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Figli reclusi: la tutela e la salute dei figli delle detenute




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Figli reclusi: la tutela e la salute dei figli delle detenute


La legge italiana con gli articoli 146 e 147 del codice di Procedura Penale, ricorda quale sia il problema presente ancora oggi, della situazione dei figli in carcere, dal punto di vista della salute e dello sviluppo socio-psico-affettivo dei piccoli, i quali si possono considerare, anche loro "ristretti" in carcere.

Con gli accorgimenti presenti in questi articoli, si è voluta dare la possibilità di ripristinare i rapporti con i figli, permettendo anche al padre, qualora la madre non potesse prendersene cura, di allevare i figli.

L'effettiva attuazione della legge verte anche sulla reale possibilità di ri-creare legami con i figli, sulla mancanza di recidiva da parte delle detenute e sul parere finale del Magistrato di Sorveglianza, il quale può anche non concedere le Misure alternative, se non le ritiene idonee al caso specifico.

La tutela della salute dei bambini in carcere è indagata anche dal Dottor Libianchi il quale sottolinea come prima  e dopo il parto, la gestante amplifica i problemi e i disagi dovuti alla gravidanza: l'isolamento rispetto alla famiglia, i locali poco salubri, le malattie infettive, la poca igiene, rendono la situazione delle madri e dei figli difficili nel carcere.

Il bambino è inoltre particolarmente soggetto a irrequietezza, pianto, crisi improvvise, disturbi del sonno e improvvisi risvegli, oltre a variazioni di peso sia in eccesso che in difetto.

Vi sono fattori contestuali quali:

un ambiente coercitivo stressante

modelli di comportamento stereotipati

scansione innaturale del tempo

limiti relazionali

la mancanza di una figura maschile

la distanza della famiglia

le perquisizioni

Fattori sanitari come:

un ambiente patogeno (TBC, epatite virale, ecc.)

alimentazione differenziata

personale non preparato specificamente

E  fattori generali.

usi religiosi

non ci sono standard di riferimento

c'è una disomogeneità della distribuzione geografica

«Emiliana ha appena compiuto tre anni e quello è stato un gran brutto giorno. Il giorno che ha ricevuto l'annuncio di dover essere dimessa dal carcere.[.] Emiliana qualche giorno fa è stata portata in un istituto vicino al carcere, inattesa di una difficile decisione su quello che sarà il suo destino. Ora in carcere entra come tante altre persone.[.] Quando arriva non ha paura del posto, anzi chiede alle agenti di farla salire nella sua cameretta (che sarebbe quella che divideva con la madre), chiede di salutare altre detenute con cui aveva instaurato un rapporto affettivo, trova ogni scusa per farsi arrestare di nuovo e continua a domandare alla madre: Perché non mi vuoi più qui con te?».

Vivere in un carcere produce problemi psico-fisici ad un adulto, questa situazione di malessere e disagio se vissuta da un bambino in via di sviluppo, può diventare una problematica aperta sulla sua crescita relazionale e psicofisica (Libianchi 2001)

Il fenomeno di queste detenzioni infantili coinvolge circa 50 bambini l'anno nel totale delle carceri italiane, ed è rilevante in quanto coinvolge la struttura famigliare (madre-figlio-padre) disgregandola o danneggiandola.

Alla data del 31 Dicembre 2000 nelle carceri italiane, erano presenti 2326 donne, di cui 1049 (il 45.1%) con condanna definitiva. Altre 1121 (il 48.2% delle donne detenute) al momento della rilevazione erano ancora in attesa di giudizio definitivo, mentre le donne internate (cioè ricoverate in ospedali psichiatrici giudiziari) erano 81 (il 3.5%).

Le donne straniere erano 923 (pari al 39.7%del totale delle donne detenute).

I dati forniti dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria del ministero della Giustizia, evidenziano che alla data del 30 Giugno 2000, in carcere vi erano 15 donne in stato di gravidanza, 56 madri detenute e altrettanti bambini al di sotto dei tre anni negli asili nido delle strutture carcerarie.

Dei 18 asili nido nelle carceri presenti sul territorio nazionale, alla fine del 1998 soltanto 14 risultavano funzionanti, 4 non erano funzionanti e nessuno era in allestimento.

L'incremento pari a zero, in questi anni, di queste strutture mostra come il problema della tutela psico-fisica dei bambini non abbia il giusto peso nel panorama carcerario.

Queste strutture sono diminuite negli anni, bisogna però aggiungere che i magistrati sono stati più attenti all'interesse dei fanciulli, applicando le norme sulla scarcerazione, contribuendo così a ridurre, se pur parzialmente, i bisogni.

«G: Sì, però allora parliamo di come stanno i bambini in carcere, di questa specie di detenzione speciale che vivono fino ai tre anni qui dentro.

Psicologa: E' sempre una separazione di affetti e comunque è uguale, le separazioni sono sempre traumatiche per tutti. Quando c'è un legame molto forte come quello tra madre e figli, è duro il distacco, comunque non basta stare sempre attaccati al bambino per avere un figlio sano psichicamente, questo non è essenziale, bisogna avere una relazione madre e bambino sana. Vuol dire che questa madre dà sufficienti sicurezze al bambino per affrontare la vita fuori e affrontare anche le separazioni. Su questo bambino, da quando nasce, deve esserci quindi un progetto differente da quello che riguarda te, che sei la madre. Allora questi tre anni di vita qui dentro sinceramente a me danno dei problemi, perché il bambino è fuori dal mondo: c'è un primo anno di vita importante, però dopo bisogna vedere in che condizioni psicologiche è questa mamma detenuta, come ha vissuto questo primo anno di vita del figlio, se la struttura l'aiuta a risolvere i problemi psicologici che ha avuto»

Libianchi nella sua inchiesta sul carcere e la tutela dei minori, sottolinea come a livello normativo, la prima conseguenza è quella di togliere la centralità del fanciullo, specificatamente la sua innocenza, per far espiare la pena al genitore: questo succede, ad esempio, quando il figlio minore di tre anni, non può essere affidato all'altro coniuge durante la carcerazione della madre/padre, perché sottoposto anch'egli a misure cautelari.

