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Tra la colpa e la punizione




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Tra la colpa e la punizione


Non è facile parlare oggi di concetti come colpa e punizione, perché, paradossalmente, da una parte essi sono chiamati in causa, ed anzi invocati con forza e convinzione, ogni qual volta si vogliono difendere i propri diritti offesi o semplicemente il proprio alveo personale, culla della tranquillità del vivere comune; dall'altra parte il termine colpa viene solitamente svuotato dal suo significato più profondo, come accade per il suo correlativo, la punizione.

I mass media colpiscono incessantemente le menti con dovizia di particolari su certi crimini inconcepibili o particolarmente efferati che, a detta degli esperti (opinionisti, psicologi, sociologi, criminologi,.), sono il frutto di una società priva di valori ed ideali, dedita al consumismo e incline più all'avere che all'essere.

Gli autori di questi atti appaiono alla fin, fine, delle vittime più che dei colpevoli; delle vittime della società che, attraverso il lustro, abbaglia anche gli osservatori oltremare; delle vittime del benessere e degli agi che vengono offerti su un piatto d'argento. Un patto con il diavolo che, per le promesse che dipinge, vale la pena di firmare. 

L'opinione pubblica viene, in tal modo, sconvolta ed indignata e reclama a gran voce una punizione esemplare in grado di placare la sovversione morale che, con pollice verso, chiede vendetta.

Le false sembianze dietro cui si cela la risposta sanzionatoria è lo spettro della condanna penale che sovrasta e colpisce chi delinque, e che dovrebbe, o per lo meno così ci si aspetta, scoraggiare i potenziali trasgressori dal commettere azioni delittuose. Si attende anche che la pena implementi quel deplorevole ed immondo scoramento da parte di chi riconosce e paga a caro prezzo i propri errori; una sorta di ormeggio che fissa la propria nave nel mare del traviamento e che solo una forte ondata può smuovere e far salpare verso orizzonti meno tempestosi.

Il nesso colpa-punizione richiama alla mente il Raskòl'nikov[1] di Dostoevskij, ma suona tutt'altro che gradito alle orecchie perché non convince, non appare politicamente corretto.

Riflettendo su questi due concetti e accostandoli ad altri, per affinità o per contrasto, la panoramica che si presenta è alquanto complessa: la colpa, ad esempio, evoca concetti come errore, reato, delitto, devianza, peccato, vizio, male, angoscia, senso di colpa, disperazione, ma anche norma e legge, e quindi libero arbitrio e responsabilità, condizionamento e scelta personale, capacità d'intendere e volere, colpevolezza e imputabilità, e , infine, quale suo opposto, innocenza.

La punizione, dall'altro lato, richiama i concetti di pena, penitenza, castigo, condanna, contrappasso, ma anche vendetta, faida, legge del taglione, e poi giustizia ed equità, e infine amnistia e remissione dei peccati, grazia e perdono.

Il discorso mette in gioco una molteplicità di piani, da quello personale a quello pedagogico, da quello sociale a quello morale, da quello religioso a quello giuridico, che appaiono, paradossalmente, complementari e divergenti.

Una prospettiva più ampia consente di individuare un possibile filo di Arianna in grado di districare le menti dal labirinto concettuale.

Il binomio pena-punizione, presente in miti e leggende dell'antica Grecia, scandisce le origini della civiltà occidentale.

La guerra di Troia fu intrapresa per punire il troiano Paride, colpevole di aver sottratto a Menelao la sua legittima sposa; l'Iliade si apre, invece, con la terribile pestilenza inviata da Febo Apollo per punire gli Achei, colpevoli di aver reso schiava la figlia del sacerdote Crise.

Lo stesso Ulisse, nell'Odissea, conclude le sue lunghe peripezie punendo uno ad uno, con la morte, i Proci, colpevoli di essersi impossessati della sua casa e di aver insidiato la fedele Penelope. 

Ma è nel mito d'Edipo che il nesso colpa-punizione si presenta sotto vesti più tragiche, consacrate da una serie di capolavori della letteratura occidentale: dopo aver scoperto di aver inconsapevolmente ucciso il padre e sposato la madre Giocasta, Edipo si acceca con le proprie mani, mentre Giocasta si impicca ad una trave della camera nuziale; una mitizzazione di quel forte binomio che si chiama autopunizione per aver violato il tabù dell'incesto.

