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CONTRO L. CATILINA vol.1
Capitolo I
Fino a che punto, Catilina, approfitterai della nostra pazienza? Per quanto tempo ancora la tua pazzia si farà beffe di noi? A che limiti si spingerà una temerarietà che ha rotto i freni? Non ti hanno turbato il presidio notturno sul Palatino, le ronde che vigilano in città, la paura della gente, l'accorrere di tutti gli onesti, il riunirsi del Senato in questo luogo sorvegliatissimo, l'espressione, il volto dei presenti? Non ti accorgi che il tuo piano è stato scoperto? Non vedi che tutti sono a conoscenza della tua congiura, che la tengono sotto controllo? O ti illudi che qualcuno di noi ignori cos'hai fatto ieri notte e la notte ancora precedente, dove sei stato, chi hai convocato, che decisioni hai preso?
Questi i tempi! Questo il malcostume! Il Senato conosce l'affare, il console lo vede, ma lui è vivo. È vivo? Addirittura si presenta in Senato, prende parte alla seduta, indica e marchia con lo sguardo chi ha destinato alla morte. E noi, uomini di coraggio, crediamo di fare abbastanza per lo Stato se riusciamo a schivare i pugnali di un pazzo! A morte, Catilina, già da tempo dovevamo condannarti per ordine del console e ritorcerti addosso la rovina che da tempo prepari contro noi tutti!
Ma come? Un uomo della massima autorità come Publio Scipione, il pontefice massimo, fece uccidere senza mandato pubblico Tiberio Gracco, che minacciava solo in parte la stabilità dello Stato, e noi consoli dovremo continuare a sopportare Catilina, smanioso di distruggere, di mettere a ferro e a fuoco il mondo intero? Non voglio ricordare il passato, episodi come quello di Caio Servilio Ahala che uccise con le sue mani Spurio Melio, il rivoluzionario. Ci fu, ci fu un tempo tanto valore nello Stato che uomini impavidi punivano il concittadino ribelle con maggiore severità del più implacabile dei nemici! Abbiamo un decreto senatoriale contro di te: è di estrema durezza. Allo Stato non mancano né l'intelligenza né la fermezza dell'ordine senatorio: manchiamo noi, noi, i consoli, lo dico apertamente.
Capitolo II
Decretò un tempo il Senato di affidare al console Lucio Opimio il compito di vigilare sulla sicurezza dello Stato. Non passò una notte e fu soppresso Caio Gracco, per quanto suo padre, suo nonno e i suoi avi fossero stati uomini gloriosi, solo perché era sospettato di sovversione; anche l'ex console Marco Fulvio fu ucciso insieme ai figli. Con un analogo decreto senatoriale furono affidati i pieni poteri ai consoli Caio Mario e Lucio Valerio. Si ritardò forse di un solo giorno l'esecuzione del tribuno della plebe Lucio Saturnino e del pretore Caio Servilio? Eppure da venti giorni lasciamo che si spunti la lama del potere senatoriale. Anche noi disponiamo di un decreto del Senato, ma è chiuso in archivio, come una spada nel fodero. In applicazione a questo decreto dovresti essere già morto, Catilina. Invece sei vivo. Sei vivo non per rinunciare alla tua folle impresa, ma per portarla avanti! Desidero, padri coscritti, esser clemente. Ma non desidero che si pensi che sottovaluto la situazione di estremo pericolo in cui versa lo Stato: perciò, sono il primo ad accusarmi di inerzia e di debolezza.
In Italia, nelle gole dell'Etruria, c'è un esercito accampato contro il popolo romano. Cresce di giorno in giorno il numero dei nemici. Ma il capo di quell'esercito, il comandante dei nemici lo vediamo dentro le nostre mura, anzi, eccolo qui in Senato a preparare, giorno dopo giorno, la rovina interna dello Stato. Se, Catilina, subito ordinassi il tuo arresto e la tua condanna a morte, probabilmente dovrei temere di essere criticato da tutti gli onesti per i miei indugi, non per la mia inflessibilità. Se, però, non mi decido ancora a fare quel che già da tempo era necessario, ho le mie buone ragioni. Morirai solo quando non ci sarà un uomo così corrotto, così perduto, così simile a te da non ammettere che ho agito secondo la legge.