In questo caso non può essere applicato il dettato costituzionale, che vede agli articoli 30 e 31, il diritto-dovere al mantenimento dei figli da parte dei genitori, sorretto e coadiuvato da sgravi economici, per proteggere la maternità e l'infanzia.

Negli articoli 146 e 147 del Codice di procedura penale, viene prevista la sospensione della pena dal settimo mese di gravidanza fino al compimento del sesto mese di vita del neonato per tutte le donne che abbiano subito una condanna, l'ulteriore sospensione dal sesto mese di vita all'anno è invece  facoltativa e si applica se manca la possibilità di affidare il minore ad un parente. Qualora la madre fosse deceduta, queste norme possono essere applicate al padre.

Al termine della sospensione, la donna deve fare rientro in carcere, con o senza il figlio, inoltre al compimento del terzo anno d'età (il giorno seguente il compleanno) il bambino non può più restare in carcere e viene obbligatoriamente allontanato dalla madre  e, se non sono cambiate le condizioni per l'affido (ossia se il bambino non ha parenti o terzi a cui essere affidato), viene affidato a una famiglia o a un istituto assistenziale, rendendo così anche difficile il reinserimento nel nucleo famigliare originario.

Con l'applicazione della Legge Simeone si è aperto uno spiraglio per una condizione migliore dell'applicazione di pene alternative alla detenzione, dando così una possibilità in più alle madri con figli da mantenere.

Il nuovo regolamento penitenziario infatti fa emergere una maggiore sensibilità per il nucleo madre-figlio e per la vita del detenuto in genere come ad esempio:

«[] Appositi reparti di ostetricia e asili nido; [.] le camere dove sono ospitati le [..] madri con i bambini non devono essere chiuse, affinché gli stesi possano spostarsi all'interno del reparto.[] sono assicurati ai bambini attività ricreative e formative proprie della loro età. [] con l'intervento dei servizi pubblici territoriali o del volontariato, sono accompagnanti all'esterno [..] per lo svolgimento delle attività predette, anche presso asili nido esistenti sul territorio»

Una volta che la madre e il bambino sono in carcere, vengono alloggiati in spazi chiamati nido: questi luoghi sono sottoposti all'ordinamento penitenziario, il quale prevede che per la cura e l'assistenza dei bambini debbano essere organizzati degli asili nido

Anche all'interno della struttura penitenziaria della Giudecca è presente un Nido, e i bambini che vi sono accolti sono per lo più figli di detenute straniere o appartenenti alla cultura Rom.

Nel carcere sono presenti anche dodici mamme, i bambini in tutto sono quattordici (tra cui una detenuta con due gemelli e una madre che ha con sé due figli).

La volontaria che ne ce ne parla per prima, evidenzia il disagio di questa situazione madre-figlio detenuti dicendo che, per la sua diretta esperienza, i bambini non dovrebbero stare in carcere, in quanto vivono una condizione di sofferenza psico-sociale, questa sofferenza non è dovuta al fatto che i bambini sono maltrattati, spesso difatti sono bambini iper-accuditi e viziati, ma perché tutte le madri presenti riversano la loro attenzione su di loro, creando quindi un attaccamento a volte insostenibile perché troppo forte e quasi morboso.

Si deve tenere in considerazione anche il fatto che manca del tutto il rapporto con figure di riferimento diverse da quella materna, come per esempio quella del padre o di altri congiunti e questo crea nel rapporto affettivo e relazionale del bambino delle problematiche che nel tempo si acuiscono sensibilmente.

Gli spazi sono chiusi e ristretti e i bambini non possono muoversi liberamente anche se le celle vengono tenute aperte per molte ore, e questo impedisce un normale sviluppo psico-fisico nel bambino che spesso ha problemi nel sonno-veglia con crisi di pianto o inappetenza o stati depressivi per la mancanza di stimoli sensoriali coi quali rapportarsi.

In Italia sono in tutto 53 le madri con figli in carcere, ma purtroppo ad oggi non si è riuscito a trovare una sistemazione idonea per risolvere questa problematica..

Le ragazze consigliano a Franca di mandarlo a crescere dalla madre:'Che peccato ha mai fatto questo figliolo?', le dicono. Ma lei risponde: ' E' l'unica cosa bella che  ho e non riesce a staccarsene, proprio non ce la fa a vivere senza di lui. Ma forse prima o poi sarà costretta a farlo.» (Farè, Spirito; 1979).



1 Figli "ristretti" alla Giudecca


Alla Giudecca è presente un'associazione, Arcobaleno , che si occupa di portare i bambini fuori dal carcere per alcune ore, più volte la settimana. Il problema però nasce al momento del rientro in carcere, in quanto alcuni bambini si fermano sui gradini e non vogliono ri-entrare: sintomo anche questo del disagio infantile rispetto alla vita carceraria, in quanto questi bambini appaiono, come sottolinea,anche una suora intervistata che lavora nel carcere veneziano, spenti e apatici rispetto ai bambini che crescono all'esterno. Bisogna infatti considerare che attorno ai diciotto mesi i bambini cominciano a rendersi conto di essere in  un universo limitato e limitante, oltre che artificioso e con orari e ritmi imposti, gioco-forza, anche a loro.

Al compimento dei tre anni poi, i bambini devono uscire obbligatoriamente dal carcere, ed è proprio in questo momento che, dice la suora, nascono traumi visibili se il giudice non dà l'approvazione per gli arresti domiciliari alla madre, in quanto il distacco madre-figlio è dolorosissimo e provoca spesso problematiche nei piccoli.

Per quanto riguarda la realtà della Giudecca i bambini presenti sono, come già prima si evidenziava, figli di donne zingare o di madri straniere, per lo più nigeriane e quindi le problematiche che insorgono al compimento del terzo anno di età dei piccoli sono ancora più elevate. Considerando la questione delle nomadi, si può notare come , sia molto più difficile il loro accesso a forme detentive alternative, in quanto con la rete di collegamenti via internet presente oggi, è molto facile che compaiono sullo schermo tutti gli alias della detenuta e quindi tutte le imputazioni a suo carico, impedendole quindi di accedere a qualsiasi beneficio, perché considerata pericolosa e incline alla recidiva. Una volta invece molte zingare usavano il pretesto della maternità per poter uscire dal carcere e tornare a vivere di furti come prima.

