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COMPITI E COMPETENZE DELL'EDUCATORE PENITENZIARIO:DAL MODELLO NORMATIVO ALLA REALTÀ ISTITUZIONALE
1 - Evoluzione del concetto di pena ed articolo 27 della Costituzione: brevi cenni.
La figura dell'educatore penitenziario è indissociabile dal processo evolutivo che ha investito nel corso dei secoli il significato e l'uso del sistema giuridico - penale in generale e della sanzione penale in quanto suo aspetto particolare, che ha condotto alla emersione dei concetti di umanizzazione del trattamento penitenziario e di rieducazione sui quali si fonda l'esistenza della sua professionalità.
Tra i cambiamenti più significativi è utile ricordare il graduale passaggio da una pena intesa come feroce supplizio del corpo, reso ancor più atroce e sadico dal suo carattere pubblico, e della tortura del corpo stessa come mezzo istruttorio (ovvero come strumento per stabilire la verità) ad una pena invece concepita sempre più come momento staccato-lontano dalla fase precedente che ha condotto alla sua esecuzione, la fase cioè processuale, e sempre meno legata ad una sofferenza visibilmente corporea del colpevole, in tanto acquisendo di umanità in quanto perdendo di atrocità. Sin da ora comincia a farsi strada l'istanza di un'umanizzazione della pena.
Secolo spartiacque fra le due visioni è stato il settecento: infatti è tra la fine del secolo XVIII e l'inizio del XIX che la lugubre festa punitiva, caratterizzante la tortura nell'epoca classica e medievale, si va spegnendo, trasferendo l'interesse e la pubblicità dell'evento dall'esecuzione della pena alla fase processuale, la cui sentenza di condanna diviene di per sé marchio di segno negativo ed univoco[1].
La spettacolarizzazione della sofferenza del reo che, in epoca premoderna, prevedeva la partecipazione del popolo onde esprimere al meglio la propria efficacia, aveva come principale obiettivo non tanto quello di ripristinare e ristabilire la giustizia violata a seguito del comportamento trasgressivo della norma, quanto quello di riattivare il potere del sovrano, messo in discussione e ferito dal gesto criminale. Lo scopo principale era quindi quello di ostentare l'onnipotenza invincibile del sovrano, la sua forza superiore rispetto al suddito che avesse osato violare la sua legge: la pena del supplizio fungeva quindi essenzialmente da operatore politico. Ma la sua ragion d'essere comprendeva anche fattori economici e non solo, anche culturali in senso lato, all'interno di un modus vivendi in cui il rapporto con la morte - influenzato da certo cristianesimo - non era di ostacolo ad un certo "disprezzo" nei confronti del corpo[2].
Le conquiste compiute in campo politico e sociale nel secolo dei lumi, che vede il trionfo della ragione sui secoli di oscurantismo religioso che l'avevano preceduto, quello della centralità dell'individuo e del patto sociale di roussoniana memoria, si riflettono anche in campo giuridico e penale. Beccaria, nel suo libro Dei delitti e delle pene, scritto nel 1764, parlerà di universalità, chiarezza e precisione della legge, di una sua rigorosa applicazione, di pubblicità dei giudizi di prova, e del carattere di necessità e di utilità della pena[3].
Di matrice illuministica è la Scuola classica, sorta e fiorita specialmente nel XIX secolo, che vuole e riesce a liberarsi dell'autoritarismo in nome di un diritto naturale (non più divino)[4], fondandosi su alcuni precetti fondamentali, il primo dei quali, relativo alla libero arbitrio dell'uomo. L'essere umano è cioè capace di autodeterminazione in quanto capace di scelta, e concretizza, in quella, il maggior tributo alla libertà, valore caro al secolo dei lumi. Di tale libertà egli è di conseguenza responsabile, nel bene come nel male. Ma è solo quando questo male coincide con la violazione di una norma dettata dalla legge dello Stato, che si può parlare di delitto. Perciò il delitto diviene, usando un'espressione di Carrara Francesco, ente giuridico e non più ente di fatto . Ciò è pensato anche al fine di tutelare la libertà dell'individuo stesso da ogni possibile invadenza e arbitrarietà statuale, ciò che in uno Stato di diritto, risulterebbe inammissibile. La pena, in tale concezione, è la tutela giuridica del diritto violato ed in quanto tale è legittimata ad esistere. La pena, quindi, nella visione classica, si giustifica in quanto reazione da parte dell'ordinamento giuridico nei confronti di chi con la propria azione, lo abbia vulnerato. Nella sostanza essa è un castigo, una punizione derivante dall'esigenza di tipo etico per cui a bene segue bene e a male segue male . Perciò pena che si giustifica in conseguenza del male fatto, in una prospettiva orientata verso il passato .
Entro questo arco di tempo, la prigione è progressivamente divenuta la regina delle sanzioni penali. Spartendo inizialmente il suo compito con altre modalità punitive, quali ad esempio le pene pecuniarie e quelle correttive del codice penale del 1787 di Giuseppe II d'Austria[8], si è via via emancipata da queste commistioni per divenire l'unica modalità esecutiva della pena . Sulle cause che hanno condotto proprio la detenzione a divenire una delle forme più utilizzate di castigo legale non mi soffermerò nell'economia di questo discorso: ci sono comunque diversi modi di interpretare la storia, anche quella della "conversione" delle prigioni al ruolo di pena . Comunque sia, resta il fatto che la nascita del penitenziario ha posto sin da subito il problema del trattamento del detenuto .
Problema ancor più sentito a partire dagli ultimi due decenni dell'800, momento storico in cui sorge in Italia un'altra delle grandi voci della legislazione penale, di posizione affatto diversa da quella classica. Si tratta della Scuola positiva del diritto penale, denominata così per i forti influssi su di essa esercitati dal positivismo spenceriano e comtiano, a sua volta influenzati dalla teoria evoluzionistica di Darwin, in un atteggiamento di sostanziale rifiuto di ogni metafisica e di ogni spiritualismo che invece connotava l'altro indirizzo scolastico. Cardine su cui si fonda tutta la sua dottrina è il principio del determinismo, di contro al libero arbitrio su cui si fondano invece le posizioni retribuzionistiche. L'individuo che delinque, lo fa cioè a causa di una forza superiore o ad ogni modo altra rispetto alla sua volontà: per il positivismo delle origini[12], essa è da ritrovarsi nell'anomala anatomia del cervello delle persone delinquenti . L'attenzione viene poi spostata dal di dentro dell'individuo al di fuori di esso, cioè alle cause sociali che ne determinano i comportamenti, per poi arrivare ad un'analisi del rapporto che intercorre fra criminologia e il diritto . In ogni caso, essendo l'azione delittuosa assolutamente determinata, la pena non può essere retributiva, non può cioè trovare il suo scopo nella punizione. Non si può infatti punire chi non ha colpa (crollo del concetto di imputabilità): egli va curato onde pervenire ad un suo riadattamento sociale, quando e se si può; in caso contrario, esso va reso innocuo alla società, ovvero neutralizzato. Quindi una pena concepita come strumento di difesa sociale, in funzione preventiva rispetto alla commissione di possibili reati futuri.
Entrambe le posizioni, pur se fortemente divergenti, contengono un elemento comune: il fatto di rapportarsi con il singolo fatto criminoso e con il singolo individuo, pur ponendo maggiore attenzione al momento del fatto, la prima, all'uomo che l'ha commesso, la seconda[15].
Entrambe inoltre, contengono in quegli elementi, dei possibili motivi di pericolo, se assolutizzati[16], e ancor più se combinati insieme, come è effettivamente accaduto in concomitanza con la nascita e lo sviluppo del potere fascista il Italia. Dalla prima teoria estremizzando la concezione dello Stato e delle sue leggi come bene assoluto, in cui aspetti giuridici ed etici si frammischiano in una miscela esplosiva che guarda al fatto di reato come ad un male assoluto, per di più compiuto ai danni del supremo bene, in quanto massima espressione della collettività, che è lo Stato. Dalla seconda attingendo invece - pur combattendola per il resto su tutta la linea - la nozione di pericolosità del soggetto, dalla quale scaturirà il sistema del "doppio binario", che vedrà aggiungersi alla pena la misura di sicurezza, indeterminata nel massimo della durata .
Solo la scuola positiva presenta degli aspetti da cui si svilupperà poi la concezione della funzione rieducativa della pena[18]. Infatti, ponendo l'attenzione non tanto sulla carcerazione in sé, quanto sulla persona che la vive, essa spinge a scoprire le cause che l'hanno determinata, per poter così pervenire ad una loro rimozione, in funzione di un futuro rientro della persona nella società, rieducandola.
Entrambe saranno però comprese nella Costituzione della Repubblica italiana, entrata in vigore agli albori del 1948.
Infatti, gli articoli della nostra Costituzione che prendono in considerazione gli atti illeciti, i loro autori, il rapporto fra individuo e legislazione penale sono due: l'articolo 25 e l'articolo 27.
L'articolo 25 ribadisce il principio di matrice classica del nullum crimen sine lege, ovvero il principio di legalità secondo cui nessuno può essere punito per un fatto che non sia previsto dalla legge come reato.
L'articolo 27 porta con sé semi di entrambe le derivazioni. Nell'affermare che la responsabilità penale è personale (1° co.), riafferma l'esistenza del libero arbitrio dell'essere umano (pilastro portante della concezione classica della pena), e nel dirlo, intende ribadire che dalla sanzione penale viene colpito colui che ha commesso il fatto criminoso e nessun altro.
Nell'affermare che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità (prima parte 3° co.) l'art. 27 riporta in primo piano la tutela della persona da atti o pratiche offensive e lesive della sua dignità, sia a livello fisico che psichico[19]; dicendo che le pene che devono tendere alla rieducazione del condannato, reintroduce invece il concetto, di matrice positivistica, di riabilitazione del reo al vivere civile, da conseguirsi in questo caso attraverso l'opera di rieducazione.
Delle due istanze presenti a livello costituzionale, è quella affermata nel terzo comma a rendere conto dell'introduzione della figura professionale dell'educatore penitenziario, il quale, fino al 1975, gravitava all'interno del solo circuito penale minorile, per lo meno in via ufficiale[20].
Se non altro, quindi, l'art. 27 ha il pregio di aver posto le basi per un cambiamento di rotta, certamente non indolore, che deve ancora però essere recepito nella sua valenza innovativa più profonda: ovvero nel fatto di poter giungere alla attuazione di una pratica di reale attenzione alla persona.
Di ostacolo a questa ricezione vi è innanzitutto il senso dato alla parola rieducazione nel dettato costituzionale: esso infatti era legato a concezioni mutuate dall'ambito religioso o da quello medico[21]. Perciò rieducazione come emenda del condannato, come sua purificazione dal peccato commesso, oppure come serie di interventi volti - una volta individuate le cause della malattia "delinquenza" - a estirpare, cancellare, eliminare queste cause di mal vivenza: i rischi di azioni manipolatorie e costrittive che poco o nulla hanno a che fare con un intervento realmente "rieducativo" sono evidenti, e con essi il rischio di considerare il detenuto per quello che è stato, o in funzione di ciò che dovrà diventare, ma non per quello che è; di considerarlo quindi un mero oggetto di intervento, e non soggetto con la cui dignità e rispetto è necessario confrontarsi per come egli si presenta ed è hic et nunc.