Finché esisterà qualcuno che avrà il coraggio di difenderti, vivrai, sì, ma così come stai vivendo adesso: assediato dalle mie guardie, forti e numerose, che ti impediranno di attentare allo Stato. E poi, gli occhi, le orecchie di molti ti spieranno, ti sorveglieranno così come hanno fatto finora. E tu non te ne accorgerai.
Capitolo III
Allora, Catilina, cosa aspetti ancora se il buio della notte non può nascondere le tue empie riunioni, se neppure le pareti di un'abitazione privata possono contenere le voci della congiura, se tutto emerge, viene alla luce? Cambia idea ormai, dammi retta; dimentica massacri e incendi. Sei braccato da ogni parte. Tutto il tuo piano ci è più chiaro della luce del sole. Se vuoi, ripercorriamolo insieme.
Ricordi? Il 21 ottobre ho dichiarato in Senato che in un giorno ben preciso, cioè il 27 ottobre, Caio Manlio, tuo complice e collaboratore in questa pazzia, avrebbe dato inizio alla rivolta armata. Mi sono forse sbagliato, Catilina, non dico su un'azione di tali proporzioni, così atroce e incredibile, ma, cosa molto più sorprendente, sulla sua data? Sono stato sempre io a denunciare in Senato che avevi stabilito di massacrare gli aristocratici il 28 ottobre, giorno in cui molti dei principali cittadini sono fuggiti da Roma non per cercare scampo, ma per fermare i tuoi piani. Puoi forse negare che proprio quel giorno, bloccato dalle mie misure difensive, non hai potuto attentare allo Stato? E quel giorno non dicevi che ti saresti accontentato di uccidere me, che ero rimasto, mentre tutti gli altri erano partiti?
E quando eri convinto di occupare Preneste di notte, con un colpo di mano, il 1° novembre, non ti sei accorto che, su mio ordine, quella colonia aveva ricevuto i rinforzi della mia guarnigione, delle mie guardie, delle mie sentinelle? Nulla di quanto fai, ordisci, mediti, sfugge alle mie orecchie e ai miei occhi, tanto meno alla mia mente.
Capitolo IV
Rievochiamo insieme i fatti dell'altra notte: capirai subito che sono più risoluto io nel vegliare sulla sicurezza dello Stato che tu sulla sua rovina. Denuncio che l'altra notte ti sei recato in via dei Falcarii (non lascerò nulla nell'ombra) in casa di Marco Leca, dove si erano riuniti molti complici della tua pazzia, della tua scelleratezza. Osi negarlo? Perché taci? Te lo dimostrerò, se neghi. Vedo, infatti, che sono qui in Senato alcuni uomini che erano con te.
O dèi immortali! In che parte del mondo ci troviamo? Che governo è il nostro? In che città viviamo? Qui, sono qui in mezzo a noi, padri coscritti, in questa assemblea che è la più sacra, la più autorevole della terra, individui che meditano la morte di tutti noi, la fine di questa città o piuttosto del mondo intero. Io, il console, li vedo e chiedo il loro parere su questioni politiche: uomini che bisognava fare a pezzi con la spada, non li ferisco nemmeno con la parola. Così, Catilina, sei stato da Leca, quella notte. Hai diviso l'Italia tra i tuoi; hai stabilito la destinazione di ciascuno; hai scelto chi lasciare a Roma e chi condurre con te; hai fissato quali quartieri della città dovevate incendiare; hai confermato la tua partenza imminente; hai detto che avresti aspettato ancora un po' perché ero vivo. Sono stati trovati due cavalieri disposti a liberarti di questa incombenza e a prometterti di uccidermi nel mio letto, quella notte stessa, poco prima dell'alba.