Oggi invece il giudice, davanti ad una scheda in cui compaiono molteplici nomi falsi, difficilmente consente gli arresti domiciliari (una volta c'è stato un caso anche di 53 alias utilizzati da una donna zingara) per cui i bambini, se non vengono affidati ad altri parenti, rimangono con la madre.

Nel caso delle detenute straniere invece, queste hanno molto paura di perdere i figli e quindi preferiscono portarli con loro in carcere. Spetta infatti alle madri la decisione di dare il proprio figlio ad una famiglia affidataria o a un istituto mentre sono in carcere piuttosto che di tenere con sé i figli

Gli istituti tengono i bambini solo i mesi in cui la madre deve finire di scontare la pena, se questa è più lunga, l'affidamento va a delle famiglie esterne le quali poi si recano in visita alle detenute portando con sé i bimbi.

Anche un'altra volontaria intervistata, a proposito della sua esperienza nel Nido del carcere, spiega come una volta esso fosse collocato dove oggi esiste l'attuale infermeria ed accogliesse all'incirca 7/8 bambini al massimo, soprattutto figli di donne nomadi o di madri che avevano commesso omicidi e che quindi potevano tenere i piccoli con loro fin al compimento dei tre anni. Oggi, invece, i bimbi presenti in carcere sono per lo più di donne straniere oltre che delle nomadi, e per queste ultime i problemi per usufruire dei benefici sono maggiori.

Per le nomadi ora è più difficile poter uscire dal carcere con pene alternative, in quanto madri di figli sotto i tre anni: una volta molte di queste donne infatti partorivano figli anche perché sapevano che sarebbero state messe in pena alternativa se arrestate per i classici reati di furto, oggi invece, con le nuove tecnologie e la possibilità di verificare in tempo reale tutti i capi di accusa di una ristretta tramite internet, le nomadi sono spesso considerate recidive o pericolose e il giudice, verificando le varie identità date dalla detenuta e attribuite alle stesse impronte digitali, non concede loro alcun beneficio.

Quando la volontaria intervistata, si sofferma a parlare del Nido e della presenza di bambini in carcere, dà anche lei una visione negativa della permanenza dei piccoli in carcere, sottolineando come la presenza di minori all'interno di strutture penali sia molto negativa soprattutto per una crescita equilibrata del bambino: lei stessa ha visto bambini cadere in forme di depressione o isteria dovuta all'essere chiusi in spazi privi di stimoli e con la continua e asfissiante presenza della figura materna.

Molte donne infatti si aggrappano emotivamente ai figli e riversano su di loro sofferenze e affetto anche in dosi eccessive creando un rapporto possessivo deleterio per la crescita del bambino.

Per ovviare a questo e per dare un po' di respiro a madri e bambini si cerca di dare spazio all'associazione Arcobaleno in cui sono presenti educatrici e volontari, si organizza per far uscire i piccoli dal carcere, ma non è certo una soluzione ottimale perché comunque il tempo trascorso fuori non riesce a mediare con tutto quello passato all'interno del carcere.

Ecco perché questa volontaria, sostiene che si dovrebbero creare delle strutture ad hoc per queste detenute e per i loro figli in modo da non creare traumi nella crescita e nello sviluppo di questi ultimi.

Anche la volontaria che si occupa della Giudecca, per quanto concerne la parte delle attività esterne quali la Redazione del giornale Ristretti Orizzonti , sostiene che i bambini comunque risentono di questa loro permanenza in carcere: non ci sono figure maschili con cui rapportarsi e i piccoli imparano subito la terminologia usata dalle poliziotte: la parola terapia per esempio quando le agenti portano le medicine e gli psico-farmaci alle detenute, viene subito usata e ripetuta dai bimbi, inoltre i piccoli, sono chiusi in cella in orari determinati e non possono uscire quando ne hanno voglia, e questo produce delle problematiche in loro.

Nei casi delle Rom poi, quando ci sono i colloqui e le madri portano con loro i figli piccoli, nascono forti crisi nel separare, a fine colloquio, i fratelli fuori dal carcere dai piccoli tenuti dalla madre dentro.

Molte donne, specialmente le italiane, sostengono che preferirebbero affidare il figlio a parenti piuttosto che tenerlo in carcere.

Libianchi, nella sua analisi sulla condizione delle detenute madri e soprattutto dei piccoli in carcere dice come appaiano discutibili-rari e controversi, gli studi che hanno indagato sull'effetto che l'essere detenute ha sulle gestanti e sui bimbi di donne detenute al momento del parto o che hanno subito una carcerazione.

Generalmente il periodo che precede e segue il parto è permeato di grande ansia per la maggior parte delle donne, per coloro che sono in carcere i normali stress sono amplificati, così come il vissuto di inadeguatezza e impotenza.

Il background di deprivazione sociale, la mancanza di rapporti con i famigliari (se non addirittura la cessazione di essi), l'isolamento, la salute fisica e mentale non stabili e la consapevolezza che il bambino potrebbe essere affidato ad un ente assistenziale sono alcuni dei problemi e disagi che devono vivere queste donne, e pongono in evidenza come abbiano bisogno di tutela maggiore rispetto alle persone libere.

Riportando i risultati di alcuni studi sull'argomento, l'Autore evidenzia come il paradosso secondo cui in carcere, le detenute gestanti avrebbero migliori cure che all'esterno (quando erano libere) amplia

l'esigenza di ulteriori studi sulle effettive cause dei problemi di giustizia sociale.

Dopo aver trattato l'argomento della salute in generale e poi anche nell'ambito delle detenute madri e dei loro figli, si recupererà nel prossimo capitolo, l'universo femminile delle detenute, ampliando qui, i concetti del secondo capitolo sull'invisibilità delle donne in carcere, e soprattutto ponendo attenzione alla salute psico-affettiva delle donne, poiché al di là delle malattie organiche e fisiologiche amplificate o nate durante la carcerazione, non bisogna dimenticare certo, come alcune patologie siano di squisita natura psico-somatica, e che i casi di depressione e suicido o di autolesionismo, siano purtroppo, una realtà presente ad oggi nel carcere.