La concezione eziologica della parola rieducazione permane anche con l'entrata in vigore della Legge 26 luglio 1975, n. 354, concernente le "Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà", che con l'articolo 82, titolato Attribuzioni agli educatori[22], sancisce definitivamente l'entrata della figura dell'educatore entro il circuito penitenziario, cui spetta l'onere di un lavoro difficile, declinabile lungo una serie di compiti e competenze relative che verranno analizzate nel paragrafo successivo.
2 - Mansioni e competenze dell'educatore penitenziario.
Nell'individuare quali siano gli effettivi compiti e le competenze che investono la figura dell'educatore penitenziario farò riferimento a diverse fonti, ritenute adatte all'individuazione e di quanto all'educatore competerebbe fare e della meno consapevolmente affrontata questione di cosa l'educatore fa e di come l'educatore si percepisce rispetto al suo ruolo, ai sui suoi bisogni formativi. Esse sono:
le fonti normative, ovvero il già citato ordinamento penitenziario (e successive modifiche), il recente rinnovato regolamento di esecuzione (D.P.R 30 giugno 2000 n. 230) sostitutivo ed integrativo del precedente regolamento del 1976, ed infine, le circolari ministeriali, specialmente la n. 2598/5051 del 13 aprile 1979, la n. 2625/5708 del 1° agosto 1979, la n. 3337/5787 del 7 febbraio 1992. Esse attengono alla sfera del dover essere.
l'intervista da me effettuata ai due educatori della Casa Circondariale di Padova a giugno di quest'anno (confrontata con due precedenti lavori).
Quest'ultima modalità di raccolta di informazioni è maggiormente valida per cogliere l'effettiva operatività dell'educatore in carcere.
2.1 - Le fonti normative: alcune indicazioni.
Tutte e tre le fonti normative summenzionate danno alcune indicazioni fondanti il ruolo dell'educatore, che può essere considerato come l'assolvimento di una serie di compiti divisibili in:
attuazione dell'osservazione scientifica della personalità dei condannati e degli internati e coordinamento della sua azione con quella di tutto il personale addetto alle attività relative all'educazione (art. 13 e 82 O.P., art. 27 e 28 reg. esec.)
partecipazione al trattamento rieducativo individuale o di gruppo, di condannati ed internati, e di sostegno degli imputati (art. 82 O.P.).
partecipazione all'attività di gruppo per l'osservazione scientifica della personalità dei detenuti e degli internati (G.O.T) (art. 82. O.P., art. 29 reg. esec.).
organizzazione del servizio di biblioteca (art. 21 reg. esec).
partecipazione alla commissione interna all'istituto penitenziario che predispone il regolamento interno (art. 16 O.P.).
partecipazione al consiglio di disciplina (art. 40 O.P.).
partecipazione alla commissione per le attività culturali, ricreative e sportive (art. 27 O.P., art. 59 reg. esec.).
svolgimento di opera di consulenza, su richiesta della magistratura di sorveglianza, nella veste di tecnici del trattamento (art. 678 C.P.P.).
altre mansioni in delega dal direttore.
mansioni individuabili nella circolare 3337/5787 del 2 febbraio 1992.
Vediamo di comprendere meglio, attraverso l'esplicitazione della norma, in che modo, questi compiti, vengono concepiti dal legislatore che li ha previsti.
L'osservazione scientifica della personalità.
Questo compito è finalizzato a rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause - carenze affettive, educative e sociali - del disadattamento sociale del condannato o dell'internato (art. 13 e 27 reg. esec.). Si tratta di un obiettivo intermedio, tappa obbligata per pervenire allo scopo ultimo, ovvero il reinserimento sociale del condannato o dell'internato (art. 1 O.P.). L'educatore partecipa a questa attività di osservazione, accanto agli assistenti sociali, allo psicologo o allo specialista affine ai sensi dell'art. 80 dell'O.P.[23], al medico (art 82 O.P. e circ. n. 2598/5051). Le attività di osservazione sono svolte dall'educatore in funzione "dell'osservazione comportamentale e della comprensione degli atteggiamenti umani fondamentali che orientano la vita di ciascun soggetto nonché della sua disponibilità nei confronti della vita in istituto e dei possibili programmi alternativi", ed aggiunge che in tale ambito l'educatore raccoglierà, utilizzando, i dati di conoscenza e di esperienza che altre persone, stando a contatto con i "soggetti in osservazione", potranno rilevare (assistenti volontari, insegnanti, personale della sicurezza.) (circ. n. 2598/5051). Di qui la necessaria capacità di coordinare la sua attività con quella di tutti gli altri membri interessati, onde pervenire alla realizzazione di un autentico lavoro di equipe. Inoltre sulla base dei dati giudiziari acquisiti, l'educatore dovrebbe espletare, con il condannato e l'internato, una riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l'interessato, e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa (art. 27 reg. esec.). L'osservazione scientifica presuppone quindi la collaborazione del condannato o dell'internato, che va comunque favorita. Essa va effettuata dall'inizio dell'esecuzione penale ed in questa fase, essa deve essere tesa alla individuazione di elementi per la formulazione del programma individualizzato di trattamento, da compilarsi nel termine di 9 mesi (art. 27 reg. esec.). Nel corso del trattamento l'osservazione comporta l'accertamento, attraverso l'esame del comportamento del soggetto e delle modificazioni intervenute nella sua vita di relazione, delle eventuali nuove esigenze che richiedono una variazione del programma di trattamento.
Trattamento rieducativo di condannati e di internati e attività di sostegno agli imputati.
Il trattamento rieducativo è inteso realizzabile attraverso la stimolazione ed attuazione di una serie di attività da svolgersi sia a livello interno, sia a livello esterno con la collaborazione del centro di servizio sociale, che facilitino il reinserimento sociale dei detenuti e degli internati. Tra queste attività, il legislatore attribuisce una particolare importanza a quelle volte a sostenere o a recuperare i legami famigliari, che a causa della forzata lontananza si sono spezzati (art. 28 O.P., art. 61 reg. esec., circ. n. 2625/5078); a quelle tese ad eliminare eventuali cause di disagio personale che possono comportare frustrazione; alla preparazione alla dimissione ed al rientro nella comunità libera (art 43 O.P. e art. 88 reg. esec.).
Partecipazione all'attività di gruppo per l'osservazione della personalità dei condannati e degli internati.
Il gruppo per l'osservazione ed il trattamento è finalizzato alla compilazione del programma di trattamento, che viene svolto secondo il criterio dell'individualizzazione in rapporto alle esigenze specifiche dei soggetti, che dovrebbero essere emerse attraverso la realizzazione del trattamento (art. 13 O.P.). All'educatore è affidata la segreteria tecnica del gruppo (art. 29 reg. esec.). I compiti in quanto segretario tecnico concernono innanzitutto il mantenimento di collegamenti operativi fra i membri dell'equipe per lo scambio di informazioni sul lavoro attuato e per la preparazione della documentazione comune, ed inoltre all'aggiornamento dei casi attraverso una periodica revisione dei programmi per l'esame degli sviluppi intervenuti (circ. n. 2625/5078).
Organizzazione del servizio di biblioteca.
Esso è affidato, di regola, all'educatore. Il quale si avvale della collaborazione dei rappresentanti dei condannati e degli internati (art. 12 O.P.) per quanto riguarda la tenuta delle pubblicazioni, la formazione degli schedari, la distribuzione dei libri e dei periodici, nonché per lo svolgimento di iniziative per la diffusione della cultura.
Partecipazione alla commissione interna all'istituto penitenziario che predispone il regolamento interno.
Nel regolamento interno, predisposto in ciascun istituto penitenziario, si delineano le modalità del trattamento da seguire entro quel particolare istituto. Esso viene preparato da una commissione, costituita, oltre che dall'educatore, dal magistrato di sorveglianza che la presiede, dal direttore dell'istituto, dal medico, dal cappellano, dal preposto alle attività lavorative e da un assistente sociale. Una volta preparatolo, tale regolamento deve essere inviato all'Amministrazione Penitenziaria per l'approvazione, onde poterlo rendere esecutivo.
Partecipazione al consiglio di disciplina
Il consiglio di disciplina è un organo composto dal direttore dell'istituto, dal medico e dall'educatore, che decide quale sanzione applicare fra le ultime tre previste dall'art. 39 O.P., ovvero: l'esclusione da attività ricreative e sportive per non più di dieci giorni; l'isolamento durante la permanenza all'aria aperta per non più di dieci giorni; l'esclusione dalle attività in comune per non più di quindici giorni . Nell'applicare le sanzioni si deve tenere presente non solo la natura e la gravità del fatto, ma il comportamento e le condizioni personali del soggetto (art. 39 O.P.). Alla luce di ciò, il legislatore ritiene importante e fondamentale l'apporto dell'educatore, dal momento che egli è più strettamente a contatto con il soggetto detenuto, più di quanto non lo siano le altre due figure, e quindi può dare un contributo alla comprensione della situazione vissuta dal soggetto e del suo comportamento.
Partecipazione alla commissione per le attività culturali, ricreative e sportive.
Anche in questo caso, il legislatore ha scelto la strada della collaborazione fra diverse figure professionali, cui si aggiungono i rappresentanti dei detenuti e degli internati. Infatti, a norma dell'art. 27 O.P., la commissione cui è preposta la cura dell'organizzazione delle attività culturali, sportive, ricreative (ed ogni altra attività che favorisca la realizzazione della personalità dei detenuti e degli internati anche nel quadro del trattamento rieducativo), si compone del direttore, degli educatori e degli assistenti sociali. La presenza dell'educatore può fungere da punto di collegamento fra le istanze dell'istituto e le attese dei detenuti, rendendo l'educatore mediatore fra una sfera (e le sue esigenze) e l'altra sfera (anch'essa con le sue esigenze), essendo egli al contempo figura istituzionale ed operatore impegnato in una relazione d'aiuto.
Tecnico del trattamento nell'opera di consulenza richiesta dal Magistrato di Sorveglianza.
Per comprendere l'importanza di questa mansione, bisogna almeno fare un accenno riguardo al profilo professionale del Magistrato di Sorveglianza. Tra le mansioni che maggiormente si legano all'attività di consulenza dell'educatore, sono quelle relative all'espletamento di interventi a contenuto amministrativo, ovvero tutto quanto concerne l'ammissione (sia in caso di approvazione che di rifiuto) e, eventualmente, la successiva revoca, alla quasi totalità dei benefici concedibili al detenuto o all'internato (misure alternative alla detenzione). L'opera di consulenza dell'educatore può servire a farsi un quadro più completo della persona sulla cui sorte si sta prendendo una decisione.
Mansioni delegate dal direttore.
Si tratta di quei compiti, che il legislatore ritiene essere delegabili dal direttore all'educatore, in quanto armonizzabili con il profilo professionale di quest'ultimo. Essi sono ben delineati nella circolare n. 2625/5078 del 1° agosto 1979, alcuni relativi all'operatività interna all'istituzione penitenziaria, altre invece, di maggior collegamento con la realtà esterna, che comunque non manca di sortire i suoi effetti anche a livello interno.
Il colloquio di primo ingresso: è espressamente previsto dalla normativa (art. 23 reg. esec.) e serve all'acquisizione di informazioni necessarie alla compilazione della documentazione relativa al soggetto; ad accertarsi che egli sappia la motivazione dell'arresto; a fornire delle informazioni attinenti le condizioni generali e particolari riguardanti i diritti e i doveri del detenuto e dell'internato, la disciplina ed il trattamento (art. 32 O.P.); a consegnare un estratto dell'ordinamento penitenziario, del regolamento di esecuzione e del regolamento interno (art. 69 reg. esec.); a fornire chiarimenti sulle possibilità di ammissione alle misure alternative alla detenzione e agli altri benefici penitenziari; infine, nel corso del colloquio, a invitare il soggetto a segnalare se vive situazioni personali e familiari problematiche che necessitano di interventi immediati. Problemi che saranno poi segnalati al centro di servizio sociale. Si tratta di un momento importante e particolarmente delicato nella vicenda umana del detenuto, ed il legislatore ne prende atto, considerando che "l'incontro con un operatore professionalmente preparato, capace di offrire sostegno e aiuto adeguati può risultare importante e - in certi casi limite - risolutivo" (circ. 2625/5078).
