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"Voci" - Testimonianze dal carcere




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"Voci" - Testimonianze dal carcere




Gli amori lontani, il ruolo difficile dei genitori incarcerati, la paura di tornare a casa e di raccontare ai figli la realtà della detenzione; le famiglie incarcerate, lo squallore dei colloqui così temuti e attesi, il corpo recluso e i suoi desideri.

Sono le testimonianze dei detenuti e dei loro familiari raccolte dai vari giornali sul carcere : storie accomunate dai patimenti della lontananza, resa ancor più penosa dalle modalità con cui si concedono i pochi - troppo pochi - incontri previsti.

Come non è possibile parlare di carcere senza averne oltrepassato la soglia, così non si può comprendere l'assurdità della deprivazione affettiva senza prima capire ciò che essa comporta. I detenuti conoscono e soffrono le ricadute che questo dramma, sconosciuto ai più, provoca anche ai legami più stretti.

Parole. "Voci" lontane che chiedono ascolto e comprensione.

Sapere è responsabilità di ognuno.


Si dice: può capitare a chiunque di finire in galera. Al contrario, è probabile che ve la caviate. Tuttavia, anche se non andrete dentro, c'entrate. C'entriamo tutti.





Riflessioni sull'affettività dalla Redazione di "Ristretti Orizzonti"


L'affettività è una cosa difficile da esprimere, anche in quei miseri 45 minuti che vengono offerti per il colloqui; è come dividere anche con i compagni di detenzione, le guardie e i parenti degli altri, qualcosa che dovrebbe essere soltanto tra te e chi hai scelto, per esprimergli ciò che senti. In carcere è pressoché impossibile essere se stessi, nonostante tutti quei test psicologici, quei team di "specialisti", non riuscirà mai nessuno a dare dimensioni di normalità a qualcosa che è "contro natura" già dalla nascita.

Il sesso in se stesso è una condizione che fa parte della nostra natura; volete cercare di analizzare me, che vorrei farmi una sana scopata, e no, non vorrei reprimere ciò che fa parte della mia natura e della mia specie, oppure vorreste analizzare un team di specialisti che produce frasi da scrivere a proprio talento, dove è vivisezionato il mio "vorrei scopare"!? Non sarò mai adatto allo schema e sarò un'irrecuperabile a vita!

Perdonatemi per tutta l'ironia, ma io compiango chi ha inventato questo deterrente, chissà come era messo in tutta la sua vita e come è messo chi lo deve applicare senza pensare. C'è un portone spalancato in Europa, dove la maggior parte dei paesi ha capito che le medievalità vanno studiate sui libri, la nostra civiltà è altra cosa!


.Alla galera siamo condannati noi e non le nostre famiglie e i nostri affetti. La precedente proposta un po' morbosamente era stata fatta passare come "sesso in carcere". Niente di più falso. Può essere compreso anche questo, ma in primo piano abbiamo la necessità di una carezza, del contatto fisico col proprio figlio, la propria madre, senza essere richiamati all'ordine se un bacio è più prolungato (chissà qual è la durata del bacio regolamentare.).


.Pensa soltanto alla mancanza di intimità: qui puoi essere "sorvegliato a vista" ventiquattro ore su ventiquattro, in ogni attimo del giorno e della notte. E' vero che questo non avviene sempre, però possono "controllarti a vista" quando vogliono e tu lo sai e ci soffri. Si parla tanto di "rieducare" i detenuti al lavoro, alla legalità, etc., ma a me sembra che pure il problema della deprivazione affettiva e sessuale vada affrontato con una logica "rieducativa" dopo la scarcerazione. Non perché pesi che molti detenuti si adattino a pratiche omosessuali, come qualcuno sostiene. Questo non è il vero problema.

Il problema è che si perde di vista il valore del sesso come strumento di relazione, di condivisione, di scambio emozionale.

Credo sia una follia il fingere di essere "normali" dopo 10, 15, 20 anni di vita "anormale". Certo, mi puoi dire che la "normalità" non esiste, che anche tra le persone libere ci sono tante differenze, ci sono conformisti ed eccentrici. Ma qui non puoi scegliere, qui su certe cose devi essere per forza conformista e l'impossibilità di far scelte irrigidisce la tua mente, incanala il tuo pensiero dentro tracciati predefiniti, dove non c'è sviluppo, non c'è espansione, ma piuttosto c'è accelerazione incontrollabile verso idee fisse. Sì, il carcere "produce" manie, è un luogo in cui spesso il pensiero va in "caduta libera".



Oggi, che sono fuori, ho la libertà di vivere le mie emozioni, ma se torno a ieri.rivedo il bancone di una sala colloqui, lo sguardo dell'agente fisso su noi detenute, pronto al rimprovero se l'abbraccio si prolungava, se il bacio era troppo intimo, se i bambini giocavano troppo vivacemente; certo, con i bambini erano tutti più tolleranti, ma in ogni caso i bambini dovevano restare al di là del bancone. Le detenute madri di bambini sotto i 12 anni hanno diritto a fare i colloqui nelle aree predisposte all'aperto, con una panchina e una giostrina, per cui nel periodo freddo non puoi andarci; in genere sono spazi racchiusi da una cinta alta di ferro, intorno la struttura del carcere e tanti volti appesi e mani che stringono le inferriate per rubare una piccola parte di normalità familiare.

Decisamente non è il posto ideale per far finta di mantenere il tuo ruolo di madre o di padre, perché è una finzione il pensare che una detenuta in carcere possa continuare ad essere anche una madre.

Un bambino ha bisogno di una stabilità e di una continuità di rapporto che non si può raggruppare in tre minuti di telefonata o in un'ora di colloquio; il ruolo di madre e padre è demandato quasi sempre ai parenti che ti tengono i bambini, e quando ritorni tra loro a fine pena il distacco non è più sanabile se non in parte, e comunque ha già fatto il suo danno.

Hai sbagliato e devi pagare, in questo modo però sono in tanti a pagare.

Ma l'affettività in carcere non è solo quella che riguarda i bambini; tutti abbiamo bisogno di verificare, di sentire attraverso i gesti l'autenticità di un sentimento, usare parole d'amore che vorremmo solo nostre.

E' facile, per chi non è ristretto per molto tempo, dire "Be', troveremo un altro momento",

ma quando, nelle ore veloci dei colloqui, hai solo quei momenti per far capire alla persona che ti sta di fronte che la desideri, che la ami e che vuoi sentirti a tua volta amata, e nel mentre di fianco a te un bambino si mette a urlare perché vuole sedersi in braccio all madre, una madre piange per l'errore della figlia detenuta, un gruppo di parenti calorosi scherza ad alta voce e l'agente urla rimproveri, le parole ti si fermano in gola, parli del vicino di casa, degli amici, dei parenti, dell'avvocato, di tutto meno che di amore, e torni in cella pensando se anche lui o lei ha capito che nel sussurrargli "ti amo tanto" in realtà avresti voluto dire e fare ben altro. Cerchi un po' di intimità per ricordare il volto della persona che ami, ma quando entri in un carcere l'intimità è vietata.



Quello che non capisco è perché si tende sempre a evitare, a nascondere, o a marchiare in modo pesantemente negativo le cose che danno fastidio, che scandalizzano. Così, quando si è cominciato timidamente a parlare di "stanze dell'affettività" in carcere, le hanno subito battezzate "stanze del sesso"; be' certo, a cosa potrebbero servire altrimenti? Fine.non se ne deve parlare più.

Invece bisogna parlarne perché a chi sta in carcere e sconta una condanna, non è previsto che oltre alla libertà gli vengano tolti anche l'affetto, l'amore, il calore e l'amore che la famiglia vuole trasmettergli.

Ma si può trasmettere ben poco in una sala colloquio piena di gente, dove l'agente che vigila è pronto a battere sul vetro appena vede due mani che si cercano, si vogliono stringere, e tu allora cerchi di trattenerti dal farlo e intanto ti sforzi di sentire chi ti parla perché il chiasso è tanto; poi, pian piano, con fatica ti abitui a tutto perché in carcere ci si abitua in fretta a una vita di convivenza forzata. Ma chi ti sta di fronte e viene da fuori, perché dovrebbe adattarsi a questo e accettare il dolore, l'angoscia di doversene andare senza una carezza, oppure dando un bacio frettoloso sulla guancia e sperando che non ti dicano niente? Le stanze dell'affettività servirebbero soprattutto a questo, per poter fare un colloquio a cuor leggero, serenamente, senza la tensione che c'è invece adesso.