2 Testimonianze dalla Giudecca: madri e figli


Nel paragrafo sulla salute si è spiegato come a livello psico-fisico i bambini risentano, dello stare in un ambiente punitivo, dove gli spazi sono ristretti, e non ci si può muovere liberamente e spaziare con lo sguardo al di là della cerchia muraria.

E' un luogo chiuso, privo di stimoli, una campana di vetro adagiata sulla testa dei piccoli.

«Attraverso il riquadro di vetro in cima alla porta ho visto un pezzetto di cielo traforato dalle punte nere e aguzze dei pini dall'altro lato della strada. E dietro gli alberi c'era la luna, quasi piena, gialla e luminosa. Di colpo mi sono sentita soffocare. Ero in trappola, con quel quadratino tentatore di notte sopra di me e tutt'intorno, ad avvolgermi in un intimo, soffice abbraccio asfissiante, la calda atmosfera femminile della casa». (Sylvia Plath)

La Plath, parla della sua sensazione di disagio opprimente, dell'affetto materno, del suo sentirsi chiusa all'interno di uno spazio troppo piccolo per poter respirare, vivere e crescere.

La Plath esprime a suo modo qualcosa di vicino all'universo dei bimbi in carcere: l'atmosfera femminile della casa dove vive è opprimente, la nausea, le toglie il fiato, e così i piccoli "ristretti" sono in continuo contatto, con figure femminili, che li circondano, siano esse agenti oppure le loro madri o le altre detenute che li riempiono di attenzioni a volte eccessive.

Non c'è una figura paterna all'interno della struttura, così i bambini non riescono ad avere anche l'affetto di una figura diversa da quella materna: a volte le donne sono in città diverse da quelle d'origine, quindi, qualora il coniuge potesse raggiungerle sarebbe comunque un rapporto distante anche a livello geografico, il padre pendolare quanto può effettivamente stare con il figlio? Che tipo di rapporto si riesce a creare a livello quantitativo ma soprattutto qualitativo? (Crocella, Coradeschi 1975).

«G: Si parla tanto di madre e bambino, ma del rapporto tra il padre e il bambino non si parla quasi mai, perché? Capita anche che ci sono padre e madre in galera. E' così diverso il rapporto che può avere il papà nei confronti di un bambino? Secondo me è lo stesso, è vero che qui siamo tutte donne e che la donna porta in grembo il bambino, ma in realtà però se parliamo di relazione e di affetti non so. per me può essere più importante mio padre che mia madre. Perché non mi può essere data la possibilità di vivere con mio padre, o di passare con lui un determinato periodo di tempo? Può darsi che con mio padre abbia instaurato un rapporto migliore che con mia madre».

Ora grazie ad alcune nuove normative anche i padri possono decidere di chiedere la detenzione domiciliare qualora la madre del loro figlio non avesse la possibilità di poter avere cura di lui, e quindi si sono ampliate delle visioni che fino a qualche anno fa non erano state mai nemmeno considerate.

Questa prospettiva investe anche il padre nel suo rapporto relazionale con il figlio, però all'interno delle strutture detentive, è da ricordare che il bambino è comunque in stretto legame con la madre, situazione questa che può portare disagio ai piccoli, per l'esclusività che si viene a creare nel rapporto stesso.

In carcere le madri hanno dei comportamenti ambigui e contradditori verso i loro bambini: Crocella e Coradeschi descrivono una situazione particolare che rappresenta questa tipologia comportamentale in un capitolo del loro testo che qui di seguito viene riportato.

«Cristina mangia in cella insieme alla madre.

Le altre madri preferiscono imboccare i figli stando in piedi nel corridoio, attorno al tavolo dove viene distribuito il pasto (.) ci troviamo di fronte al bisogno di esercitare il ruolo materno in tutte le sue possibili sfumature, accentuando quella protettiva per compensare la situazione di abbandono e di privazione affettiva in cui le donne si trovano (oltre che) al senso di colpa nei riguardi dei figli.»

Cristina invece non mangia così, la madre la fa stare seduta a tavola con lei, nella sua cella e le insegna a mangiare così come glielo avrebbe insegnato se fossero state fuori dal carcere: «[] la madre, che le siede, vicina, dice ad ogni cucchiaiata: "mangia piano - bene quel cucchiaio - non così pieno- pulisciti la bocca prima di bere- stai composta- attenta a non rovesciarlo- hai visto cos' hai fatto?".

Cristina ha rovesciato il cucchiaio pieno in mezzo alla tavola.»

La madre di Cristina si comporta in modo naturale, educa la figlia nel modo in cui ha appreso deve essere fatto a sua volta dalla madre, ha fatto proprio il modello comportamentale comunemente accettato e alleva la figlia così come ci si aspetta debba essere fatto.

Questo suo modo di fare, secondo gli autori, le permette di realizzarsi come madre e donna all'interno di una struttura coercitiva, in cui il suo diritto di potere viene meno (in realtà questo diritto non è stato mai esercitato da questa donna perchè prima sottoposta all'autorità genitoriale, poi a quella del marito e ora a quella del carcere).

Assumere un modello comune, in questo caso, viene automatico perchè è una via obbligata alla realizzazione del proprio sé.

Può apparire contraddittorio che la madre di Cristina, prenda la premura di rimproverarla per delle piccole cose, dal momento che il contesto primario è l'essere in una cella, ma si può meglio percepire la situazione se la si contestualizza col fatto che la madre ha come target l'educare per il meglio la proprio bambina, farla diventare una "brava figliola" e quindi farle avere un comportamento corretto e migliore di quello, per esempio, del bambino della nomade che è in carcere, aiutandola ad avere prospettive di inserimento maggiori.

In carcere i bambini, sono ben lavati, curati, pettinati, diventano la dimostrazione del riscatto materno, l'esibizione che la madre è stata capace di educarlo al meglio, che pur essendo una "criminale" non manca di avere verso di lui delle cure perfette, delle attenzioni continue in modo che la sua condizione di detenuta sia in qualche modo riscattata, perchè comunque è una brava madre attenta le regole comuni sull'educazione e l'allevamento dei figli.

Il rispetto delle regole genitoriali, la capacità di essere una buona madre diventano, portatrici di un messaggio alla società, messaggio che vuole far capire come l'atto socialmente riprovato e condannato che queste donne hanno commesso, sia solo un episodio, un incidente, che però non incide sul rapporto di cura del figlio (Crocella e Coradeschi 1975).