Segnalazione dei casi al centro di servizio sociale: considerando il fatto che durante i colloqui di primo ingresso, come durante quelli svolti durante l'esecuzione della pena, l'educatore può venire a conoscenza di situazioni problematiche a livello personale e familiare, il legislatore prevede la possibilità che la responsabilità di stabilire un collegamento funzionale con il C.S.S.A (Centro Di Servizio Sociale per Adulti) in relazione a tali richieste di intervento, sia delegata all'educatore, fermo restando che il perfezionamento dei relativi atti formali compete al Direttore dell'istituto.
Coordinamento dei collaboratori esterni: la partecipazione di privati e di istituzioni o di associazioni pubbliche all'azione rieducativa, onde pervenire al reinserimento sociale di condannati ed internati, prevista dall'art. 17 dell'O.P., necessita di un adeguato coordinamento da parte di una figura interna all'istituzione penitenziaria, per non rischiare sperpero di risorse, sovrapposizione di interventi, contrapposizioni interne, improvvisazioni. Anche in questo caso, l'educatore può portare un contributo rilevante, pur restando il coordinamento, affidato nella sua responsabilità finale, al Direttore. Le stesse considerazioni valgono nei confronti degli assistenti volontari (art. 78 O.P.).
Mansioni individuabili nella circolare 3337/5787 del 2 febbraio 1992.
Dalla lettura del punto b4) si deduce che, in quanto appartenente all'Area educativa o trattamentale, anche l'educatore deve porre particolare attenzione al periodo immediatamente precedente ed a quello immediatamente successivo alla dimissione[25].
2.2 - La circolare n. 3337/5787 del 7 febbraio 1992 e considerazioni pedagogiche.
L'unica indicazione metodologica di rilievo riguardo all'atteggiamento che tutti gli operatori penitenziari devono tenere nello svolgimento delle loro rispettive mansioni, si ritrova entro la sopracitata circolare. Vi si scrive infatti:
Tutti gli operatori penitenziari devono avere sempre presente la convinzione che, se la pedagogia delle parole è importante e utile, è ancora più importante ed utile la pedagogia dei gesti, e che si ha il diritto morale di predicare solo ciò che si pratica.
Pedagogia dei gesti che si deve esplicare attraverso una testimonianza concreta dei valori civili della convivenza pacifica e della comprensione possibile fra gli uomini, pur nella chiara distinzione dei ruoli e delle responsabilità, e dei principi della cultura del rispetto: come dire che, soprattutto, va sottolineata l'importanza della persona; che se si può non condividerne la condotta posta in essere, non perciò le si deve mancare di rispetto, fedeli al principio che vede distinti l'essenza più profonda dell'uomo dalle azioni o omissioni che egli può avere messo in atto.
Prima di addentrarci nell'analisi dell'altra fonte, cerchiamo di rispondere ad una domanda che, a fronte di tutte queste responsabilità, viene spontaneo porsi: quale tipo di formazione richiedeva l'Amministrazione Penitenziaria[26] a coloro che tentavano, tramite concorso, di accedere al lavoro di educatore? E che formazione dedicava ai neo assunti? Esiste una formazione in itinere?
All'epoca dell'introduzione della figura professionale, per poter essere ammessi al concorso[27] - su scala nazionale - era sufficiente il possesso di un qualunque diploma di scuola superiore secondaria. Il concorso consisteva in una prova attitudinale di psicopedagogia, due scritti, - pedagogia e ordinamento penitenziario - un orale - materie di diritto amministrativo, costituzionale, criminologia. Successivamente seguiva un corso di formazione atto ad approfondire gli stessi temi. A partire dal 1984, con il D.P.R. n. 1219 del 29 dicembre 1984, il profilo professionale si precisa diversamente, richiedendo per l'accesso: la laurea (una tra giurisprudenza, lettere, magistero, scienze politiche ed equipollenti); la conoscenza di una lingua straniera; un corso di specializzazione post-universitaria. Ma da quando si sono definiti questi nuovi requisiti, non sono più stati banditi concorsi. Si è inoltre concluso nel 2000 l'unico concorso interno indetto finora per Direttore Coordinatore di Area pedagogica (a 51 posti, con prove scritte e orali su l'ordinamento penitenziario e sulla pedagogia sociale) che prevedeva il possesso della laurea, di corso di specializzazione post-lauream, sostituibile, in caso di sua assenza, da un corso di pedagogia penitenziaria. In generale, comunque, al di là del concorso iniziale, i passaggi di qualifica avvengono attraverso corsi di riqualificazione (per punteggi di anzianità, percorso di aula e di tirocinio) .
Nessun accenno all'educazione degli adulti.
2.3 - Gli educatori della Casa Circondariale raccontano: risultati di un'indagine conoscitiva.
Premetto che i risultati ricavati dall'intervista e l'analisi cui daranno luogo non si vogliono porre in termini di esaustività e di generalizzabilità. Con molta più modestia, si tratta di un tentativo di individuare, proprio attraverso l'analisi e la riflessione sulle esperienze narratemi, alcuni dei fattori che rendono conto dello scarto esistente tra obiettivi perseguiti ufficialmente dall'istituzione penitenziaria (anche attraverso il servizio degli educatori) e obiettivi raggiunti.
In data 206.2003 dalle ore 13.30 fino alle 17.00 circa, ho avuto modo di fare un'intervista presso la sede della Casa Circondariale di Padova al Direttore Coordinatore dell'Area Pedagogica. Dopo un giorno, ho intervistato il Direttore di Area Pedagogica, - ovvero l'ex Educatore coordinatore - dalle ore 08.30 alle 13.00 circa. La quantità di ore menzionate non deve trarre in inganno. Non ho trattenuto presso i loro uffici i miei due disponibili interlocutori per cinque ore. La dilatazione dei tempi si è verificata a causa del menage della vita alla Casa Circondariale: le interruzioni frequenti di ciò che si sta facendo in un dato momento ne fanno parte a pieno titolo. Il tempo effettivamente rubato loro non va oltre le due ore. Si è trattato di un'intervista semi strutturata, basata su di un "canovaccio", lungo il quale ho articolato le domande, lasciando però spazio alla libera espressione dei miei due interlocutori. Di conseguenza, alcuni dei temi preparatemi sono stati affrontati in modo approfondito, altri ad un livello più superficiale. Si è trattato di una precisa opzione metodologica: ho preferito lasciar fuori uscire le parole con il minor numero di interferenze possibili, per cercare di capire che cosa per loro era effettivamente significativo. In questo sono stata facilitata anche dall'aver instaurato precedentemente un rapporto di reciproca stima e fiducia, che non è venuto meno, nonostante siano passati quasi dodici mesi dal termine del tirocinio. Ciò ha contribuito alla formazione di un clima sereno, nonostante le tematiche affrontate non fossero affatto "leggere".
Esse concernevano per la precisione[29]:
1) l'individuazione dei compiti svolti all'interno dell'istituto (area delle mansioni).
2) il livello di preparazione che entrambi gli educatori ritenevano di avere raggiunto in relazione a tali compiti (area della preparazione).
3) le motivazioni iniziali e quelle attuali che spingono a svolgere il lavoro di educatore penitenziario (area delle motivazioni).
4) individuazione degli obiettivi perseguiti nella loro pratica operativa (area degli obiettivi)
5) percezione del proprio ruolo, ovvero cosa vuol dire per loro essere educatori penitenziari (area del ruolo)
6) individuazione di eventuali disagi vissuti nel rapporto con i detenuti, con i colleghi della stessa area o di aree diverse, con il proprio stesso ruolo, con la struttura in cui lavorano, con la direzione, con la magistratura di sorveglianza e con gli enti locali (area del disagio)
7) individuazione dei loro eventuali bisogni formativi (area della formazione)
8) individuazione della loro disponibilità a sottoporsi a procedure di verifica infracategoria e della loro rappresentazione del concetto di supervisione (area delle verifiche e della supervisione)
Preliminare all'intervista vera e propria, è stata la richiesta di alcune informazioni riguardanti il titolo di studio posseduto, il concorso di assunzione effettuato, le eventuali sedi precedenti di lavoro.
Entrambe le interviste si sono svolte nell'Ufficio del Direttore Coordinatore di Area.
Descrizione dell'ambiente: note aggiuntive
È in costruzione da un anno e mezzo circa, all'esterno del carcere, una nuova struttura che sarà adibita a Uffici della Direzione e Caserma (dove dormono gli Agenti). Stanno inoltre costruendo una sezione interna, ricavata da quella che dovrebbe essere stata la sezione femminile - mai attivata - che diverrà nuova area detentiva in cui trasferire i detenuti. Per quanto riguarda la biblioteca, sembrerebbe che una volta finita la "nuova" sezione, si dovrebbe ristrutturare anche quell'area del carcere, che per ora permane inagibile.
Risultati delle interviste.
L'attuale Direttore di Area Pedagogica alla Casa Circondariale di Padova (uomo), è entrato in servizio il primo Aprile del 1987, presso le vecchia sede della Casa di Reclusione a Piazza Castello (Padova), dalla quale è stato poi trasferito nell'attuale sede nel 1990, per un totale di 16 anni di lavoro entro il contesto penitenziario. Il Direttore Coordinatore di Area Pedagogica della Casa Circondariale di Padova (donna), lavora in questo istituto da circa due anni e mezzo. È entrato in servizio nel 1990 presso la Casa di Reclusione di Padova, maturando così 13 anni di servizio.
Modalità di assunzione per entrambi: concorso a livello nazionale per educatore penitenziario[31], espletati, rispettivamente, dal 1983 al 1986 e dal 1986 al 1989. I due concorsi prevedevano una prova selettiva, una prova scritta ed una prova orale. La prova scritta concerneva domande sull'Ordinamento Penitenziario e sulla Pedagogia Penitenziaria. La prova orale riguardava elementi di diritto costituzionale, elementi di diritto amministrativo, diritto penitenziario, pedagogia, sociologia della devianza, elementi di psicologia. Un programma vastissimo, all'interno del quale ci si poteva muovere con relativa libertà perché "Non ti dicevano gli autori che dovevi studiare, questo no; però ti dicevano a quali ambiti ti dovevi indirizzare. Infatti quando sono arrivato li, ero in attesa con altri dieci colleghi. Ognuno di loro aveva portato cose completamente diverse dalle mie", ricorda il Direttore di Area.
I posti erano all'incirca un centinaio sia al primo che al secondo concorso, i partecipanti all'incirca 6000. Per poter accedervi era sufficiente possedere un qualsiasi diploma di scuola media superiore.
Nessuno dei due era laureato all'epoca. La qualifica di Direttore Coordinatore di Area Pedagogica è stata raggiunta dall'intervistata a seguito di un altro concorso, l'unico finora svoltosi, a 51 posti su territorio nazionale. Tutti gli altri educatori passati C3[32], lo sono attraverso l'anzianità di servizio e attraverso i corsi di riqualificazione.
Area delle mansioni.
