dall'onda
orientale lungisonante,

sia dagli Ircani o dagli Arabi effeminati,
sia dai Saci o dai Prti armati di fracce,
sia (presso) le acque che il Nilo
dalle sette foci colora,

Sia che (Catullo) oltrepassi le alte Alpi,
per visitare i luoghi che ricordano le imprese di Cesare,
il Gallico Reno, e i selvaggi
Britanni, i più selvaggli (fra gli uomini)

pronti ad affrontare con me tutte queste cose
tutte quelle che porterà da volontà degli dei
riferite alla mia ragazza queste poche,
amare parole.

Viva e stia bene con i suoi amanti,
che (ella) abbraccia e possiede trecento alla volta
(lei che) nessuno ama davvero, e senza tregua
rompe i fianchi a tutti (lett: di tutti);

e non conti più, come prima, sul mio amore,
che per colpa sua è caduto, come un fiore
al margine d'un prato dopo che è stato toccato
dall'aratro che passava


Carmen XII


Marrucine Asini, manu sinistra
non belle uteris: in ioco atque vino
tollis lintea neglegentiorum.
Hoc salsum esse putas? Fugit te, inepte:
quamvis sordida res et invenusta est.
Non credis mihi? Crede Pollioni
fratri, qui tua furta vel talento
mutari velit - est enim leporum
differtus puer ac facetiarum.
Quare aut hendecasyllabos trecentos
exspecta, aut mihi linteum remitte,
quod me no movet aestimatione,
verum est mnemosynum mei sodalis.
Nam sudaria Saetaba ex Hiberis
miserunt mihi muneri Fabullus
Et Veranius; haec amem necesse est
ut Veraniolum meum et Fabullum.

Asino Marrucino, fai un uso non molto fine della mano sinistra nel gioco e nel vino: rubi i fazzoletti degli sbadati. Pensi che questo sia spiritoso? Ti inganni, sciocco: è una cosa quanto vuoi squallida e grossolana. Non mi credi? Credi a (tuo) fratello Pollione, che vorrebbe ripagare i tuoi furti anche con un talento (più libero: ' darebbe un capitale per'): è infatti un ragazzo che di buon gusto e di spirito se ne intende. Perciò, aspettati trecento endecasillabi o dammi indietro il fazzoletto; e questo non mi colpisce per il valore (che ha), ma è un ricordo di un mio amico. Infatti Fabullo e Veranio mi hanno mandato in regalo dalla Spagna dei fazzoletti di Setabi; io devo amarli come amo il mio piccolo Veranio e Fabullo.


Carmen XIII


Cenabis bene, mi Fabulle, apud me
paucis, si tibi di favent, diebus,
si tecum attuleris bonam atque magnam
cenam, non sine candida puella
et vino et sale et omnibus cachinnis.
Haec si, inquam, attuleris, venuste noster,
cenabis bene; nam tui Catulli
plenus sacculus est aranearum.
Sed contra accipies meros amores,
seu quid suavius elegantiusve est:
nam unguentum dabo, quod meae puellae
donarunt Veneres Cupidinesque;
quod tu cum olfacies, deos rogabis
totum ut te faciant, Fabulle, nasum.

Mangerai bene, mio Fabullo, presso di me fra pochi giorni, se gli dei ti sono favorevoli, se con te porterai un buon e grande pranzo, non senza una candida fanciulla e il vino e il sale e allegria di ogni genere: se io dico, porterai tutto, cenerai bene, bello mio; infatti il borsellino del tuo Catullo è pieno di ragnatele. ma in compenso, riceverai sincera amicizia o se c'è qualcosa di più gradevole o di più raffinato: ti darò infatti un profumo, che alla mia fanciulla donarono le veneri e gli amorini. Quando lo annuserai pregherai gli dei che ti facciano (diventare) tutto naso, Fabullo.


Carmen XXVI


Furi, villula vestra non ad Austriflatus
opposita est neque ad Favoni
nec saevi Boreae aut Apheliotae,
verum ad milia quindecim et ducentos.
O ventum horribilem atque pestilentem!

Furio, la vostra casetta non è esposta allo spirare dell'Austro né a quello del Favonio, ne del furioso Borea o dell'Afeliota, ma a quindicimila e duecento (sesterzi di cambiali). O che vento terribile e dannoso!


Carmen XXXI


Paene insularum, Sirmio, Insularumque
ocelle, quascumque in liquentibus stagnis
marique vasto fert uterque neptunus,
quam te libenter quamque laetus inviso,
vix mi ipse credens Thyniam atque Bithynos
liquisse campos et videre te in tuto.
O quid solutis est beatius curis,
cum mens onus reponit, ac peregrino
labore fessi venimus larem ad nostrum,
desideratoque acquiescimus lecto?
Hoc est quod unum est pro laboribus tantis.
Salve, o venusta Sirmio, atque ero gaude
gaudente; vosque, o Lydiae lacus undae,
ridete quidquid est dome cachinnorum.