E' da aggiungere comunque, che all'interno del carcere ci sono certi comportamenti dei bambini che vengono tollerati in modo maggiore rispetto alla tolleranza che riceverebbero se compiuti in un contesto diverso per esempio in una comune famiglia.

Gli Autori, citano l'esempio di una bimba che giocherella e spezza consecutivamente, le sigarette del pacchetto della madre, e questa e le altre detenute la guardano senza dire nulla, le "comprano", mutando l'espressione del testo, una tranquillità in un modo diverso rispetto a quello che accade fuori.

L'elemento sigaretta, diventa quindi un gioco, una scoperta sensoriale della piccola, e benché in carcere le sigarette siano una merce importante, nessuno agisce per bloccare questa "scoperta", per privare la piccola della gioia del gioco che sta facendo.

Così come un altro bimbo, figlio di una nomade si rotola sul pavimento sporco e sul terreno, mentre la madre non gli dice nulla, diversamente da come accadrebbe nel mondo "normale", nel mondo dei "non reclusi", in cui i comportamenti del genere verrebbero subito sedati e modificati con atti fisici o psicologici sul piccolo.

Le carcerate, diventano un gruppo stretto intorno ai bambini, sono madri in comune, che cercano di aiutare il benessere dei piccoli, e si assumono il ruolo di cura anche se il figlio non è il loro.

Le detenute madri sono recluse in una sezione chiamata nido, sezione che non è a contatto con le altre detenute, se non quando ci sono i momenti d'aria.

All'interno del carcere c'è una puericultrice che si occupa dei bambini, e un pediatra.

Le madri possono tenere con loro i bambini fino ai tre anni d'età, ma sono molte quelle donne che, recluse in carcere, hanno i figli lontani o perchè maggiori di tre anni, o perchè lontani o ancora, perchè affidati a famiglie o a parenti.

Durante le interviste ho parlato del problema della maternità in carcere, degli affetti rubati e sottratti, e di come vivono le detenute madri all'interno della Giudecca.

Alcune delle donne intervistate hanno avuto esperienze dirette con detenute-madri a Venezia o comunque esse stesse sono madri, con figli lontani e la problematica degli affetti e della cura dei figli è stata da loro così espressa:

«[] vedi le altre piangere perché sentono la mancanza dei figli e tu non vuoi riprovare quelle dolorose sensazioni, ti allontani e allontani da te le persone che stanno male per la paura di ricadere in quelle emozioni e riviverle. Diventi più dura per forza per non crollare, alcune crollano.

[.] Comunque io mi sento molto fortunata perché ho mia madre e mia suocera che ringrazio, perché stanno con i miei figli, e poi si vede che quel poco che ho dato ai miei figli è rimasto, perché comunque non ho paura che non mi riconoscano quando li vedrò, mi sento ancora la loro mamma» (Soggetto B).

«Le detenute madri alloggiano al nido, è uno spazio grande.

Conosco una detenuta con un figlio e tramite le suore l'ha fato affidare ai parenti.

Quando ho lasciato il mio Paese, mia figlia aveva 16 anni e non voleva che io andassi via.

Non voleva che facessi quello che ho fatto.

Mia figlia ha sofferto tanto e anche io perché quando me ne sono andata è stata anche la prima volta che uscivo dal mio Paese.

Adesso ci scriviamo» (Soggetto C).

«C'è la sezione a parte preparata per loro, hanno condizioni giuste, il numero è vario, dipende possono esseri anche 13 o 20, dipende dal periodo, d'estate sempre di più, perché ci sono sempre zingare d'estate» (Soggetto D).

«Stanno in una sezione diversa dalla nostra, ma fanno l'aria con noi.

Sono specialmente le sinte, le slave, che secondo me, si portano i bambini dentro, da come ho visto io ma potrei sbagliarmi, soltanto per sfruttarli, perché pensano di poter uscire prima, e che il giudice sia più clemente, ma non è così.

I bambini rimangono dentro fino ai tre anni, però i bambini capiscono lo stesso cosa succede anche se sono piccoli.

Vedono che sei chiuso ogni sera, sentono sempre le stesse cose "Mangiare", "Agente" e queste cose qua, e cominciano parlare con il linguaggio del carcere perchè crescono con il linguaggio del carcere, non è bello per un bambino.

Anche perché i piccoli si alzano sempre presto e poi magari vogliono uscire fuori e andare a giocare quando apre il blindo alle 8 e non possono, vederli attraverso le sbarre, ti spezza il cuore. Hai sbagliato tu non loro, meglio darli in affido ad una famiglia che si occupi di loro finché non sei di nuovo fuori, temerli là dentro sembra un crimine» (Soggetto E).

Da questi stralci di intervista emergono alcune tra le problematiche, analizzate durante l'elaborato ossia l'essere madre distante dai figli, il senso di colpa per l'abbandono del nucleo famigliare e per la mancanza di cure per i propri bambini che non sono con loro in carcere, il dolore degli affetti spezzati o vissuti in modo singultivo, e rallentato: lunghi periodi senza poterli vedere, e poi qualche giorno insieme per poi ri-separarsene, oppure rapporti epistolari o telefonici che assumono un'importanza fondamentale per sentire che il proprio essere madre ha ancora valore, che i figli le aspettano e si ricordano di loro, di quello che è stato loro insegnato, di com'è la propria madre.

Ma cosa dicono le persone che lavorano nel carcere? I volontari che seguono anche le detenute madri?

Una volta il nido era gestito dalle suore, così come molte altre cose all'interno del carcere, e nelle seguenti interviste riportate, ci sono dei riferimenti alla situazione passata e presente, e soprattutto usi rapporti madre-figlio all'interno del contesto detentivo.

La volontaria A racconta: «Quando sono entrata io c'era il nido che era nell'infermeria attuale, c'era una suora addetta al nido ed erano 7/8 dieci bambini al massimo o di detenute per omicidio e il bambino stava lì e poi veniva affidato alla famiglia di origine ma la stragrande maggioranza erano di detenute nomadi.

Mentre attualmente il nido ospita bimbi di straniere o latino-americane e zingare per spaccio di droga che hanno bambini e sempre nomadi, non mancano mai.