Una precisazione riguardante il significato di due termini che ricorreranno spesso nel corso della trattazione:
1) per compito si intende ciò che l'educatore deve espletare in osservanza del proprio mandato istituzionale
2) per competenza si intende quell'insieme di conoscenze (sapere), di atteggiamenti (saper essere) e di abilità (saper fare) che l'educatore pone in essere per compiere determinate azioni ed esercitare l'attività a cui è preposto (distinguendolo dal concetto di attitudine, intesa come disposizione naturale, relativa a varie caratteristiche psico-fisiche, che rendono il soggetto in questione capace di svolgere determinati compiti)[33].
Se i compiti istituzionali cui l'educatore penitenziario deve fare fronte sono molteplici per volontà del legislatore, - fattore questo che la rende una figura professionale poliedrica[34] - ciò si verifica anche al Circondariale di Padova . Vi è una elevata elasticità nello svolgimento delle mansioni: certi interventi vengono svolti anche se non esplicitamente previsti né dall'Ordinamento Penitenziario né dal Regolamento di Esecuzione, poiché sono ritenuti comunque rientranti nell'ambito del lavoro che gli educatori si sono ritagliati nel corso di questi quasi vent'anni. Altri compiti, invece, pur se previsti dalla legge, non trovano facile applicazione. Fra i primi, uno riguarda il fatto che siano compilate relazioni di sintesi anche nei confronti di quei detenuti che sono stati trasferiti non appena divenuti definitivi - mancando perciò il tempo materiale di espletare il cosiddetto colloquio di osservazione ; un altro, messo in atto da uno dei due educatori, è relativa alla corrispondenza epistolare intrapresa con alcuni detenuti trasferiti presso altro istituto penitenziario.
Siamo tutti un po', molto elastici: è un elastico che si tende per alcuni di più, per altri di meno, però tutti più o meno ci ritroviamo a fare delle cose che non rientrano rigidamente nelle nostre competenze e che comunque le facciamo ben volentieri perché ragioniamo nell'ottica che quelle cose sono fatte per il detenuto, per migliorare la situazione di disagio relativa ad un utente e quindi lo facciamo.
Compiti che invece, pur essendo previsti, i due interlocutori ritengono di riuscire a perseguire difficilmente e/o malamente sono ad esempio, l'attuazione di un trattamento pre e post detentivo atto a preparare il soggetto detenuto ad affrontare la vita in libertà; la mancanza di estratti sull'ordinamento penitenziario, il regolamento di esecuzione e il regolamento interno, da consegnare in occasione del colloquio di primo ingresso ai detenuti, che viene supplita dando le informazioni essenziali e spiegando in che modo entrambi possono essere raggiungibili, in caso di difficoltà o di bisogno[37].
Alle domande relative al loro grado di preparazione rispetto ai compiti ed alle competenze considerate necessarie allo svolgimento del loro lavoro di educatori in carcere, i due Direttori di Area ritengono di avere una preparazione sufficientemente adeguata, costruitasi specialmente attraverso l'esperienza sul campo. Entrambi ritengono di essere maturati professionalmente nel corso degli anni, specialmente grazie al fatto di aver, mano a mano, compreso il contesto in cui lavorano e le regole che lo caratterizza. Entrambi sentono l'esigenza di una formazione continua, anche se nessuno dei due ritiene i corsi di formazione seguiti finora validi dal punto di vista della ricaduta poi in ambito lavorativo (vd. Area formazione).
Rispetto però a quelli che abbiamo precedentemente definito detenuti multiproblematici[38], gli educatori hanno espresso la convinzione di non essere adeguatamente preparati. Alla Casa Circondariale di Padova i casi di disagio psichico sono pochi, mentre gli extracomunitari sono in aumento, e con loro anche i casi di tossicodipendenti e di alcolisti. C'è stato anche un primo caso di "dipendenza dal gioco". Per nessuna di queste categorie di detenuti i due educatori hanno una formazione specifica. Mentre nei confronti degli extracomunitari e dei malati psichici questa mancanza di preparazione è avvertita come problematica ed imbarazzante, nel caso dei tossicodipendenti non si avverte lo stesso tipo di impreparazione o inadeguatezza. In questo caso infatti, si ritiene che più di una preparazione specifica ci sia bisogno di strutture specifiche che ovviamente mancano. Questo vale anche per i casi di sieropositività:
.In fondo hanno una patologia come un'altra, cioè che preparazione in più. No, non credo che ci voglia una preparazione in più. Ci vogliono strutture che li possono accogliere, quello sì.. Noi ne abbiamo avuto uno recentemente, che tra l'altro è una vecchissima conoscenza mia del penale: un AIDS conclamato, nel giro di due giorni è stato scarcerato; questo usciva ed andava a stare all'asilo notturno, non aveva dove andare. Io nel frattempo avevo contattato l'ASL di Padova, perché venisse messo in graduatoria per un istituto che è fuori ed ospita proprio persone in AIDS conclamato. Ho detto "Intanto si porta avanti"; perché non è che questo dalla seconda mattina si libera il posto e ci va. Dico: metti che nel frattempo le sue condizioni dovessero peggiorare, quanto tempo può stare una persona così all'asilo notturno? Cioè, non so se hai idea di come funziona l'asilo notturno, io ci sono stata a fare il tirocinio. L'asilo notturno apre alle cinque del pomeriggio e chiude alle otto di mattina. Per cui dalle otto del mattino alle cinque del pomeriggio sei solo, per strada, e ti arrangi. C'è la neve? Ti arrangi. Ci sono quaranta gradi? Ti arrangi. Capito? Però se tu c'hai una patologia fisica grave magari non resisti molto in una situazione del genere.
Area della motivazione.
Alla domanda relativa a cosa li ha spinti ad intraprendere questo lavoro hanno risposto così:
Come si finisce a fare l'educatore?. Per caso. Io per caso, non certo per scelta. Sarei una bugiarda se dicessi il contrario. Uno mica nasce con la vocazione di andare a finire in carcere.
Ma io non voglio sembrare migliore di quello che sono. Io motivazioni non ce ne avevo. Io ho fatto un concorso per lavorare.
Entrambi hanno però sottolineato che le motivazioni se le sono create poi, onde poter continuare. Essi ritengono che costruirsi delle motivazioni sia una risorsa inestimabile per non soccombere di fronte ad un tipo di lavoro che definiscono ripetutamente frustrante, stressante e facendo il quale le soddisfazioni si contano con il contagocce. Quando però ho chiesto di definire meglio queste motivazioni, di dirmi quali esse fossero, non hanno risposto alla domanda direttamente, ma comunque, nel corso dell'intervista, qualcosa è trapelato. Così, oltre alla motivazione connessa all'esigenza materiale di provvedere a sé ed alla propria famiglia, se ne sono svelate altre, alcune facenti riferimento soprattutto alla loro visione antropologica dell'altro, altre legate maggiormente al conseguimento - seppur faticoso - di piccoli obiettivi, ritenuti però importanti nella realizzazione di un certo "clima" dell'istiuto.
La concezione mia è questa, semplicemente. Qua dentro ci sono delle PERSONE. Alcune hanno sbagliato, e lo sappiamo per certo, altre non si sa. Dal mio punto di vista io ho il dovere, ma non perché sono l'educatore ma si tratta di una motivazione personale che ho, di trattare tutte le persone come persone. Come persone, cioè di trattarle con decenza e con rispetto.
Dal punto di vista della struttura abbiamo 5 aule trattamentali. La quinta non è operativa da molto. Prima c'era il magazzino della M.O.F, che è quella famosa aula sulla quale io ho puntato gli occhi da quando sono entrata, e mi hanno sempre detto "Quella non la guardi neanche". E guarda caso, ci sono riuscita. L'ho fatta svuotare e ci stiamo facendo il corso di elettricisti. E poi c'abbiamo il corridoio con il quale facciamo 6.
Area degli obiettivi.
Lo scopo ultimo che i due educatori ritengono di dover perseguire secondo mandato è la riduzione della recidiva, scopo che si tenta di raggiungere attraverso della tappe intermedie che, a loro volta, si configurano come altrettanti micro obiettivi da perseguire attraverso gli strumenti offerti dal carcere. Strumenti, o meglio risorse ritenute importanti sono i collaboratori che fanno parte della vita di un carcere, tra cui anche gli assistenti volontari, che nel caso della Casa Circondariale sono pochissimi. In effetti li si può contare sulle dita di una mano. Per quanto riguarda l'apporto degli esperti previsti dall'art. 80 O.P., alla Casa Circondariale c'è uno psichiatra, ma anche i casi di disagio psichico sono abbastanza limitati.
Per quanto riguarda la disponibilità degli strumenti idonei alla funzione rieducativo-trattamentale, non si può parlare di carenza in senso assoluto[39] ma sicuramente si può migliorare. Questi strumenti li si può dividere in due rami: quelli presenti o comunque realizzabili all'interno dell'istituto e quelli proiettati all'esterno. I primi sono le attività culturali, ricreative e sportive che vi sono istituite, la possibilità di fare un lavoro inframurario, le relazioni instaurate con il detenuto, non solo da parte loro, ma anche da parte dell'altro personale, e della sicurezza in particolare, poiché gli Agenti sono coloro che stanno maggiormente a contatto con le persone detenute: questo significa essere in grado di fare opera di mediazione, facendo in modo che il fine perseguito dal personale dell'Area della sicurezza e quello perseguito dagli educatori, siano in qualche modo correlati, seppure non identici.
Io devo cercare di attenuare al massimo questo disagio. Perché è giusto che sia così in assoluto. Questi non sono animali, sono persone, va bene? Il dovere formale è ancora più forte nei confronti di vi è in attesa di giudizio. Sostanzialmente per me non c'è differenza, perché comunque sono persone tutte quante [.].
Assunto che io devo fare di tutto per farle sentire persone, facendole sentire persone, io posso - per qualcuno di loro - provare a fornire strumenti perché si comportino da persone ed usino gli stessi criteri delle persone cosiddette "normali". Non è detto che tali criteri siano giusti, che poi i criteri normali alla fin fine si riducono ad essere i criteri della maggioranza, però, questa è. Quindi devo creare le condizioni che lo facciano sentire trattato come persona. Non posso incidere su tutto, va bene?[.] Però posso fare delle piccole cose. Quindi, dargli una decenza nell'aspetto [.], cominciare a vestirli, cominciare ad abituarli al fatto che si devono lavare, fornire il materiale per la pulizia; sembreranno delle piccole cose però sono quelle da cui parte di fatto l'educazione di una persona, in un certo senso, no?. E poi creare le condizioni affinché siano trattate come persone qui dentro dagli altri, detenuti e agenti.
A ciò si aggiunga il tentativo di ridurre il più possibile il disagio derivante da una condizione di reclusione ritenuta a limiti della decenza umana, onde rendere il distacco fra il vissuto di uomo detenuto e uomo libero il meno atroce possibile.
C'è un surplus di sofferenza che sicuramente si potrebbe togliere e non viene tolta [.]. Secondo me il nostro lavoro di educatori è anche questo: cercare di sfrondare il più possibile.
Altro obiettivo intermedio eppure essenziale è considerato il sapere in che contesto si sta operando, quali meccanismi e dinamiche sottostanti lo attivano, lo influenzano, onde comprendere su quali aspetti fare leva per poterlo, anche se lentamente, modificare.