Mi piacerebbe che la smettessero un po' tutti di trasformare in perverso e brutto quello che riguarda i detenuti e il loro desiderio di restare persone affettivamente e sessualmente "vive". L'amore in tutti i suoi aspetti abbiamo diritto di manifestarlo anche noi, è una necessità e va rispettata, non bisogna nasconderla ma viverla.

Per chi sta fuori è facile indicare a dito i colpevoli, fare i moralisti sulla pelle degli altri, si sente dire tante volte: "Adesso che sono dentro si ricordano e pensano ai genitori, ai figli, alla compagna, ma quando commettevano i reati, non ci pensavano al dolore che portavano loro!".

Forse è vero, ma è anche vero, e questo vale per molta gente e non solo per chi è stato dietro le sbarre, che nella vita dai per scontato quello che hai vicino, nessuno te lo porta via e così lo trascuri; è sbagliato certo, ma non è così facile riuscire a capirlo in fretta, alle volte è anche troppo tardi, ma se ci si riesce si finisce per arricchirsi dentro.

C'è gente che troppo indaffarata nel lavoro e stanca, alla sera non trova il tempo per parlare o giocare con i figli, non ha tempo per salutare un amico o andare a trovare un parente ammalato; non sono mancanze anche queste? Non è far soffrire anche quello?

Non ho voluto incontrare mia figlia in carcere, proprio per timore di farla soffrire; ora che sono a casa potrei accompagnarla a trovare il papà, che è ancora detenuto, ma personalmente sono contraria, e lui anche. Il colloquio, come avviene oggi, è brutto per un adulto, figuriamoci per un bambino; le carceri come sono ora sono uno squallore, gli occhi trasmettono rapidamente al cervello le immagini, ma quelle poi rimangono nella mente e un bambino ricorda più di un adulto.

Se ci fossero delle stanze apposite per gli incontri sarebbe diverso, lontano da occhi indiscreti, senza la paura di venire richiamati. E' troppo brutto oggi, per chi va a colloquio, dover rinunciare a un gesto dettato dal cuore solo perché potrebbe creare un danno a chi sta dentro. E pensare che un bacio, una carezza dati da chi ti ama farebbero invece vivere la carcerazione con una marcia in più; per non parlare dell'amore come atto sessuale, non posso negare che lo vorrei fare, e lo farei se ci fosse un posto adeguato, non sarei normale se non lo desiderassi, e invece si deve rinunciare a tutto, diventare freddi e duri, e questa è una violenza, una violenza a cui si dovrebbe porre fine.







Il sesso recluso. I desideri dietro le sbarre.


Sulla sessualità negata in carcere, e sugli effetti di questa negazione, si parla e si teorizza molto. Gli uomini in carcere però non ne vogliono tanto parlare; le donne invece non si negano niente, neanche il coraggio di lavorare con la fantasia, là dove la realtà è troppo squallida da sopportare. Per una volta abbiamo deciso di non fare un articolo "riflessivo" su questo tema, di non raccontare esperienze e sofferenze, di lasciare via libera ai sogni. sogni del primo giorno. primo giorno del dopo carcere.

Per noi gli uomini sono belli, dolci. Mi ricordo la pubblicità che diceva: che ci cascasse addosso una bottiglia di champagne! Invece noi diciamo: che ci cascasse addosso un uomo.

La bottiglia di champagne è caduta, ma qui un uomo non l'abbiamo mai visto cadere.

E intanto viviamo di fantasie.


Quando uscirò, come sarà la prima notte?

La stanza deve essere illuminata solo dal lume delle candele, con sottofondo di musica soft, le lenzuola di seta verde perché porta speranza, l'uomo deve essere bellissimo, dolcissimo, coccolissimo.

Forse non lo guarderò negli occhi, forse sarò la prima a baciarlo ed accarezzarlo, ma mi piacerebbe che l'iniziativa la prendesse lui.

O forse non facciamo niente, forse saremo imbarazzati, o forse la passione avrà il sopravvento.


Quando uscirò, con chi sarà la mia prima notte?

La mia prima notte sarà sicuramente con Raul Bova, anzi, mi piacerebbe che fossero in due, il secondo George Clooney.

Stavo pensando a chi dovesse essere il primo, penso Raul Bova, ma ho qualche dubbio perché è sposato. Ma chi se ne frega.mica sono gelosa.

Con lui, visto la sua predilezione per l'acqua, mi piacerebbe farlo. nel mare, magari facendo prima un giro in pedalò; stavo pensando anche a cosa mangiare, ma non me ne importa niente, ho passato anni in cucina.

Dopo quattro o cinque ore con lui, mi piacerebbe parlare. un po' con George, perché lo

ritengo molto spiritoso. Con lui sicuramente farei di tutto, forse lo porterei anche a mangiare, poi sopra il biliardo del bar.

Quando uscirò, voglio un uomo sensibile, che mi conquisti con la dolcezza. Prima una cenetta, qualche carezza e poi un po' di champagne per sciogliere la situazione.

Deve farmi sentire ancora valida.perché è un po' di tempo che mi sento in.valida.

Al lato materiale voglio arrivarci piano, piano; i preamboli devono durare alcune. ore. poi, quando deciderò io. mi concederò.

Ok, è stata un avventura, non voglio legami duraturi, per troppo tempo sono stata. legata ad un'unica relazione e situazione. ora voglio la varietà.


La prima cosa che farò quando uscirò è un bagno lungo in una vasca piena di schiuma, devo avere birra, vino, qualcosa da mangiare e musica .

Poi .un uomo, anzi il mio uomo, perché andrò a casa sua (visto che ha la vasca).

Per prima cosa da lui voglio dei massaggi sulla schiena. poi. lascio a voi immaginare. Il tutto deve durare almeno tre-quattro giorni. ho dell'arretrato.


Quando uscirò voglio un uomo tutto per me e che duri finché la luna non tramonta di giorno ed il sole non tramonta di notte.



Donna, essere donna non è facile , mai! Ancor più quando si è donne detenute. Sono però consapevole che, nonostante tutto, l'altra metà del cielo ci appartiene, a tutte noi donne. Nostro è il suo azzurro sereno, nostra la luce, i colori, ma anche le nubi, la pioggia, il vento, la tempesta perché nostri sono i sentimenti, le emozioni, come nostre sono la sofferenza, il sacrificio, le rinunce.l'amore.

Per me, donna e reclusa, l'affettività è tutto questo: un turbine di intense emozioni che può innalzarmi fino al cielo della felicità o sprofondarmi nell'inferno della disperazione.

Bisogna ammettere che, pur da detenuta, mi è possibile soffocare la mia affettività avendo la possibilità di periodici colloqui e telefonate che permettono un confronto immediato con i miei sentimenti.

La vera valvola di sfogo però sono le lettere: la cosa più bella in assoluto! Infatti non hanno orari, non impedimenti, nessuno può interromperle. A loro puoi affidare tutto, desideri, emozioni, paure, lacrime. Tramite la carta puoi confessare, scoprire, farti scoprire, giocare, litigare, far pace, far compagnia, voler bene, conquistare, amare, soffrire.

In una lettera ti puoi raccontare, inventare, fantasticare, immaginare, viaggiare, volare, evadere! Tornar qui e sorridere. Tutto si può in questi fogli di piccola grande libertà. Puoi anche stuzzicare, provocare e ritirarti, buttarti e ripensarci, sedurre, farti sedurre, far l'amore.far sesso.

Ah, il sesso! Ecco il punto dolente per noi recluse, credo sia una parte integrante dell'affettività, uno stimolo umano, un desiderio legittimo, ma proprio nel momento in cui, forse, avremmo più bisogno di essere rassicurate anche in questo, ci viene negato.

Palliativi ne esistono, eccome, ma palliativi appunto come l'autoerotismo o l'omosessualità.