Una volta ho fatto una tesi e una parte era dedicata alle detenute nomadi che erano tantissime, perchè sono stata due- tre anni nella loro sezione e avevo approfondito la loro cultura, perché andavano a rubare etc. di generazione in generazione adesso è cambiato un po' ma mica tanto perché l'economia della famiglia zingara è basata sulla donna, per cui rubano da piccole per la famiglia di origine, rubano appena sposate per la famiglia del marito perché devono in qualche modo restituire la dote che la famiglia del marito ha pagato, e poi finalmente rubano per la loro famiglia, quindi è una vita durissima.

Poi c'è stata una serie di leggi in favore delle detenute madri, io nel primo periodo sono stata in sezione e poi sono ritornata nel 1994 in carcere e mi sono occupata del nido e li ho visto la tragedia di questi bambini in carcere, perché ci sono delle leggi che favoriscono che la mamma sconti la pena all'esterno e infatti sono state applicate all'inizio ma per le detenute nomadi non funzionano adesso perché loro continuano ancora a diciamo commettere reati di furto per cui adesso non usufruiscono più di quei benefici ossia gli arresti domiciliari, la sospensione della pena perché per loro è diventato un po' una scusa no, ossia sono incinta la legge mi mette fuori quindi posso andare a rubare ancora di più, qualcuno ha fatto figli 3-5-6 per evitare il carcere però ad un certo punto anche quando smettono di fare figli arriva tutto il cumulo delle pene passate, e arrivano 6-8-10 anni fare e quindi sono cose molto dure, perché loro non reggono in carcere più di un anno, un anno e mezzo, per il loro tipo di vita.

Nel 1978 c'era una sezione intera di nomadi perché dalla Jugoslavia venivano qui a rubare, minorenni e poi venivano rimandate indietro e continuavano a fare avanti e indietro e a cambiare centomila nomi, adesso invece sono sempre di origine slava ma sono già residenti qua in Italia nei campi nomadi di Torino, Milano, Bologna, e girano ancora vivono con questo sistema del rubare.

Adesso il carcere se lo fanno quasi tutto, perchè prima riuscivano a far perdere le loro tracce, adesso con le impronte digitali computerizzate appena uno viene arrestato si vede subito sul computer il certificato penale con tutte le condanne da fare.

[.] mi sono occupata fino al 2000 del nido coi bambini e li ho visto il dramma dei bambini detenuti, è vero che sono vicini alla mamma e la psicologia dice che è bene che i bambini siano vicini alla mamma per i primi tre anni, però per esperienze che ho fatto io non in carcere, vicino alla mamma sì ma fuori, perché il bimbo assorbe tutto, dal latte respira la tensione che la mamma, e io ho visto dei bambini che soffrivano di depressione o diventare isterici perchè non sopportavano più il clima, la situazione, le porte, la mamma che piangono, adesso c'è anche un'organizzazione di volontarie che li portano fuori, in modo che si stacchino dalle mamme perchè è un bene che escano, ma stare 24 ore insieme alla mamma.bisogna pensare che un bambino normale in una famiglia ha, papà mamma, zii, nonni altra gente, solo la mamma diventa asfissiante.

E anche qualche volta il rapporto diventa deleterio, possessivo, morboso

«E' cresciuto bene, è educato, un po' irrequieto, anzi non sta mai fermo, ma poi gli passerà.

Là dentro lo viziavano tutti. Per me poi era tutto, non c'era nulla che non gli avrei dato.

[] Non sono stati lunghi quei due anni là dentro. Il guaio è successo quando siamo usciti, io e lui. Per Angelo è stato uno choc. Non voleva vedere nessuno, aveva paura di tutto, mi stava attaccato alla sottana, cupo, scorbutico, lui che era tanto carino là dentro. Ci sono voluti dei mesi per farlo tornare normale. Cioè, è rimasto tanto nervoso, ma sembra che abbia passato come uno choc.

Ecco lui ha avuto lo choc della libertà»

«La bambina non è carcerata,, però mi dice 'mamma, vado via, ciao' e sa benissimo che non può uscire da quella porta».

Di sotto l'esperienza della volontaria B

«Qui ci sono 12 mamme che hanno i bambini qui e sono 14 bambini perchè una signora ha due gemelli e una signora ha due bambini invece di uno.

Stanno al nido e lì stanno coi loro bambini.

Io ne penso molto male nel senso che un bambino non deve assolutamente entrare in carcere.

Capisco che vogliono avere vicino i loro bambini, ma io ho visto soffrire tanti bambini non perché qualcuno fa loro male o non fa il suo dovere coi bambini non c'è una persona che vuol male ai bambini qui dentro anzi sono bambini super-viziati, però hanno l'attenzione i troppe donne insieme, hanno anche l'attenzione delle madri che non hanno figli dentro con loro, che riversano su questi bambini la loro esigenza di maternità, e quindi stanno male perché è un ambiente artefatto e poi comunque le madri hanno i loro problemi e vederle così non li rende bambini sereni.

Dovrebbero essere affidati a famiglie esterne. In Italia le mamme con i bambini in carcere sono 53 si dovrebbe creare una situazione alternativa al carcere per loro.

Questo è un ambiente falso.

I bambini quando sono piccolissimi non si vede se stanno bene o male anche se le madri lo notano, però se questi bambini entrano che hanno un anno e ci restano fino ai tre anni, si vede che non stanno bene e hanno una grossa sofferenza, li vedi spenti.

Qui c'è l'associazione Arcobaleno che li viene a prendere 3/4 volte la settimana, a volte vengono a prendere i bambini e li portano fuori, però quando è il momento di rientrare i bambini si siedono sui gradini e non vogliono entrare.

I bambini capiscono tutto.

Quando i bambini poi compiono i 3 anni e devono essere portati via è una tragedia, o il giudice dà alla madre la possibilità degli arresti domiciliari o è una gravissima tragedia staccarli a quell'età.