Sirmione, perla delle penisole e delle isole, tutte quelle che nei limpidi laghi e nel vasto mare sostiene il duplice Nettuno, quanto volentieri e quanto lieto torno a rivederti, a stento credendo a me stesso di aver abbandonato la Tinia e i campi Bitini e di vederti al sicuro. Oh, che cosa dà più gioia che l'essere liberati dagli affanni, quando la mente abbandona il suo peso e, stanchi per le fatiche di un viaggio in terra straniera, giungiamo alla nostra casa e riposiamo nel sospirato letto! È questo che da solo compensa così grandi fatiche. Salve, o vecchia Sirmione, e sii felice per il tuo padrone e siate felici voi, o acque del lago lidio (lett: acque lidie del lago): ridete quante risate avete in voi.


Carmen XXXVIII


Malest, Cornifici, tuo Catullo
malest, me hercule, et laboriose,
et magis magis in dies et horas.
Quem tu, quod minimum facillimumque est,
qua solatus es allocutione?
Irascor tibi. Sic meos amores?
Paulum quid lubet allocutionis,
maestius lacrimis Simonideis.

Il tuo Catullo, o Cornificio, sta male
sta male, per Ercole, e soffre,
e sempre di più di giorno in giorno e di ora in ora.
E tu, con quale frase mi hai consolato,
cosa che è molto facile e di poco impegno?
Sono arrabbiato con te. Così (consideri) i miei amori?
È gradito un po' di conforto,
più triste delle lacrime di Simonide.


Carmen XLIII


Salve, nec minimo puella naso
nec bello pede nec nigris ocellis
nec longis digitis nec ore sicco
nec sane nimis elegante lingua.
Decoctoris amica Formiani,
ten provincia narrat esse bellam?
Tecum Lesbia nostra comparatur?
O saeclum insapiens et infacetum!

Salve, ragazza, non (hai) il naso piccolo,
né il piede bello, né gli occhi neri,
né le dita lunge, né la bocca stretta,
né un modo di parlare preciso o troppo elegante,
amica di Formiano il fallito.
E in provincia si dice che sei bella,
e ti paragonano alla mia Lesbia? O tempi ignoranti e grossolani!


Carmen XLVI


Iam ver egelidos refert tepores,
iam caeli furor aequinoctalis
iucundis Zephyri silescit aureis.
Linquantur Phrygii, Catulle, campi
nicaeaeque ager uber aestuosae:
ad claras asiae volemus urbes.
Iam mens praetrepidans avet vagari,
iam laeti studio pedes vigescunt.
O dulces comitum valete coetus,
longe quos simul a domo profectos
diversae varie viae reportant.

Già la primavera riporta i miti tepori, già si zittisce la furia del cielo equinoziale, al lieto spirare di Zefiro. Si Lascino, o Catullo, i campi Frigi e la campagna fertile di Nicea infuocata: voliamo verso le luminose città dell'Asia. Ormai l'anima trepidante brama di andare, ormai i piedi, gioiosi per il desiderio, rinvigoriscono. Addio, o dolci compagnie di aamici, che partiti insieme dalla patria per mete lontane adesso strade varie e per diverse direzioni riportano in patria.


Carmen XLIX


Disertissime Romuli nepotum,
quot sunt quotque fuere, Marce Tulli,
quotque post aliis erunt in annis,
gratias tibi maximas Catullus
agit pessimus omnium poeta,
tanto pessimus omnium poeta,
quanto tu optimus omnium patronus.

O facondissimo tra i discendenti di Romolo, quanti, Marco Tullio, esistono e quanti sono esistiti, e quanti esisteranno negli anni futuri, ti ringrazia moltissimo Catullo, il peggior poeta di tutti, tanto peggior poeta di tutti, quanto tu fra tutti il miglior avvocato.


Carmen LI


Ille mi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos,
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit
dulce ridentem, misero quod omnis
eripit sensus mihi: nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi
vocis in ore,
lingua sed torpet, tenuis sub artus
flamma demanat, sonitu suopte
tintinant aures, gemina et teguntur
lumina nocte.
Otium, Catulle, tibi molestum est:
otio exsultas nimiumque gestis:
otium et reges prius et beatas
perdidit urbes.