Ho saputo tutto non appena avete sciolto la riunione. Allora ho protetto, difeso casa mia con misure più efficaci; non ho fatto entrare chi, al mattino, avevi inviato a salutarmi: avevo del resto preannunciato a molti autorevoli cittadini che, per quell'ora, costoro si sarebbero recati da me.
Capitolo V
Se le cose stanno così, Catilina, porta a termine quanto hai cominciato! Lascia una buona volta la città! Le porte sono aperte. Vattene! L'accampamento di Manlio, il tuo accampamento, da troppo tempo aspetta te, suo generale. Porta via anche tutti i tuoi; se non tutti, quanti più puoi. Purifica la città! Mi libererai da una grande paura quando ci sarà un muro tra me e te. Non puoi più stare in mezzo a noi! Non intendo sopportarlo, tollerarlo, permetterlo.
Dobbiamo grande riconoscenza agli dèi immortali e a Giove Statore, antichissimo custode della nostra città, per essere sfuggiti ormai molte volte a un flagello così spaventoso, orribile, abominevole per lo Stato. Un solo individuo non dovrà più metterne a repentaglio l'esistenza. Finché, Catilina, hai attentato alla mia vita, quando ero console designato, mi sono difeso ricorrendo a misure private, non alla forza pubblica. Quando poi, in occasione degli ultimi comizi consolari, in pieno Campo Marzio hai cercato di uccidere me, il console, e i tuoi competitori, ho sventato i tuoi tentativi criminali con la protezione e la forza di amici, senza suscitare disordini pubblici. Infine, tutte le volte che hai sferrato un colpo contro di me, l'ho parato con le mie forze: eppure vedevo che la mia fine avrebbe comportato una grave calamità per lo Stato.
Ma ormai attacchi apertamente tutto lo Stato; vuoi portare alla totale distruzione i templi degli dèi immortali, gli edifici di Roma, la vita di tutti i cittadini, l'Italia intera. Perciò, dal momento che non oso ancora fare quel che sarebbe urgente e rientrerebbe nei poteri della mia carica e nella tradizione degli antenati, prenderò un provvedimento meno severo, ma più utile alla sicurezza comune. Se infatti ti condannerò a morte, rimarrà nello Stato il gruppo dei congiurati. Ma se tu, come ti esorto da tempo, te ne andrai, la città si libererà dei tuoi numerosi e infami complici, fogna dello Stato.
E allora, Catilina? Esiti a fare su mio ordine quel che stavi per fare di tua volontà? Il console ingiunge al nemico di lasciare la città. «È esilio», mi chiedi? No, non te lo posso ordinare, ma, se vuoi il mio parere, te lo suggerisco.
Capitolo VI
Del resto, Catilina, cosa può ancora piacerti in questa città, dove non c'è nessuno che non ti tema, nessuno che non ti detesti, tranne gli uomini perduti che aderiscono alla tua congiura? Quale marchio di degradazione morale non è impresso a fuoco sulla tua vita? Quali scandali privati non si legano al tuo nome? Quale oscenità si è mai tenuta lontana dai tuoi occhi, quale delitto dalle tue mani, quale indecenza dal tuo corpo? C'è giovane, da te irretito nei piaceri della depravazione, a cui tu non abbia consegnato il pugnale dell'omicidio o la fiaccola di amori perversi?
E ancora: poco tempo fa, quando ti sei sbarazzato della tua prima moglie per poterti risposare, non hai forse aggiunto a questo un secondo inconcepibile delitto? Non intendo soffermarmi; preferisco tacere perché non sembri che nella nostra città è stato commesso un crimine tanto immane ed è rimasto impunito. Non intendo parlare del tuo dissesto finanziario, che sentirai pesarti addosso alla prossima scadenza dei debiti. Vengo piuttosto a fatti che non riguardano i vergognosi vizi della tua vita privata, né le tue difficoltà economiche, né la tua immoralità, ma gli interessi superiori dello Stato, la vita e la sicurezza di tutti noi.