La mitologia greca è assai ricca di episodi imperniati sul rapporto colpa-punizione: Prometeo che viene condannato da Zeus ad avere il fegato, che si riproduce di continuo, roso da un avvoltoio per aver fatto dono agli uomini di una scintilla di fuoco; Orfeo che perde per sempre l'amata Euridice per aver ceduto alla tentazione di volgersi indietro a guardarla mentre la sta guidando fuori dal mondo dei morti; il cacciatore Atteone, colpevole di aver osservato Artemide mentre si bagnava ad una fonte, trasformato dalla dea in cervo, inseguito e sbranato dai suoi stessi cani.

Ed ecco presente anche nel modo greco il tema del diluvio universale come punizione collettiva, ma pur sempre di una punizione si tratta, con cui Zeus intende sterminare l'umanità corrotta.

In ogni caso, solo saltuariamente la colpa sembra essere associata ad una precisa responsabilità individuale, frutto di una scelta consapevole. Per lo più viene ricondotta alla volontà, o meglio all'arbitrio, degli dei: lo stesso rapimento di Elena da parte di Paride, nasce dall'insidia traditrice di Afrodite, che voleva ricevere dal giovane troiano la palma della più bella fra le dee; oppure la colpa è inscindibilmente legata alla forza cieca e imperscrutabile del Fato.

La colpa, dunque, motiva la sua reggenza nell'effetto dell'intervento di una potenza superiore ed oscura, nei confronti della quale il colpevole, molto spesso, è a sua volta vittima e svolge il ruolo di capro espiatorio. Nella colpa sono, infatti, già insiti la pena, la sconfitta, il fallimento, l'umiliazione e la sofferenza.

Il riduzionismo culturale, per un verso paragonabile alla predestinazione o alla volontà di un disegno divino, giustifica la condotta umana come conseguenza inevitabile dell'ambiente in cui vive. E' purtroppo lontana la percezione della società come bisogno e tutela dell'individuo; una democrazia apparente dominata dagli interessi privati, condizionata dalle economie forti che favorisce il successo dei potenti ed il fallimento del proletariato moderno, profanando quel sistema di valori egualitario che dovrebbe consentire una convivenza pacifica ed equilibrata.

E' oltremodo difficile, se non addirittura impensabile, amare una tale società e farne un parametro della propria dimensione; una torre di Babele che viene smantellata ogni qual volta il crimine e la violenza minano la sicurezza del singolo.

Ma nella vita umana non è solo la natura ad infliggere all'uomo sofferenza. Molto spesso è l'uomo stesso la causa di nuovo ed ulteriore dolore, nel suo rapporto personale con l'altro, nel suo associarsi ad altri, nel suo dar vita a forme organizzate di società, nel suo agire storico.

La punizione si rende, quindi, uno strumento ineliminabile di adesione convinta al rispetto delle norme, una categoria logica, uno strumento irrinunciabile del controllo sociale.

Attestando questa riflessione, si rende necessario altresì affermare lo spessore etico che assume l'idea di giustizia, in termini non più afflittivi e degradanti, ma esercitata con umanità, con giustizia e con ragionevolezza. E' più produttiva, infatti, una politica tesa ad investire sulla capacità dell'uomo a scegliere il bene più che una politica fondata sulla forza e la deterrenza.

Le misure alternative alla detenzione, oltre a rappresentare i primi passi che la persona muove nel tessuto sociale, propagano il concetto di servizio di pubblica utilità, che rappresenta la risposta della collettività da un lato e la risposta di chi offre non solo un proposito più o meno credibile ma soprattutto la disponibilità ad essere messo alla prova dall'altro. La colpa, infatti, trasforma la pena in responsabilità: chi ha sbagliato deve caricarsi di un fardello oneroso per riguadagnarsi il rispetto e la propria vita.

La società ha forse il desiderio di accordare questa fiducia ma ha, insieme, il timore di vederla tradita. Ma la preoccupazione per la tutela della società non è per nulla in contrasto con il rispetto e la promozione della dignità del condannato.