Mi sembra che sia simile ad un Dio
O se è lecito, più di un Dio
Colui che, sedendoti accanto
Ti osserva e ti ascolta ridere
Dolcemente; e ciò a me misero
Strappa ogni sensazione: infatti
Quando ti guardo, Lesbia,
non mi rimane neanche un po'
di voce, ma la lingua si intorpidisce,
un fuoco sottile mi cola nelle ossa
le orecchie mi ronzano
e i due occhi si coprono di notte.


Carmen LII


Quid est, Catulle? quid moraris emori?
sella in curuli struma Nonius sedet,
per consulatum peierat Vatinius:
quid est, Catulle? quid moraris emori?

Che c'è, Catullo? Che aspetti a morire? Sulla sedia curule siede Nonio lo scrofoloso, per il consolato spergiura Vatinio: che c'è, Catullo? Che aspetti a morire?


Carmen LVIII


Caeli, Lesbia nostra, Lesbia illa.
illa Lesbia, quam Catullus unam
plus quam se atque suos amavit omnes,
nunc in quadriviis et angiportis
glubit magnanimi Remi nepotes.

O Celio, la mia Lesbia, quella Lesbia, proprio quella Lesbia, che Catullo amò lei sola più di sé stesso e di tutti i suoi, ora scortica nei quadrivi e nei bordelli i discendenti del magnanimo Remo (più libero.: 'fa la puttana')


Carmen LXIX


Noli admirari quare tibi femina nulla,
Rufe, velit tenerum supposuisse femer,
non si illam rarae labefactes munere vestis
aut perluciduli deliciis lapidis.
laedit te quaedam mala fabula, qua tibi fertur
valle sub alarum trux habitare caper.
hunc metuunt omnes; neque mirum: nam mala valdest
bestia, nec quicum bella puella cubet.
quare aut crudelem nasorum interfice pestem,
aut admirari desine cur fugiant.

Non ti stupire del fatto che a te, Rufo, nessuna donna
vuole concederti il tenero corpo,
nemmeno se la tenti col dono prezioso
di una veste o la malia di un gioiello.
Ti danneggia una certa cattiva storiella, per la quale si dice che a te
sotto le ascelle abita un orrido caprone.
Tutte temono questo. Niente di strano: infatti è una mala
bestia, e una bella donna non dorme con lui.
Perciò o allontana la crudele pesta dei nasi,
o smetti di stupirti su perché fuggono.


Carmen LXX


Nulli se dicit mulier mea nubere malle
quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat.
dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti,
in vento et rapida scribere oportet aqua.

La mia donne dice che preferisce non sposare nessuno
se non me, neppure se la volesse Giove in persona.
Dice: ma ciò che la donna dice all'innamorato
scrivilo (lett: bisogna scriverlo) nel vento e nell'acqua che scorre.


Carmen LXXII


Dicebas quondam solum te nosse Catullum,
Lesbia, nec prae me velle tenere Iouem.
dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,
sed pater ut gnatos diligit et generos.
nunc te cognovi: quare etsi impensius uror,
multo mi tamen es vilior et levior.
qui potis est, inquis? quod amantem iniuria talis
cogit amare magis, sed bene velle minus.

Una volta dicevi che conoscevi solo Catullo, o Lesbia, e che al posto mio non avresti voluto tenere Giove. Allora ti amai non soltanto come la gente (ama) l'amante, ma come il padre ama i figli e i generi. Ora ti ho conosciuto: perciò, anche se brucio di più, vali per me molto meno (lett.: se per me più vile e insignificante). 'Come è possibile?' dirai. Perché una tale offesa costringe l'amante ad amare di più, ma a voler bene di meno.


Carmen LXXV


Huc est mens deducta tua mea, Lesbia, culpa
atque ita se officio perdidit ipsa suo,
ut iam nec bene velle queat tibi, si optima fias,
nec desistere amare, omnia si facias.

A questo punto, Lesbia mia, la tua colpa mi ha fatto cambiare idea (lett: ha così trascinato la mente) e ha portato me stesso alla rovina con la propria fedeltà, così da non potere né volerti bene se tu diventassi la migliore (delle donne), né smettere di amarti, qualunque cosa (tu) faccia.


Carmen LXXXIII


Lesbia mi praesente viro mala plurima dicit:
haec illi fatuo maxima laetitia est.
mule, nihil sentis? si nostri oblita taceret,
sana esset: nunc quod gannit et obloquitur,
non solum meminit, sed, quae multo acrior est res,
irata est. hoc est, uritur et loquitur.

Lesbia dice moltissime cose di male a me in presenza del marito:
queste cose per quello sciocco sono (motivo di) massima gioia.
O mulo, non capisci niente? Se, dimentica di me, tacesse,
sarebbe guarita: ora poiché brontola e parla male,
non solo si ricorda, ma, cosa che è molto più grave,
è arrabbiata. Cioè, parla e brucia.