Come puoi apprezzare, Catilina, la luce o l'aria di questo cielo quando sai che nessuno dei presenti ignora che il 31 dicembre dell'anno del consolato di Lepido e Tullo ti sei presentato armato nel comizio, che avevi predisposto un gran numero di uomini per uccidere i consoli e i maggiori esponenti della città e che alla tua folle impresa non si è opposto un tuo ripensamento o una tua paura, ma la Fortuna del popolo romano? Ebbene, sorvolo anche su questi fatti: non sono ignoti e in seguito ne hai commessi molti altri. Quante volte hai attentato alla mia vita quando ero console designato! Quante volte quando ero entrato in carica! A quanti attacchi sono sfuggito con un leggero scarto del corpo, come si dice, ed erano diretti in modo da sembrare infallibili! Non concludi nulla, non ottieni nulla, eppure non desisti dal tentare e dal volere.
Quante volte ormai questo pugnale ti è stato strappato dalle mani! Quante volte, per caso, ti è caduto, ti è scivolato a terra! [ma non te ne stacchi neppure un momento] A quali misteri tu lo abbia consacrato e dedicato io non so, dal momento che ritieni inevitabile piantarlo nel corpo del console.
Capitolo VII
Dimmi: che vita è adesso la tua? Ti parlerò, ormai, non come se fossi mosso dall'odio, eppure dovrei, ma da una compassione di cui non sei affatto degno. Poco fai sei venuto in Senato. In un'assemblea così affollata, tra tanti amici e conoscenti, chi ti ha salutato? Se, a memoria d'uomo, nessuno è stato mai trattato così, ti aspetti forse parole di ingiuria quando già sei schiacciato dal durissimo giudizio del silenzio? Che dire di più? Al tuo arrivo questi seggi si sono svuotati. Non appena hai preso posto, tutti gli ex consoli, che tu hai condannato a morte tante volte, hanno lasciato vuoto, deserto questo settore dei banchi. Insomma, con che animo pensi di sopportare?
Se, ai miei servi, incutessi tanta paura quanta tu ne incuti alla cittadinanza intera, riterrei inevitabile lasciare la mia casa. E tu non pensi di dover lasciare la città? Se poi mi accorgessi di essere, anche a torto, gravemente sospettato e disprezzato dai miei concittadini, preferirei sottrarmi alla loro vista piuttosto che essere oggetto di sguardi di disapprovazione. Tu, invece, che sei consapevole dei tuoi crimini e riconosci che l'odio di tutti è giusto e meritato da tempo, esiti a sottrarti alla vista, alla presenza di chi ferisci nella mente e nel cuore? Se i tuoi genitori provassero paura di te e ti odiassero, se tu non potessi in alcun modo riconciliarti con loro, scompariresti dalla loro vista, immagino. Ora a odiarti e ad aver paura di te è la patria, madre comune di tutti noi, e già da tempo ritiene che tu non mediti altro che la sua morte. E tu non rispetterai la sua autorità, non seguirai il suo giudizio, non avrai paura della sua forza?
Catilina! La patria ti si presenta innanzi e, senza bisogno di parole, ti dice: «Da anni, ormai, non c'è delitto che non sia stato commesso se non da te, non c'è scandalo senza di te. Per te soltanto il massacro di molti cittadini, per te ruberie e soprusi a danno degli alleati sono state azioni libere e impunite. Tu non solo sei stato capace di trasgredire alla legge e alla giustizia, ma addirittura di sovvertirle, di annientarle. Sono cose del passato. Benché non fossero tollerabili, tuttavia le ho sopportate, come ho potuto. Ora, però, che io sia completamente terrorizzata solo a causa tua, che si tema Catilina al minimo rumore, che si abbia l'impressione che qualsiasi complotto contro di me non sia alieno dalla tua mente criminale, ebbene non intendo sopportarlo! Perciò vattene e liberami da questa paura, perché non ne sia schiacciata, se è vera, o smetta di temere, se è infondata!».