La popolazione si sente turbata dalle azioni criminose e cerca una risposta per equilibrarsi: nel passato questa risposta era la morte, erano i supplizi, oggi la perdita della libertà.

Forse, nel futuro, la risposta potremo averla in una riparazione costruttiva segnata dalla solidarietà.

La persona reclusa ha contratto un debito con i suoi simili; questo debito va saldato non con una sofferenza inerte e degradante ma con uno sforzo costruttivo e positivo.

La possibilità di un riscatto merita di essere perseguita anche sul piano strettamente giuridico; il progressivo percorso di umanizzazione del diritto penale ha, infatti, aperto le porte a risposte meno afflittive e più efficaci. La polifunzionalità della sanzione penale conferisce uno spessore etico al trattamento del reo, offrendo spazi deputati al suo reinserimento sociale.

La pena, pur nella sua valenza più degradante, non riesce a cancellare la dignità dell'uomo, non lo priva dei suoi diritti fondamentali. Nessuno viene sradicato per essere stato rinchiuso in un luogo irreale e snaturato. L'errore deturpa ed indebolisce la personalità dell'individuo ma non la nega , non la distrugge, non la declassa. Chi ha sbagliato dovrà percorrere un irto e scosceso cammino di ritorno verso la realtà di partenza, verso il recupero della propria dignità e il rientro nella comunità. La pena non deve, quindi, spezzare le catene e la speranza della redenzione.

Dalla visione di una pena intesa come sofferenza, intesa come frattura che si contrappone ad un'altra frattura e dunque come male che deve essere patito, deriva la centralità del carcere che, tuttora, caratterizza il sistema punitivo italiano, anche se non risulta funzionale a fini preventivi, in quanto giustificato solo come momento di arresto.

La pena carceraria si dimostra capace da un lato di assoggettare la distruttività del castigo al parametro contrattuale (principio della retribuzione), dall'altro di rendere funzionale lo stesso castigo al processo produttivo (principio della rieducazione).

Il penitenziario è dunque il luogo, teorico e fisico, che permette il pieno dispiegamento della teoria liberale della pena secondo cui la migliore difesa sociale si può avere solo quando il trasgressore risarcisce il danno procurato alla società pagando, con il proprio tempo, ed assoggettandosi contemporaneamente, in fase di esecuzione della pena, alla disciplina. Solo in questo modo chi commette un reato può essere reintegrato nel tessuto delle relazioni giuridiche come soggetto docile, non più aggressore della proprietà, ma pronto a "vendere sul mercato la sua forza lavoro per sostentarsi".

La Commissione Grosso[2] indica la volontà di introdurre nel nostro paese pene principali di carattere non detentivo, una dilatazione del ventaglio delle sanzioni, nell'ottica di una sussidiarietà reale, di una estrema ratio nel ricorso ad una pena detentiva.

E' sempre più evidente l'inadeguatezza di misure semplicemente repressive o punitive ed è, per questo, necessario ripensare la situazione carceraria nei suoi fondamenti e nelle sue finalità.

Accanto alle pene fondate sulla privazione di diritti (in particolare le pene di tipo interdittivo, con un ambito di detenzione domiciliare e un ambito, inevitabilmente ristretto, di lavoro libero) si rende necessario istituire e valorizzare comportamenti attivi e significativi da parte del reo (ad esempio attraverso le sanzioni a significato risarcitorio).

In tal modo verrebbe percorsa la strada di una risposta sanzionatoria che potrebbe essere sì onerosa ma al contempo ristabilizzante un patto infranto con l'ordinamento giuridico.

Affinché la persona detenuta, una volta saldato il debito con la giustizia, possa elevarsi alla sua dimensione di uomo e di cittadino, possa giocare il suo ruolo con perfetta regolarità e possa ripensarsi in termini nuovi è necessaria una revisione in chiave critica del proprio vissuto, una sorta di rivisitazione commentata sul passato, un'autocritica che spinga oltre la conoscenza superficiale di sé, una rinuncia ai falsi meccanismi di difesa che inducono a fuggire, a giustificarsi e ad autoassolversi.