Questa cosa dipende dal giudice poi i bambini che sono qui sono figli di donne zingare, di donne straniere e le donne zingare fino a 3/4 anni fa quando erano incinte venivano mandate via con gli arresti domiciliari, adesso questa cosa qui succede meno perché avendo tutti i collegamenti sul computer di tute le carceri, in matricola risultano tutti gli alias di questa persona, quindi il giudice quando ha davanti una donna pur incinta con un bimbo di pochi giorni, non tiene conto della legge sulla maternità ma degli alias e di quante volte è stata in carcere e la ritiene pericolosa. Anche se sono cose piccole sono reiterate e così il giudice non le fa uscire.

Mentre le donne straniere hanno paura di perdere i figli, quindi se li portano qui.

Quando i bambini compiono 3 anni vengono dati a famiglie affidatarie che poi comunque vengono in carcere, comunque è la madre che decide se darlo ad una famiglia affidataria o metterlo in un istituto.

Gli istituti li tengono i mesi che la mamma devi farsi ancora però se la mamma deve farsi nani non lo mandano in un istituto ma in una famiglia, perché per quanto siano istituti di 8/10 bambini i bambini hanno bisogno di una famiglia dove crescere.

L'Istituto della pietà, sono bravissime le educatrice che lavorano, lo riconosco però non è una famiglia per i bambini».

«Sono tutte straniere. C'è una figura professionale che è la puericultrice, le madri vivono con i loro bambini in cella alla sera e poi di giorno invece sono aperte e lì fanno da mangiare, ci sono dei giochi, c'è l'orto, però molto spesso le vedo negli ambienti comuni, vedo girare questi bambini non solo lì dove stanno a dormire ma anche nelle sezioni comuni, poi c'è un'associazione di volontariato, Arcobaleno, che porta fuori i bambini all'asilo o al mare d'estate su iniziativa del comune di Venezia. Certo insomma è sempre una vita.

I bambini è ovvio risentono di tante cose, del fatto che non ci sono figure maschili, i bambini ripetono e usano la terminologia dell'ambiente carcerario, tipo terapia e poi risentono del fatto che a una certa ora sono chiusi dentro e non c'è nessuna possibilità di uscire, che è una struttura che non permette l'usuale libertà data a un bambino.

Poi per esempio ci sono i figli di Rom e quando ci sono i colloqui ci sono donne che hanno i bimbi piccoli dentro e fuori con la madre e poi quando vanno a colloquio separare fratelli così è molto dura, è molto pesante.

Molte donne, le italiane in particolare dicono che loro non terrebbero un bambino dentro, lo affiderebbero se possibile a parenti» (volontaria C).

Nei brani sopra riportati, si può notare come l'attenzione delle due volontarie, si sia posto sullo squilibrio del rapporto univoco madre-figlio, sulla mancanza di figure maschili all'interno della struttura carceraria e anche sulla salute dei bambini, che comunque risentono del clima di restrizione a cui sono sottoposti.

Il rapporto simbiotico madre-figlio, diventa poco salutare in quanto non c'è un'evoluzione verso rapporti "altri", ma il bimbo fa riferimento unicamente alla figura materna, e comunque a figure femminili.

Crocella e Coradeschi, si domandano che tipo di rapporto abbia il padre con il bambino in carcere, e si rispondono dicendo che non c'è rapporto, non esiste. Anche qualora il padre volesse tenere contati col figlio, questo gli sarebbe reso difficile, in quanto la lontana geografica (e quindi i permessi dal lavoro da richiedere e le spese da affrontare), e la difficoltà ad ottenere colloqui con la compagna se non si ha un rapporto regolare, rendono impossibili questi incontri, inoltre pur nei casi in cui queste barriere siano superate, si deve considerare il contesto, l'ambiente e le modalità, in cui questi incontri hanno luogo.

Crocella e Coradeschi però sottolineano che anche fuori, nella vita normale può capitare che i bambini abbiano una mancanza di rapporto con il padre, in quanto distante per lavoro oppure comunque occupato a causa della sua professione, e quindi l'esigenza più che di un padre, diventa quella di una figura maschile con cui confrontarsi.

Gli autori sostengono che una figura assente è comunque cosa meno grave che una figura genitoriale rifiutante.

Si deve tenere in considerazione, a questo proposito, come, il vivere lontano dai propri figli, per alcune detenute, comporti l'uso della bugia, della non completezza delle informazioni, della chiusura e/o interruzioni di rapporti affettivi che poi comportano difficoltà a ristabilire contati una volta uscite.

La psicologa della Giudecca : interrogata in proposito, durante una registrazione per il giornale Ristretti Orizzonti, dice:«Mi avete chiesto se una madre che sta in carcere deve dire la verità a un figlio,[.]. La risposta naturalmente è commisurata all'età del bambino, però una regola generale che va bene per tutti i fatti della vita è la verità.

[.] Di che cosa ha bisogno il bambino? Ha bisogno di vedere i genitori. Meglio che li veda in carcere piuttosto che aspettare anni per vederli, meglio che il bambino si confronti con le figure dei genitori, che non siano fantasmi. Confrontarsi con la realtà, questo conta, a tutte le età, non c'è differenza

La psicologa, aggiunge anche, a proposito dell'essere madri e della maternità, in relazione alla carcerazione: «.[.] Ma che cosa è la maternità? Maternità è creare qualcuno di diverso da sé. Tante volte quello che ho sentito qui è anche un bisogno particolare che non si capisce se è un bisogno di sentirsi madre o è di preoccuparsi davvero prima di tutto per il bambino e per il suo bene. Comunque il bambino è debole, il bambino ha tutta la vita davanti e io dico che è sempre bene pensarci, prima di tenere un bambino qui dentro».

Per quanto concerne invece la permanenza dei piccoli all'interno degli Istituti di pena, la psicologa è di questo parere: «E' sempre una separazione di affetti e comunque è uguale, le separazioni sono sempre traumatiche per tutti. Quando c'è un legame molto forte come quello tra madre e figli, è duro il distacco, comunque non basta stare sempre attaccati al bambino per avere un figlio sano psichicamente, questo non è essenziale, bisogna avere una relazione madre e bambino sana.

questi tre anni di vita qui dentro sinceramente a me danno dei problemi, perché il bambino è fuori dal mondo:

Il problema dei minori in carcere, e dei rapporti affettivi tra madre detenuta e figli, e ora anche tra padre detenuto e figli, sono ancora senza una vera soluzione, è sono rappresentativi anche della difficoltà che le emozioni possano essere vissute in ambienti come le strutture detentive.





