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PROPOSTE DI INTERVENTO - CARCERE
Prima di avanzare delle proposte, bisogna subito sgomberare il campo da false illusioni: la criminalità è un fenomeno endemico alla società, probabilmente non risolvibile, in quanto devianza dalle norme giuridiche che ne regolano la vita.
Le regole infatti, giuridiche o meno, sono sempre il prodotto di una società e della sua cultura, della quale rispecchiano i valori sui quali c'è un consenso di base. Tuttavia, non esiste una società perfettamente integrata: le forme di adattamento[1], come già visto, sono molteplici.
Ogni stagione sociale, a qualunque latitudine, avrà i suoi devianti.
Detto ciò, si ritiene che dei correttivi da apportare alla situazione oggetto di studio possano essere individuati in tre aree tematiche.
I tipi di reato
Bisogna operare opportune distinzioni tra i delitti, innanzitutto, in quanto l'efficacia del trattamento risocializzativo è misura anche del tipo di reato commesso dai soggetti. Si ritiene opportuno formulare tale ipotesi, in quanto il fatto criminoso messo in atto è anche il risultato di determinati contesti socio-culturali, di motivazioni dettate da situazioni economiche, di determinate personalità: è logicamente impossibile pensare che un trattamento standard possa essere universalmente valido.
In carcere si finisce per reati contro la persona, ad esempio, ma c'è una grossa differenza tra i sex offenders e gli assassini per raptus, e anche tra i primi si deve distinguere tra il pedofilo in senso stretto - colui che abusa di minori - e colui che trae profitto dalla vendita di materiale pornografico minorile. Lo stesso discorso si può fare per i reati contro il patrimonio e contro la pubblica amministrazione: gli strumenti risocializzativi da applicare ai grandi concussori non possono essere per forza validi anche per lo scippatore. Se poi si prende in considerazione la violazione della normativa sugli stupefacenti, non si può non prospettare un intervento di più ampio respiro, che coinvolga la società tutta; per non parlare dei detenuti condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso, per i quali un qualsiasi intervento rieducativo è destinato a scontrarsi con una cultura antica e profondamente radicata.
Si auspica allora la formulazione di interventi mirati, ulteriormente personalizzati sulla scorta di analisi socio-culturali dei contesti di appartenenza pre-detentivi, che considerino quindi non più solo l'individuo come singolo, ma come appartenente ad un gruppo sociale.
In base a questo, appare di vitale importanza - sulla scorta di quanto emerso nel corso dell'indagine - non raggruppare i detenuti indistintamente, ma dividerli per il tipo di reato commesso, innanzitutto, per evitare il diffondersi di particolari stili di comportamento devianti - quale può essere il modello mafioso - e l'apprendimento di tecniche varie per perseverare nel reato. Sempre per lo stesso ordine di problemi, dividere poi i soggetti in base alla durata della condanna, all'età anagrafica, o quanto meno al grado di giudizio.
Predisporre, inoltre, sulla scorta dei modelli olandese e belga, interventi di psicoterapia per quei soggetti - come ad esempio coloro i quali abusano di minori - per i quali la genesi del crimine è da imputare a disturbi di personalità.
Come emerso più volte nel corso del lavoro, tuttavia, il problema più annoso delle carceri è costituito dal sovraffollamento e dalla carenza di strutture, che non consentono interventi specifici, ma a volte nemmeno lo svolgimento delle più elementari attività. Si dovrebbe allora intervenire anche su ulteriori piani: anzitutto accelerare i tempi biblici della giustizia, onde evitare che gli imputati che non abbiano ottenuto gli arresti domiciliari rimangano in carcere per anni in attesa di una sentenza. Operare poi una politica di depenalizzazione dei reati minori, anche per evitare i casi, nei quali ci si è più volte imbattuti nel corso dell'analisi, di soggetti entrati in carcere per piccoli reati e poi avviati a carriere criminali sempre più efferate.
Avviare una politica di moderna edilizia penitenziaria, ovvero disporre la costruzione di edifici penitenziari che rispondano a moderni canoni di funzionalità: ampi spazi in cui svolgere attività, strutture che possano consentire lo svolgimento di corsi professionali e scolastici, spazi abitativi decenti. Meglio se gli edifici non siano collocati troppo al di fuori di spazi urbani, anche per rendere più agevole la compenetrazione tra carcere e società.