Sull'autoerotismo non voglio soffermarmi, appartiene alla sfera più intima di ciascuna di noi. Dell'omosessualità ne posso accennare per averla osservata, vissuta in terza persona. Ho conosciuto compagne che hanno avuto di queste esperienze, magari solo per bisogno d'amore, di attenzioni, per sentirsi importanti, per poterne parlare, per "provarci", per essere alla moda o per passate delusioni. Anche questa è una piccola libertà, ognuna se consapevole è libera di scegliere come meglio vuole "farsi" la carcerazione, purché il tutto sia nel rispetto delle altre compagne. Quello che non sopporto è la prevaricazione, il volerci provare per forza, questo no, non lo sopporto!

E pensare che le donne gay (vere) spesso sono goffe, timide, prevedibili, mi farebbero tenerezza e sorridere se non fosse che in carcere è meglio non attirare l'attenzione, perché potrebbero diventare ossessive, appiccicose, morbose, gelose, a volte violente. Roba da rinchiudersi in cella per sfuggire alle loro avance o, ancor meglio, farsi trasferire di carcere.

.dovrebbe vigere il rispetto perché il fatto di essere detenute non comporta a priori la rinuncia dei propri valori, della propria dignità, del proprio "vivere", non è per intolleranza o pregiudizio che dico questo, ma per la libera scelta che ognuna deve poter fare.

Credo però che l'affettività sia anche voler bene a se stessi, perdonarsi, pazientare, smettere con il vittimismo, con le lamentele, con la diffidenza ed il sospetto. Accettare finalmente la pena quale logica conseguenza dei nostri sbagli; sono sicura che questo ci aiuterebbe a vivere meglio qui dentro e a ricostruire il nostro futuro.

Personalmente so che pur conoscendo difficoltà, disagi, sofferenze, sacrifici, piccole e grandi rinunce, starò male solo se e quando mi accorgerò di non aver più niente da dare, ma

forse anche allora avrò pur sempre un sorriso, una carezza, un ciao per tutti voi.



Incontrarsi al colloquio, stare con l'amante, guardarsi negli occhi, darsi la mano è difficile per ognuno di noi. Per lo meno, io avrei voglia di far l'amore, con la mia compagna.così passano anni e anni senza che tu possa sfogare questo istinto. E' drammatico, perché è una cosa che senti e devi cancellarla.in qualche istituto riesce a "scappare qualcosa" sotto l'occhio vigile dell'agente di Polizia Penitenziaria.quelle piccole "toccatine".delle cose che possono renderti meno inumana questa sofferenza dell'allontanamento dal partner. E' brutto svegliarsi al mattino arrapato e andare a letto arrapato.stai male e fai tutto quello che fanno tutte le persone che devono sfogare i propri istinti. Se vogliamo andare su una parola da dizionario, "la masturbazione".

Omosessualità in carcere io in tutti questi anni non l'ho riscontrata se non a livello normale, come ci può essere all'esterno. Detenuti che abbiano usato la violenza su altri detenuti, anche violenza sessuale.sono casi isolati, sono così sporadici e qualcuno di queste persone è stata preso a botte.sono stati isolati e tenuti in disparte dal contesto dei detenuti. In determinate carceri, dove magari c'è meno controllo, meno possibilità di essere acchiappati hanno fatto delle pratiche sessuali con le loro compagne; almeno, così mi hanno raccontato, cioè durante il colloquio, dove magari c'erano dei posti.nella stanza, staccati, staccati uno dall'altro, qualcuno è riuscito a fare qualcosa con la propria compagna. Quello vuol dire proprio superare un certo gradino di dignità. E' un bisogno fisiologico e non penso che sia indignitoso cercare di avere dei rapporti sessuali senza occhi indiscreti.











Le donne della Giudecca parlano di: sesso taciuto e negato,

separazioni e divorzi, colloqui in condizioni avvilenti


In questa Italia, dove ogni giorno si fanno delle inchieste, vorrei proporne una io: perché non si porta a conoscenza di tutti i cittadini quante separazioni, quanti divorzi delle persone detenute hanno come causa la mancanza di affetto e la negazione della sessualità? L'affetto non è fatto solo di strette di mano o di semplici baci dati furtivamente nelle sale dei colloqui, e questa privazione anche di piccoli gesti, che all'inizio della detenzione costituisce un "disagio", si moltiplica poi per mesi o anni, secondo la pena a cui siamo state condannate o semplicemente per la lunghezza infinita dei processi, e diventa ben presto intollerabile.

Vorrei rivolgermi alle persone che per scelta o per fortuna non si sono mai scontrate con la giustizia e non conoscono la realtà del carcere: provate ad immedesimarvi in un parente di una persona detenuta e pensate a cosa vuol dire privarvi per un anno, due anni, tre, o chissà quanti ancora, di quell'affetto completo che è il pilastro portante che sorregge l'amore: è evidente che anche la più ardente passione si spegnerà lentamente.

Invece, se sarà varata questa legge sull'affettività, anche se momentaneamente si è costretti a vivere separatamente, l'unione familiare non sarebbe interrotta e si potrebbero evitare le tragiche conseguenze che derivano da una separazione forzata: prima di tutto per i figli che innocentemente subiscono forti traumi psicologici, poi per il genitore detenuto che avendo le mani legate non può tentare di risanare la situazione.

Giorno dopo giorno si perde anche quel poco di tranquillità che è rimasta, si diventa irascibili, arrivando per sfogo all'autolesionismo, all'aggressività verso gli agenti, verso i compagni. E capita che qualcuno arrivi anche al suicidio. Per evitare che succedano queste tragedie familiari, deve essere annullata questa tortura psicologica della negazione degli affetti. Nessuna pena accessoria deve ricadere sulla famiglia, sulle persone care, come succede invece quando si vieta l'affetto completo con l'appagamento sessuale, distruggendo la felicità che scaturisce dall'unione familiare. Questa è una pena a cui nessun giudice "terreno" può condannarci.

Siamo nell'anno 2002, facciamo parte dell'Unione Europea con altre nazioni che da tempo hanno permesso colloqui intimi in carcere (Svezia, Danimarca, Olanda, Spagna, Germania, Belgio e Lussemburgo); speriamo che anche in Italia riconoscano questo diritto e non ci lascino questa pena che ci condanna per tutta la detenzione a trovare l'appagamento

sessuale da soli, ci avvilisce e a poco a poco ci rende dei robot senza sentimenti.



Per noi affettività.sono gli affetti, quelli che ci mancano.sono i figli, la madre, il padre, le sorelle, i nipoti, il marito o il compagno. Già la libertà ci manca, ma anche gli affetti ci sono negati e non possiamo viverli in modo "normale".

La struttura carceraria prevede, indicandoli come affettività, i colloqui; ma davvero si può pensare che "il colloquio è affettività"? Molte volte ci vergogniamo di andare al colloquio con i nostri familiari, tanto è triste e degradante il posto. L'ambiente, ovvero quella stanzetta spoglia che dovrebbe in realtà riunire un nucleo familiare o comunque delle persone accomunate da un legame di affetto, è nettamente diviso in due da un freddo "tavolaccio". Il tavolo è abbastanza largo da costringerci a faticare per poterci tenere strette le mani. Il tutto dura un'ora e due volte al mese si possono fare due ore. E siamo già fortunate se il turno del colloquio l'abbiamo insieme a nostre compagne abituate a parlare con voce pacata (come noi); se ci capita il turno con qualcuna capace solo di esprimersi a voce alta, è un disastro.

Quell'ora a settimana, in condizioni così assurde, a noi dovrebbe bastare per sopperire tutti i nostri bisogni di affetto e alla necessità di comunicare con le nostre famiglie, o comunque con le persone a noi vicine. Senza contatti fisici, senza gesti affettuosi , senza carezze, senza un bacio , perché questo non è previsto dai regolamenti. La realtà poi è ancora più cruda: del tempo consentito quasi la metà viene trascorsa da entrambi le parti a cercare di camuffare quella sorta d'imbarazzo, di disagio che inevitabilmente si viene a creare, poiché le persone che si incontrano solo in carcere perdono ben presto l'abitudine a comunicare in maniera reale e no distorta dal luogo in cui si trovano, il tempo restante è insufficiente per riuscire ad esprimere le proprie emozioni, soprattutto sotto l'occhio vigile di telecamera ed agenti.


Un altro problema molto importante è il sesso, o meglio la mancanza di sesso.