L'educatore questo deve fare: conoscere quello che sta sotto, in realtà, per riuscire a modificare l'ambiente [.]. Certo, c'è gente che la pensa diversamente. Io penso che bisogna essere parte di tutto, fermo restando che è molto faticoso, molto stressante e che significa anche che devi fare il tappa buco di tutto perché qui dentro ti chiedono di tutto, dalla borsa per le scarpe ai trasferimenti. Ti dà flessibilità, elasticità, però allo stesso tempo ti dà stress, ti dà anche questa ambiguità.
Fra i secondi invece, ci sono le misure alternative alla detenzione ed i permessi premio, che oltre ad essere uno strumento per tentare di reinserire socialmente i detenuti, fungono anche da strumenti di disciplina, poiché condizione pressoché costante alla loro concessione è l'aver mantenuto un buon comportamento, la cosiddetta condotta regolare[40].
Area del ruolo dell'educatore.
Anche in questo caso, le risposte sono state abbastanza simili, nella sostanza se non nella forma. E la sostanza consiste nel non percepire il proprio ruolo in maniera consona a quanto previsto dal legislatore. Ovvero, entrambi considerano l'istanza rieducativa pretenziosa e quasi offensiva nei confronti di quella dignità della persona detenuta che si dovrebbe difendere e garantire.
Poi, in tutto rispetto, io dico sempre che noi non cambiamo la testa delle persone. Noi diamo gli strumenti perché loro se vogliono la cambiano, punto e basta. Strumenti. diamo quelli che noi pensiamo siano strumenti, perché non è mica detto che i nostri strumenti servano.
Cioè una volta che hai creato il clima, che cerchi di creare un minimo di condizioni di decenza, cominci ad attivare anche, sia per gli imputati, sia per i condannati, mezzi, che permettono loro - quando escono - di vivere in modo più "normale", fra virgolette, ok? Perché anche gli imputati, dato che non sarebbe un dovere nostro?- ma perché pure se non c'è il dovere, c'è la necessità, in un certo senso. Se noi partiamo dal concetto che il trattamento non è rieducazione - perché sarebbe semplicemente assurdo - ma è semplicemente fornire degli strumenti Tu gli strumenti li fornisci a chi non ce li ha, al di là di quello che ha fatto o non ha fatto. Punto. Perché tu puoi pure essere innocente, ma non avere gli strumenti [.].
Io mi sento sempre molto in imbarazzo quando mi fanno questa domanda, perché per me non vuol dire più di tanto quello che dice la legge, capito. Forse io ho sbagliato, forse dovevo fare un altro lavoro, però io non mi sono mai riconosciuta in questo ruolo ambizioso, arduo, proprio insostenibile. Mi ci sento stretta: ri-educare le persone. Io non credo di avere né il diritto né il mandato (secondo me uno dovrebbe avere il mandato da Dio, non dagli uomini, ecco) per fare il rieducatore. Ed io non sento di avere questo mandato, assolutamente [.]. Cioè io sento di essere un operatore del trattamento, ma con ambizioni molto più ridotte, molto più modeste, da essere umano. Io mi sento di seguire delle persone, alcune delle persone detenute, perché non sono in grado di seguirle tutte, nel loro cammino, nella loro galera e possibilmente di sostenerle nel loro reinserimento fuori. Questo mi sento di fare. Non posso io avere la presunzione di andare a rieducare delle persone. Non mi sento, non mi riconosco in questo ruolo. Non so se ho risposto alla tua domanda.
Sempre in relazione al ruolo da loro espletato, ho chiesto se venissero avvertiti degli elementi di contrasto fra funzione retributiva e funzione rieducativa e se il carcere possa essere considerato rieducativo.
In questo caso le visioni sono un po' sfumate: se da un lato si considera questa duplice funzione della pena come una contraddizione ab origine poiché, affinché una pena abbia un senso, deve comunque essere proiettata verso l'esterno (a partire dal presupposto che rieducazione significa, a livello pratico, riduzione della recidiva); dall'altro si afferma che pur non essendo il carcere la risposta, o quanto meno la risposta migliore, essa è sicuramente la migliore che ci sia al momento.
Area del disagio.
I fattori che concorrono a creare situazioni di disagio e far provare la sensazioni di un carico eccessivo da portare da soli, sono diversi e contribuiscono in maniera diversa alla formazione di queste fenomenologie di mal stare:
Disagi avvertiti con l'utenza.
a) Nei confronti del rapporto con i detenuti, il maggior disagio avvertito è la velocità con cui i detenuti vengono trasferiti, rendendo così molto difficile perseguire un percorso trattamentale.
.noi lavoriamo in un istituto [.] dove i detenuti ci vengono letteralmente strappati via. Io come operatore vivo questa frustrazione fortissima che al penale non ho mai vissuto se non in minima parte eccezionalmente. Qui la vivo sistematicamente e ti assicuro che è una cosa bruttissima perché tu non riesci a portare avanti un lavoro che sia uno, non riesci a garantire una continuità trattamentale, non riesci a vedere il senso del lavoro che fai[41].
b) Altro possibile limite fonte di preoccupazione, se non propriamente di disagio, è il fatto di risultare irraggiungibili per molti, troppi detenuti; conseguenza questa strettamente correlata alla sproporzionalità fra numero di utenti e numero educatori.
.noi ci poniamo il problema come operatori della difficoltà che hanno tanti detenuti a raggiungerci. Perché non capiscono come si fa, perché non sanno a che cosa serva l'educatore, per una serie di motivi
c) Segue poi un motivo di disagio nel rapporto con i detenuti di origine straniera, relativo alla difficoltà di riuscire a comunicare, proprio per un fattore linguistico: se da una parte molti non conoscono una parola di Italiano, dall'altra nessuno dei due educatori sa parlare una lingua che non sia l'italiano. Entrambi sono dell'idea che sarebbe necessario l'apporto di un mediatore culturale, e non solo per questioni linguistiche, bensì, per una questione più profonda.
Il mediatore culturale ha un senso se diventa una figura dell'Amministrazione, se diviene sempre presente e costante. In caso contrario non serve quasi a niente. [.]. Il mediatore culturale dovrebbe dare un aiuto ad entrare nel modo di pensare e di ragionare di questa gente qua. Cosa che è difficile fare sia perché comunque è difficile in assoluto, anche con gli italiani, sia con loro che è ancora più difficile perché non si conoscono i parametri entro cui si è formato il loro modo di pensare e di concepire la vita.
d) Altra fonte di possibile imbarazzo o disagio è costituita dal fatto di dover comunicare qualche brutta notizia alla persona reclusa, riguardante magari la sua famiglia oppure il rigetto di qualche istanza.
e) Un altro fattore che suscita disagio è il fatto di trovarsi il più delle volte nella impossibilità di dare delle risposte concrete alle richieste mosse da parte dei detenuti, o di dare delle risposte che non piace dare.
Così come un grosso disagio che qui al circondariale si vive molto di più che al penale perché ha a che fare continuamente con gli imputati, è quando ti vengono a chiedere "Voglio fare appello", no? Io mi sento impotente, mi vergogno quasi, cioè: "Voglio fare appello. Mi aiuta a presentare i motivi per l'appello?". Cioè, dico "No", ma non perché io mi trincero dietro il fatto che non è di mia competenza, perché [.] Un domani a questo gli rigettano l'Appello perché i motivi non sono stati presentati bene, deluso se la viene a prendere con me perché non gli ho scritto bene l'istanza; però il detenuto ti viene a dire "Io non ho i soldi per pagarmi l'avvocato. Allora fammi lavorare. Così mi guadagno i soldi, mi pago l'avvocato e mi faccio il mio ricorso in Appello". E io gli dico "Ma come [.] ti faccio lavorare se qui ci sono 15 posti e voi siete 250?". Questa è una cosa che mette a disagio l'operatore, cioè queste sono le situazioni secondo me a rischio di burn out: l'impossibilità di dare delle risposte.
Disagi con i colleghi.
Il rapporto fra colleghi è considerato fondamentale nella creazione di un buon "clima" interno all'istituzione penitenziaria. Elementi considerati imprescindibili alla creazione di uno stile collaborativo, sono: una buona dose di umiltà, intesa come non pretesa di essere portatori di soluzioni uniche; la realizzazione di un flusso di informazioni bidirezionale (che vada da un'area all'altra, ed entro la stessa area, da una figura professionale ad un'altra); fare domande, nel senso di comunicarsi anche perplessità o dubbi che magari si possono capire meglio alla luce di quanto un collega sa; il tempo per comunicare (che spesso manca). In genere, i rapporti con gli altri colleghi - psicologhe, una dipendente direttamente dall'A.P. le altre due del Ser.t, assistenti sociali, lo psichiatra, l'educatrice del Ser.t - sono abbastanza positivi, a detta di entrambi. Ed è visto come una fonte di arricchimento delle prospettive. Unica eccezione: il flusso di informazioni abbastanza scarso con due psicologhe.
Disagi connessi al loro stesso ruolo di educatori.
Nel caso in questione, non ci sono state manifestazioni di sconforto, eccezion fatta per un appunto, riguardante il fatto che sebbene le qualifiche siano ufficialmente state assegnate, "in pratica non si capisce bene cosa sono [.], a livello di qualifica, intendo come definizione".
Disagi con il personale di altra qualifica.
Entrambi ritengono di avere un buon livello di collaborazione anche con il resto del personale, specialmente con gli addetti all'Area della Sicurezza. Nonostante il rapporto numerico fra il personale delle due Aree sia decisamente a sfavore di quello dell'Area educativa, gli educatori della Casa Circondariale di Padova si ritengono soddisfatti e si sentono riconosciuti nel loro ruolo e riconoscono di essere fortunati per questo, nel senso che in altri istituti per una serie di possibili fattori, questo non accade[42].
Mah, qua in carcere siamo ad un buon livello di collaborazione, però [.] dipende molto sempre dalle persone con cui hai a che fare. Con il Comandante si lavora bene perché è una persona disponibile, perché quando lo cerchi lo trovi, se ti può aiutare ti aiuta, se proprio ti deve dire di no ti dice di no, però te lo motiva e comunque riesce a darti delle motivazioni intelligenti e convincenti [.] Rispetto agli altri operatori, guarda, che poi per la maggior parte sono gli agenti, diciamo, gli interlocutori, l'altra faccia del carcere, io credo che conta molto come ti poni, cioè il tuo modo di essere al di là poi di quello che rappresenti. Io, almeno per i rimandi che ho avuto, credo di essere sempre riuscita a guadagnare la stima e il rispetto della maggior parte degli agenti con cui ho lavorato, non tutti ma quello è impossibile, quindi te la metti via perché non puoi pensare di essere "amata" gradita, accettata da tutti.
Le leggi sono uguali, ma tu penso che hai capito benissimo che non sono le leggi che fanno il carcere, sono il modo in cui le applichi. Gli istituti sono così diversi, anche strutturalmente, che è difficile comunque applicare la normativa allo stesso modo. Poi, comunque, la normativa viene applicata da UOMINI che hanno modi diversi di porsi rispetto alle situazioni concrete [.].
Per quanto riguarda il personale amministrativo, se ne lamenta la assoluta carenza rispetto al bisogno.
Disagi legati alla struttura.
Se da un lato il carcere in cui operano è considerato inadatto allo svolgimento di un percorso che possa ritenersi trattamentale e ad un trattamento penitenziario penitenziario consono alle disposizioni normative, dall'altro ritengono che la struttura la fanno le persone; che il carcere lo fanno le persone.
[.] tu devi considerare che il clima lo devi rapportare alla situazione che c'è, cioè: ad una situazione strutturale tremenda, ad una situazione di sovraffollamenti tremenda, a una situazione di personale tremenda - perché abbiamo poco personale di polizia, che è importantissima, e poco personale amministrativo.