Sempre per la stessa esigenza di gettare questo ponte ideale, applicare più spesso le misure alternative alla detenzione, sia per politiche di deflazione della popolazione carceraria, sia per collocare gli interventi rieducativi anche oltre le mura penitenziarie: la società esterna, infatti, deve essere sempre più coinvolta nel reinserimento dell' ex detenuto.
La comunità esterna
Come visto nel terzo capitolo, già ai tempi dell'opera di Clemmer - poco prima della guerra seconda mondiale - si notò che lo strumento carcere garantiva la difesa - momentanea - della società civile, ma non poteva essere in sé uno strumento di riabilitazione.
Ciò è emerso anche nel corso di questo lavoro, sia analizzando l'autopercezione dei detenuti, sia valutando l'alto tasso di recidiva. Si è visto che una delle cause di questo fenomeno risiede nell'uso strumentale del carcere, da parte dei detenuti, come palestra del crimine, ma anche per l'effetto del processo di prisonizzazione al quale nessuno riesce a sottrarsi completamente: Clemmer infatti, come già detto, dimostrò che più sono radi i contatti con la realtà esterna, più sono numerosi i contatti ravvicinati nei piccoli gruppi all'interno. La durata della detenzione, dunque, ma anche la progressiva perdita di contatto con la società esterna, la carenza di positivi contatti interpersonali e l'influenza della cultura carceraria - che si sviluppa tra gli appartenenti alla comunità dei detenuti, al di fuori dalle regole penitenziarie - porta il detenuto ad un progressivo adattamento alla comunità carceraria e, parallelamente, ad una crescente antisocialità che lo fa autopercepire sempre più estraneo alla società civile.
Puntare, dunque, sulla comunità esterna per una effettiva risocializzazione del detenuto sembra essere la strada giusta: la società libera deve assolutamente essere coinvolta in quel processo auto-risocializzativo messo in atto dai reclusi che abbiano voluto intraprendere questo percorso.
Essa ha, infatti, delle pesanti responsabilità nel purtroppo frequente mancato reinserimento del detenuto, il che si traduce poi in un'ulteriore esclusione sociale e nell'incremento di rabbia, rancori e impotenza, che, se consolidate, porteranno inevitabilmente il soggetto a delinquere in maniera ancora più efferata. Come mostrato nel terzo capitolo, infatti, è perennemente in agguato il senso di rivalsa dei detenuti nei confronti della società che li ha reclusi, la quale molto spesso poi è percepita dagli stessi come non esente da devianza.
Si dovrebbe cercare allora di favorire ogni occasione di contatto e compenetrazione tra carcere e società: ciò sia per far penetrare le dinamiche della comunità libera - che possano fungere da esempio positivo - all'interno del primo[2], sia per scalfire quel muro, fatto spesso di pregiudizio, che la comunità erige a sua protezione, con le conseguenze di cui al par. 3.11. A tal fine si considera utile ogni tipo di campagna di corretta informazione sulla realtà penitenziaria, come anche la promozione delle attività che si svolgono all'interno degli istituti, al fine di non considerare i reclusi solo come autori di reati, ma anche come persone .
Potenziare dunque il networking, ovvero l'intervento di rete, il quale concerta l'attività delle tre principali reti sociali[4]. Ciò grazie anche ad una maggior interconnessione con i servizi del territorio e con le forze sociali , ma anche attraverso la territorializzazione dell'esecuzione penale, di cui ne sono esempio le misure alternative alla detenzione. Questo sia allo scopo di allocare l'elemento di aiuto più nel polo popolazione che in quello istituzione , che per facilitare un processo di assunzione di responsabilità sociale, abituando il detenuto alla cooperazione ed all'autonomia. Questo potrebbe anche aiutare il soggetto ad uscire dalla logica medicale assistito-assistente, e contrastare il processo di deresponsabilizzazione di cui sopra.
La cultura dei detenuti
Bisogna infine intervenire su alcuni elementi culturali dei detenuti, spesso il vero ostacolo alla risocializzazione.