Vorremmo cominciare dicendo che sappiamo molto bene cosa si può pensare da "fuori": "Che cosa vogliono? Mangiano, bevono, hanno la televisione.e che cosa pretendono ancora? Anche il sesso?" E' vero, noi abbiamo sbagliato, ed è giusto che paghiamo i nostri errori, però quello che noi vogliamo è pagare, soffrire e riscattarci con dignità.

Per noi, forse sbagliamo, dignità vuol dire tentare di vivere questo momento del carcere in modo costruttivo, cercando una specie di riscatto, ma avere una vita affettiva "normale", per quel che è possibile, sarebbe un aiuto a migliorare noi stesse. Il sesso non è solo un bisogno fisiologico e sicuramente noi non chiediamo il sesso a ore. Quello che chiediamo con dignità è la possibilità di avere dei colloqui con i nostri familiari e il nostro compagno, in un ambiente e in un contesto sereno, senza i controlli visivi degli agenti e per un arco di tempo sufficiente a consentirci di coltivare i nostri rapporti affettivi e sessuali in modo costruttivo.

Stare forzatamente senza sesso vuol dire anche diventare più aggressive, star male, sentire di più il bisogno di "terapia". E vuol dire anche che, dopo tanti anni, quando siamo fuori abbiamo paura di andare con un uomo e di vivere una storia d'amore senza angoscia.



Figlie, mogli, madri: l'affettività è donna


L'istituzione carceraria, luogo di reclusione e pena, è nata con una connotazione tipicamente maschile e tale è rimasta per anni; solo in tempi relativamente recenti l'evolversi della società e l'emancipazione femminile ne hanno fatto un luogo per ambo i sessi.

Per secoli si era ragionato di noi donne esclusivamente in termini di madri, mogli esemplari, vere vestali del focolare domestico, lontanissime da vizi, infrazioni, reati tipicamente maschili. Forse una volta era veramente così, ma da qualche tempo anche per noi si sono aperte le porte delle galere creando non pochi problemi sia alle istituzioni che a noi stesse.

Infatti molte si sentono doppiamente condannate: dalla legge per i reati commessi, dalla società per aver tradito quell'immagine, forse stereotipata, ma comunque tuttora presente. Nonostante questo, l'essere donne ci appartiene ancora: la nostra sensibilità, il nostro senso materno, i nostri sacrifici non possono certo essere soffocati dal nostro essere detenute.

Amore in tutte le sue espressioni è, assieme al desiderio di libertà, un impulso innato in noi tutte, nessuno riuscirà mai a soffocare questi istinti.

Ognuna di noi ha una storia a sé stante, sia giuridica che personale, però tutte viviamo il nostro mondo di sentimenti, di emozioni, d'amore; spesso siamo travolte da situazioni più grandi di noi, ma rimaniamo pur sempre donne e quindi figlie, mogli, madri (anche se

spesso di pregiudicati), abbiamo desiderio d'affetto, moti d'amore, voglia di tenerezza.

Nonostante il luogo in cui ci troviamo, qualche opportunità per coltivare questi sentimenti ci è permessa: una volta alla settimana possiamo avere i colloqui con i nostri familiari, con la stessa cadenza possiamo telefonare, poi c'è la corrispondenza ed infine i rapporti interpersonali con le compagne, a volte vere amicizie.

In questo istituto possiamo dirci fortunate perché i colloqui si svolgono, già da tempo, stando sedute intorno ad un tavolo con i familiari, senza nessun divisorio che ci separi, così ci si può sfiorare, sentire il calore dei propri cari, addirittura tenersi le mani, c'è insomma un po' di quel contatto fisico che è molto appagante. Con un po' di fantasia ci si può immaginare ad un picnic o ad un tavolino di un bar; sono piccole cose forse, ma importantissime.

A volte magari non riusciamo a proferire parola, ad essere noi stesse tanta è la tensione di quei momenti; e pensare che ci eravamo preparate per giorni, ripetendoci cosa dire, cosa chiedere, mille parole in testa, invece scena muta ed una emozione dirompente dentro. Si ritorna in cella pensando al prossimo colloquio o si ricorre alla corrispondenza tentando di rimediare.

Anche per le telefonate è la stessa cosa: giorni d'attesa, tanta emozione, mille argomenti da affrontare, magari al dunque si riesce perfino a scherzare, però i dieci minuti (tempo massimo concesso) volano in un baleno.

Ecco, forse, la nostra affettività si esprime talvolta in scoppi di ilarità senza nessun senso apparente, spesso in mestizie, in malinconici silenzi, in sofferti desideri di carezze(da ricevere, da dare), soprattutto in sogni ad occhi aperti. Soprattutto in numerose lettere a tutti coloro cui vogliamo bene, con il forte desiderio, con la certezza che tutto questo prima o poi finirà ed anche noi torneremo a volare.









I colloqui: l'attesa, la rabbia e la commozione


E' il mio primo colloquio in carcere. Dentro c'è il mio compagno. Una vecchia pena da scontare. Sono confusa e spaventata.

Quando arrivo c'è già un sacco di gente. Un signore anziano mi dà un biglietto con un numero (il 18). Aspetto. Finalmente aprono la porta. Entriamo. Una guardia distribuisce i numeri in base ai quali saremo chiamati. Tutti spingono e si accalcano, ma i foglietti casalinghi del vecchio signore risolvono la questione. Aspetto ancora. Una signora mi dice che se voglio dare il pacco con la roba da mangiare devo procurarmi il foglio da allegare. Lo vendono per 100 lire allo sportello. Compro il foglio. Ma dove va scritto il nome del detenuto? Non trovo lo spazio apposito. Chiedo alla mia vicina. Arriva il mio turno. Allo sportello presento la carta d'identità e il foglio di convivenza. Chiedo: "me lo restituirete dopo?" - "No!" - "Ma a me servirebbe." - "Ne faccia un altro." - .

Mentre vado a sedermi mi accorgo che alcune cose del pacco sono state rifiutate. Mi chino per prenderle. Vedo i piedi della guardia che controlla i pacchi. Provo a chiedere spiegazioni. I piedi mi rispondono: "Non possono entrare." e lo sportello si richiude. Torno ad aspettare. Le guardie chiamano il primo gruppo di visitatori ma io non ne faccio parte. Continuo ad aspettare. Finalmente chiamano il secondo gruppo e questa volta ci sono anch'io. Ci danno una chiave a testa. Come tutti gli altri, infilo la borsa in un armadietto. Passiamo alla perquisizione: mi passano il metal detector e mi tastano un po'. Siamo dentro. Una guardia mi dice: "Vada!", ma io non so dove.

Mi sposto di lato e seguo gli altri. Arriviamo alla sala colloqui. C'è un lungo bancone con delle panche. Ne scelgo una, mi siedo e aspetto. Dopo un po' sento aprire una porta e finalmente lo vedo. Potremo stare insieme un'ora. Io ne ho impiegate tre per arrivare fin qui.



Vedere il mio compagno una volta alla settimana e arrivare a colloquio con le ansie e le paure accumulate nei giorni passati, lontani l'uno dall'altra, significa poi che tante volte lui non riesce a capirmi e mi tratta male.

Tutta la settimana conto i giorni per correre da lui perché ho bisogno di vederlo, di sentire la sua voce, o tante volte più semplicemente di rifugiarmi nelle sue braccia e abbandonarmi anche al pianto liberatorio di tante tensioni accumulate, di sentirmi protetta, di sapere che lui c'è e che non sono sola!   Poi ci ritroviamo davanti e basta un malinteso per rovinare un colloquio che tanto abbiamo atteso, invece di allontanare le tensioni ci si sente irrimediabilmente più soli. Perché stiamo rovinando attimi che dovevano essere di gioia, di forza e coraggio per affrontare i giorni che ancora ci dividono?

Vorrei alzarmi, abbracciarlo, baciarlo, dirgli quanto è stronzo, vorrei infilargli le mani sotto il maglione per accarezzarlo, fargli il solletico per vederlo ridere, ma rimango lì seduta come un baccalà, c'è la guardia, c'è il bambino al tavolo vicino al nostro, trattengo le lacrime e.ci chiamano, è finito, mi alzo, lo saluto senza dirgli niente, esco senza voltarmi, voglio solo scappare lontano da lì. Hanno messo i tavoli, le sedie, ma non è cambiato niente, manca la cosa più importante: l'umanità e l'intimità, anche di poter litigare per poi fare pace. Ci tolgono tutto, anche la gestualità quotidiana per poterci sentire vivi. Com'è difficile non perdersi dietro queste frustrazioni, umiliazioni e quanta rabbia, voglia di urlare.