Carmen LXXXIV


Chommoda dicebat, si quando commoda vellet
dicere, et insidias Arrius hinsidias,
et tum mirifice sperabat se esse locutum,
cum quantum poterat dixerat hinsidias.
Credo, sic mater, sic liber avunculus eius,
sic maternus avus dixerat atque avia.
Hoc misso in Syriam requierant omnibus aures:
audibant eadem haec leniter et leviter,
nec sibi postilla metuebant talia verba,
cum subito affertur nuntius horribilis:
Ionios fluctus, postquam illuc Arrius isset,
iam non Ionios esse sed Hionios.

Arrio diceva 'homodi' quando voleva dire
'comodi', e 'hinsidie' (quando voleva dire) 'hinsidie',
e allora sperava d'aver parlato in modo sorprendente,
quando aveva detto 'hinsidie' più che poteva.
Così aveva parlato la madre, credo, così suo zio materno,
così il nonno materno e la nonna.
Mandato questo in Siria, le orecchie riposavano in tutti:
sentivano le stesse parole pronunciate correttamente e senze difficoltà,
e per il futuro non si temevano più tali parole,
ma ad un tratto si porta una notizia terribile,
il mare Ionio, dopo che c'è andato Arrio,
non è più 'Ionio', ma 'Hionio'.


Carmen LXXXV


Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Odio e amo. Come possa fare, forse chiedi.
Non (lo) so, ma sento che accade, e soffro.


Carmen XCII


Lesbia mi dicit semper male nec tacet umquam
de me: Lesbia me dispeream nisi amat.
quo signo? quia sunt totidem mea: deprecor illam
assidue, verum dispeream nisi amo.

Lesbia parla sempre male di me e non tace mai
a proposito di me: possa io morire se Lesbia non mi ama.
Per quale segno (lo capisco)? Perché i miei (segni) sono gli stessi: la insulto
continuamente, ma possa morire se non (la) amo.


Carmen XCIII


Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere,
nec scire utrum sis albus an ater homo.

Non m'importa troppo, o Cesare, di volerti piacere, né sapere se sei un uomo bianco o nero.


Carmen XCV


Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem
quam coepta est nonamque edita post hiemem,
milia cum interea quingenta Hortensius uno
. . . . . . . . .
Zmyrna cavas Satrachi penitus mittetur ad undas,
Zmyrnam cana diu saecula pervoluent.
at Volusi annales Paduam morientur ad ipsam
et laxas scombris saepe dabunt tunicas.
. . . . . . . . .
Parva mei mihi sint cordi monimenta ,
at populus tumido gaudeat Antimacho.

La Zmyrna del mio Cinna dopo nove estati e dopo nove inverni
che è stata cominciata è stata infine pubblicata,
mentre Ortensio (ha scritto) cinquecentomila versi in un solo (anno)
. . . . . . . . .
La Zmyrna sarà mandata profondamente fino alle onde del Satraco,
La Zmyrna per lungo tempo leggeranno le vecchie generazioni.
Ma gli annali di Volusio moriranno sulla stessa Padova
e spesso forniranno tuniche abbondanti per gli sgombri.
. . . . . . . . .
Che i piccoli capolavori del mio (amico) mi stiano a cuore ,
al contrario, che il pubblico esalti il gonfio Antimaco.


Carmen CI


Multas per gentes et multa per aequora vectus
advenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam alloquerer cinerem.
Quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum.
Heu miser indigne frater adempte mihi,
nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum
tradita sunt tristi munere ad inferias,
accipe fraterno multum manantia fletu,
atque in perpetuum, frater, ave atque vale.

Dopo aver viaggiato per molti popoli e per molti mari sono qui giunto per queste tristi offerte, per offrirti l'estremo dono di morte e per rivolgere invano la parola al tuo cenere muto, dal momento che la sorte mi ha strappato proprio te, ahimé, o sventurato fratello, crudelmente tolto a me! Ora tuttavia accogli queste (offerte) che secondo l'antico uso dei genitori sono state tramandate con doloroso rito per le offerte funebri, (e che sono) bagnate dal pianto di (tuo) fratello, e per sempre, fratello, addio, addio.


Carmen CIX


Iucundum, mea vita, mihi proponis amorem
hunc nostrum inter nos perpetuumque fore.
di magni, facite ut vere promittere possit,
atque id sincere dicat et ex animo,
ut liceat nobis tota perducere vita
aeternum hoc sanctae foedus amicitiae.

O cara, tu mi prometti che il nostro amore sarà felice e perpetuo fra noi. Grandi dei, fate che possa promettere realmente e che parli sinceramente e dal cuore, perché ci sia possibile far durare per tutta la vita un patto di amicizia giurata.



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