La Direzione, il PRAP, il DAP.
I rapporti con il direttore sono nella direzione della piena collaborazione. Il PRAP è per entrambi quasi un altro mondo. Anche riguardo al DAP è calato il silenzio, eccezion fatta per questo appunto: ".noi come educatori saremmo tenuti a fornire tutta una serie di informazioni al detenuto sul trattamento penitenziario, sul fatto che c'è un regolamento di esecuzione, un regolamento interno. È anche vero che il regolamento interno in questo istituto è stato fatto ancora uno due anni fa ed è stato poi mandato al Dipartimento[43] per l'approvazione, non è ancora tornato indietro approvato, per cui è in vigore ancora il vecchio regolamento interno.
Magistrato e Tribunale di Sorveglianza:
Anche il rapporto con il Magistrato di Sorveglianza è valutato positivamente. Per il momento sono entrambi soddisfatti, anche perché i timori nutriti nei suoi confronti - dovuti al fatto che l'attuale Magistrato di Sorveglianza, esercitava prima la professione di P.M[44] - si sono rivelati infondati, avendo egli dimostrato di essere una persona "molto, molto pacata, molto mite, molto preparata" e "[.] una persona assennata, razionale, senza pregiudizi". Ciò che rende il lavoro particolarmente improntato ad uno stile realmente collaborativo è, tra l'altro, la disponibilità mostrata da parte del Magistrato di seguire i casi concretamente , non solo a parole ma nei fatti. E tra i fatti ritenuti importanti nel marcare la differenza fra una disponibilità reale ed una teorica ad impegnarsi nell'esercizio della propria responsabilità, vi è l'elemento della presenza: ovvero cercare, per quanto possibile, da parte del magistrato di sorveglianza, di entrare in carcere, di esserci. Importante è considerato il fatto di creare dei buoni agganci anche con alcuni collaboratori del Magistrato di Sorveglianza, per esempio la segretaria della Cancelleria o l'Ufficio Permessi, in quanto fungono da tramite - da ponte - per arrivare al Magistrato. Un po' troppo meccanici e ridotti a mero adempimento burocratico, sono considerati i compiti relativi al carteggio con il magistrato di sorveglianza, ovvero quell'opera di consulenza, che se nello spirito della legge era finalizzata ad una maggiore fluidità delle informazioni, al lato pratico, dato i tempi ridottissimi di contatto con le persone detenute, si risolve in stereotipate formule scritte, in cui si segnala semplicemente se il soggetto abbia o meno tenuto comportamento regolare nei confronti del personale e dei suoi compagni di detenzione, se abbia ricevuto un rapporto disciplinare, se abbia o meno partecipato a qualche corso, se lavora oppure no.
Organizzazione del lavoro:
Non esiste la "giornata tipo" all'interno della Casa Circondariale, una giornata che si possa definire programmata. Sulla possibilità di effettuare interventi educativi incidono negativamente vari fattori, tra cui il sotto organico rispetto al numero di "utenti", l'eccessivo carico di mansioni burocratico amministrative, i trasferimenti improvvisi dei detenuti da un carcere all'altro, le problematiche così diverse di cui ogni detenuto è portatore e verso le quali non si è in grado di dare alcuna risposta, tutto ciò rende la parola organizzazione un eufemismo. Il senso di disagio proviene dal fatto di avere spesso la sensazione di remare contro corrente, di andare contro a dei mulini a vento, trottando per poi ritrovarsi esattamente allo stesso punto.
Enti Locali:
Il senso di isolamento rispetto al mondo esterno è pressoché costante. Il riscontro con il Comune di Padova è pressoché minimo, quasi inesistente. A livello regionale, invece, per lo meno vi è collaborazione dal punto di vista economico, attraverso il finanziamento di vari progetti, corsi di tipo ricreativo, culturale, piccoli corsi di formazione svolti all'interno del carcere (quindi collaborazione durante la fase detentiva): aspetto non irrilevante poiché a livello ministeriale questi conti non vengono pagati.
Se c'è un Ente che ce li paga, ben venga, perché poi voglio dire le nostre attività si basano su questo, ruotano su questo: mica possiamo fare i tornei di calcio dalla sera alla mattina. È chiaro che dobbiamo offrire altro ai detenuti però è chiaro anche che non lo puoi fare a titolo di volontariato, cioè non troverai mai delle persone che ti vengono a fare queste cose gratis [.]
Per quanto riguarda poi la fase della dimissione, che precederebbe un aggancio da parte dell'istituzione penitenziaria (e del centro di servizio sociale) con il territorio di provenienza della persona reclusa, le difficoltà sono tali da ritenere il servizio praticamente inesistente.
[.] Tu pensa che noi per legge siamo tenuti all'assistenza post penitenziaria, per sei mesi successivi alla scarcerazione. Ma chi l'ha vista? Che cos'è? È roba che si mangia? Cioè, io non l'ho mai fatta. Ma non è che la posso fare io da sola. A parte il fatto che io per legge posso lavorare solo in carcere: [.] io fuori sono il Signor Nessuno. Io mi muovo qua dentro perché questo è il mio ambito naturale di lavoro. Io fuori non ho gli strumenti per fare nulla. E non c'è stato ancora forse un lavoro di sensibilizzazione sufficiente da parte nostra perché sicuramente anche noi come Ente abbiamo le nostre responsabilità, però ci abbiamo provato. Ad esempio io ho lavorato ad un progettino presentato al Comune di Padova ancora l'anno scorso, in collaborazione con delle studentesse di Scienze dell'Educazione: abbiamo presentato sto progettino che è rimasto però lettera morta. Non hanno risposto. Alla fine, non so se a seguito di quell'input o di altro, adesso il Comune ci ha coinvolto in un progetto di reinserimento lavorativo per i detenuti tossicodipendenti e alcooldipendenti. Mi sta bene, tutto mi sta bene perché tutto può servire a seguire queste persone nel percorso di reinserimento, però di fronte alla domanda legittima: "Sì ma queste persone ce le seguite solo da un punto di vista lavorativo? E tutto il resto? Sostegno alla famiglia, sostegno nel tempo libero, sostegno psicologico di qualunque tipo?" "A no. Noi facciamo solo reinserimento lavorativo, per il resto la persona si arrangia". Non ci spostiamo più di tanto, hai capito? Perché noi non possiamo pensare che le persone vengono in carcere solo perché non c'hanno il lavoro e che automaticamente una volta che tu gli hai dato il lavoro gli hai risolto tutti i problemi. La realizzazione, la gratificazione, la sfera emotiva e valoriale di una persona non si esaurisce nella sua attività lavorativa, no? E meno male voglio dire, perché sennò ci saremmo sparati.
Area della formazione.
Corsi seguiti negli ultimi cinque anni: uno dei due educatori ha seguito un corso, il cui ultimo modulo si è svolto ad Ottobre del corrente anno, denominato P.R.O.M.O.F.O.L. Si trattava di un corso di formazione coinvolgente tutti i capi area, ma anche Vicedirettori e ragionieri di categoria C3. PROMOFOL significa Promuovere Relazioni Organizzative Migliorando la Formazione a Livello Locale.
Uno degli obiettivi che si prefiggeva di raggiungere, era quello di migliorare il sistema delle relazioni lavorative e interpersonali, ovviamente, perché non si può prescindere dalle relazioni interpersonali, sul posto di lavoro. Quindi migliorare la comunicazione tra le aree, migliorare la comunicazione all'interno delle aree. Poi, l'altro grosso fronte su cui si muoveva era quello di educare gli operatori penitenziari - educatori compresi - a lavorare per progetti. A lavorare per obiettivi e a lavorare per progetti, intesi come progetti misurabili, verificabili, possibili, "cioè non ti puoi dare degli obiettivi troppo vasti ma devi partire da piccoli progetti e da piccoli obiettivi. questo è il tipo di corso che stiamo facendo adesso ed io lo trovo molto interessante, al di là di quello che potrà essere poi la ricaduta proprio concreta sul mio lavoro, però."
L'altro educatore ha invece frequentato un corso di formazione denominato "Progetto POLARIS", che significa Percorso di Orientamento e di Lavoro Assistito per il Reinserimento in Impieghi Stabili, per due tre anni: si trattava di un microprogetto finanziato dal Fondo Sociale Europeo durante il quale sono state affrontate tematiche ritenute interessanti, quali: gestione dei gruppi, gestione delle risorse, ottimizzazione delle risorse, la gestione delle risorse umane esistenti, il miglioramento delle relazioni, tutte tematiche che secondo il suo punto di vista rivestono grande interesse in quanto rispecchiano e tornano utili al suo modo di lavorare.
Al di là di quella che possa essere la ricaduta entro l'ambito di lavoro, entrambi ritengono importante poter partecipare a dei corsi di formazione per la possibilità di confronto con colleghi di altre aree (ma anche di altri istituti) che in queste circostanze si verificano.
Alla domanda "Se potessi avere carta bianca.che tipo di corsi di formazione vorresti seguire, o ancor meglio organizzare?", gli spunti datomi sono stati vari.
A. È fortemente sentita l'esigenza di poter frequentare corsi strettamente ed estremamente tecnici, su materie tecniche quali ad esempio:
1) diritto penale
2) la procedura penale, ma anche corsi sulla legislazione minorile - riguardo ad esempio la questione degli affidi -
3) corsi relativi alla tipologia di farmaci utilizzati all'interno del carcere, sugli effetti che comportano;
4) corsi di approfondimento sulla nuova legge sugli immigrati
5) corsi di antropologia culturale, legati al bisogno di conoscere un po' meglio i parametri di riferimento entro cui persone provenienti da realtà storico culturali diverse si muovono, onde ottenere una comunicazione più efficace
B. Si ritiene utile il fatto di realizzare modalità di formazione on the job, sul luogo di lavoro: quindi fare formazione in altri luoghi di lavoro, intesi come altre strutture e realtà penitenziarie, onde poter attingere nuovi stimoli e spunti da tali contesti, o da modalità operative di lavoro diverse dal quelle adottate entro il proprio ambito di lavoro. In questo senso è stata lanciata l'idea di un supervisore inteso come guida in un altro posto di lavoro, che magari in quel luogo ci lavori.
C. Un'altra considerazione, legata alla possibile ricaduta di quanto appreso a livello teorico durante i corsi di formazione, è quella relativa alla possibilità di far partecipare a tali corsi coloro che poi sono effettivamente colleghi di lavoro, ovvero un'organizzazione dei corsi effettuata per istituti.
Area delle verifiche e della supervisione.
La possibilità di confrontarsi con colleghi operanti in diversi contesti penitenziari è ritenuta una opportunità da valorizzare più di quanto non lo sia attualmente: ciò infatti avviene per lo più in maniera estemporanea, magari incontrandosi durante qualche corso di formazione. Entrambi lamentano che le possibilità effettive di scambio sono molto ridotte: a tal proposito è stato creato un corso di formazione a distanza, virtuale, attraverso una rete Inranet che consente anche di contattare colleghi svolgenti servizio presso altre sedi.
La tematica inerente la possibilità di essere supervisionati da una figura esterna al carcere - ad esempio uno psicologo, un formatore - è stata affrontata esclusivamente con uno dei due, il quale considera questa evenienza una mera perdita di tempo, anzi, una vera e propria intrusione :
Non accetto il supervisore esterno che venga qui e, non so, (.) viene qui un giorno alla settimana o al mese per supervisionare non il mio lavoro ma la mia relazione con, .. senza sapere che cosa succede qua dentro. Per me non vale niente. È semplicemente un parassita, uno che si appoggia su di te dall'esterno, ti si ficca dentro e non capisce niente di quello che gli sta attorno.