Nella testa come nel cuore di un uomo che sta in carcere è difficile entrare. Se dovessi dargli un consiglio, a partire dalla mia esperienza, gli direi di non far sentire troppo sola la donna che lo aspetta, anche se l'abitudine a volte rende pigri, e di sforzarsi di prendere carta e penna, perché le lettere tengono compagnia, ci fanno sentire vive, nei momenti di solitudine e di tristezza fanno anche sorridere. Ed è bello sapere che in quel momento qualcuno ha pensato a noi; i nostri corpi sfioriscono nella separazione, abbiamo bisogno di quelle carezze che ci sono negate, ma la mente e l'anima sono vive e sono loro che ci danno la forza di continuare aspettando.

A volte ti basta un colloquio, un'ora che attendi con ansia per sfiorare le labbra, per toccare una mano, per leggere negli occhi, e poi subito ti trovi fuori, sulla strada, con un sacchetto in mano, sei sola, frastornata, hai ancora addosso le mani di chi ti ha toccato prima di entrare, il rumore di qualche cancello chiuso alle tue spalle, le voci lontane di gente ammucchiata nella stessa stanza che parla e poi il silenzio.stringi il sacchetto tra le mani, è un tesoro tuo, lo apri e tra un contenitore e l'altro basta trovare una maglia, toccarla per sentire il cuore che batte ancora.

Ti accorgi allora di essere gelosa anche di una maglia, perché è qualcosa che parla di lui.

Accendi una sigaretta, apri la macchina, accendi lo stereo, cerchi la cassetta.Mannoia

perché è quella che ti tiene compagnia per il viaggio di ritorno. Vai piano, ogni chilometro che lasci alle spalle ti fa paura, lo vivi come un abbandono, cerchi di vedere il suo viso, di sentire ancora la sua voce, ti accorgi che tutto quello che volevi comunicargli non hai fatto in tempo a dirglielo. Poi uno ti abbaglia, metti la freccia e vai sulla destra.e ti fermi a salutarlo idealmente, per allungare i tempi del distacco. Questa è una delle tante sensazioni che mi sono vissuta in questi anni, sentimenti forti, e solo chi li ha provati sa che si può vivere anche di questo ed è un amore che ti riempie ugualmente la vita. In fondo, pensi, un atto sessuale, dopo che l'hai consumato, tante volte non ti lascia più niente; qui invece, cerchi di coltivarti i momenti, i piccolissimi gesti, le sensazioni che devi far durare a lungo, tra un colloquio e l'altro, tra una separazione e l'altra.



L'attesa di poter avere un colloquio con i miei genitori e mio marito è la cosa fondamentale che mi tiene viva, viva solo per un'ora a settimana. Arriva il giorno tanto desiderato, sono sempre molto agitata e felice, mentre mi preparo già li vedo, li immagino proprio come di solito si presentano a me e io a loro. Sono in fibrillazione, il mio cuore batte forte, mi commuovo da sola, solo al pensiero di poterli vedere, abbracciare e sentirli vicini, scambiandoci come sempre tanto bene e solidarietà.

Il momento che aspetto è alle 15:30 del sabato, ma io sono sempre pronta prima davanti alla porta, passeggio e penso, li sento, sono qui vicino a me, una forte energia positiva mi sta avvolgendo.

Spero sempre di poterli vedere tutti in giardino, come è già accaduto due volte, perché il colloquio in giardino è molto più piacevole, lì possiamo abbracciarci, stringerci e loro possono quasi prendermi in braccio come una bambina; sì, la loro bambina, mentre nella stanza colloqui è tutto più triste.

Mi accompagna l'agente, li vedo attraverso le sbarre terribili degli uffici, ci sorridiamo di gioia e con la mano accenniamo un saluto, un bacio. Finalmente aprono quella porta che ancora ci divide, tutti sorridenti ci corriamo incontro, c'è confusione, mio marito, mio padre e mia madre ci abbracciamo tutti, non riesco a credere a questo immenso piacere che ogni volta mi prende e mi travolge. Ci stringiamo le mani, con la gioia di essere vicini a esprimere tutto ciò che si reprime durante tutti gli altri giorni. Loro mi parlano, mi guardano, io sono felice che siano con me, mi mancano già anche se sono lì. Il tempo passa molto velocemente, dopo aver condiviso con loro i pochi gesti di affetto ci riuniamo tutti vicini, ma il tempo passa. Parliamo di tutto, sempre mantenendo un contatto fisico. Chiedo all'agente quanto tempo abbiamo ancora, è poco, è troppo poco questo tempo.

Ora sento un'altra sensazione, la separazione forzata, il distacco, gli occhi che cambiano espressione, si incupiscono, esprimono la stessa forma di dolore: è ora di separarsi. Qualche volta mi sembra che sia inutile avere un'immagine, un'emozione, una sensazione che ti dà piacere, quando poi non è così.


























Le telefonate.la difficoltà di comunicare con la propria famiglia


Quattro sono i colloqui telefonici che possiamo fare ogni mese, ma proprio quelle telefonate che dovrebbero rappresentare per alcuni minuti il piacere di comunicare con i propri cari, si trasformano troppe volte in un momento di frustrazione, di nervosismo, di rabbia. "Siete in tanti, non si riesce a farvi telefonare tutti", ti dicono. E' vero, siamo in troppi in carcere, dovremmo essere molti di meno. Succede poi che con il nuovo Regolamento penitenziario, entrato in vigore nel settembre 2000, il legislatore ha introdotto alcune sostanziali modifiche, una delle quali riguarda la durata massima di ciascuna conversazione telefonica, che ora è di dieci minuti (prima erano sei): un'ottima cosa, se non fosse che le linee sono rimaste le stesse e che per motivi di tempo non si riesce quindi sempre a fare tutte le telefonate consentite.

Più volte abbiamo fatto presente questo problema, sono successi anche fatti deprecabili, come quando qualcuno, preso da rabbia per non aver potuto telefonare a casa pur avendone diritto, ha frantumato il box telefonico della sezione. Ci sono detenuti che, incalzati dalla stanchezza e dalla frustrazione, arrivano alla perdita del controllo sino ad esplodere e finiscono per fare danni, ma anche per rovinarsi, spesso per cose da niente, dopo avere per anni avuto un comportamento corretto e rispettoso. E così, fioccano quei rapporti disciplinari che sono sempre pronti a scattare e ogni rapporto può costare al detenuto la perdita di 45 giorni di liberazione anticipata: come dire che un momento di rabbia lo puoi pagare con 45 giorni di galera in più! Si dovrebbe assolutamente trovare una soluzione; per un detenuto saltare una telefonata significa perdere una boccata di ossigeno; per i suoi cari, vuol dire sentir crescere la tensione. Noi siamo soliti avvisare le nostre famiglie del colloquio in ogni modo possibile, giorni prima, proprio per non incorrere nel rischio di non trovare nessuno in casa, ed è poi desolante quando ci si sente dire: "Abbiamo provato, ma non risponde nessuno.", o "Lei non ha potuto telefonare perché senza fondi!". Quello che chiediamo è semplice: che vengano messe altre linee telefoniche. Per noi e le nostre famiglie è una "normalità" pesante da sopportare, in una situazione nella quale già sono pochissime le possibilità di incontro e di momenti di intimità.


Il carcere è un luogo di sofferenza: è la punizione e la separazione totale dalla libertà per chi ha violato la legge, ma non basta, è anche la separazione da tutte le persone che contano di più nella vita di un uomo. Ed è anche il posto dove si scopre che i normali problemi della vita quotidiana, telefonare, parlare con i propri cari, incontrarli, lì diventano veri e propri percorsi a ostacoli, soprattutto per chi proviene da altri paesi.

Ogni essere umano che si trova dietro le sbarre ha bisogno di appoggio affettivo, per sentire che non è abbandonato totalmente, e il colloquio con i familiari è una cosa fondamentale per chi si trova in carcere: anche se dura poco è molto importante, perché cancella il peso della sofferenza e ti dà il coraggio di affrontare i momenti più difficili della vita carceraria.