Certo, il pentimento è un atto intimo ed individuale dell'animo che nessuna autorità umana può imporre, o anche solo accertare. Ma i sistemi punitivo e carcerario debbono rispettare la dignità dell'uomo; la sanzione penale, nella sua natura e nella sua applicazione, deve essere tale da garantire la tanto giustamente invocata sicurezza sociale, senza, per altro, colpire il sistema di valori insito in ogni individuo, anche se, a volte, occultato.

Si rende necessaria la volontà per stabilire nuove progettualità, la riabilitazione al vivere conformemente alle regole dettate dalla comunità di appartenenza, una rinascita personale e sociale che consenta di guardare ad un futuro di speranza.

Attraverso i singoli è coinvolta tutta la società, chiamata ad atti concreti di solidarietà e di recupero nei confronti dei carcerati, chiamata a predisporre cammini di redenzione e di crescita personale e comunitari improntati alla responsabilità. A fondamento di questa solidarietà deve essere posta la consapevolezza del comune stato di peccatori, proprio del genere umano, che ha iniziato la sua storia proprio con una colpa; è, questo, un tema esistenziale che tocca tutti perché ciascuno di noi, in maniera più o meno considerevole, è stato macchiato dal peccato.

Il modo in cui la società guarda chi delinque incarna parte del vissuto e della sofferenza di ogni persona umana e sottolinea il grado di civiltà di un popolo.

Il velo che, oggi, si frappone fra il mondo esterno e l'istituzione penitenziaria impedisce di elevarla alla sua misura reale. Il carcere viene mitizzato a luogo deputato all'espiazione di pena, strumento attraverso cui si esplica la sanzione penale nella sua effettività; è il contenitore delle condotte antisociali che creano notevole disturbo alla collettività; è il simbolo, per antonomasia, dell'ordine e della disciplina; è il fecondo mezzo di difesa sociale.

Il carcere, saggiamente celato agli occhi quasi a testimoniare e a garantire l'atavica continuità di un luogo austero, degradante ed afflittivo, fomenta l'indifferenza dei mass media, che ne concretizzano la presenza solo a fronte di fatti che generano violente polemiche in ambito politico o allarme sociale, come nel caso di eclatanti evasioni.

L'imperturbabilità che caratterizza la cultura del XXI secolo, si risolve in un atteggiamento che costringe ad adottare il virgiliano consiglio del "non ragioniam di lor, ma guarda e passa"; tutti gli elementi che creano disturbo, fastidio, imbarazzo vengono vestiti di un'immagine che li porta lontano, oltre il nostro sguardo, per non doverli incontrare nella quotidianità di una vita costellata di agi, comodità, ricchezze, eccessivo perbenismo. La certezza che il libero arbitrio di cui siamo dotati faccia da padrone al corso della vita e ci consenta, cioè, di saper scegliere tra bene e male, tra giusto e sbagliato, rafforza il senso di giustizia che si muove nei confronti di chi ha scelto la via, apparentemente, più semplice, quella dell'illegalità; un'espugnazione contro il delitto che trova il suo acume nell'allontanamento, dalla società, da parte di chi ha sbagliato.

Come si può pretendere di parlare di risocializzazione quando il luogo deputato alla sua realizzazione sembra, paradossalmente, destinato a chiudere gli occhi e volgere lo sguardo altrove?

Eppure la convinzione di fondo, quella che ci fa crescere e maturare, risiede nell'insegnamento che si può trarre dagli errori altrui, per non dimenticare che la popolazione carceraria rappresenta un enorme creditore che paga gli errori commessi da un'intera società.

La battaglia di una persona detenuta non si esaurisce, dunque, nel tentativo di giocare la propria dignità in una situazione che, paradossalmente, sembra fatta apposta per perderla, ma sembra trovare un proseguo nel tentativo di ricostruirsi come persona nel tessuto sociale.

Il carcere sembra scandito da un moto perpetuo destinato ad abbandonare i corpi e le menti alla tracotanza, alla sofferenza inerte e degradante, all'abbrutimento. In realtà, l'art. 27 Cost. ed il finalismo rieducativo della pena strutturano in sé i primi passi che l'istituzione carceraria deve muovere per consentire al soggetto detenuto di alzarsi in piedi e ricominciare a camminare in una realtà che, seppur diversa, possa rappresentare una possibilità preziosa per migliorarsi.