Capitolo VIII
Se la patria, come ho detto, ti parlasse così, non dovresti obbedirle anche se non potesse ricorrere alla forza? Cosa dici? Ti sei consegnato agli arresti domiciliari? Hai chiesto di andare ad abitare da Lepido per evitare i sospetti? Respinto da Lepido, hai osato venire addirittura da me e mi hai pregato di tenerti agli arresti in casa mia. Ma anche da me hai ricevuto la stessa risposta: non mi sarei sentito per nulla al sicuro a dividere con te le stesse pareti domestiche, quando già corriamo gravi pericoli dentro le mura della stessa città. Ti sei rivolto allora al pretore Quinto Metello. Rifiutato pure da lui, ti sei rivolto al tuo amico Marco Metello, un uomo davvero eccellente, che tu giudicavi, evidentemente, il più scrupoloso nel sorvegliarti, il più acuto nel sospettarti, il più severo nel punirti. Ma chi ritiene di dover meritare gli arresti, non sembra ben lontano dal dover essere condannato al carcere?
Poiché le cose stanno così, Catilina, se non sai rassegnarti a morire, cosa aspetti a espatriare, a consegnare all'esilio e alla solitudine una vita sottratta a molte, giuste, meritate pene? «Fai un rapporto al Senato», dici. È questo che chiedi e ti dichiari pronto a obbedire se il Senato decidesse di esiliarti. Non lo presenterò: sarebbe incompatibile col mio carattere. Tuttavia ti farò capire cosa pensano di te i presenti. Vattene dalla città, Catilina! Libera lo Stato dal terrore! Se non aspetti che questa parola, parti in esilio! E allora? Non vedi, non ti accorgi del loro silenzio? Sopportano, tacciono. Perché attendi la conferma della parola, quando ti è chiaro il significato del loro silenzio?
Se avessi rivolto le stesse parole a un giovane perbene come Publio Sestio, qui presente, o a un uomo così valoroso come Marco Marcello, il Senato, a ragione, mi avrebbe subito attaccato, assalito con la forza, benché sia console, anche in un luogo sacro come questo. Ma nel tuo caso, Catilina, la loro calma è un'approvazione, la loro sopportazione un giudizio, il loro silenzio un grido. Il che vale per i senatori, la cui autorità ti è certamente cara, ma della cui vita non hai il minimo rispetto, ma vale anche per i cavalieri, uomini del massimo onore e valore, e per tutti gli altri coraggiosi cittadini che circondano il Senato. Hai potuto vedere quanti sono, capirne le intenzioni e, poco fa, udirne le voci. A stento trattengo da te le loro mani e le loro armi, ma facilmente li convincerei ad accompagnarti sino alle porte della città se ti decidessi a lasciare questi luoghi che da tempo vuoi distruggere.
Capitolo IX
Ma a che servono le mie parole? A piegarti, in qualche modo? A farti ricredere? A indurti a preparare la fuga, a pensare all'esilio? Potessero gli dèi immortali ispirarti tali propositi! Ma non mi illudo: se tu decidessi di andare in esilio spaventato dal mio discorso, una tremenda tempesta di impopolarità si abbatterebbe su di me, se non subito, essendo vivo il ricordo dei tuoi crimini, certamente in futuro! Ma è il prezzo da pagare, purché tale calamità ricada su me solo e non comporti pericoli per lo Stato. Non è il caso di chiederti di provar rimorso per i tuoi vizi, di temere le pene previste dalla legge, di avere dei ripensamenti di fronte alle difficoltà in cui versa lo Stato. Non sei infatti il tipo, Catilina, da astenerti dall'infamia per pudore, dal pericolo per paura, dalla follia per ragionevolezza.
Perciò parti, te l'ho ripetuto più volte, e se vuoi scatenarmi contro la disapprovazione pubblica, perché sono un tuo nemico, come affermi, vattene dritto in esilio! Non mi sarà facile sopportare le critiche della gente, se lo farai; non mi sarà facile sostenere il peso dell'impopolarità, se andrai in esilio per ordine del console. Ma se preferisci contribuire alla mia lode e gloria, vattene con quell'infame branco di scellerati, raggiungi Manlio, chiama alla rivolta i cittadini disperati, sepàrati dagli onesti, dichiara guerra alla patria, esulta nel tuo empio banditismo! Non sembrerà, allora, che io ti abbia cacciato tra stranieri, ma che ti abbia invitato a raggiungere i tuoi.