I colloqui permettono di ricevere notizie sugli altri membri della famiglia, così il detenuto si sente un po' più sereno e cerca, anche lui, di spiegare i suoi problemi, dimostrando che ha riflettuto sul suo passato, magari confessando di non essersi comportato in modo corretto prima di tutto nei confronti dei propri cari. Persone che ora soffrono per lui, che per venire a trovarlo affrontano tante difficoltà: devono passare dall'ambasciata, dall'avvocato, dal tribunale, tutto per avere l'autorizzazione a vederlo.

La difficoltà e la sofferenza sono più sentite da noi detenuti stranieri, perché la lontananza dalle famiglie rappresenta il peggiore dei problemi che si possono avere in carcere. Tanti di noi non hanno nessun colloquio con i familiari e nemmeno contatti telefonici, perché all'ingresso hanno dato un 'alias', ossia un nome falso che poi impedisce di rintracciarne la parentela, oppure perché questi parenti non hanno i mezzi economici per affrontare il viaggio fino in Italia, o ancora perché incontrano complicazioni nelle pratiche per ottenere il visto d'ingresso in Italia.

Uno straniero che torna dal colloquio con i familiari, ancor prima di rientrare in cella sente già le urla dei suoi paesani, che lo chiamano per chiedergli come sta la sua famiglia, ma anche se ha saputo qualcosa dei loro parenti: chi non ha nessun contatto diretto con il mondo esterno cerca di averlo tramite i compagni che fanno il colloquio. Quelli che hanno già mandato un messaggio alla moglie, o ai figli, aspettano con impazienza notizie da loro e, qualche volta, mettono in imbarazzo i loro compagni che fanno da tramite: quando le notizie sono brutte, questi cercano di modificarle, o di non riferirle, o di rivelarle solo al momento giusto. Non tutti i detenuti reagiscono con calma, quando ricevono brutte notizie.

Un'altra difficoltà è quella che s'incontra nell'effettuare le telefonate con i familiari, perché anche nel caso che siamo autorizzati a telefonare, sorgono altri ostacoli per effettuare la chiamata.

Il 'colloquio telefonico" dura solo dieci minuti, si cerca di parlare velocemente e con meno

persone, magari per dedicare qualche minuto a chiedere notizie delle famiglie dei compagni

che non possono telefonare.

Qualche volta chiedi di parlare con una persona a cui tieni molto e non la trovi, allora cominci a preoccuparti, ti rimane il dubbio che le sia successo qualcosa di brutto e non abbiano voluto dirtelo al telefono. Qualche volta i genitori non hanno il telefono a casa e allora sei costretto a chiamare a casa di una sorella o di un fratello, se il telefono lo hanno loro. Qualche volta non si prende la linea, altre volte non risponde nessuno, perché i parenti non sono a casa, o risponde la segreteria telefonica.

Quindi l'unico contatto sicuro con la propria famiglia è la corrispondenza, ma spesso quando ricevi le lettere che portano notizie sulla vita dei familiari ti senti ancora più deluso, e lo sei anche perché spesso non hai neppure i francobolli per rispondere.

E poi ti senti triste soprattutto in occasione delle feste, perché in queste giornate c'è una naturale nostalgia della propria famiglia, ognuno di noi cerca di cancellare mentalmente le distanze, ma le reazioni sono diverse da persona a persona: c'è chi beve, chi si taglia, chi litiga con gli agenti. un po' a tutti manca anche quel minimo di serenità e di autocontrollo, che sarebbero necessari per non farsi altri danni



















I disagi delle famiglie "incarcerate"


Mentre ero in galera, all'improvviso mi sono visto raggiungere da nove familiari, fratelli, zii, cognati.mandati in carceri diverse, su tutto il territorio nazionale, a seguito di una mega-operazione che con estrema facilità ha coinvolto anche chi, come si è poi dimostrato in sede processuale, è risultato innocente. Alcuni di loro si sono fatti cinque anni di galera, poi però gli è stato riconosciuto un esiguo risarcimento danni, che naturalmente non rende giustizia a tanta sofferenza.

Credo non sia difficile immaginare il calvario dei familiari rimasti fuori, i lunghi viaggi per i colloqui, che essendo in carceri diversi avvenivano un po' tutti i giorni della settimana: il mercoledì partivano per la Puglia, il martedì ad Opera, il giovedì suddivisi tra il carcere di Padova e quello di Vigevano, il venerdì al carcere di Pavia. Le spese ed i disagi erano elevati. I disagi: facevano la media di 2500 chilometri settimanali per fare i colloqui. Le spese: benzina, autostrada, acquisto dei generi alimentari e vestiario per noi e per loro, soldi versati sui nostri conti per permetterci di acquistare il necessario in carcere, soldi agli avvocati.

Per quattro giorni alla settimana intere famiglie erano impegnate solo per i colloqui, per preparare pacchi su pacchi, programmare i viaggi. Da un paio di anni però, finalmente sono state accolte le richieste dei miei due fratelli per poter essere tutti e tre nello stesso carcere! Gli altri fratelli, gli zii, sono usciti assolti, grazie a Dio! Ma per cinque anni i miei familiari hanno subito una condanna ancor più pesante della nostra. Eppure sarebbe bastato un gesto umano, almeno per coloro che non hanno mai fatto nulla di male: concedere il trasferimento nello stesso carcere per far fare tanti sacrifici in meno a coloro che con amore ci hanno sempre seguito, con l'unica "colpa" di continuare a volerci bene.

La stanchezza psicologica e fisica, i bambini sballottati per lunghe ore di macchina per poter vedere il proprio padre, quei genitori che hanno visto crescere i figli fino ad un certo punto, per poi vederli sparire nel nulla, e dover faticare per incontrarli e parlar loro poco e in fretta. E bisogna anche tener presente che ogni sacrificio era fatto per un'ora di colloquio, o massimo due se andava bene. Sono situazioni che, in molti casi, hanno disgregato affetti, legami, e ciò porta all'inasprimento d'animo e ad un allontanamento dalla famiglia, e quindi dal tessuto sociale, di chi è detenuto. Qualcuno vuole davvero recuperare le persone, dar loro modo di reinserirsi nella società? Sono in molti, assistenti sociali, educatrici, operatori penitenziari, volontari che si attivano con questo scopo. Per risolvere problemi complessi, spesso si cercano però soluzione altrettanto difficili; io non ho certo la bacchetta magica, ma posso dire almeno quanto abbia influito favorevolmente il fatto che siamo stati assegnati finalmente, dopo molti anni, tutti e tre noi fratelli nello stesso carcere.

Io penso che questa possa essere la soluzione di qualche problema perché, alleggerendo i disagi nostri e dei nostri familiari, si può fare in modo che il carcere non distrugga quello che per noi è più vitale: gli affetti. Disintegrare i nostri affetti significa disintegrare il nostro desiderio di cambiamento.
































I figli: il peso della lontananza, la paura di dire la verità sulla propria condizione di reclusi, l'attesa timorosa del ritorno a casa.


"Amore mio, come mi manchi! Ti domanderai: dopo tre giorni ti scrivo?! Hai ragione! Ma non ce la facevo! Ogni volta che mi giro per casa sento il tuo profumo, in ogni angolo ci sei tu! In bagno, in cucina, in sala, sulle scale e tutto questo mi fa male, perciò non ti ho scritto prima, se no adesso la lettera che stai leggendo sarebbe bagnata dalle mie lacrime! Adesso, per esempio, ho il magone, ma vedrai sono forte, ce la farò! Giuseppe non lascia per un attimo il tuo giaccone, se lo mette addosso e dice che il suo papà lo sta abbracciando, sente il tuo profumo sul collo e mi dice: "Mamma, è papà che ti abbraccia" (.)".


Cari lettori, sono ritornato da qualche giorno dopo aver ottenuto un permesso premio; questa lettera (N.d.R.: la lettera ricevuta dalla moglie e dal figlio di cui sopra) mi ha colpito molto, così ho deciso di pubblicarla per far capire a chi legge quello che provano le nostre famiglie. Sono ancora commosso e felice!