Infine, sottolineo che alla domanda posta ad entrambi, riguardo alle competenze ritenute necessarie per adempiere allo svolgimento delle loro mansioni, hanno posto in rilievo alcuni punti relativi specialmente al saper essere (gli atteggiamenti appropriati) ed al saper fare (abilità): nella relazione con i detenuti essi hanno individuato quale atteggiamento fondamentale il porsi di fronte alla persona detenuta scevri di pregiudizi, evitando di giudicarlo sulla base del reato che ha commesso o di cui è stato accusato, sulla base della cultura, sulla base dell'aspetto, sulla base delle mere impressioni, ed essere abbastanza onesti con se stessi da non nascondersi di averne, invece, nel caso in cui ciò si verificasse, di modo da potersi difendere da se stessi. Inoltre l'essere prudenti nel fare promesse è considerato importante: "Non devi mai, ma proprio categoricamente mai, impegnarti con un detenuto su qualche cosa che sai di non poter mantenere. Un po' come i bambini".
E d'altra parte, nel ritenere fondamentale trattare le persone detenute come persone, ritengono che anche non farsi prendere in giro possa rivelarsi educativo.
In relazione al rapporto con i colleghi essi hanno sottolineato come fondamentale porsi con rispetto nei loro confronti (saper essere).
3 - Due interrogativi: quale concezione di adulto nell'impianto giuridico? Per quale rieducazione?
Mettendo a confronto le risposte alle interviste con quanto previsto dal quadro normativo, un aspetto salta agli occhi. Se legislatore ed educatori condividono l'obiettivo finale (reinserimento sociale della persona detenuta), sono su due piani diametralmente opposti quando si parla di rieducazione. Nel senso che gli educatori penitenziari avvertono la funzione rieducativa della pena come una pretesa troppo elevata nei loro confronti, e quasi offensiva nei confronti delle persone recluse, che vedono a rischio di una maggior imposizione, non più solo a livello comportamentale, bensì anche interno-morale. Ritengono quindi tale profilo professionale troppo pesante da reggere e preferiscono pensarsi come operatori del trattamento[45].
Ecco allora che diviene importante comprendere quale sia la visone antropologica[46] sottostante alle norme giuridiche, e questo per due ordini di motivi: il primo, è che ponendosi le norme giuridiche il fine di essere accolte dal maggior numero di consociati possibile, esse divengono espressione di un "sentire comune" sul quale poggia buona parte del consenso sociale - spesso inconsapevole - di cui godono; il secondo, è che dalla comprensione della visione antropologica con cui la norma giuridica - o meglio, il legislatore che l'ha emanata - guarda all'essere umano, se ne può comprendere meglio la fenomenologia.
Si vuole così tentare di comprendere che concezione dell'essere umano, ed in particolar modo dell'essere umano adulto, è sottostante all'impianto giuridico, onde riuscire a comprendere il senso che, in ambito giuridico, viene dato ai concetti di rieducazione e di trattamento.
Un primo indizio è fornito dal concetto giuridico di maggiore età: essa viene fatta coincidere con il raggiungimento del diciottesimo anno, indicando così la presenza di una visione dell'adulto basata su di un requisito anagrafico. Il raggiungimento di questa età viene fatto coincidere con una serie di diritti (ad esempio, la possibilità di esprimere la propria preferenza politica in sede elettorale oppure l'acquisizione della patente di guida) che prima non esistevano, mentre altri sono tolti, come è il caso del diritto ad essere sottoposto a processo presso il tribunale dei minorenni se accusati di aver commesso un fatto previsto dalla legge come reato. Ciò significa che al compimento del diciottesimo anno, secondo il legislatore, l'individuo è dotato di una maturità tale da consentirgli di esprimere un diritto di voto e da poter essere sottoposto ad una modalità escuteva della pena affatto diversa da quella cui sarebbe andato incontro soltanto un giorno prima. Il legislatore sfrutta quindi il concetto di età ed in particolare il suo porsi come variabile apparentemente semplice, poiché quantificabile su di una base cronologica[47], non tenendo conto delle complicazioni che essa presenta se solo la si cominci ad osservare in una prospettiva sociologica: come definire l'età dal punto di vista teorico? Al legislatore questo pare non interessare, ciò che conta è che l'età sia un criterio facile da utilizzare (criterio di operatività), che presenta un modo assai semplice di attuare una prima differenziazione fra soggetti non adulti ed adulti. Il fatto che all'adulto siano concessi poi maggiori diritti, ma gli sia prospettato anche di far fronte a maggiori responsabilità rispetto a se stesso e rispetto alla società di cui è parte, e che tali diritti-doveri coincidano con l'effettuare un lavoro (per un non adulto è il diritto dovere dello studio, nella nostra società), con il formarsi una famiglia, con il prendersi cura della prole, con il partecipare alla vita politica , fa intendere che la rappresentazione con cui si identificano le fasi attraverso le quali trascorra la vita dell'uomo, sia da riportare ad una concezione della vita come arco, la cui punta coinciderebbe proprio con la fase dell'età adulta, concepita come massima espressione della razionalità, della ponderatezza, della laboriosità non solo manuale, ma anche mentale. Età di virtù che la Costituzione, oltretutto, si pone l'obiettivo di proteggere e favorire. Questo significa che ci stiamo muovendo entro una concezione stadiale dell'identità adulta, ovvero siamo all'interno di una rappresentazione dell'individuo adulto inteso come individuo compiuto, e che tale si potrà ritenere solamente se raggiungerà determinati obbiettivi . La Costituzione prevede un ordinamento orientato a garantire ad ogni individuo il raggiungimento di un pieno sviluppo personale e sociale, e nel momento in cui, attraverso la commissione di un fatto previsto dalla legge come reato, l'individuo dà prova che qualcosa (interessante sarebbe approfondire cosa) non ha funzionato e che tali target non sono stati raggiunti, allora la Costituzione prevede che sia colmato ora (in fase di applicazione e di esecuzione della pena) quanto prima era rimasto vuoto o comunque incompleto; prevede cioè di poter, in fase di esecuzione penale, innescare una serie di meccanismi compensativo-riempitivi, che permettano alla persona che ha dimostrato l'incapacità di vivere pienamente la sua vita adulta, di porsi nella condizione di attuare un tragitto di vita diverso, appunto più maturo.
Il lavoro quindi si attua (o almeno dovrebbe attuarsi) tutto sull'individuo, in funzione di un reinserimento sociale: si parte cioè dal presupposto che tale individuo sia mancante di qualche cosa, quel qualche cosa che gli dovrebbe permettere di vivere rispettando le regole volute dalla maggioranza dei consociati. Sulla base di quello che la maggioranza fa, o sulla base dei motivi per cui la maggioranza fa quello che fa? Comportamento o motivazioni al comportamento? Anche nel dare una risposta a questo quesito, è necessario sottolineare una differenza di prospettiva che orienta il legislatore fra il momento della emanazione di una legge (e di quella penale in particolare) e quello della sua esecuzione.
Il legislatore si concentra, nella fase di emanazione, soprattutto sul comportamento anziché sui fattori che spingono un individuo ad agire in un modo anziché in un altro: ciò che conta è che la persona agisca in un determinato modo, che faccia alcune cose piuttosto che altre; le motivazioni che lo guidano, interessano relativamente. Infatti, è stato dimostrato che la funzione di deterrenza basata sulla minaccia della pena, è soltanto uno fra i motivi che eventualmente possono fare desistere una persona dalla commissione di un illecito[50], e questo il legislatore lo sa.
In fase esecutiva, si realizza un cambiamento di visuale: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato onde poterlo risocializzare e reinserire socialmente, attraverso una osservazione della personalità dell'individuo al fine di individuarne le carenze fisiopsichiche ed altre eventuali che hanno determinato tale disadattamento. Il mezzo è la rieducazione, il trattamento rieducativo, lo scopo il riadattamento sociale. Insomma, se da un lato si è disposti a riconoscere che i fattori comportanti l'aver fatto alcune scelte anziché altre potrebbero anche non essere di origine esclusivamente individuale, dall'altra, si ritiene che lo sforzo rieducativo debba realizzarsi da una parte soltanto, ovvero da parte del reo.
Visione già sottesa nell'utilizzo del termine rieducazione, anziché educazione. Cosa sta a significare quel ri- posto davanti alla parola educazione? Sotteso a quel ri vi ritrovo un giudizio di ordine assiologico. È come se si stesse dicendo: questa persona non è stata educata secondo i giusti valori e principi, ovvero quelli di cui noi (tutti quei noi che non hanno mai incontrato l'esperienza detentiva nel "cammin di propria vita") siamo difensori e probi testimoni, quindi è bene aiutarlo ad appropriarsi di tali valori, rieducandolo. In questo modo potrà finalmente far parte del regno degli inclusi, quelli che sanno come si deve vivere.
Se la funzione rieducativa è concepita esclusivamente o comunque interpretata in questi termini, diviene comprensibile che ad essa si oppongano diverse forme di resistenza, e non solo da parte dei soggetti detenuti, bensì anche da parte di coloro che di tale rieducazione dovrebbero essere i fautori, compresi gli educatori penitenziari.
A questo punto, sembra di essere arrivati ad un vicolo cieco, specialmente di fronte ad un dato di fatto che non è eludibile: sia che ci si muova all'interno di un sistema penitenziario in cui prevalga l'istanza retributiva, sia che invece si faccia dell'istanza rieducativa la primaria finalità, il risultato concreto non cambia di molto, ovvero l'anelato reinserimento sociale delle persone recluse si verifica in misura troppo limitata. Di fronte a ciò, le reazioni si sono diversificate perseguendo strade diverse, passando da posizioni abolizioniste (il carcere è inutile o addirittura, il sistema penale è inutile e dannoso)[51], ad altre in cui si riconosce quale unica funzione della pena la funzione di prevenzione generale, tanto in sede di emanazione quanto in sede di comminazione ed esecuzione, ritenendo superfluo ed anzi lesivo del principio del libero arbitrio il trattamento rieducativo , unendo questo spostamento della finalità della pena ad una depenalizzazione di alcune fattispecie di reato ed alla ricerca-scoperta di modalità esecutive diverse dalla reclusione in carcere, atte a sanzionare altre specie di delitti (quelle meno gravi), puntando più sull'idea di risarcimento e di riparazione . Costante sembra comunque la rivelazione di una funzione rieducativa oramai in crisi .
Pare lecito dunque chiedersi: esiste, può esservi un modo diverso di concepire e quindi vivere la funzione rieducativa della pena e, con essa, quella del carcere? Crediamo di poter rispondere con un sì. E ad indicare la strada sono stati, oltre che la circolare 3337/5787 del '92, proprio le voci degli educatori e dei detenuti, attraverso il loro fondamentale contributo derivante da una "sapienza" di matrice esperenziale. È possibile credere e sperare nella realizzazione di un carcere diverso, riflesso di una concezione di (ri)educazione rinnovata.
Crf. Foucault M., op. cit., in Parte prima, cap. 1., p. 10 ss., il quale individua nell'introduzione dell'uso della ghigliottina a partire dal marzo 1792, il segno del doppio processo di scomparsa dello spettacolo e di annullamento - o comunque riduzione - del dolore.
Eccezion fatta per la sopravvivenza delle pene pecuniarie che però riguardano, nel campo penale attuale, un numero irrisorio di fattispecie di reato.