Invitarti? E perché dovrei farlo, quando so che hai già mandato alcuni ad aspettarti armati a Foro Aurelio? E che hai stabilito con Manlio la data del vostro incontro? E che hai inviato anche quell'aquila d'argento che mi auguro porti la rovina, la morte a te e a tutti i tuoi, quell'aquila cui hai eretto un sacello scellerato in casa tua? Puoi privartene per un po' tu che avevi l'abitudine di adorarla prima di andare ad ammazzare qualcuno, tu che muovevi la destra sacrilega dal suo altare per abbatterla su un cittadino?
Capitolo X
Raggiungerai una buona volta il luogo dove da tempo ti spinge questa tua smania sfrenata e assurda! Il che non ti arreca dispiacere, ma una sorta di incredibile voluttà. A una tale follia ti ha generato la natura, ti ha esercitato la volontà, ti ha preservato la sorte! Non hai mai desiderato la pace, ma neppure la guerra, a meno che non fosse illecita. Hai trovato per caso un gruppo di delinquenti, gente perduta, dimenticata non solo dal destino, ma anche dalla speranza.
Che gioia proverai con loro! Di quale piacere sarai pervaso! Quale delirante ebbrezza ti prenderà quando, tra tanti complici, non sentirai né vedrai un solo uomo onesto! In ossequio a questa vita si produssero gli sforzi di cui si parla: giacere sulla nuda terra per preparare una violenza, anzi, per commettere un delitto, passare la notte a insidiare il sonno dei mariti, anzi, i beni dei pacifici cittadini. Hai l'occasione di mostrare la tua famosa resistenza alla fame, al freddo, alle privazioni che tra poco, te ne accorgerai, ti stroncheranno.
Ho ottenuto almeno questi due risultati, impedendo la tua elezione a console: puoi, attaccare lo Stato da esule, ma non puoi sovvertirlo da console; il tuo tentativo scellerato è chiamato banditismo, non guerra.
Capitolo XI
Ora, padri coscritti, ascoltate con attenzione le mie parole, vi prego, e fissatele nel profondo del vostro animo, perché io possa stornare da me il rimprovero, giusto in un certo senso, che la patria potrebbe rivolgermi. Se la patria, che mi è molto più cara della vita, se l'Italia intera, se la repubblica mi dicessero: «Marco Tullio, che fai? Hai scoperto che costui è un nemico, intuisci che sarà lui a condurre la guerra, sai che è atteso come comandante supremo nel campo nemico, che è l'ideatore del crimine, il capo della congiura, l'istigatore degli schiavi e l'agitatore dei cittadini perduti. Lo lascerai partire? Darai l'impressione di non averlo espulso da Roma, ma di averlo spinto contro Roma? Non darai l'ordine di arrestarlo, di trascinarlo al supplizio, di punirlo con la morte?
Che cosa te lo impedisce? La tradizione degli avi? Eppure più volte, in questo Stato, sono stati condannati a morte dei cittadini pericolosi senza mandato pubblico. O te lo impediscono le leggi sull'esecuzione capitale dei cittadini romani? Eppure, a Roma, i ribelli non hanno mai conservato i diritti civili! O temi la disapprovazione dei posteri? Dimostri davvero profonda riconoscenza verso il popolo romano - che, magistratura dopo magistratura, ben presto ha elevato al consolato te, un uomo che si distingueva solo per i suoi meriti, ma era privo della garanzia di una famiglia nobile - se per paura di diventare impopolare o di correre dei rischi trascuri la salvezza dei tuoi concittadini.
Ma se il timore di subire una tale impopolarità è fondato, devi forse temere di esser criticato più per la tua inflessibilità che per la tua debolezza? O ti illudi di sottrarti alle fiamme dell'impopolarità quando l'Italia sarà devastata dalla guerra, le città sconvolte, le case bruciate?».