Per un paio di giorni sono stato col magone, ma un magone di gioia e pieno d'amore. Il succo della lettera mi affascina molto: nonostante tutti gli anni che sono stato lontano da loro, questa è la conferma che sono riuscito a trasmettere ad entrambi tutto l'amore che provo per loro; anche attraverso quella piccola ora di colloquio abbiamo mantenuto i nostri rapporti intatti, con in mezzo un muro divisorio tremendamente fastidioso per 5 anni! Ecco, questo si può definire il vero amore; diciamo che sia la prova più dura da superare per scoprire se due persone provano quell'amore per cui mai nessun ostacolo può farle dividere; questa prova è superata!

Però nello stesso tempo ho il cuore in pena per loro, non hanno commesso nessun peccato e devono pagare le mie pene con me, soffrendo quanto me; ricordo qualche anno fa che mia moglie era più forte di carattere, anzi ha saputo sostenermi nei momenti difficili, ma anche lei ora sta cedendo; credo che abbia retto fin troppo per una ragazza che non sapeva neppure che esistesse questo tipo di sofferenza! Ho la sensazione che loro stanno soffrendo più di me, tanto da indossare il mio giaccone e immaginare che sono io che li sto abbracciando: deve essere il massimo della sofferenza!

Sono disperato per i pianti che sta facendo mio figlio: da quando sono rientrato, ieri li ho visti, sono venuti a colloquio, ho cercato di sdrammatizzare nel migliore dei modi, parlandone con lui, ma senza esito! Lui non approva il fatto che tutti i papà dei suoi amici di scuola sono nelle loro case con i rispettivi figli ed io no! Pensate, il primo giorno che sono uscito in permesso, abbiamo fatto una festicciola organizzata da mia moglie, facendo invitare alcuni dei suoi amici con i loro genitori, e mentre giocava con loro ha detto: "avete visto che ho anch'io un papà vero?" Questo significa che avevano fatto pensare al mio piccolo che era senza papà, e questo mi fa pensare molto! Comunque sono soddisfatto che abbia potuto dimostrare agli amici che io esisto e rimarrò, per sempre, il suo migliore amico.



Sono un padre detenuto che a suo tempo avrebbe dovuto spiegare ai propri figli, nel modo più corretto possibile, del luogo in cui mi trovavo, cioè il carcere. Il mio arresto è avvenuto mentre attendevo mia figlia all'uscita della scuola e solo per pochi minuti la bambina non ha assistito alla drammatica scena. Mentre venivo condotto in carcere, i miei occhi non erano collegati con le reali immagini del percorso, vedevo solo i visi di mia moglie e dei miei figli riflessi nel vetro del finestrino.

Quei visi mi seguivano assumendo forme distorte e sofferenti; era la mia coscienza che le proiettava, e nel medesimo istante il carabiniere seduto accanto a me mi chiedeva: "Darra, cosa dirai ai tuoi figli?". Nel frattempo sono arrivato in carcere e, una volta in cella, ho ripreso subito i miei angosciosi pensieri: lo squallore del luogo in cui mi trovavo allontanava il desiderio di raccontare ai miei figli che ero in prigione. Così ho deciso fermamente di non parlarne, intanto i giorni passavano e i miei pensieri mutavano continuamente.

Questa altalena è finita quando ho avuto il primo colloquio con mia moglie; dopo un forte abbraccio le ho sussurrato: "Come stanno i ragazzi?", e lei mi ha risposto: "Chiedono insistentemente di te e di dove ti trovi". Le ho detto che, per il momento, non era mia intenzione svelargli che ero in carcere e poi però le ho chiesto se condivideva la mia scelta. Ricordo che mi ha risposto in modo più prudente, nel senso che avrebbe preferito interpellare delle persone qualificate, per esempio uno psicologo, per chiedere un consiglio.

Ho capito allora che non era insensato rivolgersi ad un esperto, e così abbiamo deciso di comune accordo con Loredana di prendere tempo, anche perché ero in attesa di sapere dal mio avvocato se ci sarebbero stati sviluppi positivi riguardo ala mia situazione giuridica.

Quando è venuto l'avvocato, dopo avermi spiegato chiaramente la mia posizione, mi ha detto che per il momento avevo fatto bene a non far venire a colloquio i figli, perché esistevano concrete possibilità di un mio ritorno a casa.

Infatti, anche con l'aiuto della buona sorte, dopo un breve periodo di detenzione ho potuto tornare a casa, agli arresti domiciliari. La felicità di riabbracciare i miei figli e mia moglie ha cancellato immediatamente il ricordo della brutta esperienza appena vissuta. Ma non ero completamente felice, perché continuavo a nascondere la verità ai miei figli e cercavo di dare una giustificazione a questo mio comportamento appellandomi al " buon senso". Ovviamente le domande non tardavano ad arrivare, e una di queste la ricordo in modo particolare: "Papà, perché non esci mai da casa?".

La mia risposta fu insensata; ho risposto loro che non potevo uscire perché ero malato e la mia guarigione dipendeva dal fatto di non prendere colpi d'aria .i miei figli, allora, controllavano

continuamente che le finestre di casa fossero chiuse in modo accurato!

Nel vedere tanta premura, tanta tenerezza da parte dei nostri ragazzi, mia moglie si è commossa e io mi sono sentito sprofondare. Mi ero comportato in modo meschino per cercare di nascondere la verità, il fatto di essere detenuto, quella verità che non dovevo tacere se volevo davvero completare la felicità del mio ritorno.

Oggi trovo assurdo l'aver nascosto ai miei figli ciò che avrei dovuto rivelare, ma è anche vero che quella rivelazione andava "assistita", prima e dopo l'uscita dal carcere, perché il carcere è una realtà sociale che i ragazzi devono conoscere e un padre detenuto deve trovare la forza di raccontargliela.

Cinque anni dopo sono tornato in carcere, sempre per quegli stessi reati per i quali è arrivata la condanna definitiva, e questa volta non ho tardato molto a farlo sapere ai miei figli; però, l'unico luogo dove avrei potuto discutere con loro dell'accaduto era la sala colloqui, e quel luogo non è il più adatto per scambiarsi dell'affetto, premessa indispensabile per affrontare un discorso così delicato con dei figli adolescenti.

Il motivo che mi ha spinto a raccontare questa mia esperienza è la voglia di far comprendere quanto sia importante creare nel carcere luoghi adatti, strutture appositamente allestite per accogliere i familiari, dove i familiari possono entrare come degli "ospiti" e non come dei "semidetenuti". Un luogo dove poter cucinare un pasto, da consumare poi assieme a loro, dove scambiarsi un bacio, una carezza, un abbraccio senza barriere, senza essere sotto lo sguardo dell'agente. Solo così un detenuto può trasmettere e ricevere quell'affetto necessario per mantenere vivi i valori veri della vita, solo così può spiegare ai figli che cosa gli è successo, cercare di star loro vicino, assumersi quelle responsabilità che, a volte, nella vita libera non era stato capace di affrontare.



Quando sono stato arrestato Sofia e Camilla (i nomi sono di fantasia) avevano tre e sei anni, ora dieci e tredici, ed in questi sette anni sono molto cambiate, soprattutto fisicamente: Sofia era grassottella, con i capelli corti ed i dentini storti per il ciuccio sempre in bocca che le aveva deformato il palato; ora è un figurino, i capelli lunghi e i denti quasi perfetti. Il carattere è rimasto lo stesso, sempre affettuosa, simpatica e "sbarazzina". Ogni volta che ci vediamo vuole essere coccolata e devo raccontarle le cose che facevamo quando era piccola, alcune le ricorda ed altre le ha oramai dimenticate. La notte spesso si svegliava, mi chiamava e battendo la manina sul letto mi diceva :"Papà, papà, veni, c'è potto.", così da dormire assieme.

Camilla è una splendida signorina, sempre più bella e molto sensibile, ma con un carattere spigoloso e ribelle che denota in maniera esasperata tutto il suo disagio interiore. Ha assorbito in maniera enormemente traumatica tutta la mia vicenda giudiziaria, ne mostra chiaramente le angosce e le paure, non accetta il distacco di quel cordone ombelicale virtuale che, fortunatamente , ci tiene uniti nonostante tutto. Quando mi racconta le simpatie per qualche amichetto o compagno di scuola, credo che mi si legga in faccia la classica gelosia dei papà nei confronti della figlia femmina.