Da quella che vede nel costituirsi in epoca classica di alcuni grandi modelli di carcerazione detentiva, il cui prestigio sarebbe stato tanto più grande quanto di derivazione anglosassone (Crf. Itgnatieff, Le origini del penitenziario, Mondadori, Milano 1982) quale ragione principale del costituirsi del penitenziario; chi invece ritiene che esso sia stato scelto in quanto "tecnica di coercizione degli individui" sottoposti al controllo dell'apparato amministrativo (crf. Foucault M., op. cit.).
Coincidente con le prime posizioni di Lombroso Cesare, che pubblicò nel 1876 la prima edizione di L'uomo delinquente in rapporto all'antropologia, alla giurisprudenza e alle discipline carcerarie, cui se ne aggiunsero altre quattro, l'ultima nel 1896-97. Crf. Canepa M., Merlo S., op. cit., p. 35.
Nasceva così l'antropologia criminale, fatta risalire alle scoperte che Lombroso ritenne di aver realizzato sulla base di studi autoscopici condotti sulla salme di un bandito, certo Vitella. Crf. Canepa M., Merlo S., op. cit., p. 35.
C'è da dire che l'idea di una funzione correttiva emendante della pena esiste sin dall'antichità. Crf. Amato N., Diritto, op. cit.
Principio insistentemente ricorrente anche nelle fonti di diritto internazionale: nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, proclamata dall'Assemblea generale dell'O.N.U. a New York il 10 dicembre 1948, sin dall'art. 1 si sancisce che "Tutti gli esseri umani nascono liberi in dignità e diritti [.]", e all'art. 5 si afferma: "Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti crudeli, inumani o degradanti". Principi ribaditi nella Convenzione europea per la prevenzione della tortura e dei trattamenti disumani e degradanti (crf. Palma Mauro, Introduzione, in Anastasia S. et. al., Il collasso, op. cit., pp. 10-11.). Nelle Raccomandazione R(87)3 sulle regole penitenziarie europee, adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio di Europa il 12 febbraio 1987, al punto n. 1 della Parte I dedicata ai Principi fondamentali, si legge: "La privazione della libertà deve eseguirsi in condizioni materiali e morali che assicurino il rispetto della dignità umana e in conformità con questa regole". In Grevi V., L'ordinamento penitenziario, op. cit., p. 431.
Sono infatti numerose le testimonianze della presenza di educatori all'interno delle carceri sin dagli anni '50, di cui si tenta di tracciarne il profilo operativo, anche se soprattutto in una visione vocazionale più che professionale. Crf. Bortolotto T., op. cit., p. 36. Per quanto riguarda la giustizia penale minorile, la figura dell'educatore vi è prevista sin dal 1934, con il R. Decreto Legge n. 140 Sull'argomento crf. Ricciotti Romano, La giustizia penale minorile, Padova, Cedam 1998.
Art. 82 O.P: Gli educatori partecipano all'attività di gruppo per l'osservazione scientifica della personalità dei detenuti e degli internati e attendono al trattamento rieducativo individuale o di gruppo, coordinando la loro azione con quella di tutto il personale addetto alle attività concernenti la rieducazione.
Essi svolgono, quando sia consentito, attività educative anche nei confronti degli imputati.
Collaborano, inoltre, nella tenuta della biblioteca e nella distribuzione dei libri, delle riviste e dei giornali.
5° comma art. 80: "Per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento, l'amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica, corrispondendo ad essi onorari proporzionati alle singole prestazioni effettuate".
Le sanzioni disciplinari sono conseguenza di una corrispettiva infrazione disciplinare: le infrazioni disciplinari sono previste e specificate all'art. 77 del reg. esec. Durante l'esecuzione della sanzione dell'esclusione dalle attività in comune è ammesso l'isolamento continuo (art. 33 O.P). Per questo è necessaria sottoscrizione da parte del sanitario che attesti la possibilità da parte del soggetto di sopportarla.
Spetta infatti all'Amministrazione penitenziaria di realizzare dei corsi di formazione per i neo assunti (in caso di recente inserimento) e per il personale già in servizio (momenti di aggiornamento e di riqualificazione professionale). Crf. Tanucci Giancarlo, Guardarelli Patrizia, Passalacqua Filippo, Ruolo e professionalità dell'educatore penitenziario: un approccio per l'analisi della domanda di formazione, in Di Leo Gaetano, Patrizi Patrizia (a cura di), op. cit., p. 223 ss.
Il primo concorso è stato bandito nel 1976 e portato a termine nel 1979. Fonte: Anastasia S., Gonnella P., Inchiesta., op.cit., p. 175, in nota n. 7.
In relazione al tema della formazione dell'educatore penitenziario, vd. Anastasia S., Gonnella Patrizio, Inchiesta, op. cit., pp. 166-167 e Bortolotto Tatiana, op. cit., V capitolo, p. 151 ss.
Crf. Concato G., L'educatore in carcere, op. cit., p. 37 ss., testo che mi ha fornito degli spunti validi sulle possibili aree tematiche da trattare nel corso delle interviste.
La descrizione degli ambienti della casa Circondariale di Padova è stata già affrontata nel cap. 3.1.
Questo rispecchia le modalità con cui sono stati assunti tutti gli altri educatori penitenziari presenti nel territorio nazionale, con relativi titoli di studio necessari. È pur vero che con l'introduzione delle Aree i livelli di qualifica richiesti sono aumentati, ma è altrettanto vero che dal 1990 non sono più stati banditi concorsi per educatori penitenziari.
Uno dei livelli di qualifica esistenti, corrispondente alla mansione di Direttore Coordinatore di Area Pedagogica, crf. infra cap. 1.1, pp. 15-16.
Crf. Zini Maria Teresa, Miodini Stefania, Il gruppo. Uno strumento di intervento nel sociale, Carocci, Roma 2000, pp. 54-55, che dà della definizione di competenza un'accezione più ristretta, concependola come la acquisizione delle sole abilità.
Crf. cap. 3.3.3 del presente lavoro, in cui si esplicitano le mansioni cui gli educatori devono fare fronte tutti i giorni.
Di questo argomento tratterò più diffusamente nella sezione dedicata ai motivi di disagio avvertiti dall'educatore nello svolgimento del proprio servizio. Vd. oltre, p. 146 ss.
Alla Casa Circondariale la modalità per richiedere un colloquio all'educatore non è fargli compilare la classica domandina, perché questo comporterebbe un ulteriore allungamento dei tempi dalla domanda di colloquio all'effettivo colloquio. Così, ci si avvale della collaborazione degli Agenti che sono in sezione al mattino e che, al momento della conta (cioè quando si "fa l'appello"), segnano i detenuti che fanno richiesta di colloquio con l'educatore o con il comandante o con il direttore o con il medico (o magari, tutti), in un foglio prestampato in cui è sufficiente scrivere il nome dell'interessato nella colonna relativa al personale con cui intende parlare. Questo permette di sapere già nella prima parte della mattinata chi e quante sono le persone che vorrebbero parlare con l'educatore.
Per ritemprare la memoria, per detenuti multiproblematici si intende quei detenuti che oltre a vivere il disagio derivante dallo stato di detenzione, hanno delle difficoltà aggiuntive, quali ad esempio la condizione di dipendere da sostanze stupefacenti, sieropositività, disagi di tipo psichico, e sempre di più l'essere extracomunitario.
Ci sono infatti le sei aule trattamentali, in una delle quali si è iniziato proprio quest'anno il corso di pizzaiolo, c'è una sala polivalente con un tavolo da ping-pong e uno di calcetto, crf. cap. 3 del testo.
Dall'art. 30-ter, 8° comma: La condotta dei condannati si considera regolare quando i soggetti, durante la detenzione, hanno manifestato costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali.
Di qui è maturata la decisione presa all'unanimità di effettuare ugualmente la sintesi anche ai detenuti trasferiti, sia per avere la sensazione di non aver sprecato tempo, conoscendo una persona durante un periodo più o meno lungo (dipende dai tempi del processo) antecedentemente alla condanna definitiva (durante la quale, abbiamo visto, non si può effettuare un programma di trattamento, pena la violazione della presunzione di innocenza), sia per dare una mano ai colleghi dell'istituto in cui il detenuto viene, di volta in volta, trasferito.
In relazione a questo tema, sono state sollevate delle perplessità nei confronti del meccanismo delle missioni, ovvero quella modalità operativa per cui ove gli educatori siano vacanti, vengono mandati in missione per una-due volte alla settimana, gli educatori disponibili. Cosa che viene considerata uno spreco di risorse oltre che un modo per poter dire che l'educatore c'è.
Quando si nomina il Dipartimento, ci si riferisce al DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria).
Il Pubblico Ministero è colui che durante un processo penale rappresenta l'accusa, ed il cui scopo è far sì che il presunto colpevole venga condannato. L'attuale Magistrato di Sorveglianza, esemplificando, si è ritrovato a concedere "oggi" dei Permessi Premio a persone che "ieri" lui stesso aveva fatto imprigionare.
Crf. con le risposte essenzialmente date in Concato G., op. cit., p. 37 ss., simili al riguardo date nel corso di una ricerca sui bisogni formativi degli educatori, condotta nell'ambito di un progetto (M.I.T.O.X), che ha condotto ad intervistare 34 educatori lavoranti presso le strutture penitenziarie della Toscana. Di questi, 21 le donne, 13 gli uomini; il 68% di età compresa fra i 40 e i 50 anni (come i miei due interlocutori); una metà ha conseguito il diploma, l'altra metà la laurea; anzianità di servizio compresa fra i 7 ed i 22 anni. Per quanto riguarda il loro ruolo di educatori, hanno risposto così: per il 50% di essi, loro ruolo è quello di seguire individualmente il percorso interno di ciascun detenuto, fornendogli gli strumenti necessari al cambiamento e cercando di ridurre il danno della detenzione. Per il 31% si tratta invece di fornire al detenuto opportunità lavorative mettendolo se possibile in contatto con il mondo esterno per un buon reinserimento. Il 22%, ritiene che l'educatore, essendo il coordinatore del progetto riabilitativo, deve predisporre gli interventi rieducativi secondo un progetto condiviso e concordato con tutte le altre figure professionali dell'istituto penitenziario. Nessuno dei 34 educatori intervistati parla di funzione rieducativa della pena, né attribuisce a se stesso la qualifica di rieducatore.
Crf. Demetrio D., L'età adulta. Teorie dell'identità e pedagogie dello sviluppo, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1990, pp. 25-36.
Sul tema vd. per tutti Christie Nils, Abolire le pene? Il paradosso del sistema penale, Torino, Gruppo Abele, 1995.
Crf. Amato N., Diritto, op. cit., Cap X per la parte critica del concetto attuale di rieducazione; l'autore inoltre, ai cap. XV e XVII auspica che finalmente si dia corso ad una corretta applicazione del trattamento penitenziario, ritenuto, se rispettato, di per sé adeguatamente in grado di porre in essere un modus vivendi concretamente alternativo a quello che può aver condotto il reoad inseguire una condotta di vita contraria alle leggi penali.
Sul tema vd. per tutti Eusebi L., La pena in crisi, op. cit., il quale ritiene invece che "il ritorno alla retribuzione e alla prevenzione generale si colloca, [.] in un quadro di crisi dell'idea risocializzativa, idea che per lungo tempo si era accreditata quale vera e propria chiave di volta onde poter superare il carattere puramente repressivo della pena [.]", p. 83.
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