Capitolo XII
Alle autorevolissime parole della repubblica e agli uomini che condividono queste idee risponderò brevemente. Io, padri coscritti, se avessi pensato che la scelta migliore da farsi fosse di mandare a morte Catilina, non avrei permesso a un delinquente come lui di vivere un'ora di più. Se infatti i cittadini più autorevoli e illustri non si sono macchiati del sangue di Saturnino, dei Gracchi, di Flacco e di tanti altri in passato, se, al contrario, si sono coperti di onore, certamente non avrei dovuto temere che la disapprovazione dei posteri ricadesse su di me per aver eliminato uno che assassina i suoi concittadini. E se anche corressi un tale pericolo, non cambierei idea: l'impopolarità nata dal valore è gloria, non impopolarità.
Eppure ci sono alcuni, qui in Senato, che non vedono cosa sta per abbattersi su di noi oppure fingono di non vedere quel che hanno sotto gli occhi; alcuni che hanno alimentato con la condiscendenza le aspettative di Catilina e rafforzato con l'incredulità una congiura nascente! Facendosi scudo dell'autorità di questi, molti, non solo disonesti, ma anche ingenui, avrebbero detto che agivo con la crudeltà di un tiranno se lo avessi punito. Ma ora mi rendo conto che se Catilina raggiungerà l'accampamento di Manlio, dove intende dirigersi, nessuno sarà così stupido da non capire che è stata organizzata una congiura, nessuno sarà così disonesto da non ammetterlo. E se lui solo verrà ucciso, mi rendo conto che riusciremo a contenere questo flagello per un po', ma non a debellarlo per sempre. Se invece partirà, se si porterà dietro i suoi, se riunirà nella stessa località tutti gli altri disperati che ha raccolto da ogni dove, non solo verrà completamente estirpato il flagello che è tanto cresciuto nello Stato, ma pure la radice e il seme di ogni male.
Capitolo XII
Da molto tempo, padri coscritti, siamo in balia dei pericoli e delle insidie della congiura, ma, non so come, il culmine di ogni scelleratezza, di antiche e folli ribellioni è stato raggiunto nel periodo del mio consolato. Se, di questa banda, soltanto lui verrà eliminato, forse per qualche tempo crederemo di esserci liberati dall'angoscia e dalla paura; ma il pericolo rimarrà, nascosto nelle vene e nelle viscere dello Stato. Come spesso i malati gravi, quando sono assaliti dalle vampate della febbre, credono di trovar ristoro bevendo acqua gelida, ma finiscono per aggravarsi, così la malattia che colpisce lo Stato sarà alleviata con la condanna di Catilina, ma si aggraverà se sarà concessa agli altri la vita.
Perciò se ne vadano i colpevoli! Si separino dagli onesti! Si raccolgano in uno stesso luogo! Un muro, infine, li divida da noi, come ho detto più volte! Smettano di attentare alla vita del console nella sua casa, di accalcarsi intorno al palco del pretore urbano, di assediare, armi un pugno, la Curia, di preparare proiettili e torce per incendiare la città! Insomma, ciascuno porti scritta in fronte la sua opinione politica! Questo vi prometto, padri coscritti: ci sarà tanto impegno in noi consoli, tanta autorità in voi senatori, tanto valore nei cavalieri, tanta unanimità in tutti i cittadini onesti che, con la partenza di Catilina, vedrete ogni cosa svelata, messa in luce, repressa, punita.
Con questi presagi, Catilina, per la salvezza suprema dello Stato, perché tu e coloro che si sono legati a te in ogni crimine e omicidio andiate incontro alla morte più orrenda, parti per la tua guerra empia e nefasta! Tu, Giove, il cui culto fu istituito da Romolo con gli stessi auspici con cui fondò Roma, tu che a ragione sei chiamato protettore di questa città e dell'impero, difendi da questo individuo e dai suoi complici i templi tuoi e degli altri dèi, le case e le mura della città, la vita e i beni di tutti i cittadini! Punisci con supplizi eterni, nella vita e nella morte, questi uomini avversari degli onesti, nemici della patria, predoni dell'Italia, che un patto criminoso e una complicità di morte hanno legato insieme!
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