Una volta libero, il detenuto può - a causa dell'infelice esperienza - scegliere di condurre una vita possibilmente onesta, ma, come anche uno di loro[7] fa notare, c'è chi finendo in carcere "fa una specie di salto di una barriera etica, morale e culturale che lo fa precipitare molto in basso, e tutte le sue convinzioni, l'educazione ricevuta, le paure indotte, vengono a cadere inesorabilmente". Questo tipo di detenuto non sarà dunque più spaventato dall'esperienza, e può continuare a commettere reati, mettendo in conto di poter un giorno essere di nuovo arrestato.
L'illegalità rientrerà allora in un calcolo dei costi e dei benefici, e un altro intervento non potrebbe che essere su questo fronte, cercando di spingere il detenuto al calcolo dei reali benefici, economici e non, derivanti dall'attività illegale. Molto spesso, ad esempio, reclusi abituati ad alti guadagni derivanti da rapine o furti, si ritrovano a bramare "quando poi si è in carcere . un posto qualsiasi di lavoro sottopagato, e che spesso non dà nessuna soddisfazione"[8].
Stimolare dunque la capacità di autocritica e puntare, in questo processo, alla promozione di valori alternativi a quelli della cultura carceraria, anche valorizzando figure che possano fungere da modelli di vita, nel rispetto comunque delle personalità dei reclusi: non si dimentichi che la maggior parte dei detenuti, e dei delinquenti in genere, si sente in contrapposizione con le istituzioni.
Ben vengano allora attività organizzate da membri della comunità esterna all'interno delle carceri, e viceversa, come anche l'incremento della presenza - negli istituti - di figure esterne al trattamento, di associazioni. Tutto ciò che permetta punti di contatto è auspicabile: significa non permettere la separazione dei due mondi di senso, e proporre modelli alternativi di esistenza, spesso del tutto sconosciuti alla realtà delinquenziale.
Grande attenzione bisogna prestare alla percezione del proprio io del detenuto risocializzato, rispetto alla subcultura di appartenenza, in quanto questo fenomeno rischia di mandare in fumo anche le migliori intenzioni. Durante la detenzione si dovrebbe quindi fare in modo di valorizzare le potenzialità dei ristretti, rispettando sempre le loro individualità, in modo da favorire lo sviluppo di un io positivo e costruttivo[9], il quale, una volta che il soggetto sia stato rimesso in libertà, non sia però mortificato: molti ex detenuti non completamente risocializzati, provano sentimenti di inferiorità e frustrazione nei confronti di chi ha deciso di non cambiare vita . Temono inoltre il loro giudizio ed il loro scherno, che si abbatte sia sulle scelte compiute, sia sulla loro condizione di dipendenza se non di indigenza, derivante dalla scelta di una vita onesta.
Si può tentare anche la sublimazione degli stessi valori carcerari: si può ad esempio cercare di canalizzare la ben nota concezione dell'onore e della lealtà del detenuto "nei confronti di chi lo aiuta in questo suo percorso"[11]; far leva sulla positività di alcune norme di questo codice, come quella del mantener fede alla parola data e quella dell'aiuto da prestare ai soggetti più deboli, stimolando il detenuto ad inserirle in un contesto positivo; aiutare ad indirizzare la durezza, l'integrità e il coraggio ostentati verso obiettivi più proficui ed edificanti, ma ugualmente vitali.
Un significativo mutamento delle dinamiche detentive è infatti rappresentato dalle modalità di protesta condotte dai reclusi al tempo di chi scrive: tali proteste[12] sono condotte in maniera coordinata, unitaria e pacifica . È un fenomeno impensabile fino a qualche tempo fa, oltre che una dimostrazione di grande maturità, spiegabile col fatto che i detenuti cominciano a prendere coscienza di essere un vero e proprio gruppo sociale, con propri doveri ma anche diritti, portatore di cultura e dunque di istanze e di obiettivi. Ciò potrebbe rappresentare un'importante occasione di presa di coscienza di avere un ruolo attivo all'interno della società, ma soprattutto per scoprire mezzi alternativi alla risoluzione dei conflitti.
Si tratta certamente dei correttivi più a lungo termine, impegnativi e soggetti a fallimento, in quanto si sta parlando di intervenire sugli elementi di una cultura, che, poiché costruzione di un particolare gruppo sociale, sarà poco sensibile ad interventi esterni nel breve e medio periodo.