Si confida molto con me, cerca il mio appoggio e mi scrive lettere bellissime, per le quali pretende risposte riservate, solo per lei, che non devono essere lette da nessun altro componente della famiglia.

Ha avuto un bruttissimo lungo periodo, legato alla mia detenzione e quindi alla mia mancanza, che le ha provocato "crisi epilettiche - convulsive da angoscia di separazione dal padre", che il consulente del Tribunale, nella relazione redatta allorquando presentai richiesta di permesso per incontrare Camilla fuori dall'ambiente carcerario, descrisse esattamente così: ."la conferma viene offerta da quanto avviene nel periodo post-critico (cioè nel periodo successivo ad una crisi epilettica), quando cioè Camilla esprime comportamenti incongrui e dissonanti, talora francamente confusi, ma che documentano sostanzialmente il disagio dei vissuti interiori, costantemente legati alla figura paterna che comunque ha mantenuto in lei una presenza ed un significato importanti (in queste occasioni talora Camilla si rinchiude in un armadio o comunque in un ambito angusto, quasi a voler condividere con il padre la condizione di restrizione e di costrizione).

E' ovvio quindi che una migliore interazione ed una più facile disponibilità relazionale con il padre potrebbero rivelarsi decisivi per il ripristino di un migliore equilibrio psicoaffettivo e comportamentale e riflettersi quindi favorevolmente anche sul decorso della malattia.".

Anche Camilla, spesso, mi chiamava la notte; dormiva sulla mia pancia, arricciando continuamente i miei capelli fra le dita, abitudine, quest'ultima, che ha mantenuto tuttora quando ci vediamo. Quando sono stato condannato all'ergastolo ha quasi fatto finta di nulla, salvo aggirare l'ostacolo chiedendomi se il mio coimputato, al quale è stata inflitta la medesima pena, sarebbe dovuto morire in carcere. La domanda diretta, probabilmente, sarebbe stata troppo dolorosa per entrambi.



Con R. ho condiviso quattro anni di carcere, due dei quali nella stessa cella. Ventiquattro mesi durante i quali, se c'è feeling, la conoscenza si trasforma in sincera amicizia; si condivide l'angoscia, quando le cose vanno male e la felicità quando le notizie sono buone. L'amicizia porta a confidarsi ed inevitabilmente i sentimenti confluiscono all'interno di una specie di unico, grande contenitore, anche se quelli più profondi rimangono nell'intimo e nel cuore di ognuno.

Di R. "conosco" la famiglia, la voglia di uscire al più presto dal carcere, così da essere di aiuto alla moglie ed ai figli dopo parecchi anni di assenza forzata.

Il trasferimento ha separato le nostre strade due anni fa, ma con R. non si è mai interrotta la corrispondenza epistolare. L'argomento principale delle nostre lettere sono sempre i figli e le mogli, le "solite" problematiche legate alla scuola dei bimbi, il calcio che magari viene prima dello studio e così via.

Questo fino a un mese fa, quando R. mi scrive "preoccupato" per qualcosa che proprio non aveva previsto: il rischio di essere scarcerato!

R. in carcere dal giugno 1993, si era "illuso" che la suprema Corte di Cassazione rendesse finalmente definitiva la sua sentenza, così da poter chiedere la liberazione anticipata e l'ammissione ad una pena alternativa. Ma queste erano previsioni che, nella migliore delle ipotesi, comportavano l'attesa di parecchi mesi, ossia i tempi di fissazione della relativa camera di consiglio.

In realtà R. aveva fatto i conti senza l'oste, meglio, non aveva affatto preventivato che la Suprema Corte potesse dargli ragione.

"E adesso che il procedimento è stato annullato, che il processo dovrà essere rifatto, non è che tra due mesi mi buttano fuori? D'altronde sai, scadono i 9 anni di custodia cautelare, e non potranno più tenermi.!

Proprio oggi parlavo con mia moglie ed ho espresso il mio timore nel tornare a casa, non timore nel senso proprio della parola, ma nel senso che dopo 9 anni "un estraneo" irrompe nella loro vita.

Mi spiego meglio: facendo i conti e considerando di aver fatto tutti i colloqui (cosa impossibile), in 9 anni li ho visti 27 giorni. Questo vuol dire che i ragazzi sono cresciuti con la madre, si sono fatti una loro vita, si sono guadagnati una certa libertà ed autonomia, anche se dosata, e con molta parsimonia, da mia moglie. Sono felicissimi che io torni a casa, ma sono consapevole che sarà un trauma per tutti e quattro. I rapporti con i figli sono difficili quando si cresce tutti assieme, figurati dopo una lontananza di 9 anni; dovremo riabituarci alle rispettive abitudini, a convivere tutti assieme nel più breve tempo possibile, dovrò essere io a rientrare pian piano nel loro modo di vivere.non posso nascondermi dietro a un dito, questa è una delle prove più difficili della mia vita: riconquistare la famiglia, negli affetti e nella fiducia, nell'amore e nella quotidianità".

Potrà anche sembrare una reazione strana, quella del timore di rientrare in famiglia, ma tant'è. E' di questi giorni l'ultima lettera di R. E' stato scarcerato venti giorni prima della scadenza dei termini massimi, ma gli anni trascorsi in carcere rimangono troppi, senza una sentenza definitiva che accertasse la sua eventuale colpevolezza. Non è di questo però che volevo parlare, ma solo di affetti, per far capire quanto il momento più atteso possa, a volte, addirittura spaventare.

"A casa tutto bene, pensavo peggio, non ho quasi sentito il trauma dell'inserimento in famiglia, anche se mi sento un po' strano benché mia moglie e i miei figli non mi facciano pesare questa situazione.. Si comportano come se io non fossi mai mancato. La gioia di essere a casa dopo 8 anni, 11 mesi e 10 giorni? Non lo so, non riesco a descriverla, sono cose che vanno provate.".


Note:


"Ristretti Orizzonti", https://www.ristretti.it/; "Magazine 2", https://www.ildue.it/.



SOFRI, F. CERAUDO, Ferri battuti, ArchiMedia, Pisa, 1999.


AA.VV., Forum: l'affettività in carcere, https://www.ristretti.it/.


PATRIZIA, Agli affetti potevamo pensarci prima, quando andavamo a commettere reati, https://www.ristretti.it/.


AA.VV., Sesso, amore e fantasia.ma più fantasia che altro, "Ristretti Orizzonti", periodico di informazione e cultura dal Carcere Due Palazzi di Padova, n.2 anno 4, marzo-aprile 2002.


AA.VV., Donna e reclusa, https://www.ristretti.it/.


G. CAMINITI, Senza occhi indiscreti, https://www.ildue.it


AA.VV., Le donne della Giudecca parlano di : sesso taciuto e negato, separazioni e divorzi, colloqui in condizioni avvilenti, https://www.ristretti.it/.


CHRISTINE, Figlie, mogli, madri: l'affettività è donna, https://www.ristretti.it/.


(10) ASSOCIAZIONE COMUNITA' SAN BENEDEtTO AL PORTO, Un'ora di colloquio, "Area di Servizio", giornale di strada di Genova, https://space.tin.it/edicola/lizaccar/.


(11) CHICCA, Quei colloqui disumani con l'uomo che amo, https://www.ristretti.it/.


(12) FRANCESCA, L'insostenibile felicità del colloquio settimanale, https://www.ristretti.it/.


(13) E. FLACHI, Quattro telefonate al mese, un piccolo diritto, ma inevaso, https://www.ristretti.it/.


(14) NAUFEL, ABDUL, Detenuto e telefono: un impossibile percorso ad ostacoli, https://www.ristretti.it/.


(15) E. FLACHI, Il disagio dei familiari dei reclusi quando capita che più componenti della stessa famiglia finiscano in galera, https://www.ristretti.it/.


(16) AA.VV., Parlando di affetti nelle carceri italiane, https://www.ristretti.it/.


(17) C. DARRA, Come spiegare ai propri figli di essere detenuto, https://www.ristretti.it/.


(18) M. OCCHIPINTI, Se solo ci fosse una migliore interazione nei rapporti fra le persone recluse ed i loro familiari, https://www.ristretti.it/.


(19) M. OCCHIPINTI, Quando l'ipotesi di essere scarcerati può spaventare, https://www.ristretti.it/.


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