Le attività trattamentali ed il lavoro all'esterno (ai sensi dell'art. 21 O.P.) consentono alle persone ristrette di ripensarsi in termini nuovi, favorendo l'acquisizione di nuove competenze e rafforzando l'autostima per poter così puntare l'obiettivo verso una forma di riscatto che possa fungere da base d'appoggio per una redenzione personale.

Alcuni passi sono stati fatti per abbattere quel muro che, inesorabilmente, separa il vivere quotidiano da quel luogo invisibile di perdizione o che, si vorrebbe mantenere tale.

Nel tentativo di mediare l'area di separazione tra mondo penitenziario e comunità sociale, sono state aperte le porte al carcere non solo per consentire ai soggetti detenuti di intraprendere un percorso di riabilitazione lavorativa e sociale ma anche per promuovere una nuova sensibilità in coloro che conoscono il carcere solamente attraverso nozioni svuotate e snaturate.

Affinché il carcere, in generale, e la popolazione detenuta, in particolare, rimangono nell'ombra, la valenza rieducativa della pena viene automaticamente relegata alla sua dimensione custodialistico ed affittiva.

Gli stereotipati pregiudizi del sentire comune, ancorati agli ancestrali paradigmi che dipingevano i galeotti come criminali filogeneticamente determinati e senza speranza di un ritorno alla normalità, alleati demoniaci, mostri fonte del terrore collettivo, sovraccaricano la funzione penale ed un possibile reinserimento del reo in quella società che lo ha allontanato, per un periodo più o meno lungo.

L'apertura ad una nuova e rinnovata sensibilità consente di ridurre gli spazi fisici e sociali che si frappongono fra due realtà che sono l'una lo specchio dell'altra, che per la loro esistenza necessitano di un continuo confronto. Si vogliono, in tal modo, definire i confini tra lecito ed illecito, garanzia per una convivenza sociale ed ordinata, ma al contempo evidenziare che la pena detentiva, al di là della sua funzione preventiva, è lo strumento che consente reo una progressiva consapevolezza di sé.




Protagonista del romanzo "Delitto e castigo" di Dostoevskij che, dopo un duplice delitto, trascorre i suoi giorni ossessionato dal crimine commesso fino a che decide di costituirsi alla polizia sapendo di dover espiare pesantemente la sua colpa.

Il ministro di Grazia e Giustizia Flick, con D.M. 1 ottobre 1998 ha nominato una commissione per la riforma del codice penale, alla quale ha assegnato il compito di estendere entro il giugno 1999 un documento che evidenziasse le linee generali di un sistema riformista ispirato al principio del diritto penale inteso come estrema ratio di tutela. Una particolare attenzione è stata dedicata al tema delle sanzioni penali, la cui riforma appariva prioritaria dato lo stato di totale incertezza ed imprevedibilità che caratterizzava tale settore, allo scopo di delineare un sistema caratterizzato da certezza e prevedibilità da un lato, minore temibilità apparente ma maggiore durezza effettiva dall'altro.

Rilevato che oggi a causa dei margini edittali troppo alti previsti dal c.p. molte volte il giudice risulta vero e proprio arbitro della pena in concreto, la Commissione ha proposto di ridurre il potere discrezionale del giudice nella commisurazione della pena.

Constatato che il sistema vigente, severo in apparenza, ma concretamente privo di efficacia preventiva a cagione del sovrapporsi disordinato di istituti di diritto penale sostanziale, processuale e penitenziario che vanificano di fatto l'esecuzione della pena astrattamente prevista, la Commissione ha proposto un ventaglio di profonde innovazioni, tra cui l'affiancamento alla reclusione, quale pena principale, di un articolato complesso di pene alternative, tra cui la prestazione lavorativa non retribuita a favore della collettività.

Per maggiori informazioni sul tema cfr. GROSSO C.F., Per un nuovo codice penale II, Cedam, 2000, pag. IX ss.

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