Non si devono poi sottovalutare le innumerevoli variabili esterne che condizionano il farsi della subcultura carceraria: l'aumento del numero dei detenuti condannati per il reato di sfruttamento della prostituzione, ad esempio, ha fatto sì che questa tipologia di reclusi - e i relativi valori di riferimento - non sia più così avversata come in passato, in quanto essa è numericamente più forte di un tempo.
Anche l'introduzione di leggi specifiche, quali quelle che legano la concessione dei benefici alla buona condotta, ha contribuito a cambiare dall'esterno la sottocultura dei detenuti: l'adesione al codice non è più così imperativa proprio perchè si è creata una zona grigia tra chi rispetta e che viola la legge.
Non bisogna, infine, dimenticare che si sta agendo - oltre che su un gruppo in continua evoluzione - su degli uomini, portatori ognuno di motivazioni e di identità particolari, utilizzando uno strumento - quello delle scienze umane - fallibile.
Tali limiti, ai quali si sommano quelli di implementazione, non esimono tuttavia la comunità e le istituzioni a trascurare una tematica delicata e controversa come quella della detenzione: la costante ricerca di soluzioni è un obbligo sociale.
Nell'esperienza di che scrive, infatti, frequentissimo è stato lo stupore di alcuni membri della società libera alla lettura di alcune dichiarazioni rilasciate da detenuti. Incredulità dettata dalla scoperta che un detenuto possa aver formulato giudizi anche di elevata complessità analitica. Un'azione di informazione non potrebbe che contribuire a sfatare molti stereotipi connessi all'immagine del mostro.
Ci si riferisce dunque, oltre alle associazioni e al volontariato, al Centro di Servizio Sociale per Adulti, alle A.S.L. - soprattutto attraverso il Ser.T -, alle varie agenzie di socializzazione - quali la scuola e le varie attività ludico-ricreative - , agli Enti Locali ed alle Amministrazioni Provinciali. Di grande importanza, poi, la figura del mediatore linguistico e culturale, recentemente immesso negli istituti, il cui ruolo andrebbe potenziato.
"La difficoltà maggiore è quella di riuscire a tirare fuori dalle persone il meglio di sé", spiega Paola Ziccone, direttrice del carcere minorile Pratello di Bologna, intervistata dal Dossier del TG2 Vite difficili, cit.,29 febbraio 2004, "perché molto spesso la quotidianità, le tensioni, e incomprensioni, non lo consentono . e questo è fondamentale che possa accadere in un istituzione educativa". Sulla stessa linea un detenuto: "Il carcere ti segna indelebilmente, ti fa provare il peggio nei rapporti con gli altri, quindi tira fuori anche il peggio che hai dentro di te . Divieni insofferente a qualsiasi controllo esterno, oppure hai costantemente bisogno di essere guidato, o ,a ncora, impari ad usare ogni persona per i tuoi scopi. È dura guarire dal mal di carcere. E la recidiva, l'alcolismo, l'inedia, la misantropia, sono tutti sintomi di questo stesso male", F. MORELLI, "Prove tecniche di comunicazione", Ristretti Orizzonti, cit., febbraio 2003.
Non bisogna dimenticare, infatti, che il principio di coerenza con le proprie scelte passate è risultato essere uno dei cardini della sottocultura carceraria.
I detenuti chiedono una commissione d'inchiesta sui tempi della carcerazione preventiva, un'amnistia e un indulto per risolvere il problema del sovraffollamento, l'estensione delle pene alternative in comunità o case famiglia, la possibilità di studiare e lavorare e il generale miglioramento delle condizioni detentive.
Attraverso il cosiddetto sciopero del carrello - ovvero il rifiuto dei pasti forniti dall'amministrazione penitenziaria, il che si traduce per molti detenuti quasi in uno sciopero della fame per la difficoltà economica a reperire cibarie - , la battitura delle sbarre a determinate ore del giorno, l'astensione dall'ora d'aria e dal partecipare alle attività ricreative, il digiuno televisivo. Questi gesti in apparenza banali, in una realtà fatta di privazioni quale è quella del carcere, assumono la portata di un grande sacrificio.
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