In questo paragrafo si parlerà del disagio minorile dei figli delle detenute, i quali fino al compimento dei tre anni, possono rimanere con le madri in carcere.

Responsabile medico Unità Operativa Dipendenze Istituto Penitenziario Rebibbia di Roma

Si riportano di seguito i fattori indicati nell'inchiesta Carcere e salute di Baccaro L., 2003, op. cit.

In carcere la presenza di detenuti/e stranieri è molto diffusa. Il carcere veneziano della Giudecca, preso ad esempio nell'elaborato  tra le detenute ha circa il 70% di straniere, provenienti da varie nazionalità (ve ne sono in certi casi addirittura 24). E' significativo quindi l'aspetto degli usi e costumi e delle differenze culturali in quanto in una cella possono convivere madri di etnie diverse e quindi diversi modi di approcciarsi alla maternità e alla cura dei figli.

Problema questo sentito soprattutto per la rottura dei legami famigliari e la possibilità di mantenere un rapporto affettivo con l'esterno da parte delle madri e dei loro piccoli.

Vengono qui riportati passi citati da Bambini in carcere , Aggiornamenti Sociali, Marzo 2001, in particolare riferimento pg.195-205

Si pensi che alla Giudecca il 70% circa delle detenute è straniero.

Intervista gentilmente fornita da una volontaria del carcere della Giudecca, in occasione di una discussione tra le detenute madri del carcere Giudecca di Venezia e la psicologa sulla tematica dei figli in carcere e della situazione delle madri detenute.

Legge 27 Maggio 1998, n. 165 art. 4 Detenzione domiciliare All'articolo 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni: a) il comma 1 è sostituito dai seguenti: 1. La pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell'arresto, possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, quando trattasi dì a) donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci, con lei convivente; b) padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.

art. 19, n. 5 Le parentesi quadre sono dell'autore (Libianchi9 le tonde di chi scrive l'elaborato.

art. 11, comma 9, del vigente Ordinamento penitenziario

I dati sono stati raccolti nel corso dell'intervista ad alcune operatrici del carcere durante il periodo che va dal Maggio 2004 al Luglio 2004. Le volontarie intervistate sono state due suore che hanno avuto diretto contatto con il nido, e una volontaria che segue da vicino il carcere della Giudecca, anche tramite le attività di redazione del giornale Ristretti Orizzonti, creato dai detenuti del carcere Due Palazzi di Padova e allargato poi, come redazione anche al femminile di Venezia.

Franca Salerno militante insieme a Maria Pia Vianale e Antonio lo Muscio nei N.A. P. (nuclei armati proletari). Nel 1977 fu arrestata con la Pianale a Roma sui gradini di San Pietro in Vincoli a Colle Oppio e lì si concluse la sua carriera di nappista all'età di 25 anni. Franca è una delle tante giovani detenute politiche negli anni cosiddetti di piombo. Dopo vari trasferimenti nelle carceri italiane e una tentata fuga sarà detenuta nel carcere speciale di Badu' e Carros, e partorirà lì in un infermeria appositamente attrezzata. Il suo caso farà scalpore e porterà alla ribalta il problema delicato della maternità in carcere, tanto da venire trasferita grazie anche all'intervento di una delegazione di donne rappresentati del movimento femminista romano e di Radio donna, nel carcere speciale Gazzi di Messina.

Associazione di volontari educatrice e personale specializzato che si occupa di portare i bambini fuori dal nido negli asili o comunque in spazi aperti o al mare d'estate per consentire loro di spararsi un po' dall'ambiente carcere in cui, anche loro sono "ristretti".

L'art. 11 della legge n. 354 del 26 Luglio 1975 "Ordinamento Penitenziario" al comma 9, prevede che alle detenute madri è consentito di tenere presso di sé i figli fino all'età di tre anni. Vedi anche appendice normative.


La volontaria religiosa, ha detto durante l'intervista, di aver approfondito la tematica delle nomadi, molto accuratamente in quanto lei stessa è rimasta nella sezione carceraria di sole nomadi per molto tempo. Dalla sua ricerca è emerso che le donne nomadi sono costrette fin da piccole a rubare, prima per sopravvivere e portare i soldi in casa, poi per pagarsi la dote e infine per mantenere la loro famiglia. Le rom sono quindi spesso considerate recidive in quanto le loro attività illecite si ripetono durante tutta la loro vita e questo influisce negativamente sulla decisione del giudice di dare loro le pene alternative al carcere.

Vedi riferimento nota 28.

Il giornale Ristretti Orizzonti, che si occupa di carcere e detenzione ed è scritto dai detenuti del Carcere Due Palazzi di Padova e dalle detenute del Carcere della Giudecca di Venezia.

Le celle della parte del nido, sono diverse dalle celle normali, in modo tale da creare un impatto meno nocivo sui piccoli, però essendo comunque celle sono chiuse e aperte in orari precisi della giornata.

Cfr. bibliografia consultata dal Dottor Libianchi presente in appendice normativa.

L'Autore riportando gli esiti dice come essi siano contrastanti tra loro in quanto per alcuni vengono riportati alti casi di mortalità e morbilità tra le detenute madri a causa di malattie prettamente presenti in contesti carcerari come la Tbc, in altri però si afferma che le donne che hanno trascorso la loro gravidanza in carcere risultano avere figli in migliori condizioni di salute, rispetto ai figli di donne che sono state incarcerate in periodi diversi dalla gravidanza.

Contributo intervista per gentile concessione volontaria C.

art. 4.(Detenzione domiciliare) 1. All'articolo 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:a) il comma 1 è sostituito dai seguenti: 1. La pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell'arresto, possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, quando trattasi di: a) donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci, con lei convivente; b) padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.

Confronta capitolo V, Crocella, Coradeschi, 1975

Vedi anche capitolo primo sulle origini del carcere.

Brano tratto da Crocella e Coradeschi, op. cit.

ibidem

Insieme alla volontaria A intervistata a proposito del carcere, delle origini della Giudecca, e della tipologia di detenute e di vita detentiva durante il corso degli anni.

Cfr. anche intervista completa presente nell'appendice 2.

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